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LES YEUX OUVERTS
AUX GALLERIE D’ITALIA DE TURIN, LA PREMIÈRE EXPOSITION
PERSONNELLE DE JR, L’ARTISTE FRANÇAIS QUI RÉFLÉCHIT À
LA CONDITION DES MIGRANTS ET DES RÉFUGIÉS
Un projet ambitieux : montrer les invisibles. Avec un objectif encore plus courageux, celui de ne pas les banaliser et de ne pas tomber dans la rhétorique. En utilisant un outil qui fait office de mégaphone et de scène universelle, l’art. JR l’utilise pour garder les yeux ouverts sur le monde qu’il observe en profondeur, en se rendant dans des endroits éloignés, marginaux, en proie à la misère et aux conflits. Pour capturer et nous révéler la plus petite des larmes, une grimace de la douleur ou le sourire d’un enfant.
Né en 1983, l’artiste français, célèbre dans le monde entier pour ses œuvres qui allient photographie, art public et engagement social, revient en Italie avec sa première exposition personnelle, apportant aux Gallerie d’Italia de Turin son projet Déplacé∙e∙s qui réfléchit à la condition des migrants et des réfugiés. L’exposition, dont le commissaire est Arturo Galansino, organisée par Intesa Sanpaolo et ouverte jusqu’au 16 juillet, rassemble pour la première fois un certain nombre de clichés pris dans des zones de crise : de l’Ukraine aux vastes grandi teli con i ritratti dei bambini rifugiati per rendere concreti quei volti e palesare le condizioni in cui, oggi, versano migliaia di persone.
Torni in Italia con un progetto importante, per il tema e il percorso con cui lo hai realizzato.
È un lavoro intimamente legato all’infanzia. Ciascun intervento si concentra su un bambino che incarna lo slancio verso il futuro, una nota di speranza resa in modo semplice. Ho cominciato questo progetto in Ucraina subito dopo lo scoppio della guerra, nel marzo del ‘22. Sono andato là con un’immagine che mi aveva colpito, il ritratto di Valeriia, una bambina di cinque anni dal viso radioso, che ho riprodotto su un telo di 45 metri. L’abbiamo installato nel centro di Leopoli, volevamo che fosse ben visibile dall’alto, soprattutto dagli aerei russi che ogni giorno volano sulla popolazione sganciando le bombe. Mi hanno chiesto di far viaggiare questa figura affinché il mondo non li dimenticasse e sapesse che la guerra continua. Ho raggiunto anche altre destinazioni molto diverse tra loro. Sono stato nel campo profughi di Mugombwa, in Ruanda, martoriato dai conflitti armati, e in Sahel, nell’Africa subsahariana, dove dal 2012 hanno vissuto quasi 78mila rifugiati impossibilitati a riattraversare il confine. In Colombia, invece, la comunità di accoglienza di Cucuta riunisce esuli venezuelani e colombiani. Sull’isola greca di Lesbo sorge un centro di accoglienza e identificazione. Déplacé∙e∙s racconta questi luoghi e chi li vive, rendendo visibile l’esodo di intere popolazioni, da un capo all’altro del mondo, a causa di guerre, carestie, cambiamenti climatici.
Qual è il legame tra ciò che hai trovato in questi luoghi e quello che scopriamo nelle tue opere?
Le mie pulsioni artistiche sono connesse al desiderio di conoscere e capire meglio ciò che mi circonda. Per comprendere le realtà designate da parole come migranti, rifugiati, profughi, ho bisogno di farne esperienza diretta. Il mio ruolo di artista non è quantificare e analizzare numeri, ma quello di fare luce sugli esseri umani che si celano dietro quei dati. Abbiamo convertito le crisi migratorie in una faccenda meramente tecnica, di- scutiamo di statistiche, definiamo categorie. Ma sorvoliamo sul fatto che sono in gioco vite umane.
Durante questi viaggi che cosa ti ha colpito di più?
I volti delle persone che ho incontrato: tutti hanno in comune l’attesa. Potrebbero stare ovunque. Le immagini dei bambini che ho fotografato, oltre a Valeriia in Ucraina, sono di Thierry in Ruanda, Andiara in Colombia, Jamal in Mauritania, Mozhda in Grecia. Il loro sguardo sulle gigantografie costringono a porsi delle domande sulla loro sorte: qual è il loro posto e quali sono i loro diritti?
L’arte può scalfire le coscienze collettive?
