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ANNO 7 - NR. 10 - NOVEMBRE 2021
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Italia in controluce di Armando Munao’
ALLARME POVERTÀ
in ITALIA Fenomeno davvero preoccupante
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el nostro paese, il Covid e la pandemia globale hanno messo in evidenza le forti disparità tra i privilegiati e chi non riesce ad arrivare a fine mese, Infatti, secondo i dati diffusi dalla Caritas, nel Rapporto 2021 sulla povertà ed esclusione sociale, intitolato “Oltre l’ostacolo”, ci sono oggi oltre un milione in più di poveri assoluti rispetto al pre-pandemia 2020. Fino ad oggi la Caritas ha prestato soccorso a oltre 1,9 milioni d’italiani, una media di quasi 300 individui per ciascuno dei 6.780 servizi gestiti dallo stesso circuito delle Caritas diocesane e parrocchiali (al cui interno operano circa 95mila volontari laici e più di 800 ragazzi in servizio civile). Nei centri di ascolto e servizi le persone incontrate sono state complessivamente 212mila e delle persone sostenute nell’anno di diffusione del Covid19, quasi la metà, il 44% ha fatto riferimento alla rete Caritas per la prima volta. Un aumento di circa l’8%, rispetto al primo periodo Covid, e che nello specifico riguarda gli italiani che sono stati assistiti dall’Associazione umanitaria, mentre sale al 28% circa, la quota di chi, purtroppo, vive ancora le diverse forme di povertà croniche. E in merito a questa particolare situazione preoccupano anche i cosiddetti poveri “intermittenti” (19,2%), ovvero coloro che oscillano tra il “dentro-fuori” la condizione di bisogno, ponendosi non di rado- evidenzia la Caritas – appena sopra la soglia di povertà e che appaiono in qualche modo in
balia degli eventi, economici/occupazionali (perdita del lavoro, precariato, lavoratori nell’economia informale) e/o familiari (separazioni, divorzi, isolamento relazionale, ecc.). Tra le regioni con più alta incidenza di “nuovi poveri” troviamo la Valle d’Aosta (61%), seguita dalla Campania (57%) dal Lazio (53%) dalla Sardegna (51,5%) e dal Trentino Alto Adige con il 50,8%. E sono anche altri numeri, preoccupanti, che ci presentano una situazione che merita particolare e urgente attenzione. Sono oltre 5,6 milioni le persone che vivono in povertà assoluta pari a due milioni e più di nuclei familiari. Non solo, ma negli ultimi dodici mesi si è quantificato anche un notevole aumento a svantaggio di giovani e under 30 per un totale di oltre 1milione e 350mila minori che non hanno le risorse economiche necessarie per condurre una vita quotidiana dignitosa. Per i giovani adulti di età compresa tra i 18 e i 34 anni le nuove povertà sono salite al
57,7%. La crisi socio-sanitaria ha inoltre acuito le povertà già esistenti: la quota di “poveri cronici” (che frequentano cioè i circuiti Caritas da circa 5 anni) è salita dal 25,6% nel 2019 al 27,5% nel 2020, una persona su quattro. Dai dati Caritas evince anche che l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta é più alta nel Mezzogiorno (9,5%) anche se la crescita maggiore - in questi anni di pandemia - ha interessato le regioni del Nord (dal 5,8% al 7,6%). Tornando al rapporto che si riferisce ai nuovi poveri, per effetto della pandemia, quasi il 30% che mai si era rivolto alla Caritas, prima e durante il 2020, ha, purtroppo, dichiarato di “non farcela” e di avere ancora bisogno di aiuto in questo 2021, mentre, dato confortante, il 70% circa (oltre i due terzi), rispetto al 2020, non ha fatto più ricorso all’assistenza umanitaria. Una percentuale che lascia ben sperare che, secondo gli esperti, è principalmente dovuta alla ripartenza e al miglioramento della situazione economica italiana. Sfogliando i dati del rapporto si legge anche che l’età media delle persone che hanno usufruito dei servizi umanitari è di 46 anni e che oltre la metà di quelle che hanno chiesto aiuto al circuito Caritas (circa il 57%) ha al massimo la licenza di scuola media inferiore, percentuale che tra gli italiani sale al 65,3% e che nel Mezzogiorno arriva al 77,6%. Il 64,9% degli assistiti ha dichiarato di avere figli (percentuale che corrisponde a oltre 91.000 persone) e tra loro quasi un terzo vive con figli minori (pari a 29.903 persone).
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SOMMARIO ANNO 7 - NOVEMBRE 2021 DIRETTORE RESPONSABILE Armando Munaò - 333 28 15 103 direttore@valsugananews.com VICEDIRETTORE Chiara Paoli COORDINAMENTO EDITORIALE Enrico Coser COLLABORATORI Waimer Perinelli - Erica Zanghellini - Katia Cont Alessandro Caldera - Massimo Dalledonne Emanuele Paccher - Francesca Gottardi - Maurizio Cristini Silvana Poli - Elisa Corni - Laura Mansini - Alice Rovati Erica Vicentini - Laura Fratini - Patrizia Rapposelli Zeno Perinelli - Adelina Valcanover - Veronica Gianello Nicola Maschio - Giampaolo Rizzonelli - Mario Pacher CONSULENZA MEDICO - SCIENTIFICA Dott. Francesco D'Onghia - Dott. Alfonso Piazza Dott. Giovanni D'Onghia - Dott. Marco Rigo EDITORE - GRAFICA - STAMPA Grafiche Futura srl Via della Cooperazione, 33 - Mattarello (TN)
PER LA TUA PUBBLICITÀ cell. 333 28 15 103 direttore@valsugananews.com info@valsugananews.com Registrazione del Tribunale di Trento: nr. 4 del 16/04/2015 - Tiratura n° 7.000 copie Distribuzione: tutti i Comuni della Alta e Bassa Valsugana, Tesino, Pinetano e Vigolana compresi COPYRIGHT - Tutti i diritti di stampa riservati Tutti i testi, articoli, interviste, fotografie, disegni e pubblicità, pubblicati nella pagine di VALSUGANA NEWS e sugli Speciali di VALSUGANA NEWS sono coperti da copyright GRAFICHE FUTURA srl e quindi, senza l’autorizzazione scritta del Direttore, del Direttore Responsabile o dell’Editore è vietata la riproduzione o la pubblicazione, sia parziale che totale, su qualsiasi supporto o forma. Gli inserzionisti che volessero usufruire delle loro inserzioni, per altri giornali o altre pubblicazioni, possono farlo richiedendo l’autorizzazione scritta all’Editore, Direttore Responsabile o Direttore. Quanto sopra specificato non riguarda gli inserzionisti che, utilizzando propri studi o agenzie grafiche, hanno prodotto in proprio e quindi fatta pervenire, a GRAFICHE FUTURA srl, le loro pubblicità, le loro immagini, i loro testi o articoli. Per quanto sopra GRAFICHE FUTURA srl, si riserva il diritto di adire le vie legali per tutelare, nelle opportune sedi, i propri interessi e la propria immagine.
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L’Italia in controluce 3 Sommario 5 Il senso religioso: la chiamata alla libertà 7 L’editoriale: mentre si protesta, la povertà cresce 8 I protagonisti della politica: Lorenzo Dellai 10 Viaggio in Valsugana: traffico, buche e bufale 13 Le donne libere dell’Afghanistan 14 La storia siamo noi 16 Referendum sulla giustizia: facciamo chiarezza 18 Storie di casa nostra: la Santa di Susa’ 20 La vita e lo sport a suon di musica 22 Scrittori di casa nostra: Matteo Lorenzi 23 Economia & Finaza: alla scoperta del PIL 24 La Comunità degli Scalzi alle Laste 26 ADMO: cento volte in Trentino 28 Accadde nel mondo: Taiwan 32 Haiku, poesia che cura 34 Fatti & misfatti: piazze in rivolta 35 La catastrofica riforma del Catasto 36 Attualità: a Trento il Tempio crematorio 37 Papa Luciani, un Beato ladino 38 La Regola non ammette eccezione 40 Alceo Dossena, artista o falsario? 42 In ricordo di Angelo Conci 46 Francesco Petrarca. Il poeta che cantò l’amore 48 Aprono le Funivie Lagorai 50 Il Beato Simone e i Martiri anauniesi 52 Il Premio Mazzotti: due trentine tra i vincitori 55 La teleferica di Caldonazzo- Monterovere 56 Il bosco dove cantano i poeti 58 Ieri avvenne: Valsugana in guerra 60 Black Mirror, la tecnologia cambia la vita 63 La Storia parlata : Ladini , una lingua, un popolo 64 Il personaggio: Davide Zambelli 66 Ieri avvenne: Vigilio Ceccato 69 Il Campione: Giuseppe Meazza 70 Salute & Benessere: uso delle lenti a contato 73 Medicina & Salute: stai attenta che poi prende il vizio 74 Ho prestato ma non sono stato pagato 76 La rinegoziazione del mutuo 79 L’ultimo carador di Borgo: Giorgio Divina 80 Storie di casa nostra: Pietro Samonato 82 Che tempo che fa: la plastica negli oceani 84 Novaledo in cronaca: il torrente Roggia 86
I protagonisti della politica LORENZO DELLAI Pagina 10
La giornata del donatore ADMO in TRENTINO Pagina 28
Ieri avvenne VALSUGANA IN GUERRA Pagina 60
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Il senso religioso di Franco Zadra
LA CHIAMATA ALLA LIBERTÀ Ai lettori di questa rubrica sarà forse del tutto chiarito l’intento di chi scrive, quel ricercare, cioè, le ragioni della scelta di fede come un atto personale in cui il credente esprime al meglio il suo desiderio di libertà e la sua forza di esercitarla. Non c’è nulla, infatti, come lo scegliere di credere che consenta di comprendere la propria vita come una chiamata alla libertà. Ma libertà da che cosa? E, soprattutto, per quale scopo? Guardare con un’apertura all’Infinito alla nostra realtà, risponde con l’evidenza di un fatto a queste domande che solo l’uomo, in quanto umano, si pone e può porsi tra tutti gli esseri animati di questo mondo.
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omande che oggi rifuggiamo sbadigliando, come “metafisiche”, eliminandole d’istinto dalle preoccupazioni di ogni giorno, dando per assodato che il nostro “bisogno metafisico” non potrà mai essere soddisfatto, condannandoci così a una sofferenza eterna, quasi che l’uomo fosse una specie di “Tantalo spirituale”. Per chi non avesse dimestichezza con i miti greci, spiego subito che Tantalo è una figura retorica utile a definire una persona che desidera qualcosa che non può raggiungere. La libertà è una esigenza originale che urge nel nostro spirito, ma diventando adulti, e scoprendoci ingannati, alienati, schiavi di altri, strumentalizzati, finiamo per adattarci a una quasi libertà, incapace di soddisfarci veramente. Vivere consapevolmente la dimensione religiosa – dalla quale non è possibile sottrarsi se si vuole rimanere umani, cioè, si potrà essere a favore o contro il fatto religioso, ma non esiste chi si possa dire “extra” religioso – ci promette, e ci permette, di superare quelle situazioni che ci
opprimono, avendo ben chiaro un termine di paragone (Infinito) che la mentalità comune ci sottrae quasi in maniera sistematica, con il supporto spontaneo di chi detiene il potere. Parliamoci chiaro: chi vuole che diventiamo capaci di un giudizio su tutto alla luce delle nostre evidenze prime? «La tradizione familiare – scrive Giussani ne Il senso religioso -, o la tradizione del più vasto contesto in cui si è cresciuti, sedimentano sopra le nostre esigenze originali e costituiscono come una grande incrostazione che altera l’evidenza di quei significati primi, di quei criteri, e, se uno vuol contraddire tale sedimentazione indotta dalla convivenza sociale e dalla mentalità ivi creatasi, deve sfidare l’opinione comune». Uno sfidare che appare semplice, ma non è mai scontato, e Giussani indica con la parola “ascesi”, cioè «l’opera dell’uomo in quanto cerca la maturazione di sé, in quanto è direttamente centrato sul cammino al destino», una fatica che fa parte della conversione.
Chi oggi pensa più a queste cose? E chi è impegnato in questo? Vi invito a mettervi davanti a uno dei quadri più popolari e conosciuti di Vincent Van Gogh, quello che ritrae i mangiatori di patate, tra i suoi primissimi quadri, quando ancora doveva trovare il suo stile, considerato però uno dei suoi migliori risultati. Guardatelo bene, immergetevi in quella scena, e poi provate a rispondere a voi stessi dicendovi che l’uomo non è altro che un animale un po’ più evoluto degli altri, che non ha nulla di metafisico. Non so voi, ma quelle patate riescono a nutrirmi più di un pranzo di nozze. Rimane da scegliere tra una realtà che ci appare immediatamente e una realtà approfondita, più vera e concreta, l’unica che duri. Ma poi, ridete! Vedrete che cosa vi distingue dagli animali, che sapore ha la libertà, e capirete perché un cabarettista berlinese fu giustiziato dal “tribunale della barzelletta” di Hitler per aver chiamato Adolf il suo cavallo. A proposito, questa volta vi consiglio “Racconti da ridere”, a cura di Marco Rossari, Einaudi, 2017.
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L’editoriale
di Armando Munao’
E MENTRE SI PROTESTA... ...LA POVERTÀ CRESCE
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us Soli, decreto Zan, NO e PRO Vax, estremisti di destra e di sinistra, centri sociali, manifestazioni di tutti i tipi e generi, e chi più ne ha più ne metta. E' questa, ahinoi, la quotidianità che da parecchio tempo si vive in Italia, non considerando che altri, e più impellenti, sono i problemi che interessano gli italiani, specialmente quelli che riguardano i meno abbienti e di coloro i quali, non di rado, mendicano un pranzo o una cena. Certo, alcune manifestazioni sopracitate per molti saranno anche importanti, ma non tali da richiedere urgente soluzione. Eppure a dispetto di una situazione veramente drammatica, i nostri politici, nessuno escluso, perdono tempo a parlare di temi e sviscerare problemi che andrebbero posizionate tra le ultimissime pagine nel libro del no-
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stro vivere dimenticandosi che oggi più di otto milioni d’italiani vivono in povertà, tra assoluta e relativa. Si organizzano mega manifestazioni per protestare contro il possibile ritorno del fascismo (e chi ci crede), contro il Green pass, avverso decisioni delle istituzioni che andrebbero contro la libertà e il popolo o per combattere le scelte del governo, compresa quella, che a ragione, spinge e raccomanda la vaccinazione per tutti gli italiani allo scopo di combattere la pandemia che ha causato oltre 130mila morti. Ultimamente si riempiono le piazze e si chiamano a raccolta le più svariate classi sociali, ma non per mettere un vero freno alla crescente povertà nel nostro paese o per trovare soluzioni a problemi reali quali il lavoro e l’occupazione giovanile, la difesa delle
imprese, la sicurezza e la legalità, bensì per urlare ai quattro venti argomentazioni che, a mio modesto avviso, lasciano il tempo che trovano e che saranno destinate a cadere nel dimenticatoio. Fateci caso, ma nelle settimane prima delle elezioni amministrative non si è parlato altro che di fascismo, antifascismo, sovranismo e via discorrendo. Poi, però, come puntualmente avviene da decenni e chiuse le sedi elettorali, quella che prima era considerata un’emergenza vera e un pericolo assoluto, cade nel dimenticatoio per poi puntualmente riemergere alla prossima tornata elettorale. Sarà strano, ma il pericolo fascismo scatta come la par condicio e magicamente spunta prima di ogni elezione, sia essa nazionale o regionale, per poi sparire a urne chiuse.
L’editoriale E su questa mia posizione, per fortuna, non sono solo perché tantissimi opinionisti, ben più competenti del sottoscritto, ospiti dei vari talk show nelle tv, sono della stessa idea. Paolo Mieli, che di certo non è un simpatizzante di Meloni, Salvini e del Centro Destra, (si è autodefinito «antifascista per tradizione familiare), ha espressamente detto: «Com'è possibile che questo tema, il pericolo fascismo, spunti magicamente in ogni tornata elettorale, ricordando come già nel 1946 un simile trattamento era toccato ad Alcide De Gasperi, e da allora in poi "fascisti sono diventati Fanfani, Craxi, Berlusconi e persino Renzi". Stessa sorte è toccata a quasi tutti gli avversari della sinistra post-comunista. Una dichiarazione, quella di Mieli, che ha trovato concorde Enrico Mentana, direttore del Tg di La7, il quale, dopo il dire dell’ex direttore del Corriere della Sera, ha aggiunto che il “pericolo fascismo è come il conflitto d’interesse di Berlusconi: lo tiravano fuori solo quando il Cavaliere era al governo e spariva magicamente quando tornava all'opposizione". E l’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro? “È chiaro che il dramma italiano del secolo scorso, ha scritto, non potrà riproporsi in mezzo all'Europa delle costituzioni liberali e nel cuore dell'Occidente democratico. Nessuno lo pensa». E lo ha fatto quando ha voluto evidenziare, a suo avviso,…“le ambiguita’ e le non chiare prese di posizioni di Giorgial Meloni e del suo partito rispetto all'eredità del fascismo come qualcosa che ancora sopravvive nei rituali, nei gesti e nel linguaggio dei militanti, e alla contiguità con gruppi e organizzazioni che esplicitamente si richiamano all'esperienza nazifascista”. E Massimo Cacciari? Anche lui rigetta la “farsa dolorosa” del fascismo ovvero la presunzione di certa sinistra secondo cui l’Italia, ciclicamente, e sempre
vicino alle elezioni, viva un vero e proprio “pericolo fascista”. Secondo il filosofo veneziano, questo timore “è altrettanto realistico dell’entrata di un’astronave in un buco nero”. Ovvero quasi impossibile. “Le condizioni storiche, sociali, culturali di quel caratteristico fenomeno totalitario – scrive Cacciari sulla Stampa- non hanno alcun remoto riscontro nella realtà attuale di nessun Paese”. E’ innegabile che l’attacco alla CGIL di Roma sia stato un attacco violento e squadrista, ma da qui a parlare di un possibile ritorno al fascismo, ce ne vuole. E sono certo, che al di là di ogni ragionevole dubbio, non ci credono nemmeno coloro i quali sostengono questa tesi. Se lo fanno è solo e solamente per convenienza elettorale o marcati interessi di partito. Per la cronaca alla fine del mese di ottobre la Camera dei Deputati ha approvato (con 225 voti a favore, 198 astenuti e 1 contrario) la mozione del Centro Sinistra che chiedeva al Governo di operarsi per lo scioglimento di Forza Nuova e di tutte le forma-
zioni neofasciste. Il Centro Destra si è astenuto. Approvata anche quella del Centro Destra che chiedeva al Governo, invece, di agire per contrastare “tutte le realtà eversive, anche quelle di sinistra” nessuna esclusa. Il risultato è stato di 193 voti a favore, 224 astenuti (tra cui i deputati del Centro Sinistra e 3 contrari. E sempre nel mese di ottobre il Senato ha dato il suo ok a entrambe le mozioni presentate, sia quella dove sono confluite le quattro depositate da PD, M5S, Liberi e Uguali e Italia Viva e sia quella del Centro Destra. E’ utile precisare che sebbene le mozioni del Centro Sinistra siano state approvate e di fatto indirizzano politicamente il Governo ad applicare la Legge Scelba (è una legge della Repubblica Italiana Repubblica di attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana che, tra l'altro, introdusse il reato di apologia del fascismo) queste votazioni non sono vincolanti ovvero l’esecutivo presieduto da Draghi non è obbligato a procedere rispetto a quanto deciso dal Parlamento.