Sembra una missione impossibile, invece accade. Le mie macrofotografie in movimento mettono insieme centinaia di migliaia di persone e quest’azione resta. La performance realizzata in piazza San Carlo con oltre 1.500 persone è stata un’opera collettiva. I teli si possono deteriorare, la memoria dell’atto rimane: tanti sconosciuti si sono ritrovati insieme per realizzare un’idea. Se questa è una cosa che si può ripetere e diffondere, camps de réfugiés de Mugombwa, au Rwanda, de Mbera, en Mauritanie, ou de Cùcuta, en Colombie, en passant par Lesbos, en Grèce. Des photographies, des vidéos, des installations, des sculptures et de grandes toiles avec des portraits d’enfants réfugiés pour rendre ces visages concrets et révéler les conditions dans lesquelles des milliers de personnes se trouvent aujourd’hui. Vous revenez en Italie avec un projet important, pour le thème qu’il aborde et le parcours qu’il a demandé. Il s’agit d’un travail intimement lié à l’enfance. Chaque intervention se concentre sur un enfant qui incarne l’élan vers l’avenir, une note d’espoir rendue de manière simple. J’ai commencé ce projet en Ukraine juste après le début de la guerre, en mars 2022. J’y suis allé avec une image qui m’avait frappé, un portrait de Valeriia, une petite fille de cinq ans au visage rayonnant, que j’ai reproduit sur une toile de 45 mètres. Nous l’avons installée dans le centre de Lviv, nous voulions qu’elle soit bien visible d’en haut, notamment des avions russes qui survolent chaque jour la population en lâchant des bombes. Ils m’ont demandé de faire voyager cette figure pour que le monde ne les oublie pas et sache que la guerre continue.
J’ai également voyagé vers d’autres destinations très différentes. Je me suis rendu dans le camp de réfugiés de Mugombwa, au Rwanda, tourmenté par les conflits armés, et au Sahel, en Afrique subsaharienne, où vivent depuis 2012 près de 78 000 réfugiés, incapables de repasser la frontière. En Colombie, en revanche, la communauté d’accueil de Cucuta rassemble des exilés vénézuéliens et colombiens. Sur l’île grecque de Lesbos, il existe un centre d’accueil et d’identification. Déplacé∙e∙s raconte ces lieux et ceux qui y vivent, rendant visible l’exode de populations entières, d’un bout à l’autre du monde, à cause des guerres, de la famine, du changement climatique.
Quel est le lien entre ce que vous avez trouvé dans ces lieux et ce que nous découvrons dans vos œuvres ?
Mes impulsions artistiques sont liées au désir de mieux connaître et comprendre mon environnement. Pour comprendre les réalités désignées par des mots comme migrants, réfugiés, personnes
JR déplacées, j’ai besoin de les vivre directement. Mon rôle en tant qu’artiste n’est pas de quantifier et d’analyser des chiffres, mais de mettre en lumière les êtres humains qui se cachent derrière ces chiffres. Nous avons fait des crises migratoires une question purement technique, nous discutons de statistiques, nous définissons des catégories. Mais nous occultons le fait que des vies humaines sont en jeu. Au cours de ces voyages, qu’est-ce qui vous a le plus frappé ?
Les visages des gens que j’ai rencontrés : ils ont tous une attente en commun. Ils pourraient être n’importe où. Les images des enfants que j’ai photographiés, outre Valeriia en Ukraine, sont celles de Thierry au Rwanda, Andiara en Colombie, Jamal en Mauritanie, Mozhda en Grèce. Leur regard sur les photographies géantes oblige à s’interroger sur leur sort : quelle est leur place et quels sont leurs droits ? facendo prendere coscienza alle persone, allora sono convinto che qualcosa possa succedere, senza proclami. L’arte schiaccia il pessimismo.
L’art peut-il ébranler les consciences collectives ?
Cela semble être une mission impossible, mais cela arrive. Mes macrophotographies en mouvement rassemblent des centaines de milliers de personnes et cette action demeure.
Chi è JR?
Sono un immigrato di seconda generazione, mio padre e mia madre hanno origini tunisine. In Francia tutti vengono da un luogo diverso, si sentono profondamente francesi ma vengono considerati stranieri. Questo genera aggregazione in comunità. Penso anche di essere un artista che impegna gli altri, anche se c’è differenza tra attivismo e arte. Il mio ruolo è sollevare domande senza dare risposte. Chi sono io per andare in Ucraina o Mauritania e dire quello che c’è da fare o cambiare? Vado là per lavorare con la gente e trovare un’immagine che funzioni per loro, che li rappresenti. Cerco di trovare un modo per creare qualcosa che abbia senso per le persone: l’opera dipende sempre dalla loro volontà. Hai scattato le tue prime foto nelle periferie di Parigi. Cosa significa per te questa città?
È stata la partenza di un grande percorso che continua ogni giorno. Sono cresciuto nei quartieri suburbani, dove mi sentivo perso tra la grandezza degli edifici. Scrivevo il mio nome sui muri per mostrare che ero lì, che esistevo. Quando ho trovato una macchina fotografica nella metropolitana non sapevo cosa farne. Ho iniziato a documentare i miei amici mentre realizzavano graffiti e poi ho lasciato le fotocopie degli scatti tra le strade. Il mio lavoro è nato così, ma in quel momento non sapevo cosa fosse una fotografia o un artista. Sentivo solo il bisogno di condividere queste immagini.
Da autodidatta a nome internazionale. Quando hai capito di essere diventato un artista famoso?
La rivoluzione nel mio lavoro è avvenuta con le proteste del 2005 nelle banlieue parigine a cui ho assistito dalla mia finestra. Credo di esserlo diventato in quel momento, di aver trovato un senso quando ho cominciato a fare foto a queste proteste, alle persone. Mi sono ritrovato sulla copertina del New York Times per aver documentato questi episodi, così in molti mi hanno scoperto e io ho iniziato a prendere coscienza del potere dell’immagine.