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I Protagonisti della politica di Waimer Perinelli
LORENZO DELLAI
LA POLITICA È UNA COSA SERIA
“L
’autonomia è importante se non è banalizzata a pura amministrazione e se non è da museo: deve essere capita nel suo valore di progetto comunitario e continuamente rinnovata rinnovata”. Lorenzo Dellai. Ve lo ricordate? Sindaco di Trento dal 1990 a 1998 consigliere regionale, dal 1999 al 2012 presidente della Provincia autonoma di Trento, nel 2013 eletto deputato. Nel 2018 ricandida nel collegio della Valsugana ma non viene rieletto. “Non avevo messo l’orecchio a terra, dice, e non avevo sentito il cambiamento dell’umore degli elettori, la resa ai movimenti sovranisti ”. Rimpianti? “Nessuno, nessun risentimento, nessun rimpianto, sono grato alla vita, mi ha dato molto, proprio dove mi ero preparato seguendo fin da giovanissimo gli insegnamenti di don Milani. Quello della scuola di Barbiana, quello che, per la generazione
tino Solidale, l’associazione di volontariato sociale coordinata da Giorgio Casagranda. Il viso è stanco, segnato da un velo di barba bianca curata, lo sguardo acuto, gli occhi ruotano attorno inquadrando la scenografia, poi si fissano sull’interlocutore. Ci siano trovati tante volte per servizi televisivi ma è la prima volta che c’incontriamo come due conoscenti al bar.
Lorenzo Dellai
cattolica nata fra il 1950 e 1970, è stato un faro”. Lorenzo Dellai festeggia a novembre, il giorno 28, il sessantaduesimo compleanno. Ci salutiamo. “Scusami, dice, devo restare all’aperto sono in astinenza dal mio sigaro mattutino e ho bisogno di un caffè”. E’ venerdì e Dellai smonta dal turno settimanale di raccolta alimenti a favore di Tren-
Lorenzo Dellai (da La Voce del Nord Est)
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Cosa fa un uomo che dalla politica ha avuto tutto? “Studia per capire l’evoluzione del suo mondo e scopre che è tutto cambiato, che i giovani vivono in un’altra dimensione fatta di computer, digitale, comunicazione diretta e cerca di trovare una risposta ai nuovi problemi” E’ per questo che ha fondato Codice Sorgente, una scuola di politica alla quale collaborano docenti universitari, come Antonio Schizzerotto, e altre persone della società civile. “E’ un’associazione indipendente, assolutamente non di partito, aperta a tutti. Per me, dice, è un modo per investire non solo sulle competenze ma anche sulle sensibilità politiche. Una scuola dove ognuno segue un proprio percorso in questo momento di cambiamenti epocali. Gli incontri sono seguiti da una ventina di giovani all’anno e fra loro alcuni sindaci, amministratori, desiderosi di apprendere la difficile arte di operare fra leggi, leggine, nodi e trappole, per il bene comune”. La politica è una malattia diceva un ex presidente, non negativa, ma come diceva Carlo Goldoni riferen-
I Protagonisti della politica dosi al teatro: “Chi vi si avvicina non sapiù staccarsene ”. E Lorenzo Dellai è un’eccezione? “No, è un modo nuovo di fare politica. Io sento il dovere di dare una mano ma, non ho ambizioni personali, né voglia, né sarebbe ragionevole tornare. C’è, aggiunge, un ruolo di aiuto, di supporto esterno da parte di chi, come me, ha il dovere di dare un contributo, senza essere invasivo.” Allora da insegnante di una politica vissuta intensamente: cosa manca oggi alla politica? “Manca la rappresentanza di una forza capace di agire fra una minoranza di tendenza leghista e una minoranza contraria alla lega. C’è una forza che nel paese è maggioranza solo che è fragile, incerta, indecisa, perciò divisa. Eppure risponde all’esigenza, alla domanda di apertura e confronto. Una maggiorana ben viva anche nelle valli trentine”. C’è nell’aria una nuova Margherita? “Assolutamente no! È stata una positiva esperienza, ma la storia si fa guardando al futuro. Si deve pensare ad un soggetto nuovo “
Monti e Dellai - Unione per il Trentino (da Wikiwand)
di una visione complessiva del senso autonomistico. Si guarda troppo al passato e poco al futuro, alle nuove generazioni. La nostra autonomia è nata quando il valore centrale era il territorio. La rivoluzione digitale ha travolto questo concetto, oggi sulla Rete si impone il concetto del personale: dell’Io. La nostra autonomia era fondata sul Noi, sulla cooperazione, sulle associazioni, la solidarietà, se
Ma anche ai partiti, i quali per crescere, hanno bisogno di leader. “Più che un partito vedo un’area capace di ricreare il senso della Comunità, un soggetto nel quale si deve manifestare un leader con una proposta condivisa da cui nasce la legittimazione. Non c’è tempo da perdere non si può aspettare l’incoronazione”. Quale futuro vede per l’autonomia? “Grazie al lavoro fatto ed a quello che si può fare sullo Statuto non vedo tanto grandi pericoli sul piano giuridico. Vedo piuttosto la mancanza
Lorenzo Dellai
non torniamo a questi valori e sappiamo applicarli al mondo moderno, saranno svuotati dai centralismi. Il trentino è mutato a livello antropologico e culturale, e l’autonomia così come l’abbiamo finora vissuta pare destinata a perdere il senso di se stessa, di non essere più carismatica verso il popolo. E’ importante ma non più sufficiente rinnovare tradizioni, costumi, storie del passato, se non si affronta il futuro con progetti innovativi si rischia di rimanere un’isola in mezzo al mondo che cambia. Il momento importante della nostra autonomia è stato quando, sfidando il centralismo dello Stato, abbiamo fondato l’università, innovato con istituti tecnologici, la Fondazione Kessler...Sono anni in cui abbiamo seminato. Poi è venuto il momento della raccolta. .” Allora siamo contenti? “No, per nulla, abbiamo avuto un buon raccolto, non sempre riconosciuto, ma è tornato il momento della semina e questa spetta soprattutto ai giovani. La nostra cultura contadina ci ammonisce che senza una buona semina non si raccoglie nulla.”
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ABBIGLIAMENTO E INTIMO DA 0 A 99 ANNI
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Viaggio in Valsugana di Marco Nicolo’ Perinelli*
TRAFFICO, BUCHE E BUFALE
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ì, viaggiare, evitando le buche più dure, rallentando per poi accelerare...” cantava Lucio Battisti nel 1977. Una canzone che casualmente passa per radio mentre sto percorrendo la SS47 della Valsugana, diretto a Trento, alle 7.40 del mattino. E non posso che sorridere mentre sono nell’ennesima colonna all’altezza di Ischia. Una colonna lenta, formata da veicoli di ogni genere e tanti, tantissimi camion. Davanti a me un automezzo pesante con targa slovacca, dietro uno con targa austriaca. “Che strani questi valsuganotti – penso tra me e me che decidono di spostarsi con veicoli con targhe straniere”. Eh già, perché, come mi è stato spiegato più volte in questo periodo, l’ultima dallo stesso Presidente Fugatti, che la Valsugana è intasata dal traffico locale. E quindi non posso che pensare che siano tutti veicoli partiti al massimo da Borgo o da Pergine. Al di là delle battute, è evidente per chiunque percorra questa arteria stradale tutti i giorni che il traffico pesante è tutt’altro che locale e che negli ultimi anni è costantemente in aumento. Certo, esiste una percentuale altissima di veicoli leggeri che si muovono tra la valle e la città, un traffico che potrebbe essere smaltito da una rete di mezzi pubblici efficienti, a partire dalla ferrovia. Se non fosse che le autocorriere sono bloccate nel traffico esattamente come gli altri veicoli e che il treno rimane una utopia, con tempi di percorrenza di oltre un’ora tra Borgo Valsugana e Trento, 36 km di distanza su un tracciato del 1896. E mentre ovunque in Europa si parla di Agenda 20-30, di sviluppo soste-
La SS della Valsugana (da Il Giornale di Vicenza)
nibile, di tutelare l’ambiente, da noi si progettano arterie stradali vecchie di 50 anni, prospettandole come soluzioni a tutti i problemi del traffico. Parlo di quella Valdastico che, forse, allora avrebbe potuto effettivamente deviare il traffico pesante dalla Valsugana, soprattutto con una uscita a nord, ma che oggi sembra solo uno specchietto per le allodole. Partiamo da un dato oggettivo: la Pedemontana veneta è una realtà: mentre qui si discuteva sui massimi sistemi, poco a più a sud i lavori andavano avanti a passo spedito e presto anche il collegamento tra Dueville e Bassano sarà completo. Chiunque abbia percorso la nuova autostrada veneta, ha potuto rendersi conto di quale opera sia e soprattutto del fatto che tutto il traffico veicolare veneto e parassitario proveniente dall’est Europa ha ora un corridoio diretto su Bassano del Grappa e da lì la comodissima, gratuita, “Autostrada” della Valsugana che lo porta direttamente a Trento: non si capisce perché un autotrasportatore dovrebbe arrivare a Laste Basse, in Veneto, tornare a sud verso Rovereto, per poi rimettersi in direzione nord. E’ evidente che a noi Valsuganotti la A31 così
come progettata dal governo provinciale con uscita a Rovereto Sud non serve a nulla, se non a distogliere l’attenzione da altri problemi. E mentre qui si chiacchiera, le decisioni importanti vengono prese altrove, come ho avuto modo io stesso di constatare recandomi a Roma presso il Ministero delle Infrastrutture a inizio ottobre. Dobbiamo calarci nella realtà: la SS47 è destinata a essere sempre più congestionata e si deve intervenire qui, non altrove. Investiamo seriamente nella ferrovia accelerandone i tempi, ma non solo con una elettrificazione che non serve a nulla su un tracciato di due secoli fa e mettiamo in sicurezza la ss47 togliendola anche dai laghi con una galleria tra Novaledo e Pergine. Quanto potremmo fare in Valsugana con quei 3 miliardi di euro destinati all’anacronistico progetto Valdastico? Siamo una Provincia che potrebbe puntare ad essere oilfree, come stanno facendo i nostri vicini sudtirolesi, e invece progettiamo il futuro su progetti di mezzo secolo fa. Sì , viaggiare, mi viene da dire, ma evitando le bufale. * Marco Nicolò Perinelli è Giornalista, sindaco di Tenna
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Le donne e la Società di Laura Mansini
LE DONNE LIBERE DELL’AFGHANISTAN
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ell’osservare quanto è accaduto nel mese di ottobre nelle nostre città italiane, nella nostra bellissima e libera nazione, colpita come tutto il mondo dal Covid, dal quale stiamo uscendo grazie alla scienza, al Governo e soprattutto all’intelligenza e generosità dell’ ottantacinque per cento degli Italiani che si sono fatti vaccinare, sono rimasta sconvolta. Come può essere che un gruppuscolo di no vax, no green pass, ai quali si sono aggiunti facinorosi di estrema destra e di estrema sinistra, in un periodo di elezioni, con le quali i cittadini di grandi città e di una regione stavano per votare, possa mettere la Capitale ed altre città come Trieste, Genova sotto scacco, assaltando a Roma la sede della CIGL, bloccando porti, cercando di creare una situazione di completa anarchia. Fortunatamente la democrazia ha vinto e tutto si è svolto correttamente. Ha vinto comunque l’astensionismo e questo è un male. Mi sembra che si rinunci a delle scelte fondamentali per la vita delle future generazioni. Questo mi ha fatto ricordare quello che è accaduto in Afghanistan negli scorsi mesi quando sono giunte le prime notizie del ritiro delle truppe americane e dell’ONU da questa martoriata regione. In quell’occasione ho iniziato a scrivere alcune riflessioni, perché era giunta voce che l’esercito Afgano aveva perso la guerra contro i Talebani, i quali, dopo vent’anni, sono tornati padroni della Capitale. Le mie paure più recondite si sono avverate. Sono brani tratti da un mio diario personale, scritto per non dimenticare e per aiutarmi a riflettere su che cosa mi sembra stia accadendo, certamen-
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Zahara Ahmadi, imprenditrice profuga afghana (Religion Today)
te in modo meno cruento anche da noi che per ora godiamo di una bella democrazia, nella nostra bellissima Italia; tuttavia anche qui inizia ad entrare il tarlo della violenza, lo si è visto, come dicevo sabato 9 ottobre a Roma. A Kabul come a Roma, sta accadendo quanto, con un po’ di attenzione, si poteva presagire. “Osservando ciò che sta accadendo, in queste giornate estive, in Afghanistan, scrivevo in agosto, siamo colti da improvvise ataviche paure. Vedere Kabul invasa da carri armati, fucili e giovani barbuti con copricapi antichi, come antiche ci sembrano queste invasioni barbariche, ci riempie il cuore di una grande tristezza e di timore per il nostro futuro. Quando lunedì 16 agosto, alla sera, ho visto su RAI 2 i filmati che la Fondazione Pangea Onlus inviava con le immagini
di donne e bambini nascosti in case, per ora sicure, frutto di un progetto di asilo-centro donna, create con lo scopo di offrire servizi indispensabili alle donne ed ai loro figli, ho provato un forte senso di impotenza. Ancora una volta le donne ed i bambini, sono le prime vittime di queste battaglie apparentemente insensate, frutto di una cultura religiosa barbara. In nome di Allah, di una Sharia, che impone un complesso di regole di vita e di comportamenti per la condotta morale e religiosa dei fedeli e soprattutto delle donne, le quali divengono proprietà dei padri, dei fratelli, dei mariti. “ Eppure ricordiamo che dal 26 gennaio 2004 le Afghane hanno ottenuto gli stessi diritti dell’uomo, rifacendosi alla Costituzione del 1964 . “ Che dire, non spetta a me giudicare culture così lontane, tuttavia mi chiedo perché non sia stato possibile in questi
Le donne e la Società ultimi 20 anni di egemonia occidentale, creare le situazioni per allargare la cultura dalle città come Kabul, che ha visto le donne studiare, laurearsi, diventare dottoresse, avvocate, giornaliste, ottenendo riconoscimenti sociali e politici , anche alla campagna. Le mie paure più recondite si sono avverate. Ora non c’è più nessuno a difendere i diritti acquisiti in questi ultimi anni. Le prime a soccombere, come sempre sono le donne, quelle colte, emancipate, che hanno perso immediatamente il lavoro, che si stanno nascondendo sotto il Burka, che hanno trovato la morte fuggendo, o meglio cercando di fuggire.” Queste mie riflessioni, nate nei primi giorni dell’apocalisse di Kabul, si stanno evolvendo. Ho osservato quanto sta accadendo ora e sto scoprendo, con immenso orgoglio, che questi vent’anni non sono trascorsi invano perché la cultura della democrazia si è fatta strada soprattutto nelle giovani donne che ho visto prendere decisioni importanti scendendo in piazza, davanti agli ospedali, affermando il diritto-dovere di curare i loro ammalati, e poi sono scese le insegnanti, le giornaliste, donne di cultura, lavoratrici, col velo ma senza Burka, a volto scoperto. Brave e coraggiose, capaci di sfidare vecchi sacerdoti della Sharia, anziani di un antico regime che rispondendo
Donna afgana con il burqa (da Wikipedia)
Donna afgana (da Wikiwand)
alle domande dei giornalisti se ci saranno donne nel nuovo governo Talebano rispondono “ No nel governo, forse in altri ruoli non di potere”. Non la pensa così Zahama Ahmad, trentaduenne imprenditrice , costretta a fuggire dal suo paese perché colpevole di lavorare con successo e di aver contestato il nuovo potere. “Io credo che le donne debbano andare al potere - ha dichiarato, intervenendo alla presentazione del festival del Cinema Religion Today- ” Anzi spero che presto in Afghanistan
venga eletta una donna Presidente di un paese finalmente libero e democratico” Il mio diario ora si ferma qui, ma tornando ai fatti di casa nostra antichi timori si sono risvegliati in me, non solo paure di violenze, ma del ruolo della donna in politica. La cosa più sconcertante è che non abbiamo donne sindaco in questa tornata elettorale, la famosa quota rosa non conta, e sembra lontano il tempo in cui potremo vedere una donna Presidente della Repubblica italiana.
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La Storia siamo noi di Cesare Scotoni
Il Ritorno al “Divide et Impera” (che non è mai andato via)
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a Storia degli Imperi è tornata di estrema attualità dopo la Caduta del Muro il 9 novembre 1989. La Prima Guerra Mondiale aveva visto il tramonto dell’Impero Austroungarico, dell’Impero Russo, dell’Impero Turco e dell’Impero Tedesco e l’abbandono da parte degli Stati Uniti d’America di quella decisa Neutralità verso le vicende europee che aveva ispirato la Costituzione del 1778. Il Secolo Breve (copyrigth di Eric Hobsbawm) dunque iniziava in quel 1914 e finiva con il ritorno sui pennoni del Kremlino della Bandiera della Grande Russia. Nel frattempo anche il Regno Unito aveva ceduto il Suo Impero e, come la Francia per il suo ed entrambe i Paesi avevano rimodulato il modo di declinare quella
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Sovranità sovranazionale e colonialista. Il patto di Varsavia, costituito nel 1955, in contrapposizione ad un’Alleanza Atlantica costituita in chiave anticomunista già nel 1949 ed a cui anche la Germania aveva aderito poi
Divide et impera Dividi (i tuoi avversari) e comanda
Caio Giulio Cesare nel maggio del 1955, si scioglieva e ricominciava così quel Grande Gioco (dal libro di Peter Hopkirk) cui la Guerra Fredda aveva messo la sordina
e destinato a modificare i rapporti di forza tra gli alleati che riscoprivano i propri interessi sovrani, pensando ad una Russia sempre più permeabile all’Occidente consumista e ad una Cina che avrebbe impiegato anni per diventare protagonista economica e militare nello scacchiere asiatico e centro asiatico. Come sempre le cose presero pieghe assai diverse e gli scenari si rivelarono diversi, ma non le ambizioni dei giocatori. Perché questa digressione su Imperi ed Imperialismo? Perché pur declinandosi ora le Teorie Imperiali con modalità più moderne alcune logiche ne restano elemento costitutivo e la Storia può insegnarci molto. Per quello, in Italia, Storia e Geografia son sempre più neglette: il conoscerle potrebbe evitare il ripetersi degli er-
La Storia siamo noi rori più eclatanti che accompagnano le scelte del nostro Paese proprio dal termine del Secolo Breve, che l’autore fissa nel 1991. Otto Von Bismarck scriveva: “Nei conflitti europei, per i quali non c’è un tribunale competente, il diritto si fa valere soltanto con le baionette.” ed oggi possiamo tranquillamente dargli ragione. In un’Unione Europea incapace di darsi una Costituzione e normata solo sulla base di un’accozzaglia di accordi bilaterali il regolamento di conti cominciò in Jugoslavia già nel 1991 e si protrasse fino al 1999 con gli accordi di Daytona e lo scandalo del Kossovo (più uno scontro in Macedonia nel 2001). E quella vicenda vide Germania e Turchia ritrovarsi nuovamente alleate. Veniamo al Dividi et Impera, il modo più semplice che i Romani utilizzavano per “tenere i confini dell’Impero” senza immobilizzarvi troppe truppe. La Corruzione, l’intervenire nella Politica locale, il fomentare conflitti che evitassero a potenziali avversari di coalizzarsi, le Alleanze a Geometria Variabile, i legami commerciali ed il Mito Imperiale cui ancorarsi. Son solo 22 secoli che se ne scrive e che si praticano. Purtroppo c’è chi lo fa per mantenere una propria Sovranità Nazionale e chi invece il Dividi et Impera lo applica solo per distruggerla e sopravvivere politicamente e con profitto al disastro. La dissoluzione Jugoslava fu per l’Italia un passaggio ferale in cui il porto d’approdo poteva essere solo un’Unione Europea che divenisse un soggetto politico. A trazione Franco Tedesca e contro gli inglesi. La Presidenza Prodi della Commissione Europea dal 1999 al 2004 fallì nel tentativo di allargare l’Unione per farne coincidere gli interessi con quelli di un’alleanza Atlantica in cerca d’autore. L’affondamento del Progetto di Pratica di Mare con le vicende giudiziarie di Berlusconi furono un successo inglese e con il fallimento del referendum in Francia sulla Costituzione Europea il 29 maggio 2005 l’Italia perse la possibilità di quel ruolo centrale nel Mediterraneo. La crisi subprime del 2009 e le vicende Libiche, Siriane lo certificarono e solo l’insuccesso tedesco a Kiev, con le vicende di piazza Maidan ed il ruolo di un’Inghilterra a quel punto espressamente “fuori” dell’Unione offrono ora ad un Paese con più Padroni che Servi, la possibilità di offrirsi come testa di ponte di un’Alleanza Atlantica dove la Polonia sta già sostituendo la Germania nello scacchiere e l’Italia la politica gioca con la testa rivolta alle elezioni amministrative piuttosto che ad aumentare il proprio peso in un’Europa che non sarà quella sui cui Prodi perse la partita. Il Dividi et Impera in ogni caso lo inventammo noi e forse dovremmo farne tesoro.
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La parola ai cittadini di Emanuele Paccher
Referendum sulla giustizia: facciamo chiarezza La Lega, assieme al Partito radicale, sta raccogliendo le firme per indire sei referendum abrogativi. Ma qual è il procedimento da seguire? Quali norme si vogliono abrogare?
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l 2 luglio è ufficialmente partita la campagna per la raccolta delle firme. Lega e Partito radicale vogliono portare al voto dei cittadini sei referendum abrogativi, tutti in tema di giustizia. Questa possibilità è prevista dall’articolo 75 della Costituzione, secondo il quale 500.000 cittadini o 5 Consigli regionali possono proporre l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge. Successivamente, dopo il deposito delle firme, la Corte Costituzionale si pronuncerà sull’ammissibilità del referendum. Per fare un esempio, non sarebbe ammissibile un referendum abrogativo in materia tributaria, così come sarebbe inammissibile un quesito espresso in modo non chiaro, tale da indurre in errore i cittadini. Piercamillo Davigo, già Presidente della seconda Sezione Penale della Corte suprema di Cassazione, ha dichiarato che vi sono dubbi di ammissibilità sul referendum in questione, poiché potrebbe minacciare l’indipendenza della magistratura. Ma la questione è controversa, e non mancano autorevoli voci contrarie. Se verrà superato il vaglio della Corte, ci si rivolgerà ai cittadini, di norma tra il 15 aprile e il 15 giugno. Per ottenere l’abrogazione della legge dovranno partecipare alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto, e la
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votazione dovrà dare una maggioranza di “sì” al quesito abrogativo. Questo punto probabilmente sarà il più delicato: nelle ultime tornate referendarie (1997, 1999, 2000, 2003, 2005, 2009, 2016) ha sempre prevalso il non voto. Come si capisce, l’iter è complesso e piuttosto lungo. Ma andiamo ora ad analizzare nel merito le proposte, soffermandoci su alcuni nodi cruciali della riforma. Innanzitutto, si vuole introdurre la responsabilità diretta dei magistrati. Al giorno d’oggi il cittadino colpito da accuse inesistenti o che finisce in carcere da innocente non può chiedere direttamente conto al magistrato dei suoi errori. Il cittadino può presentare domanda di riparazione solamente allo Stato, in particolare rivolgendosi al Presidente del Consiglio. Lo Stato poi farà domanda di rivalsa nei confronti del colpevole. L’eccezione a tale procedura si ha nel caso di danno da reato (come nel caso di corruzione
in atti giudiziari), in cui il magistrato è direttamente responsabile. Un altro punto riguarda la separazione delle carriere di pubblico ministero e di giudice, poiché in Italia le due figure fanno parte dello stesso corpo giudiziario, e i giudici possono diventare Pm, e viceversa, più volte nel corso della loro carriera. La legge attualmente fissa un limite di quattro passaggi, con alcune restrizioni, come ad esempio l’impossibilità di cambiare ruolo all’interno dello stesso distretto. Poi, si vuole modificare il sistema di elezione del consiglio superiore della magistratura: al momento un magistrato che voglia candidarsi deve raccogliere dalle 25 alle 50 firme. Con il referendum si vorrebbe eliminare tale vincolo. Infine, si vorrebbe dare più spazio alla componente non togata nella valutazione professionale dei magistrati, limitare la possibilità di ricorrere al carcere preventivo e abrogare la cd legge Severino, eliminando pertanto l’automatismo dell’incandidabilità alle cariche politiche in caso di condanna per specifici reati. Vale la pena di ricordare che i quesiti referendari sono “indipendenti”, nel senso che l’insuccesso di uno dei sei referendum non preclude la possibilità che un altro giunga all’abrogazione di una norma.
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Storie di casa nostra di Waimer Perinelli
MISERIA E PIETÀ: LA SANTA DI SUSÀ Sono al cimitero di Susà, frazione di Pergine Valsugana, 536 metri sul livello del mare, 974 abitanti, ai piedi del Chegùl e delle Terre Rosse. E’ una ancor tiepida giornata di sole invernale. Il Camposanto è all’ombra della chiesa parrocchiale di San Floriano. L’aria è tersa, da qui si vedono distintamente la valle dei Mocheni, in basso il fiume Fersina e il centro di Pergine con la sua grande chiesa e, un po’ staccato, arroccato, il castello. I cimiteri di montagna sono spesso in posti panoramici come se i defunti volessero vedere il mondo dal luogo dove riposano.
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ono salito a Susà alla ricerca di una tomba in particolare. So che la defunta si chiama Rosa Broll, nata presumibilmente nel 1858. Non conosco la data della sua morte ma sono a conoscenza di alcuni particolari sconcertanti della sua vita e ad informarmi è un articolo di giornale scritto da Benito Mussolini. Il futuro duce era venuto in questo borgo minuscolo, dominio dell’Impero d’Austria, nel giugno del 1909, in qualità di giornalista, capo redattore del giornale Il Popolo di Cesare Battisti. Era salito da Trento, pare a piedi, per intervistare la stessa persona di cui cerco la tomba ovvero la donna chiamata per fede o ingenuità popolare, la Santa di Susà. Mussolini, era da quattro mesi in Trentino, dirigente della Camera del lavoro, socialista, attaccabrighe, profondamente anticlericale. Nell’articolo pubblicato il 12 giugno il giornalista descrive, con ironia verso la Chiesa e con toni umani, compassionevoli, l’incontro con Rosa Broll. Ecco la sua cronaca ““Dopo pochi minuti mi trovo davanti alla “ Santa” . Io m’aspettavo di vederla discendere dall’alto, adorna delle sacre costellazioni e invece compare da un uscio cigolante e sgangherato. Ho dovuto fermare il mio saluto perché lei mi ha gelato con un esordio di que-
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Santuario di Montagnaga
sto genere: «I cavalieri (i bachi da seta) non mi lasciano neppure il tempo di morire». – Ma troverete una mezz’ora per me? La «Santa», al secolo Rosa Broll, accoglie la mia preghiera e si siede.” Mussolini la descrive come una donna bassa, dai lineamenti secchi, dagli occhietti chiari, grandi, vivaci. Le chiome sono grigie, ma ricche. Aveva 51 anni. La storia per sommi capi è quella di una giovinetta sedotta e ingannata da un giovane prete il quale, per coprire poi le malefatte la tenne segregata in casa attribuendole opere di fede e miracoli. Mussolini
le chiede di raccontare la sua vicenda. “Voi supponete forse lo scopo della mia visita… Ho saputo dei vostri casi giovanili… La storia la conosco; però ignoro molti dettagli. – Oh! – esclama la Rosa – tutti sanno le mie avventure. – Ma voi sapete che passando da bocca a bocca la verità si altera sino a diventare una bugia. Ditemi, ricordate l’anno in cui avete conosciuto don Antonio Prudel?- Fu nel 1874.- E vi conobbe subito ?- Anca massa. Avevo allora sedici anni e lui ne aveva venti. Mi faceva la corte da alcune settimane e mi conquistò. Divenni la sua amante.- E mai sua
Storie di casa nostra
La Santa bambina
sposa?- Anca.”. In effetti il racconto prosegue con una finta cerimonia matrimoniale che, secondo Rosa, don Prudel, il seduttore, organizzò al santuario della Madonna di Pinè, per poi portarla a vivere in paese come fosse una cugina. Ma perché santa? chiede Mussolini“Io stavo chiusa giorno e notte in casa…risponde Rosa, La gente cominciava a mormorare… Si trovava strana
la mia reclusione… Allora don Prudel si mise a propagare la novella della mia santità. Due volte alla settimana veniva a comunicarmi, seguito da un gran codazzo di fedeli… Ogni venerdì, poi, regolarmente, mi faceva sudar sangue… Diventavo santa patoca.” Da lei si recavano contadini dei dintorni e da lontano portando doni e chiedendo grazie. Mussolini s’informa anche dei possibili figli avuti dalla donna. Una domanda: il vostro matrimonio con don Prudel è stato fecondo? – “Oh sì, abbastanza… ma poco fortunato… Il primo figlio – un maschio – fu abbandonato sulla porta della chiesa di Pergine ... Venne quindi raccolto ma dopo 15 mesi morì. – Permettete… Chi vi assisteva durante il parto? – Ma lui! Lui don Prudel! … – E dopo?- Abortii di quattro mesi e poi dopo un anno e mezzo circa ebbi una bambina. Questa fu portata di notte a Levico dentro una sporta e lasciata sulla soglia della chiesa.... – E
la bambina? . – Venne raccolta e riportata a Susà da una Luisa Carlini. Morì dopo una ventina di mesi, pora popa.” Da questa vicenda prese avvio un’inchiesta che portò ad un processo concluso senza conseguenze per il sacerdote che venne però trasferito in una parrocchia di San Lorenzo in Banale. Lei Rosa Broll, la Santa, perse ogni povera cosa. Sospettavo che non avrei trovato la sua tomba. Troppo povera per avere ospitalità tanto lunga in Camposanto, troppo modesta e ingenuamente scandalosa la sua vita. E’ il destino degli ultimi, dei poveri, di chi non ha voce. Benito Mussolini e Cesare Battisti ne fecero un atto d’accusa alla Chiesa e fu scandalo, subito dimenticato. Nella mia visita a Susà ho intervistato un po’ di abitanti: nessuno ricordava. Ma anche fosse, oggi con i tempi che corrono, di scandali ce ne sono ben altri e c’è grande lavoro per un Papa come Francesco impegnato nella moralizzazione della Chiesa.