Cosa troviamo in mostra a Torino?
La fotografia è la materia prima del mio approccio artistico, mi interessa soprattutto la sua capacità di mettere in contatto la gente, di farla interagire e partecipare. Le Gallerie d’Italia offrono possibilità espositive articolate: gli schermi dinamici e l’ampia sala dotata di videoproiettori favoriscono le esperienze immersive e risucchiano il visitatore all’interno delle immagini.
La domanda delle domande: a cosa serve l’arte?
Prima pensavo che fosse impossibile, poi ho notato che ognuno di noi può compiere un’azione dalla quale se ne può innescare un’altra e questo, sì, potrebbe anche modificare qualcosa. La mia installazione nelle favelas di Rio de Janeiro, per esempio, rappresentava una luna posta a 40 metri di altezza, visibile da ogni parte. Ha attirato e incuriosito tanti visitatori e chi entrava nella favela per l’opera doveva insegnare qualcosa ai bambini. Dopo questo progetto, il sindaco della città ha avviato nuove politiche sociali. Si può modificare la percezione che noi abbiamo del mondo. E cambiando quella si può cambiare il mondo.
La performance sur la Piazza San Carlo avec plus de 1 500 personnes était une œuvre collective. Les toiles peuvent se détériorer, le souvenir de l’acte reste : tant d’inconnus se sont réunis pour réaliser une idée. Si c’est quelque chose qui peut être répété et diffusé, en sensibilisant les gens, alors je suis convaincu que quelque chose peut se produire, sans proclamations. L’art est un antidote au pessimisme. Qui est JR ?
Je suis un immigré de deuxième génération, mon père et ma mère sont d’origine tunisienne. En France, tout le monde vient d’un endroit différent, ils se sentent profondément français mais sont considérés comme des étrangers. Cela génère une agrégation dans la communauté. Je pense aussi être un artiste qui engage les autres, bien qu’il y ait une différence entre le militantisme et l’art. Mon rôle est de soulever des questions sans donner de réponses. Qui suis-je pour aller en Ukraine ou en Mauritanie et dire ce qu’il faut faire ou changer ? Je vais là-bas pour travailler avec les gens et trouver une image qui fonctionne pour eux, qui les représente. J’essaie de trouver un moyen de créer quelque chose qui ait un sens pour les gens : le travail dépend toujours de leur volonté.
Vous avez pris vos premières photos dans la banlieue de Paris. Que représente cette ville pour vous ? gallerieditalia.com gallerieditalia gallerieditalia
C’était le début d’un grand voyage qui se poursuit chaque jour. J’ai grandi en banlieue, où je me sentais perdu parmi la grandeur des immeubles. J’écrivais mon nom sur les murs pour montrer que j’étais là, que j’existais. Quand j’ai trouvé un appareil photo dans le métro, je ne savais pas quoi en faire. J’ai commencé à documenter mes amis pendant qu’ils faisaient des graffitis, puis j’ai laissé des photocopies des clichés dans les rues.
Mon travail est né de cette façon, mais à cette époque, je ne savais pas ce qu’était une photographie ou un artiste. J’ai juste ressenti le besoin de partager ces images.
De l’autodidacte à un nom international. Quand avez-vous réalisé que vous étiez devenu un artiste célèbre ?
La révolution dans mon travail s’est produite avec les manifestations de 2005 dans les banlieues parisiennes, auxquelles j’ai assisté de ma fenêtre. Je pense que je le suis devenu à ce moment-là, que j’ai trouvé un sens lorsque j’ai commencé à prendre des photos de ces manifestations, des gens. Je me suis retrouvé en couverture du New York Times pour avoir documenté ces épisodes, tant de gens m’ont découvert et j’ai commencé à prendre conscience du pouvoir de l’image. Qu’est-ce que nous trouverons à l’expo de Turin ?
La photographie est la matière première de ma démarche artistique, je suis particulièrement intéressé par sa capacité à connecter les gens, à les faire interagir et participer. Les Gallerie d’Italia offre des possibilités d’exposition articulées : les écrans dynamiques et la grande salle équipée de vidéoprojecteurs favorisent les expériences immersives et aspirent le visiteur dans les images. La question des questions : à quoi sert l’art ?
Au début, je pensais que c’était impossible, puis j’ai remarqué que chacun de nous peut effectuer une action à partir de laquelle une autre peut être déclenchée et cela, oui, pourrait aussi changer quelque chose. Mon installation dans les favelas de Rio de Janeiro, par exemple, représentait une lune placée à 40 mètres de haut, visible de toutes parts. Elle attirait et intriguait de nombreux visiteurs et ceux qui entraient dans la favela pour l’œuvre devaient enseigner quelque chose aux enfants. Après ce projet, le maire de la ville a lancé de nouvelles politiques sociales. Vous pouvez changer la perception que nous avons du monde. Et en changeant cela, vous pouvez changer le monde.