Mussolini a Trento
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enito Mussolini arrivò a Trento nel febbraio 1909 perché chiamato dal Partito Socialista austriaco per dirigere l’Avvenire del Lavoratore e la Camera del Lavoro di Trento. Sotto braccio teneva la «Gazzetta dell’Emilia» che titolava «Cronache letterarie, il Futurismo»: un primo assaggio del Manifesto futurista di Filippo Tommaso Marinetti. Ad aspettarlo alla stazione c’erano Cesare Battisti con la moglie Ernesta Bittanti, e altri amici socialisti. Mussolini divenne ben presto caporedattore del Popolo (giornale socialista diretto da Battisti). I suoi articoli infiammarono l’animo dei “compagni trentini” scandalizzando gli esponenti del ceto medio e del clero. Considerato una minaccia, il pretesto per emanare il decreto di espulsione non tardò ad arrivare. Il furto alla Banca Cooperativa e la diffusione per mezzo stampa, alla redazione dell’Alto Adige, di un’edizione sequestrata dell’Avvenire del Lavoratore, fornirono alla polizia la giustificazione per arrestarlo. Processato a Rovereto fu poi scarcerato e condotto in auto a Mori, poi in treno ad Ala (dove fu salutato da un gruppo di compagni), per poi partire per Verona. Si chiudeva così l’esperienza a Trento del futuro Duce d’Italia: un’esperienza giornalistica e politica descritta da Luigi Sardi nel libro Il compagno Mussolini (2009, Temi). Nella città fedele all’Austria e al Papa, Mussolini contribuì a diffondere il verbo socialista e l’anticlericalismo con articoli come l’intervista alla Santa di Susà. (Andrea Casna)
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Musica e vita di Gabriele Biancardi
LA VITA E LO SPORT A SUON DI MUSICA
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a musica e il cibo hanno mille proprietà. Sul secondo punto lascerei stare, so fare a malapena un toast, per cui non metto becco. Sulla musica mi permetto un ragionamento. Non è una banalità ricordare che esiste una melodia per ogni situazione, un sottofondo per una cena romantica o un’infuocata serata, brani adatti alle riflessioni. Canzoni per combattere la tristezza o per accentuare la gioia. Si sfocia anche nella cura con la musicoterapia. Insomma, la musica è il filo conduttore di tutto ciò che ci accompagna e viviamo. Solo una volta in tutta la mia vita, ho incontrato una persona che mi ha confessato di non amare e quindi non ascoltare nulla. Devo dire che è stato scioccante, mai avrei pensato che si potesse non sentire mai nulla di nessun genere. Se ogni tanto i gusti differenti hanno scatenato discussioni, anche piuttosto accese, mi permetto di sottolineare che la musica è democrazia. Il mio giudizio ha lo stesso peso di chiunque altro. Secondo me non esiste bella o brutta, tuttalpiù suonata male. Ecco questo si. Qualunque orecchio anche non allenato, percepisce suoni stonati, fuori tempo e questo procura fastidio. Conosco fior fiore di professionisti in grado di snocciolare testi di Gigi d’Alessio o Claudio Baglioni, (da molti ritenuti autori banali) e allo stesso tempo, rudi boscaioli mostrare tutta la collezione di Salomon Burke o Dizzie Gillespie. Ma se torniamo a parlare di uso della musica, voglio fare un parallelismo con lo sport. Da venti anni ho il piacere di fare lo speaker al volley provinciale di eccellenza. A1 maschile
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e ora anche A1 femminile. So che può sembrare irrilevante, ma ad ogni stagione, uno degli argomenti più seguiti dagli atleti e atlete è la musica per il riscaldamento. Sì, proprio quella che va a tutto volume nei 45 minuti che precedono la partita. Nella mia immaginazione, ho sempre pensato che una scaletta fatta da grandi classici del rock, Ac/ Dc, Deep Purple, Living Colour e altri totem, andassero bene. Magari una spruzzatina un filino paracula con inserti di pop commerciabilissimi e sfruttati all’osso. Jump dei Van Halen, Final countdown degli Europe. Tutti noi abbiamo fatto qualche esercizio in palestra, con le cuffie a tutto volume su “gonna fly now”, brano che accompagna gli sforzi cinematografici di Rocky Balboa. Invece nel corso degli anni, i gusti si sono modificati, si sono plasmati attorno ai gusti e soprattutto all’età degli atleti. Ho visto una sorta di evoluzione e cambio di “tonalità”. Allora, pur soffrendo nell’autostima, da qualche anno faccio scegliere a loro. La tecnologia in questo senso aiuta moltissimo. Venti anni fa si andava i compact disc con un lavoro manuale piuttosto intenso. Ora arrivano loro con un cellulare e una scaletta fatta seguendo quelli che, secondo loro, sono i pezzi che possono, anzi devono, infondere carica agonistica. Ho dovuto ricredermi sullo stile, ero convinto che non si potesse scendere sono i 130 bpm, invece mi ritrovo, sopratutto con le ragazze, ad ascoltare insospettabili e reggaetton, qualche ballata trap. Gli uomini sono un pochino più basic, brani che attingono
I Queen (da Montagem new)
dalle classifiche pop con venature di indie. Non sono comunque convinto che valga per tutti. Mi sono accorto nel tempo che alcuni si estraniano completamente da ciò che echeggia al palatrento. Trovano o cercano la concentrazione in un silenzio interiore. Ma, da quando i Queen hanno scritto “We are the champions”, non c’è evento sportivo, dai mondali di calcio alla gara di briscola da Giggi er pataccaro, che non suoni a tutti volume! Ecco perché sono convinto che non solo la musica, ma tutta l’arte sia democrazia pura. Certo, puoi essere un musicista preparato che tecnicamente puoi spiegare le scale pentatoniche, oppure un arrangiatore che ti sa dire il perché vanno usati gli archi invece che i fiati. Ma alla fine, sei tu. Se “avrai” del già citato Baglioni è riuscito ad intaccare certe venature della tua sensibilità, puoi essere macho finché vuoi. Quando sei in macchina e parte con “avrai sorrisi...” tu muovi la testa e canti a squarciagola. Perché la bellezza è tutta qui. Nel poter immergersi in ciò che più ti emoziona.
Scrittori di casa nostra di Massimo Dalledonne
MATTEO LORENZI P
er Matteo “Kabra” Lorenzi è il secondo romanzo. Li ha scritti a quasi un anno di distanza uno dall’altro. Dopo Siero Nero, presente ancora nelle diverse librerie del Trentino e della Valsugana, ora tocca a “Kaeru”. È una parola giapponese dai tanti significati. Principalmente vuol dire “rana” ma significa anche “cambiare, sostituire, tornare all’origine, tornare a casa”. Un volume di 252 pagine. Un romanzo ricco di azioni e di intrecci che, come ricorda a Valsugana News lo stesso autore, gli è venuto di getto, quasi a urlare al mondo… Siero Nero era una cosa ma Matteo Lorenzi è anche questo! “Con Siero Nero – ci racconta – sentivo la necessità di fermare su carta un percorso, una vita, sentimenti, dolori ed emozioni. Poi ho deciso di seguire il mio estro creativo e voltare pagina con una storia che ha radici molto televisive e cinematografiche”. Di professione grafico pubblicitario,
Matteo Lorenzi ha una grande passione. La musica. Come si legge nel suo curriculum “dal 1998 suona in una rock band che propone brani inediti di cui è compositore sia per la parte musicale che per quella testuale. Autore anche di un musical per ragazzi, di cui ha firmato le canzoni e il copione, dal 2015 ha portato avanti un progetto parallelo di musica cantautoriale, con lo pseudonimo di Kabra, e svariate attività di collaborazione come compositore e collaboratore di rubriche musicali online, in cui si è occupato spesso di recensire uscite discografiche di artisti emergenti”. Alla musica ha dedicato il suo primo romanzo, Siero Nero. Ora, con Kaeru, ha cambiato stile e contenuti. Non più un libro dove si parla in prima persona. Con questo secondo romanzo ha deciso di evolversi e di affrontare tipologie diverse di scrittura. “Ho scelto di portare in primo piano gli eventi, i fatti nudi e crudi, spesso scevri da giudizi, lasciando al lettore il compito di costruirsi un sentimento, un moto emotivo verso i vari protagonisti della storia”. Tre i protagonisti del suo nuovo libro. Tre i protagonisti. Marcello Spatonzi, una delle persone più inutili sulla faccia della terra. Denny Di Venuto, il fortunatissimo vincitore di quella ormai famosa estrazione del Lotto del 2005. Ōshima Kobayashi, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico giapponese di scarso successo. E la trama? “Nella primavera del 2015 – ci racconta l’autore - un evento
Matteo Lorenzi durante la presentazione di Kaeru
di incredibile portata sta per cambiare totalmente le abitudini della famosa cittadina di Corintola Terme. Un esperimento sociale estremo e senza precedenti si abbatterà con imprevedibili conseguenze sulla vita di un suo abitante, scelto tra milioni di potenziali protagonisti ignari in tutto il mondo, travolgendo come un fiume in piena soprattutto il destino di alcuni personaggi: Marcello, Denny e Ōshima. Tre figure agli antipodi tra loro. Uomini totalmente immersi nelle proprie diversissime vite che tuttavia scopriranno sulla loro pelle di avere in comune moltissime cose, e non certo per pura casualità. L’intreccio imprevedibile degli eventi li porterà alla resa dei conti, con la consapevolezza che alla fine, per quanto possiamo credere di essere liberi, c’è sempre qualcuno o qualcosa più grande di noi, artefice dei nostri destini”. Un romanzo destinato agli amanti del thriller. Un libro scritto di getto da Matteo Lorenzi che sarà presente venerdì 19 novembre, alle 18.30, alla presentazione del libro presso la biblioteca comunale di Borgo Valsugana.
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Economia e Finanza di Emanuele Paccher
Alla scoperta del PIL
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l prodotto interno lordo (PIL) è il valore dei prodotti e dei servizi realizzati all’interno di uno Stato in un determinato periodo di tempo, generalmente di un anno. Nel calcolo conta la realtà geografica in cui un prodotto o servizio viene realizzato: se un’impresa tedesca vende nel territorio italiano, il valore delle sue vendite entrerà a far parte del PIL dell’Italia; così come se un’impresa italiana opera nel territorio francese, il valore delle sue prestazioni entrerà a far parte del PIL della Francia. Tale indicatore economico è definito “lordo” poiché comprende anche gli ammortamenti, ossia il deprezzamento di tutti gli apparati che compongono il sistema produttivo, i quali perdono valore con il decorso del tempo e con il loro utilizzo. Andando un po’ più nello specifico, il PIL è dato dal seguente calcolo: consumi delle famiglie + spese per investimenti + spesa pubblica + esportazioni – importazioni. In sostanza, il PIL è il reddito complessivo che un paese è in grado di produrre nel corso di un anno solare. Ma a cosa serve il PIL? Il PIL è uno dei principali indicatori di salute di un sistema economico, dato che rappresenta la capacità del sistema di produrre e vendere beni. Spesso è poi utile ricavare il PIL pro capite, ossia il PIL diviso per il numero di abitanti del Paese, in modo da ottenere la ricchezza media annua prodotta da ciascun individuo. Questo indicatore è particolarmente importante poiché sull’andamento passato e presente del PIL gli economisti possono fare stime sugli andamenti futuri, decidendo come e dove destinare le risorse economiche. In prima battuta possiamo dire che avere un elevato prodotto interno lordo significa poter godere di una migliore qualità della
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vita all’interno di uno Stato. Il confronto, tanto discusso specialmente in ambito europeo, tra deficit e PIL consente di comprendere la capacità di uno Stato di fare fronte agli impegni presi. Compresa quindi l’indubbia rilevanza che il prodotto interno lordo ha sulla salute della nostra economia, occorre porsi una domanda fondamentale: ma un PIL elevato comporta necessariamente un maggiore benessere sociale? Molti aspetti ci inducono a rispondere negativamente. Innanzitutto il PIL tiene conto solo delle transazioni in denaro, tralasciando tutte le prestazioni a titolo gratuito, come quelle svolte in ambito familiare e quelle di volontariato. In alcuni Stati in via di sviluppo, in cui l’economia è prevalentemente familiare, una strategia di sviluppo basata esclusivamente sulla crescita del PIL può far diminuire il benessere di questa popolazione. Dopodiché, e forse questo è l’aspetto prioritario, il PIL non fornisce alcuna misura della distribuzione del reddito all’interno della società. Una società in cui vi è una enorme ricchezza, la quale però è distribuita tra pochi ricchi e moltissimi poveri, ben difficilmente potrà
considerarsi felice. Stati con PIL simile possono avere differenze notevoli in termini di distribuzione del reddito, e quindi differenze enormi in termini di benessere. Infine il PIL tratta tutte le transazioni come positive: anche il riciclaggio del denaro entrerà a farne parte, così come i profitti generati da imprese che provocano un grandissimo inquinamento atmosferico e persino i ricavati delle imprese funerarie. Con un po’ di sarcasmo il filosofo Zygmunt Bauman ha detto: “Se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il PIL non cresce”. In conclusione, il PIL è ancora oggi un importantissimo indicatore economico capace di fotografare quella che è la ricchezza di un Paese, specialmente guardando al PIL pro capite e confrontandolo poi con il deficit di bilancio. Tuttavia, non bisogna elevarlo ad indicatore salvifico e portatore sempre e comunque di benessere. Un PIL elevato non per forza ci rende più felici.
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Anche la preghiera contro il Covid di Claudio Girardi
LA COMUNITÀ DEGLI SCALZI ALLE LASTE
Come un santuario può aiutare nel 2021
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utto comincia nella seconda parte del 1500, con un capitello posto poco fuori Trento, al bivio delle strade per la Valsugana e il Nord; il capitello è decorato da uno splendido affresco raffigurante la Madonna con il Bambino: lo stesso di oggi! Con il tempo, Il capitello è diventato chiesetta in legno; la chiesetta è diventata poi il santuario di oggi. Nel 1641 i Carmelitani Scalzi di Austria assumono la cura pastorale del santuario e edificano un grande convento. A seguito degli sconvolgimenti della rivoluzione francese, il convento fu requisito e i frati espulsi; l’edificio del convento fu usato per svariate funzioni. Nel 1941 i Carmelitani della Provincia Veneta, in accordo con il Vescovo di Trento, tornano a servizio del Santuario, provvedendo a un sostanzioso restauro del convento. Oggi la comunità è composta da un decina abbondante di religiosi, con il compito di curare la formazione dei giovani desiderosi di consacrarsi al Signore nel Carmelo. Ne parliamo con padre Gianni Bracchi, maestro dei Novizi del convento di Trento.
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Il santuario della Madonna delle Laste (Trento)
Padre Gianni chi frequenta il santuario? Il santuario della Madonna delle Laste è ufficialmente riconosciuto come santuario diocesano; la devozione alla Madonna delle Laste è molto diffusa e sentita, sia in città che nelle valli del Trentino. Vengono persone di ogni età, singolarmente, come famiglie o gruppi di pellegrini. Non si tratta di
grandi numeri; ma il raccoglimento e la preghiera sono certamente intensi. Molti vengono per essere accolti in confessione e nel colloquio dai Padri, sempre presenti. A volte si tratta di incontri occasionali e brevi; a volte di un cammino che tende a diventare stabile e duraturo. Per accogliere bisogna essere preparati. Come si svolge la vostra vita quotidiana? Il ritmo della vita è dettato dall’amore per Gesù, dall’attenzione ai confratelli e dalla cura per del santuario e del popolo di Dio. La preghiera comunitaria scandisce la vita dei frati: mattina, mezzogiorno, tardo pomeriggio e sera. Ogni giorno c’è la celebrazione Eucaristica con la presenza dei fedeli; non manca mai una breve riflessione sulla Parola di Dio. Ma al cuore di tut-
Anche la preghiera contro il Covid e di ricreazione; tempo per lo studio e la preparazione all’apostolato; la cura e la manutenzione della casa e del grande giardino, l’attenzione ai bisogni degli anziani e degli ammalati, le spese a fare, ecc. Ognuno dei fratelli ha un suo compito, all’interno o all’esterno della comunità, tutto vissuto nell’obbedienza al Priore che “tiene il posto” di Gesù.
Il Santuario della Madonna delle Laste a Trento (da Pineta Hotels)
to, ci sono i due momenti di Orazione Mentale: è la preghiera personale, il rapporto di intimità con Il Signore, che deve estendersi in tutti i gesti della giornata: affinché preghiera e vita arrivino a coincidere! Ci sono momenti settimanali di verifica della vita comunitaria; tempi di fraternità
Dopo il covid secondo Lei sono aumentati i poveri che bussano al convento? Certamente; c’è chi aiuta noi frati, e noi aiutiamo altri che hanno bisogno: con una mano si riceve, con l’altra si dona. Un mio confratello ama spiegare che ci sono te categorie di poveri: i poveri che non hanno niente per vivere; i poveri che non hanno nessuno con cui vivere; i poveri che non hanno perso le ragioni per
vivere. Da noi vengono soprattutto le ultime due categorie di poveri. Noi cerchiamo di offrire loro accoglienza e compagnia, per seguire insieme Gesù: Via, Verità e Vita. C’è qualche cosa di particolare nel vostro santuario? Un aspetto interessante è quello della cura del canto liturgico. Abbiamo due corali: una di adulti, e una di giovani, che animano le Messe della Domenica mattina. Oltre che essere un momento aggregativo e formativo per i coristi stessi, la corale diventa uno strumento di evangelizzazione e di testimonianza: sia nel santuario, sia in altre chiese. Abbiamo avuto molte richieste di Concerti-meditazione in giro per la Diocesi di Trento e anche altrove. Dopo la pausa dovuto all’obbligo distanziamento, speriamo che questa bella attività possa riprendere.
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La giornata del donatore di Nicola Maschio
Cento volte ADMO Trentino: appuntamento con la storia
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i sono voluti quasi trent’anni di attesa, ma finalmente è stato raggiunto un traguardo storico. Tanto è passato da quel 1992, anno di fondazione di ADMO (Associazione Donatori Midollo Osseo) Trentino, quando i primi aspiranti donatori hanno indicato i loro nomi, pronti ad essere contattati in caso di necessità. E lo scorso ottobre, nella sede dell’associazione in vicolo San Marco, la grande festa della “Giornata del donatore” è stata dedicata al raggiungimento dei 100 trentini che, in tutti questi anni, hanno potuto donare il proprio midollo osseo. Un vero e proprio appuntamento con la storia, dicevamo, soprattutto alla luce delle difficoltà legate al processo di donazione: l’iscrizione infatti è semplice da fare, ma va compiuta tra i 18 ed i 36 anni, spazio temporale in cui è possibile svolgere la tipizzazione, ovvero un prelievo del sangue specifico per questo tipo di operazione. Dopodiché, l’attesa. E la speranza, per qualcuno, che ci siano donatori compatibili. Attualmente infatti sono 8.500 i trentini presenti nell’ampio registro nazionale (in cui è possibile restare fino all’età di 55 anni) pronti a ricevere una telefonata, mentre gli iscritti ad ADMO Trentino sono circa 11.200. Eppure, come spiegato poche righe fa, le probabilità di associare donatore e ricevente sono bassissime: solo nelle famiglie si parla di 1 su 4 in termini di compatibilità, ma non essendoci più grandi nuclei famigliari, come invece accadeva diversi anni fa, questa statistica si è abbassata notevolmente; se pensiamo invece
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alla compatibilità con un soggetto non consanguineo, il dato è impressionante e riporta una possibilità su 100.000. Ecco perché, hanno spiegato gli operatori di Admo (che vanta testimonial d’eccezione come il pallavolista Simone Giannelli o la tuffatrice Francesca Dallapè) ed in particolare la presidente, Ivana Lorenzini, non bisogna mai fermarsi ed anzi, servirà continuare su questa strada cercando di reperire almeno 700 donatori all’anno nella sola provincia di Trento. <<ADMO Trentino ci tiene a ringraziare personalmente chi ha reso possibile tutto questo: i donatori, la vera linfa vitale e cuore pulsante dell’associazione – ha aggiunto Lorenzini. - Alcuni di loro hanno messo da parte le proprie paure, tutti si sono messi a disposizione completamente e con grande generosità, compiendo un gesto che racchiude amore per il prossimo. Un prossimo che non conosceranno mai, perché la donazione è gratuita e anonima. È difficile immaginare un gesto che sia più altruista di questo. Ed ora avanti, perché c’è grande bisogno di ampliare la nostra platea di donatori, di creare rete e di
instaurare nuovi rapporti con tutti coloro i quali vorranno mettersi a disposizione>>. Interessante, infine, un focus rispetto all’emergenza sanitaria: come spiegato infatti dalla stessa associazione in una nota ufficiale, “Nel 2020, nonostante la pandemia, la nostra provincia si è distinta per la sua generosità. Sono infatti stati 11 i donatori effettivi, un dato altissimo per la nostra provincia. In pieno lockdown, quando tutta l’Italia si è fermata, al Trasfusionale di Trento 2 donatori hanno donato il proprio midollo, superando gli ostacoli dovuti al Covid. A fronte di ciò la direttrice nazionale del Registro Italiano, dott. ssa Nicoletta Sacchi, ha elogiato la nostra Associazione per il risultato raggiunto, non solo per i donatori effettivi, ma anche per l’alto numero di nuovi iscritti, ben 680”. Infine, nella medesima nota, ADMO ha ribadito alcuni principi chiave che portano alla donazione: “Da quasi 30 anni l’associazione promuove il messaggio del dono, attraverso incontri scolastici, serate informative e momenti legati allo sport, nella speranza che molti giovani diventino speranza di vita! Per diventare potenziali donatori di midollo osseo, è
La giornata del donatore necessario avere un’età compresa tra i 18 e i 35 anni, pesare più di 50 chili e godere di buona salute. Una volta inseriti nel registro nazionale tramite un prelievo di sangue chiamato “tipizzazione”, il potenziale donatore resterà disponibile fino ai 55 anni di età”. Rispetto ad una panoramica più nazionale e generale invece, ADMO conta 500.023 soci (ultima rilevazione effettuata nel 2020), dei quali gli iscritti nell’ultimo anno sono stati 20.960; le donazioni effettive, sempre la generalità, sono state ad oggi 4.593 (numero elevato seppur, ricordiamo la compatibilità è vicina ad 1 su 100.000), mentre solo nel 2020 sono state 288 quelle andate a buon fine. Per iscriversi, ricordano gli operatori, è necessario semplicemente contattare l’associazione, in attesa poi di poter aiutare concretamente. ADMO Italia: dati incoraggianti, ma si continua a cercare Se a livello trentino i dati di Admo sono incoraggianti, lo stesso si può dire per quanto riguarda il panorama nazionale. Vale la pena ribadire i dati italiani, già espressi nel precedente articolo inerente lo stato dell’arte della nostra provincia. In Italia ADMO conta 500.023 soci complessivamente a fine 2020, dei quali gli iscritti nell’ultimo anno sono stati 20.960. Le donazioni effettive, considerando
sempre il dato generalizzato, sono state ad oggi 4.593 (numero elevato seppur, ricordiamo la compatibilità è vicina ad 1 su 100.000), mentre solo nel 2020 sono state 288 quelle andate a buon fine. In Trentino, lo scorso 2 ottobre si è festeggiata la “Giornata del donatore”, visto il raggiungimento dei 100 iscritti che, concretamente, hanno potuto svolgere il processo di donazione nei confronti di anonimi riceventi (ricordiamo infatti che, per questioni di privacy, non è dato sapere chi sarà il beneficiario dell’operazione). E con i suoi 8.500 iscritti, presenti nell’ampio registro nazionale (in cui è possibile restare fino all’età di 55 anni) pronti a ricevere una telefonata, e circa gli 11.200 potenziali, anche la nostra piccola provincia può dare davvero un contributo fondamentale. Le fasi per diventare donatore, come spiegato dal sito nazionale di ADMO, sono abbastanza semplici. Per prima, l’iscrizione: “Parte tutto da qui – si legge sulla pagina. - Iscriviti e sarai contattato dalle sede ADMO per fornirti tutte le informazioni necessarie e indicarti le modalità per diventare potenziale donatore o donatrice di midollo osseo”. Poi la parte definita “tipizzazione”, ovvero l’analisi di un campione di sangue o di saliva dalla
quale è possibile estrapolare il profilo del donatore, di modo che sia poi inserito nell’IBMDR (il Registro Italiano Donatori Midollo Osseo); terza fase, il “match”, ovvero la verifica della potenzialità di donare ad uno specifico ricevente (in questo caso inizia il vero percorso “comune”, con un procedimento di circa quattro ore in ospedale che consente il trasferimento del midollo osseo). Ultima fase, il trapianto, dunque la conclusione dell’attività di donazione. Ed i numeri, in effetti, sono in aumento: si pensi che i dati pubblicati nel sito del Registro Italiano IBMDR relativi all’attività di reclutamento donatori e di gestione dei trapianti di midollo osseo per l’anno 2015, segnalavano un incremento di 18.702 nuovi iscritti che hanno consentito il raggiungimento di quota 361.413 donatori totali attivi. Circa 150 mila dunque coloro che, in appena cinque anni, hanno deciso di mettersi in gioco per la salute (e la vita) di altre persone. Certo, c’è ancora da lavorare ed anzi, occorrerà guardare con attenzione al futuro: il report annuale 2020 di IBMDR ha infatti evidenziato che, nel mondo, l’Italia si trova al dodicesimo posto per numero di donatori, mentre al primo troviamo Stati Uniti ed al secondo la Germania (con più di 9 milioni di persone). All’ultimo posto invece la Francia, con poco più di 320 mila potenziali donatori, mentre a livello europeo è l’Austria il fanalino di coda (162 mila donatori).
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Accade nel mondo
di Guido Tommasini
TAIWAN: un’isola al centro di opposte strategie
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’egemonia era una caratteristica dei rapporti con l’estero dell’antica Cina per la quale i paesi limitrofi e viciniori riconoscevano la supremazia dell’imperatore cinese inviando periodicamente dei tributi. Taiwan(Formosa), un’isola rientrante in quell’area era stata anticamente popolata da popolazioni austronesiane e frequentata da pirati coreani. Poi, dopo un periodo di colonizzazione spagnola, portoghese e soprattutto olandese, a partire dalla fine del Seicento s’integrò gradatamente nell’impero cinese della dinastia Qing. Fu quindi conquistata dai giapponesi nella guerra sino-giapponese del 1895, ma alla fine della seconda guerra mondiale divenne la Repubblica di Cina, che di fatto consisteva nella ricostituzione sotto forma di regime di ciò che restava del Kuomitang di
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Chiang Kai Shek il quale aveva ivi trovato rifugio. Le origini della Cina di oggi si possono far risalire al 1924, quando venne istituita l’ Accademia militare di Whampoa su iniziativa del rivoluzionario cinese Sun Yat Sen, ma organizzata dal Comintern sovietico che inviò in Cina il comandante “Maring”. Era un’ accademia per ufficiali del Kuomitang(partito nazionalista cinese) formata allo scopo di strappare il territorio ai cosiddetti – Signori della Guerra – . Nella stessa circostanza venne approvata l’alleanza dell’Unione Sovietica con il Partito Comunista Cinese. La Cina di oggi ha quindi le sue origini dentro Whampoa, perché in quell’accademia passarono, fra nazionalisti e comunisti,
Accade nel mondo tutti i principali protagonisti della sua storia del secolo scorso: Chu En Lai, Lin Piao, Mao Tse Tung(come conferenziere), unitamente a Chiang Kai Shek, prima alleati, poi nemici. La Repubblica di Cina, comunemente nota come Taiwan rappresenta quindi anch’essa un residuo di quel periodo storico in quanto dopo le vittorie dei comunisti di Mao contro gli invasori giapponesi e contro il Kuomitang di Chiang Kai Shek, quest’ultimo si trasferì nel 1949 proprio in quell’isola con il suo apparato politico e molti fuggiaschi dal comunismo, fondando uno stato indipendente che poi fece anche parte del’ ONU fino al 1971 quando venne estromesso e sostituito proprio dalla Repubblica Popolare Cinese. La Cina Popolare anche dopo la vittoria continentale aveva sempre mantenuto un atteggiamento da conquistatore contro quel regime. Famosa è la risposta di Chu En Lai quando nel 1949, a guerra finita, gli chiesero in una rara intervista che tipo di rapporti avessero con Formosa: “Certo che abbiamo dei rapporti. La bombardiamo”, disse. Attualmente la Cina Popolare rivendica ancora Taiwan come parte integrante del proprio territorio, nell’ambito complessivo di 200 punti chiave fra isolette e scogli e ciò anche per il fatto che essa occupa una posizione strategica senza la quale la stessa Cina Popolare rimarrebbe confinata all’interno della cosiddetta – Prima Catena di Isole -. D’altro canto Taiwan è anche un caposaldo della strategia degli Stati
Uniti in quell’area perché se l’abbandonassero, ciò si ripercuoterebbe su tutti gli altri stati come Giappone, Singapore, Corea del Sud, Filippine che stanno sotto il loro ombrello difensivo. Sarebbe una catastrofe ma non comprometterebbe la sovranità degli Stati Uniti. Al contrario secondo il politologo Deng Yuwen del China Strategic Analysis Center la rinuncia della Cina Popolare a Taiwan comprometterebbe sia la sopravvivenza del Partito Comunista sia la sua identità nazionale. La partita è aperta e come potrà finire è difficile da prevedere. Si può averne una vaga idea attraverso paragoni con situazioni similari, ma non analoghe. Un esempio potrebbe essere la vicenda delle isole dell’arcipelago Hoang Soa(Isole Paracels) che si svolse nel modo seguente: nel 1974 a guerra ancora in corso fra Repubblica Democratica del Vietnam (Hanoi ) compreso il Fronte Nazionale di Liberazione da una parte e Repubblica del Vietnam(Saigon) dall’altra, quest’ultima ormai praticamente sconfitta stava per arrendersi. Il 19 Gennaio di quell’anno, la Cina, alleata della R.D.V. Inviava allora forze navali ad aeree a conquistare il citato arcipelago da sempre vietnamita, ma che in quel momento stava ancora sotto l’autorità di Saigon. Lo scopo era quello di accaparrarsi il controllo del Mar Orientale ed anche il possesso degli enormi giacimenti petroliferi sottomarini sottostanti e questo avvenne con il tacito consenso di Washington.
Bisogna premettere qui un discorso e cioè il fatto che agli inizi della guerra americana in Vietnam(1963), la stessa veniva ancora considerata una guerra indiretta contro la Cina per cui fra i due paesi c’era un’alleanza perfetta. Successivamente l’Unione Sovietica acquisì anch’essa un ruolo importante quanto ad appoggio e rifornimenti al Vietnam, tanto che nelle manifestazioni di allora a favore del Vietnam si udiva spesso declamare la seguente parola d’ordine: “Russia, Cina, unite in Indocina”, ma le cose a quel punto non stavano più così, perché alla fine le mire della Cina si erano fatte anche territoriali, tanto da permettersi un atteggiamento da grande potenza, frodando l’alleato vietnamita. Nelle isole Truong Soa (Spratly), successe la stessa cosa, con la Cina che s’impadroniva di altre isole secolarmente vietnamite. Questo per dire che, quando si presenta il momento favorevole, la Cina si è trovata già una volta pronta per fare il balzo in avanti.
COMUNICATO DI REDAZIONE Inizia con questo numero la collaborazione con il dott. Emanuele Paccher, laureato presso l'Università degli studi di Trento nel corso “ Amministrazione aziendale e diritto”, con valutazione di 110 e lode. Attualmente è studente presso l'Università degli studi di Padova per il conseguimento della laurea in Giurisprudenza. Il dott. Paccher curerà le rubriche di politica, attualità, economia e finanza.
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Il benessere psichico di Franco Zadra
L’haiku, poesia che cura Una cosa di cui serve fare continua memoria, soprattutto a beneficio delle famiglie, anche se ormai pare un’assodata acquisizione nell’approccio terapeutico ai soggetti con disturbi alimentari, in Italia seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali, è che questi «non sono capricci – come scriveva su un quotidiano una giovane uscita dall’anoressia dopo 10 anni di alti e bassi fino a trovarsi a «un filo dalla morte» -, non sono un voler essere più magri, ma è un dolore dell’anima e un disperato urlo di aiuto! Non lo si cura solo mangiando, ma dando voce ai propri pensieri, affidandosi a professionisti!». Per questo la poesia haiku si sta dimostrando un efficace supporto terapeutico, adottato persino da qualche Asl in Italia.
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i è da poco conclusa a Torino l’ottava edizione della kermesse “alternativa” Robe da matt* 2021 che pone l’accento sul benessere psichico anziché sulla malattia, con l’obiettivo di proporre in particolare agli operatori sanitari, ma a tutti gli utenti della Rete, le più recenti innovazioni in tema di salute mentale, focalizzando l’attenzione sulle “buone pratiche”, obbedendo al mandato che il Piano della Prevenzione Regionale Piemontese e l’Asl Città di Torino rinnovano ogni anno, invitando i servizi a promuovere azioni di sensibilizzazione su temi particolari raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Salute. Tra le novità di quest’anno, registrato in un Live di FaceBook, un webinar dal titolo “Poesia che cura: l’haiku nella medicina narrativa”, con la partecipazione di Simonetta Marucci, endocrinologa e ricercatrice che in un ospedale pubblico di Todi cura da 15 anni disturbi alimentari femminili anche con l’ausilio della poesia haiku, e di Mario Bolognese, scrittore, che conduce laboratori di introduzione all’haiku. Nell’occasione dell’evento ha anche presentato il suo secondo libro su l’haiku, “Haiku dalla terra bambina”, Edizioni del Faro, Trento, «nel quale – dice Mario Bolognese - seguendo il consiglio di Gaston Bachelard, rivivo la mia infanzia facendone una “poeti-
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co-analisi” in haiku». L’haiku è un componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo, composto da tre versi per complessive diciassette “more” o suoni (non sillabe), secondo lo schema 5/7/5, che la dottoressa Marucci fa comporre con un certo successo terapeutico, alle adolescenti con disturbi alimentari, e Bolognese compone di suo, avvicinando a questa abilità espressiva bambini e bambine, anche facendo disegnare loro quello che lui chiama “il paesaggio emozionale interno”, coinvolgendo anche genitori e insegnanti, «non tanto con l’intento – dice Bolognese – di produrre haiku, perché ciascuno deve trovare la sua strada, ma solo come introduzione all’haiku per mettersi alla scuola di bambini e bambine, capaci di vibrare con l’Universo e diventare quello che vedono. Il mondo adulto ha una chiara difficoltà di vedere il mondo interiore che affiora dal disegno libero di bambini e bambine, ma lavorando sulla bellezza, e non sul giudizio, di quella emozione diventata paesaggio la persona trova da se un percorso che è di guarigione». Per la dottoressa Marucci, «impegnarsi in un esercizio mentale per esprimere in un piccolo spazio le proprie emozioni, attraverso lo schema 5/7/5, ha un primo fondamentale effetto terapeutico in chi soffre di disturbi alimentari,
dove la caratteristica principale è la presenza di un pensiero ossessivo che invade la mente e non lascia spazio ad altro, poiché porta a eliminare il superfluo e quello che non serve. Una meditazione sulla parola che si rivela estremamente utile». Nel corso del webinar, da vedere e rivedere, Marucci e Bolognese portano molte interessanti considerazioni sulla pratica terapeutica della poesia haiku, non solo rispetto all’ascolto delle adolescenti colpite da disturbo alimentare, ma anche al riguardo degli operatori che, per essere efficaci e portare aiuto ai pazienti, devono anch’essi avere consapevolezza del loro mondo interiore e conoscere bene le loro emozioni. È possibile contattare Mario Bolognese per laboratori di introduzione all’haiku, scrivendo a canticocreature@gmail.com.
Fatti & Misfatti di Patrizia Rapposelli
Piazze in rivolta, Paese che bolle
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a Nord a Sud l’Italia è in rivolta. Rischiamo il punto di non ritorno? Le proteste contro le nuove misure imposte dal Governo sono terreno fertile per gli infiltrati estremisti o semplicemente i violenti. Forse serve uno sforzo d’interpretazione non comune. La piazza è da sempre democrazia, è partecipazione, è sana. Forse nell’idea di quella parte d’Italia a cui piace la piazza e non fa attenzione alla qualità dei piazzisti. A ritmi alterni, da Nord a Sud, la massa in platea è una brutta bestia. Non è il luogo migliore dove ragionare. I fatti sono stati una tragedia. Non sono emerse proposte ragionevoli, ma violenza e un Italia che bolle. Attacchi da condannare. Il governo rosso ha urlato fascisti. A Milano c’erano gli anarchici. A Roma i neofascisti hanno assaltato la Cgil e tutto quello che ne è seguito sembra avere segnato uno spartiacque tra un prima gestibile e un dopo carico di tensione sociale. Indiscusso, la piazza non era tutta fascista. Inevitabilmente però l’attenzione mediatica è caduta su questo grave fatto, forse aiutato anche dalle amministrative alle porte. A Milano, la controparte era pronta a fare lo stesso, ma è stata ben contenuta. La gigantografia del presidente Draghi brucia. I cortei sono gli scatti fotografici, nell’ultimo periodo, delle città italiane. E, lo fanno da mesi, sono eterogenei, senza una leadership evidente. In fondo, le masse che alcuni chiamano “no vax” non esistono. Abbiamo cattolici tradizionalisti e libertari, marxisti e indipendentisti, i delusi delle formazioni di destra ed ex M5S, difensori dei beni comuni e liberali schierati a difesa dei diritti dei singoli. E, i violenti. A cui piace creare violenza anche dove non c’è. Semplicistico
sarebbe ricondurre le manifestazioni a delle parti opposte alla democrazia, o alle decisioni del governo. Nel Paese c’è una sofferenza reale. Al di là di una violenza sempre e comunque da rigettare, c’è poca voglia di parlare delle implicazioni, che il dramma della pandemia ha scatenato in una larga fascia di italiani, da parte di chi ricopre una responsabilità nelle amministrazioni, nelle istituzioni politiche, sociali e nei media. Forse quarant’anni fa si poteva parlare soltanto di una parte politica, sociale e sindacale del Paese che si oppone ad un’altra, organizza i movimenti e le proteste. Adesso, di mercato delle emozioni, del risentimento, della rabbia. Alcuni cittadini sono sopraffatti da collera e disagio, non irrazionali. Infatti, non tutto il Paese ha pagato e paga in egual modo l’emergenza, è naturale dirlo. Il 62 per cento degli italiani non ha avuto alcuna conseguenza reddituale, mentre il restante ha visto l’introito ridursi vertiginosamente. All’interno di questo contesto fa da cornice l’irresponsabilità di chi non è riuscito a mandare un messaggio unitario fin dall’inizio del calvario emergenziale.
Anzi i comunicati sono oscillati prima da una parte e poi dall’altra. Il clima ha creato confusione. È un Italia sfinita? Poi, inutile negare lo sfondo oscuro di chi ha speculato davanti alle turbolenze del Paese. La piazza diventa lo sfogo delle frustrazioni di chi non governa. Opinabili o meno le proteste, c’è da dire che il presente che avvolge l’Italia è chiaro. Gas + 30%, luce + 40%, benzine + 30%, gas e metano + 30/50%, alimenti + 30/50%. Ancora, una famiglia su 4 sotto la soglia di povertà; nel 2020 oltre trecentomila attività saltate, nel 2021 l’inizio del cedimento sociale. A fronte di tanto sfacelo, il Paese è forse schiacciato. Non si può escludere neppure che prima del 2023 lo slancio delle piazze si spenga, che magari torni la normalità e che qualche altra questione finisca per occupare le prime pagine dei giornali. E se così non fosse? Se le piazze, rivendicando controllo e monopolizzazione di alcune parti, continuassero a macinare una protesta a fronte di un’alleanza di culture e una costellazione di città? Potrebbe essere l’avvio di un vero e proprio punto di non ritorno.
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Fatti e misfatti di Franco Zadra
Una CATASTROFICA riforma del CATASTO
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er uscire della pandemia l’Unione Europea ha imbastito un programma, noto come Next Generation EU (NGEU), mettendo sul piatto 750 miliardi di euro per sei anni, fino al 2026, dati in sovvenzione per circa la metà, mentre l’altra metà consiste in prestiti a tasso agevolato. In ordine a questo programma è nato per l’Italia il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) con la previsione di relativi investimenti e un coerente pacchetto di riforme, per un totale di fondi che ammonta a circa 250 miliardi, per la digitalizzazione e innovazione, la transizione ecologica, e l’inclusione sociale. Un intervento che intende riparare i danni economici e sociali della crisi pandemica, contribuire a risolvere le debolezze strutturali dell’economia italiana, e accompagnare il Paese su un percorso di transizione ecologica e ambientale. Un piano che destina 82 miliardi al Mezzogiorno su 206 miliardi ripartibili secondo il criterio del territorio, nel quale il Governo italiano ha inserito anche una riforma del fisco che negli intenti vorrebbe una sua semplificazione e una progressiva riduzione dell’imposizione fiscale. Un’apposita Commissione bilaterale, tra Camera e Senato, ha redatto quindi un documento nel quale però non si individuano indicazioni sulla riforma del Catasto che il Governo sta elaborando in palese contrasto con il Parlamento, per una revisione delle rendite catastali e, nello specifico, andrà a distinguere gli immobili tra ordinari, speciali, e culturali, cambiando tra l’altro l’unità di misura per determinarne il valore patrimoniale, passando dal numero di vani dell’im-
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mobile, ai metri quadri, aggiornando le banche dati immobiliari con i dati raccolti dalle dichiarazioni dei redditi. Un primo effetto di questa riforma, come denunciano i più avveduti ed esperti del settore, porterà a un incremento esponenziale sull’Imu per la seconda casa, e uno studio condotta da Uil, Servizio Lavoro, Coesione e Territorio, stima tale aumento addirittura al 128% come media nazionale, con punte del 183% su Roma, fino al 189% su Venezia. Una revisione delle rendite catastali, come si apprende anche da precise e sconcertanti dichiarazioni fatte dal presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa, a La Verità, impatterebbe inoltre sul peso che la prima casa ha nel calcolo dell’Isee che l’aggiornamento degli estimi gonfierebbe mediamente di 75mila euro escludendo di colpo molte persone che prima ne avevano diritto da varie agevolazioni, come sconti sulle mense scolastiche, rette degli asili nido, tasse universitarie, bonus affitti, bonus bollette, rette delle Rsa, residenze sanitarie assistite, mentre altri, senza che sia cambiato nulla nel loro contesto esistenziale,
ma solo sulla carta, si vedrebbero esclusi dai programmi di sostegno alla povertà. Nonostante questa che appare agli addetti ai lavori «una disastrosa batosta annunciata» che inciderebbe inevitabilmente pure sulle compravendite, legate ovviamente al valore catastale, il Governo Draghi continua a ribadire che la riforma del catasto non è una patrimoniale, e non ci sarà un aumento del carico fiscale sulle case degli italiani. Per Mario Draghi, si tratta di «un’operazione di trasparenza, dura 5 anni e sulle tasse una decisione ci sarà nel 2026, ed è anche possibile che la revisione delle rendite possa portare al calo dell’imposizione fiscale». I “conti della serva” però dicono un’altra cosa e pare evidente che ci sia da salvaguardare più un interesse europeo che vorrebbe delle solide (e più facili) garanzie in ordine all’ingente debito in capo agli italiani sdoganato con il nome di Recovery Found. Molto più complicato sembra andare a riscuotere le tasse mai pagate per oltre un milione di immobili invisibili al Catasto, che non appariranno nemmeno dopo questa riforma.
Attualità di Nicola Maschio
Trento ha il suo Tempio crematorio: un’attesa durata vent’anni
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l Tempio crematorio finalmente consegnato non solo alla città di Trento, ma a tutta la nostra provincia. Una cerimonia solenne quella che si è tenuta lo scorso mese di ottobre al cimitero cittadino, che ha accolto diversi membri delle istituzioni territoriali in quella che è stata una mattinata attesa da veramente tanto tempo. <<Un’opera pubblica che racconta di un momento intimo e doloroso – ha spiegato il Primo cittadino di Trento, Franco Ianeselli. - Con questo Tempio diamo un segno di civiltà, di dignità ai nostri defunti, ponendo fine al pendolarismo delle salme che da anni purtroppo andava avanti. Per realizzare questa struttura, in programma ormai da vent’anni e finalmente compiuta, sono stati utilizzati i materiali e le tecnologie più all’avanguardia, con la massima attenzione ad ogni minimo particolare. Il Tempio ci ricorda che non c’è distinzione tra Trento e Trentino, ma che ogni parte del nostro territorio collabora e coopera per obiettivi comuni. Un grazie speciale a chi ci ha creduto fin dal principio: Carlo Cristellotti, storico presidente della Socrem, e l’ex assessore comunale Renato Tomasi>>. Dal dicembre 2001 era atteso il completamento del Tempio, anno quest’ultimo in cui il Comune di Trento incaricò l’Istituto Superiore di Sanità di svolgere un’indagine rispetto alla ricaduta di inquinanti causati dall’impianto di cremazione, definita poi “estremamente contenuta e con valori inferiori ai limiti e standard di qualità presi come riferimento”. Da quel momento uno stop di ben nove anni, poi un lento sblocco del processo realizzativo con tappe decisive ogni anno, dal 2010 in avanti:
nel novembre 2012 l’ammissione dell’opera al contributo provinciale, nel 2016 l’approvazione del progetto definitivo, fino all’inizio (2018) e conclusione (marzo 2021) dei lavori di edificazione di quella che, a tutti gli effetti, è una struttura moderna, solida e fondamentale per la comunità trentina. Al suo interno, unitamente alla strumentazione e agli spazi per effettuare le cremazioni, sono anche disponibili diverse sale per gli ultimi saluti, ampie aree in cui, su invito proprio dei progettisti, ogni cittadino potrà scegliere il modo migliore per dire addio ai propri cari. Presso il Tempio infatti gli operatori, formati ed attrezzati rispetto alle normative sulla sicurezza, lavoreranno ogni giorno per la preparazione del feretro, per le operazioni di cremazione, per il trattamento delle ceneri e la sigillatura dell’urna, nonché per il suo deposito. Parlare di “Tempio”, spiegano infine gli addetti ai lavori, è rassicurante in quanto non evoca, in coloro che
lo scelgono, tutto il ciclo di operazioni che si svolgono al suo interno e non costringe a parlare di morte e distacco in senso stretto. Nel 2020, su un totale di 2.065 decessi trattati (1.418 quelli nel solo comune di Trento), le cremazioni sono state ben 1.239 (a Trento 948, il 66,85%). Complessivamente, in tutta la nostra provincia circa il 40% dei decessi comporta la richiesta di cremazione. Ecco perché l’investimento di 5 milioni e 700 mila euro (4.241.471 per lavori principali e 150 mila euro di arredi) è divenuto necessario. Sono in tutto 1.512 le nuove cellette per urne cinerarie e ossarie consegnate dall’associazione temporanea di imprese esecutrice dei lavori: il nuovo fabbricato, ha spiegato il Comune di Trento, occupa una superficie di circa mille metri quadrati, cinquecento dei quali aperti al pubblico (più 10 posti auto) ed è dotato di due linee di cremazione con la possibilità di effettuare fino a 12 operazioni giornaliere in tutto (sei a testa).
Foto da Vita Trentina
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Protagonista della Fede di Walter Laurana
PAPA LUCIANI UN BEATO LADINO P
apa Giovanni Paolo Primo, al secolo Albino Luciani: un beato ladino. Non ne sono sicuro ma dovrebbe essere l’unico ad appartenere a questa minoranza etnica che unisce la provincia di Belluno a quelle di Bolzano e Trento. Nasce infatti a Canale d’Agordo, nell’area del bellunese dove vengono allocati geograficamente e linguisticamente i ladino-veneti, il 17 ottobre del 1912. Il padre è operaio, socialista, mangia preti, già emigrante in Svizzera; la madre è cattolica molto religiosa. A 11 anni Albino entra in seminario, prima a Feltre poi a Belluno. Per cultura è molto vicino ai cugini della valle di Fassa e del SudTirolo dove si reca quasi ogni anno in pellegrinaggio al Santuario di Pietralba o Weissenstein, in ladino Santuarie de Baissiston, di Nova Ponente. Il fratello ha raccontato al periodico del Santuario l’episodio dove il futuro Papa, nella secondo metà degli anni Venti, si perse lungo i sentieri che da Canale d’Agordo salgono fino a Monte San Pietro dove nel 1547 al contadino Leonardo Weissensteiner apparve la Madonna. Proprio alla Madonna Papa Luciani era devotissimo e arrivò, con grande sopresa di parte della Chiesa, ad affermare che Dio era Madre. Albino Luciani, laureatosi in teologia nel 1947, nel 1954 diventa vicario generale della diocesi di Belluno e poi vescovo di Vittorio Veneto dove acquista meriti e stima fino a diventare nel 1969 Patriarca di Venezia. Infine, nel 1978, Papa per soli 33 giorni. Chi lo ha conosciuto lo ricorda quale sacerdote coerente e ricco di fede, un
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Il Papa del sorriso (da Vatican News)
uomo buono. Molte le testimonianze di fiducia e stima raccolte anche dal quotidiano Messaggero Veneto. «Una persona di grande saggezza e umiltà. Ascoltarlo era un piacere”, ricordano i suoi fedeli. Felici perché il Papa del sorriso verrà proclamato beato. “Fu nostro vescovo a Sacile, dicono. e lo ricordiamo con affetto. Colpiva tutti per il suo amorevole carisma” Un fedele – racconta che il Beato Luciani lo cresimò nel 1966. Nel momento in cui Papa Francesco, un altro Papa buono, annuncia l’avvio del processo di beatificazione sono in molti gli ex ragazzi degli anni Sessanta disposti a raccontare alla stampa la loro stima ed amicizia. Luigi Gasperotto presidente della Filarmonica di Sacile confessa al Messaggero Veneto di conservare ancora, con grande affetto, l’attestato della cresima ricevuto dal vescovo Albino. Di Papa Giovanni Paolo Primo parlava spesso monsignor i Pietro Mazzarot-
to, morto lo scorso marzo, che per 11 anni è stato il suo autista. «Luciani, diceva, è stato un grande esempio di umiltà cristiana». Non a caso una volta eletto Papa scelse come motto la parola Humilitas. Umiltà, la virtù per la quale l’uomo riconosce i propri limiti, rifuggendo da ogni forma d’orgoglio, di superbia, di emulazione o sopraffazione. Viene ricordato anche per la sua fermezza contro la corruzione di prelati e porporati. Per chi l’ha conosciuto Papa Luciani è un faro spirituale, un simbolo di cristianità autentica che vale al di là della brevità del suo pontificato. Molti già lo pregano da sempre come santo. Ha fatto bene Papa Francesco a farlo beato, dicono, ma lui era già santo per tutta l’umanità. Un grande uomo e, dopo che Papa Francesco ha autorizzato il riconoscimento di un miracolo grazie all’intercessione di Giovanni Paolo Primo, il processo di beatificazione va avanti.
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Tra Passato e Presente di Waimer Perinelli
LA REGOLA NON AMMETTE ECCEZIONE
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i dice che ogni regola ha una sua eccezione. Sarà anche vero in generale, ma non certamente per le Carte di Regola con le quali i trentini e in parte i feltrini, hanno amministrato e difeso i beni della Comunità. Per comprendere cosa fossero e come funzionassero le Carte di Regola, o più semplicemente Statuti, dobbiamo risalire all’arrivo dei romani nel primo secolo avanti Cristo e per quanto ci riguarda alla fondazione di Borgo in quella ch’era chiamata Valle Ausuganea appartenente alla tribù Publicia, al Municipium di Feltria della X Legio. I romani imposero le loro regole e da buoni sudditi i valsuganotti, al di qua e al di là di Cismon si adattarono. Ma poi verso il Dodicesimo secolo la lotta dei duchi e re di Germania fra di loro e con il papato crearono sconcerto nella popolazione che, male amministrata
Privilegi delle valli di Non e Sole (1663-1777, Archivio comunale di Cles)
e peggio trattata, decise di darsi una propria autonoma regolamentazione. I Vicini, abitanti di un borgo o di una più ampia comunità, si riunivano in una assemblea, detta Regola generale, ed eleggevano a rotazione
Carta di regola della comunita di Arsio-Brez (1603 1761, Archivio comunale di Brez)
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o Rodolo i propri rappresentanti, compreso un capo regolano, che duravano in carica un anno. In questo periodo gli eletti controllavano l’amministrazione, il pagamento delle tasse o steore, lo smercio della carne e del pane, i lavori da compiersi a Piovego, ovvero, ognuno secondo le proprie possibilità al servizio dell’intera comunità. Naturalmente a titolo gratuito. Il capo regolano interveniva nelle dispute fra vicini e, compito più impegnativo, anche in quelle della comunità contro i potenti, i feudatari e prepotenti di turno. E non era compito facile. Nel 1525 Borgo e la Valsugana furono teatro della cosiddetta “Guerra Rustica”, una rivolta soprattutto di contadini contro lo strapotere di principi e signorotti locali, che coinvolse varie regioni dell’impero. A Borgo i primi sentori del malcontento della popolazione contro le vessazioni dei giurisdicenti di Telvana si ebbero nel 1520 quando scoppiò una rivolta contro
Tra Passato e Presente Regola Bolbeno
il dinasta Sigismondo III Welsperg che aveva risposto con le armi alle richieste del riconoscimento degli Statuti da parte della Comunità. La guerra fu persa, i rustici vennero uccisi alle porte di Trento dai soldati del vescovo e principe Bernardo Clesio, ma la comunità non rinunciò mai al proprio statuto. Forse è più corretto parlare però di Statuti poiché le Carte, anche se redatte in base a una tipologia unica, presentavano alcune notevoli differenze tra loro secondo l’epoca in cui videro la luce. Tra le più antiche, del sec. XII, a quelle della seconda metà del Settecento intercorre come si può comprendere una grande differenza. Le univa però lo scopo comune di regolare da sé, come antichi strumenti normativi, lo sfruttamento delle risorse naturali e organizzare la vita civile. Un esempio esplicito ci viene dalle Carte di Regola di Bieno, Strigno e Saone che recitano : “ogni volta che el regolan comanderà alle vie, che si debba mandar persone sufficienti et de migliori de casa”. E guai a rifiutare. La cronaca di Bieno riporta una sentenza contro certo Gasparin Granello che “essendo comandato de piovego ed essendosi rifiutato fu condannato a fare quello che
ogni vicino doveva fare.” Certo le comunità si comportavano come fossero completamente autonome ma, come abbiamo visto, lo scontro con i potenti qualche volta finiva in un bagno di sangue. In altri casi il signore del borgo doveva rassegnarsi alla sentenza di un tribunale davanti al quale il Capo regolano esponeva le proprie tesi in difesa del bene comune. Cause relativamente rare. Fortunatamente la comunità con le Carte di Regola o Statuti, Ordinamenti o Poste, anticipava i dissidi facendo rispettare le norme che disciplinavano la conduzione dei boschi e dei pascoli, dei campi e dei prati, l’allevamento del bestiame, l’utilizzo dell’acqua, la prevenzione degli incendi, la manutenzione delle strade e degli argini, talvolta pure le pratiche devozionali collettive; nelle carte di regola, inoltre,erano raccolte le norme che fissano i termini della presenza dei forestieri nell’ambito del villaggio e regolavano lo svolgimento dell’assemblea comunitaria, l’elezione e le mansioni degli amministratori e stabilivano l’importo e le modalità di pagamento delle ammende. Uno statuto regoliero, solitamente si apre con un preambolo dove i vicini (coloro che apparte-
nevano a pieno titolo alla comunità, rappresentati da un capofamiglia per ogni “fuoco”) si richiamano alle proprie antiche consuetudini trasmesse fino ad allora per via orale. Nel XIX secolo, con l’avvento degli Stati Sovrani e della “moderna” amministrazione della Giustizia, le Carte di Regola hanno perso potere reale e il capo regolano oggi può essere identificato nel sindaco, ma non mancano oggigiorno sentenze dei giudici del tribunale che dirimono vertenze fra enti diversi dello Stato e le antiche Carte di Regola alle cui norme fanno riferimento per tradizione, consuetudine e volontà di autonomia, alcune comunità che non vogliono rinunciare al ruolo di vicini ed al buon vicinato. Alle Carte di Regola il Museo degli Usi e Costumi della Gente trentina dedicherà, a breve, un’apposita sala di esposizione permanente.
Postae et ordinamenta - Carta di Regola di Bolbeno
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Il tempo dell’arte di Waimer Perinelli
ALCEO DOSSENA GRANDE ARTISTA O FALSARIO?
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ra il 10 agosto del 2013 quando il Centro d’Arte La Fonte inaugurò la mostra “Capolavori allo specchio” allestita con una decina di opere realizzate da Tiziana Sembianti. Per quindici giorni Caldonazzo fu il centro di un’esposizione internazionale con capolavori di Veermeer, Leonardo da Vinci, Claude Monet....Un’evento eccezionale per il Trentino replicato, naturalmente senza citare la primigenitura, dalla Fondazione Macalon di Milano nel 2015. Se le opere esposte fossero state autentiche non sarebbero bastati i miseri soldi della Fonte per assicurarle per le decine di milioni, ma qualcosa fu speso, perché pur non essendo dei falsi, erano e sono così belle copie da affascinare un pubblico numeroso. Non falsi ma vere copie, tanto che la mostra venne intitolata dal curatore “Capolavori allo specchio” titolo replicato senza alcuna riconoscenza a Milano.
Alceo Dossena, Teseo e Antiope, 1920 c., Collezione Dario Del Bufalo, Roma
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Alceo Dossena (Ph Mart, Elena Ciurletti)
Ma cosa distingue il falso dalla copia? La domanda, non solo artistica ma anche legale, si replica in questi mesi al Mart, Museo di Arte Moderna e Contemporanea, a Rovereto, dove sono esposte le opere di un vero falsario, Alceo Dossena, scultore nato a Cremona nel 1878 e morto a Roma nel 1937. La parte artistica si spiega rapidamente. Dossena aveva la grande capacità di cogliere i tratti specifici di una scultura e l’abilità e tecnica di riprodurla con tanta somiglianza da essere giudicata autentica e per questo acquistata da grandi musei. Opere magnifiche di Giovani e Nino Pisano, Andrea Verrocchio, Simone Martini, vennero modellate dal Dossena che, fin da giovanissimo ebbe l’occasione di approfondire la conoscenza dell’arte del ‘400. A soli 12 anni fu espulso dalla scuola professionale a causa delle sue tendenze a non seguire le regole degli insegnanti che, in questo modo, inconsapevolmente, gli fecero un favore, perché egli fu assunto nella bottega di un marmista specia-
lizzato nella riproduzione di fontane, statue, portali rinascimentali, usate dagli architetti del tempo. Divenne così bravo che alcuni restauratori le vendettero per vere opere d’arte recuperate, qua e là, fra i molti cimeli dell’Italia che riscopriva l’archeologia e la gloria di un affascinante passato. La fama di Alceo Dossena crebbe tanto da assicurargli un posto a Roma dove alcuni venditori di oggetti antichi gli allestirono uno studio nella celebre via Margutta e lo incoraggiarono a replicare i grandi capolavori. Dossena non si fece pregare e in poco tempo divenne ricco. Non si trattava infatti di pochi esemplari, ma addirittura di finti reperti di intere cattedrali distrutte e spogliate, di cimeli che, si diceva, affiorassero nelle bonifiche agricole del Maremmano negli ex fondi Savelli, ecc. Con il tempo però nacquero seri dubbi e nel 1926 per l’Europa circolava la notizia di un maestro italiano capace di produrre falsi rinascimentali, greci ed etruschi. La cosa non andava sottovalutata
Il tempo dell’arte e non lo fu perché poteva avere ed ebbe, seri risvolti legali, poiché il falso è reato e il truffato chiede la condanna del falsario e la restituzione dei soldi versati. La storia ci racconta di decine di processi contro altrettanti falsari. Molti di loro si sono salvati con lo stratagemma usato da chi, in tutta onestà, precisa che le sue opere sono solo copie. E come fa? La copia non ha firma, se ce l’ha è del vero copiatore il quale tuttavia in genere preferisce scrivere una nota di autenticazione propria sul retro della tela. Se è bravo, come spesso accade, è solo questa sua onestà a rassicurare il compratore, perché la tela, i colori usati, la tecnica sono assolutamente indistinguibili dall’opera autentica. Capolavori allo specchio dunque come la Ragazza con l’orecchino di Perla di Vermeer, che venne esposta a Caldonazzo o la tela “Sepoltura di Santa Lucia” proposta proprio al Mart in occasione della mostra dedicata al Caravaggio, una copia tanto bella da ingannare tanti visitatori portati ad ignorare a lungo l’autentica opera appesa sulla parete opposta della stessa sala. E non è poi tanto facile distinguere i capolavoro dal falso, se fior di esperti, nel 1984, sono caduti nella beffa di tre giovani studenti che gettarono nel Fosso Reale di Livorno e poi fatte ritrovare, tre teste, si disse scolpite da Modigliani prima di partire per Parigi. Le sculture furono autenticate dagli esperti d’arte smascherati infine dagli stessi “falsari” e da prove chimiche. Vittorio Sgarbi, presidente del Mart, e ideatore dell’allestimento su Alceo Dossena, curato da Dario del Bufalo e Marco Horak, ha le idee chiare: non siamo davanti ad un falso, dice, ma della “ tecnologia al servizio dell’arte che rende possibile l’allestimento di un intero museo in 3D”. Nello stesso modo ci offre una definizione dell’arte che dice: “ un tempo era la tecnica, l’invenzione che passava attraverso il fare, con
Vittorio Sgarbi, presidente del Mart (Ph Mart, Elena Ciurletti)
La tre false teste di Modigliani 1984 (da ZetaTiElle)
l’arte contemporanea cambia tutto dall’ orinatoio di Duchamp e il ready made, l’arte non è più la realizzazione di un’opera, ma la volontà dell’artista che essa lo sia”. Nessuno si è, per ora, cimentato nella riproduzione, falsa o
copia, dell’orinatoio di Duchamp e nemmeno della M...da d’ artista di Piero Manzoni, esposta nel Museo del 900 di Milano. Eppure, visto che è sigillata in barattolo, non dovrebbe essere difficile ingannare il fruitore.
Alceo Dossena (da Finestra sull'Arte)
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Personaggi di casa nostra di Mario Pacher
Ricordo di
ANGELO CONCI P
er questo numero di novembre 2021 la maestra Agnese Agostini di Caldonazzo ci ha ricordato e descritto un personaggio del passato che lasciò un grande segno del suo passaggio terreno non solo a Centa dove era nato ma anche in altri vicini paesi e per questo in zona è ancora oggi considerato il “Padre” della ristorazione non solo a Centa. Si tratta di Angelo Conci che era nato nel 1857al maso Strada, frazione di Centa, in una famiglia numerosa .Fattosi adulto, molto contribuì a far conoscere
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ed apprezzare alla piccola comunità rurale di Centa le novità e le opportunità che poteva offrire la città vicina. Era l’epoca in cui i ragazzini poco più che bambini erano occupati in lavoretti campagnoli e d’estate portavano al pascolo gli animali: un impegno che poteva essere anche piacevole quando erano in compagnia e le bestie erano tranquille in pascoli adatti. Lungo i bordi del torrente Centa, di solito andava tutto bene, ma succedeva, a volte, che le mucche si “scornavano” con tale foga da mettere in pericolo la resistenza delle loro corna. Poteva anche arrivare qualche forestiero che incuriosito s’informava un pò su tutto. Un giorno, un signore, malgrado le esortazioni dei pastorelli, si avvicinò ad una mucca e si mise a giocare stuzzicandola qua e là col suo bastone. Non l’avesse mai fatto, quella con una scornata lo scaraventò nel torrente in
piena. La cosa destò una certa “ilarità” tanto che un “burlone” in una satira scrisse “una bagnata solenne e fatal, il cappello lo piglia nell’acqua, gli stivali vuotarli gli conviene ed una ferita di sotto al gabban”. Giorno dopo giorno trascorsero gli anni ed Angelo, assolto l’obbligo scolastico, si trovò occupato in via Dordi a Trento, in un negozio di alimentari della famiglia di Cesare Battisti. Come “puto de botega” si occupava di tutto, dai magazzini alla vendita e sopratutto alle relazioni sociali tanto che un pò alla volta s’impadronì del mestiere e si fece amico di tante persone che gravitavano nell’ambiente. E se mi mettessi in proprio? pensò. Con tanto coraggio, come ha affermato la figlia Elena (classe 1903), a Centa centro, in via don Carlo Rossi, dove pochi anni fa si trovava un salone per parrucchiere aprì il suo “Restaurant Alpino” ed incominciò la sua avventura di ristoratore e non solo. Arrivavano da Trento gruppi di signori in carrozza desiderosi di gustare i buoni piatti dell’Angelo e il pane cotto nel forno a legna di proprietà di Ottaviano Bortolini sito nella valle del Centa. Ai suoi tavoli sedevano forestieri e paesani e commentavano le notizie del “foglio”, un giornale dell’epoca che arrivava una volta al mese grazie all’esattore delle tasse (“scorsor”) Huez Gaudenzio che si recava a Levico per i suoi affari e comperava 2 copie del giornale dell’epoca, una per il Restaurant Alpino e una per il capocomune. L’esercizio era anche tabacchino e piccolo negozio di alimentari. Gli affari andavano bene e così il Conci, verso il 1912, pensò di avviare la costruzione di un albergo il “Tre novembre”. La Grande Guerre e
Personaggi di casa nostra
l’esodo dal paese in Moravia bloccarono per alcuni anni il progetto che però riprese e portò a termine negli anni successivi alla fine della guerra. Come già al Restaurant Alpino, anche qui non mancavano gli ospiti, attirati anche dalla felice posizione, vista panoramica, tanto spazio, tranquillità, buoni piatti e quei salumi confezionati da mani esperte con suini allevati in loco, salumi che non necessitavano di pubblicità: erano unici. Non mancava chi si fermava per un periodo di ferie e così alla sera non mancava un bel coro
approntato dalle ragazze del proprietario accompagnate dalla fisarmonica del figlio Dario. Chi si fermò per alcuni giorni fu anche un “ospite straordinario”, un tedesco che alla proprietaria, la Elena (figlia di Angelo) mostrò i segni della violenza subita vent’anni prima da sedicenti partigiani, dei quali ricordò il nome e la provenienza. Durante il periodo fascista l’albergo si prestò ad accogliere gli alunni della locale scuole e far ascoltare i discorsi del Duce da un grande apparecchio radio posizionato su una finestra e la zia Filomena, il 6
gennaio, era la Befana fascista e dalla sua capiente gerla estraeva piccoli regali per tutti i bambini. E il 27 ottobre 1935 il piazzale straboccava di paesani in divisa fascista e loro famigliari, in attesa del camion che doveva portarli a Brindisi per l’imbarco verso l’isola di Rodi.Com’è nell’ordine delle cose, il fondatore, l’Angioletto com’era chiamato in loco e suoi discendenti sono scomparsi e l’esercizio, ora in altre mani: è chiamato “Pizzeria”, ma è sempre molto conosciuto, frequentato ed apprezzato.
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Tra poeti, scrittori e letteratura di Silvana Poli
FRANCESCO PETRARCA il poeta che cantò l’amore Francesco Petrarca è da tutti conosciuto come il padre della poesia amorosa: l’opera che l’ha reso immortale è il Canzoniere, una raccolta di 366 poesie quasi tutte dedicate a Laura. Petrarca nasce nel 1304 ad Arezzo da una famiglia fiorentina in esilio per motivi politici. Nel Medioevo due erano i “partiti” che animavano la vita comunale, i ghibellini e guelfi: gli uni riconoscevano il potere all’Imperatore, mentre gli altri vedevano nel papa l’unica vera autorità. A Firenze, una città ricca di attività e di cultura, tra il Duecento e il Trecento si sono alternati i governi dei guelfi e dei ghibellini. Allora succedeva che, quando un partito vinceva, a volte si limitava a cacciare gli esponenti dell’altra parte, altre li condannava a morte, requisiva i loro beni o faceva bruciare le loro case. Nel 1260 i ghibellini avevano sconfitto i guelfi, ma nel 1267 i guelfi si erano ripresi Firenze. I fiorentini però erano un popolo rissoso; infatti non passò molto tempo che iniziarono a litigare tra loro e la città si trovò nuovamente divisa tra due fazioni: i guelfi bianchi e i guelfi neri. I bianchi sostenevano che il papa non dovesse entrare nelle questioni politiche della città per interessarsi solo alle questioni spirituali, mentre i neri volevano mantenere i legami politici con il papato. E così le lotte a Firenze erano continuate, il contrasto tra le due fazioni sempre più lacerante. Nel 1301 i bianchi vennero cacciati e furono mandati in esilio; questa fu quindi la sorte del padre di Petrarca e anche di un altro famosissimo poeta,
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Dante Alighieri. Per questo motivo Francesco Petrarca nasce lontano dalla sua Firenze, sotto il segno dell’esilio. La condizione di esule lascerà in lui un segno indelebile, tanto che lui, durante tutta la vita, dichiarerà di sentirsi «straniero ovunque». Quando Francesco ha 8 anni la sua famiglia si trasferisce ad Avignone, in Francia, perché il padre è chiamato a lavorare alla corte del papa; ricordiamo che nel corso del Trecento la sede papale, per una settantina d’anni circa, è spostata ad Avignone, sotto la tutela del sovrano francese. Nel 1316, obbligato dal padre, Francesco inizia a studiare legge a Montpelier e quattro anni dopo prosegue gli studi a Bologna. Quando suo padre muore, Petrarca può finalmente abbandonare gli studi di legge, per dedicarsi alle amate lettere; si trova però di fronte alla necessità di trovare un sostegno economico.
Francesco Petrarca (Bargilla)
Nel Trecento, nessuna attività, al di fuori del mondo clericale, permetteva di dedicarsi allo studio; per questo, a 22 anni Petrarca decide di abbracciare la carriera ecclesiastica, non per chiamata divina (lui è uomo di mondo, attratto sia dalla fama, che deriva dall’essere poeta, che dal gentil sesso) ma per seguire la sua vocazione letteraria e filosofica. Il poeta trascorre gli anni successivi come cappellano della famiglia Co-
Tra poeti, scrittori e letteratura lonna: una condizione che gli permette sia di viaggiare, che di cercare pace e isolamento per i suoi studi. Il 6 aprile del 1327 accade un fatto che segnerà per sempre la vita del poeta. Francesco si trova ad Avignone, nella chiesa di santa Chiara, alla celebrazione del Venerdì Santo quando i suoi occhi incontrano quelli di una giovane donna. Lui rimane agganciato a quello sguardo, si innamora perdutamente di lei e, come dichiara in un sonetto, i suoi guai iniziano lì: mentre tutta la Chiesa soffre per la morte di Cristo, Francesco conosce le pene d’amore. Lui, uomo di chiesa e di lettere, si innamora di Laura, giovane donna bionda, con occhi luminosi e voce angelica. Inizia così il dissidio che lacera l’anima del poeta per tutta la vita: da un lato la scelta religiosa, dall’altra la passione per le cose del mondo, l’amore e la gloria. Sul fronte letterario moltissime sono le opere che gli danno notorietà. Convinto di ottenere fama e gloria attraverso le opere in latino, ci si dedica con passione e nel 1341 il suo impegno intellettuale viene premiato: è incoronato “poeta” in Campidoglio, dal re di Napoli. Ma all’amore per le lettere, si affianca la sua passione per le donne: non solo è innamorato di Laura, alla quale
dedica centinaia di poesie, ma ha anche due figli. Queste due tensioni, che lo portano verso direzioni opposte, provocano una lacerazione nell’animo del poeta. Francesco si sente incoerente perché l’amore per Laura lo allontana da Dio, a cui, per scelta ha consacrato la vita, ma non riesce a fare diversamente. E come ne esce? Petrarca trova una straordinaria via d’uscita a questo suo dissidio: scrivere. Alla scrittura Francesco affida le pene del suo animo e crea delle liriche in cui mira alla perfezione della forma poetica. Continua a lavorare alle sue poesie per tutta la vita, le lima fino a raggiungere una raffinatezza assoluta e, in quella perfezione, la lacerazione della sua anima si placa, l’istanza terrena e l’istanza spirituale trovano finalmente la pace. Le liriche che compongono il Canzoniere sono per la maggior parte dedicate a Laura. Le poesie sono scritte tutte in volgare, la lingua che il popolo parlava nel Trecento. Petrarca non immaginava che l’opera che gli avrebbe dato l’immortalità sarebbe stata una delle due che aveva scritto in volgare, ma è andata proprio così; infatti oggi solo pochi ricordano le sue opere latine ma moltissimi di noi hanno letto almeno un suo sonetto. Nelle sue liriche il poeta racconta le
gioie dell’innamoramento, il dolore per la distanza da una donna che gli concede solo qualche sorriso, la speranza che si accende quando i loro sguardi si incrociano, il dolore per la morte di lei e la consolazione che gli deriva dal pensiero dell’amata. Dopo una vita di viaggi, Petrarca muore a settant’anni, ad Arquà Petrarca. Le sue poesie sono diventate il modello della poesia amorosa e da allora i poeti di tutti i tempi si sono misurati con le sue liriche. Se volessimo oggi chiedergli un consiglio, io immagino che ci direbbe: “Scrivete, aprite la vostra anima, dedicatevi con amore alla scrittura e lì troverete pace.”
Figure femminili nell'arte - La Laura di Petrarca (da Padova Oggi)
Inizia con questo numero la collaborazione della dott.ssa Silvana Poli, Laureata in Lettere Moderne e in Didattica della Musica, coach e counselor, è certa che la bellezza sia una via verso il benessere. Insegnante per passione e per professione, nel corso di un trentennio ha insegnato in tutti gli ordini di scuola, dalle Scuole dell’Infanzia fino ai Corsi Superiori per Adulti. Dai suoi studenti ha imparato che si può insegnare qualsiasi cosa a chiunque, basta saper trovare la via giusta, che non è mai troppo tardi per farsi una cultura e che quando si scopre il piacere di imparare, si aprono orizzonti infiniti. Per questo si dedica alla diffusione della bellezza attraverso la lettura di opere letterarie, la spiegazione di testi scritti in italiano del passato, in modo da permettere, a studenti e appassionati, di godere delle meraviglie della nostra tradizione letteraria. Ha aperto il canale YouTube "Testi della letteratura" https://www.youtube.com/channel/UCBAJrdROwiOSDSyO2e4iiUg in cui legge e presenta i più famosi testi della letteratura italiana.
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Religiosità popolare di Waimer Perinelli
Martiri e Santi
Il BEATO SIMONE e i MARTIRI ANAUNIESI
L
uigi Dorigoni classe 1924 è stato il mio primo amico a Trento. Un uomo paziente, intelligente, pio ma non bigotto, capace d’incantare i miei ragazzini con racconti semplici della vita familiare, del Trentino e di Gazzadina, il suo paese. Siamo a all’inizio degli anni 70 quando Luigi mi ha fatto incontrare con il Beato Simone da Trento, un bambino martire venerato a Trento, protettore dei bimbi. Un martirio conclamato e poi negato dalla Chiesa, portato alla ribalta, a fine 2019, dall’intelligente mostra voluta da Domenica Primerano, direttrice del Museo Diocesano Tridentino. Una mostra diventata una storia nella storia, dove brillano audacia e pregiudizio, scarso rispetto per l’intelligenza, omertà e prudenza, fino a sfiorare la codardia. La mostra dal titolo “ L’invenzione del colpevole. il “caso” di Simonino
Martirio di Simone medaglione su casa via Manci a Trento
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Intagliatore svevo Cattura di San Sisinio, 1515 (Museo Dioceano Tridentino già Trento Cattedrale di San Vigilio)
da Trento, dalla propaganda alla storia”, ha sconvolto l’intelligenza e la coscienza di tanti intellettuali trentini. Ma non avrebbe sconvolto Luigi, oggi purtroppo scomparso, che era la voce di un fedele, al quale avevano raccontato fin da piccolo le vicende descritte nel 1642 da Pincio da Mantova in “Annali trentini- Ovvero Cronache di Trento”, pp 313. ossia la morte di un bimbo di due anni e quattro mesi d’età, ucciso dagli ebrei per celebrare il rito pasquale. Una cronaca cruda, fosca, suggestiva, “demoniaca”. Pincio da Mantova racconta la scomparsa il giovedì della settimana Santa del 1475 di Simone Lonferdorm (Unverdorben), bimbo di due anni e 4 mesi, cercato subito dal padre e da tanti abitanti del quartiere todesco dove abitavano. “ Andrea, il padre, colpito da si fatto dolore, furioso
andava per la città, fra le fosche tenebre cercando il diletto figliolo, raddoppiava le querele, feriva l’aria con i suoi dolorosi pianti.......Gli fanciulli dalla cui bocca ben spesso ha parlato lo Spirito Santo....andati in strada, risposero doversi cercare Simone appresso agli ebrei”. E proprio gli ebrei furono accusati della sua uccisione con rito crudele che prevede l’uso di pinze, tenaglie conservati oggi al Museo Diocesano, ed altre torture ben descritte dall’iconografia pittorica e dai medaglioni sparsi fra via Manci e via del Simonino a Trento. Bubbole, oggi diciamo Fake news, avvalorate dalla presenza in città del padre predicatore Bernardino da Feltre. Vescovo Principe del Trentino era Giovanni IV Hinderbach, originario della Germania che, nella minore delle colpe, non si oppose al processo degli ebrei al quale seguirono condanne a
Religiosità popolare morte e all’esilio. La storia è ricca di processi fasulli dalle tragiche conseguenze e per fortuna, in omaggio all’onestà ed intelligenza, da tardivi ripensamenti. Così come diversi studiosi cattolici si occuparono del caso, fra loro W.P. Eckert sulla “Leggenda dell’ebreo assassino” pubblicata nel 1965 , ovvero nel periodo in cui ottemperando alle decisioni del Concilio Vaticano Secondo, la Chiesa riconosceva di avere esagerato e che gli ebrei trentini non erano colpevoli di tante nefandezze. Una scelta del Concilio applicata diligentemente e coerentemente dal “Principe” vescovo Alessandro Maria Gottardi. Ma Luigi non era preoccupato, non aveva risentimenti verso i giudei, solo raccontava di quando, da ragazzino, andava alla processione seguendo il feretro del beato Simonino , nel giorno di festa del secondo Patrono della città, dopo san Vigilio. Non fu scalfito nemmeno dagli studi di Gemma Volli, un’insegnate ebrea, nata a Trieste nel 1900, che nel 1965 pubblicò uno studio sull’innocenza degli ebrei avvalorata anche da Monsignor
Iginio Rogger. Capitolo chiuso? Tutt’altro, come stanno dimostrando i processi d’autunno quando non cadono solo le castagne e le noci ma anche le teste come quella di Domenica Primerano che, assalita dai laici spaventati dalla possibilità del ritorno al culto per il bimbo martire, hanno criticato la mostra chiedendone lo smontaggio, inSanzeno Chiesa dei santi Martirio, Sisinio e Alessandro veduta della facciata ducendola così ad abbandonare gevano lodi dal mondo culturale il campo. internazionale; anzi alcuni intellettuali Per Domenica Primerano molte trentini hanno inviato una lettera “riapprovazioni ma nessuna parola in servata”, si dice così quando si lancia difesa sua e del Museo Diocesano, il sasso senza mostrare la mano, nella nel momento in cui, grazie a lei, giunquale chiedevano prudenza, oculatezza e, in sintesi, di non avvalorare la mostra. Luigi, se fosse ancora vivo, non si sarebbe scomposto nemmeno per queste polemiche. Così è fatta la religiosità popolare: di furore, lo stesso che ha generato alcuni santuari e, fra questi, quello dei santi Martiri Anauniesi, gli evangelizzatori, uccisi atrocemente dai trentini pagani nel 497. Quello si, fu vero assassinio, per il quale forse si nutre ancora oggi un vago senso di colpa, tanto che a poco sono valsi gli sforzi di Monsignor Gottardi di portarlo a maggiore culto. E invece sarebbe il caso di riscoprire i santi che, con Vigilio, radicarono in Trentino il cristianesimo. Perché non aprire un dibattito anche su questo? Domenica Primerano
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Premio “ Giuseppe Mazzotti” di Enrico Coser
Prima Edizione Nazionale:
DUE STUDENTESSE TRENTINE TRA I VINCITORI
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ofia Bonella ha 19 anni, occhi penetranti, sguardo intenso e un sorriso affascinante. Ha frequentato il Liceo Antonio Rosmini di Rovereto e ha un futuro da scrittrice. Questo almeno ritiene la giuria del premio “Giuseppe Mazzotti” che le ha assegnato il primo premio della sezione letteraria alla prima edizione nazionale categoria juniores. Tema del concorso è stato l’esplorazione e vi hanno partecipato studenti provenienti dagli istituti superiori italiani, croati e sloveni. Alla sezione letteraria erano iscritti 27 autori. Sofia ha scritto il racconto dal titolo “Quel giorno che salpai per l’Isola Altrove” quell’isola che non c’è canta Bennato, la stessa ideata da James Matthew Barrie per Peter Pan, ma che nella giovane scrittrice esiste: è dentro ciascuno di noi. La sua bellezza, dice, è come uno specchio : tutto ciò di cui abbiamo bisogno si trova già dentro di noi. “Sofia Bonella, scrive la giuria, ha confezionato il racconto con scrittura ricca d’ ironia e fantasia, offre un curioso dialogo tra sogno e realtà. Il protagonista è l’uomo d’oggi che aspira a “vite più interessanti” e crede che il partire lo liberi dalla monotonia dell’esistenza. Sarà la “realtà” a guidarlo alla scoperta che “Altrove è un luogo meraviglioso”, ma brilla di una bellezza che nasce e s’intreccia con i luoghi della sua vita. L’intuizione che “La mappa è ben sepolta in me” stimola il lettore a chiudere gli occhi per scoprire il proprio regno. E’ un chiaro invito a proseguire e l’esor-
Marina Leonardelli
Sofia Bonella
diente scrittrice ha un’isola per sé da raggiungere, ma deve tenere dritta la barra per non perdere la rotta. Il premio Giuseppe Mazzotti è stato ideato a Treviso, nobile luogo della letteratura italiana, ed onora un eclettico intellettuale, nato a Treviso nel 1907 e morto nel 1981, scrittore, alpinista, gastronomo, definito “Salvatore delle ville venete” per l’impegno profuso al restauro e lancio del patrimonio culturale della Marca Trevigiana, delle province di Vicenza e Belluno, e del Veneto in generale, dove, fra gli altri, ha lavorato il grande architetto del ‘500, Andrea Palladio. Sul podio, in un prestigioso terzo posto, è salita Marina Leonardelli del Liceo classico Arcivescovile di Trento. Marina ha 18 anni, un viso sorridente, capigliatura romantica che incornicia occhi scuri e grandi. Il suo racconto, una passeggiata nei pressi di Viarago, vicino a Pergine, s’intitola “Castagnari” , ed è un viaggio nel tempo attraverso
le parole della nonna e l’immagine delle secolari piante di castagno da cui, per generazioni, la gente del posto ha ricavato la farina, il legno per mobili e ardere, i travi per la costruzione delle case. La giuria del premio Mazzotti ha trovato il racconto di Marina :” Una descrizione poetica dalla sorprendente ricchezza lessicale che disegna l’ambiente di montagna e la valle che l’autrice propone all’attenzione del lettore anche nella sua memoria storica e leggendaria, consapevole che “i luoghi incantevoli attorno a noi… raccolgono come una spugna centinaia di storie intrecciate”: basta saperli guardare con occhi nuovi.” Il premio Giuseppe Mazzotti era diviso nelle sezioni Letteraria e Video. Complessivamente hanno partecipato 64 studenti, 37 per la letteratura e 27 nella categoria video. Ai vincitori del primo premio sono stati corrisposti mille euro. Al secondo classificato, uno studente di Bergamo, seicento euro, al terzo 400.
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Conosciamo il territorio di Andrea Casna
La Teleferica di Caldonazzo-Monterovere Q
uella di Caldonazzo-Monterovere fu una delle principali teleferiche costruite dall’esercito austroungarico sul fronte degli Altipiani. Fu realizzata a partire dal 1909 con lo scopo di trasportare il materiale destinato alla costruzione dei forti dell’Altopiano di Vezzena. Ma le prime informazioni certe sulla costruzione di una teleferica in Valsugana risalgono al 1885 durante i cantieri per la costruzione dei due forti di Tenna e delle Benne. I lavori, iniziati nel 1884 e terminati nel 1889, avevano infatti messo gli addetti ai lavori nella condizione di predisporre un sistema di trasporto capace di favorire, in modo veloce e con poco dispendio di energie umane, il trasporto per i materiali da costruzione. Per i due forti di Tenna e Forte delle Benne, costruiti fra il 1884-1889 il comando militare decise di aprire una cava nella vicina località di Visintainer: a pochi chilometri a nord-ovest dalle due fortezze. La pietra ricavata in loco fu trasportata fino al cantiere, attraverso due diversi sistemi: il primo tratto mediante l’uso di barconi attraversando il lago di Levico, fino alla sponda occidentale; il secondo mediante una teleferica -la prima di cui si ha notizia in Valsugana- lunga 598 metri con una portata di carichi singoli di 200-250 kg. Nello specifico si tratta di un modello di piccole dimensioni, su un singolo tracciato, con una percorrenza, rispetto alle future teleferiche, di pochi metri. Nei primi anni del Novecento, con i cantieri militari, dell’Altopiano di Vezzena,
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la popolazione locale assistette alla costruzione, sul finire del 1909, della teleferica di collegamento fra Caldonazzo con la località Monterovere: struttura che nel corso della Grande Guerra sarà aggiornata e potenziata con altri due tracciati per arrivare a diventare uno dei servizi logistici forse più importanti di questo settore di fronte. La teleferica Caldonazzo-Monterovere venne costruita, come detto sopra, per trasportare il materiale destinato alla costruzione dei forti Busa Verle, Pizzo di Levico e di Forte Belvedere. La costruzione di questa teleferica s’inserisce nel contesto di sviluppo dell’intero sistema economico del Tirolo italiano. Sono strutture, nel caso di Caldonazzo e della Valsugana, pensate per il trasporto di materiale a fini militari, ma non solo. Nel 1908, infatti, il Comune di Levico aveva sottoposto al Comando della 14° Armata il progetto della nuova rotabile Levico-Vezzena per lo sviluppo del commercio del legname e dell’indu-
Monte Rover. Blick nach (Caldonazzo)
stria turistica. Progetto che però non vide il sostegno e l’appoggio dei militari. Gli obiettivi principali, infatti, in un settore strategicamente importate come la Valsugana, già militarizzato alla fine degli anni Ottanta del XIX secolo con lo sbarramento di Tenna, era di accelerare il lavori per la costruzione della potente cinta difensiva del settore Folgaria-Lavorane-Luserna-Vezzena. Nel 1909, per accelerare e intensificare i lavori di fortificazione, si avviarono le trattative con l’impresa Eissler &
Conosciamo il territorio Bruder per la costruzione della teleferica con stazione di arrivo a Monterovere. L’accordo prevedeva l’assegnazione dell’appalto con il ribasso del 9% e la cessione della teleferica all’erario militare dopo 8 anni. L’impianto fu collaudato il 30 dicembre 1909, con uno sviluppo di 3 km, azionato con motore da 30HP, consentiva il superamento del dislivello di 777 m e il trasporto di 5.000kg di materiale all’ora. L’idea di realizzare un sistema a fune per il trasporto di materiale a fini bellici arrivò nel 1908 dalla ditta J. Eissler & Brude, incaricata di costruire il forte di Busa Verle. Il sistema stradale dell’epoca, infatti, non soddisfa il fabbisogno logistico di un esercito pronto a trasformare le montagne e gli antichi pascoli in campi di battaglia. Come già detto la Elliser riuscì ad ottenere l’appalto di costruzione della teleferica e di Forte Belvedere con un ribasso dell’9% avendo in gestione la teleferica per una durata di 9 anni. Le cose non andarono bene perché i costi elevati avevano messo l’azienda nella condizione d’investire molto più denaro di quanto preventivato. Per la stessa Elliser, inoltre, vi erano
anche i cantieri dei forti e della strada di collegamento al sistema di sbarramento della Busa Granda. L’impresa, scrive Nicola Fontana (in La Regione Fortezza), ha una perdita di 400.000 corone per il cantiere stradale Panarotta-Busagranda; nella costruzione della teleferica Caldonazzo-Monte Rovere «aveva dovuto investire una somma una volta e mezza superiore a quella contemplata da preventivo, senza alcuna possibilità di recuperare il capitale attraverso i proventi del servizio di trasporto dei materiali sugli altopiani di Lavarone e Vezzena». L’impianto, inaugurato sul finire del dicembre 1909, rimase fermo dal 1913 fino al 1915 a causa di una serie di vertenze giudiziarie con le autorità militari. L’impianto, alla fine, riprese a funzionare nel marzo del 1915 con la Elliser che sì offrì di cederne la gestione, a titolo gratuito, alla Direzione del Genio Militare di Trento. Entrando maggiormente nel dettaglio, in una circolare del Capitanato Distrettuale di Borgo, dell’estate del 1909 destinata alla Elliser, si legge che la funicolare Caldonazzo-Monterovere servirebbe al «trasporto di materiale da costruzione e in seguito
Seilbahnanlage am Monte Rover. Aufgenommen im Mai (1916)
poi anche per la tradotta di prodotti boschivi da Caldonazzo a Lavarone». A seguito del sopralluogo a cura della commissione competente, il Capitanato Distrettuale fa notare che l’opera deve essere eseguita «secondo i piani prodotti e a seconda delle buone regole d’arte» per mettere in sicurezza le porzioni di strada interessate al passaggio della funicolare. Sono una ventina, inoltre, i proprietari interessati a ricevere un indennizzo in denaro per i cantieri e il passaggio della stessa funicolare. La funicolare fu collaudata il 30 dicembre 1909 e in una relazione a firma dell’Ispettorato industriale di Trento, del 6 luglio 1910 sulla condizione degli operai incaricati al funzionamento della teleferica si legge che «riguardo ai dormitori si osserva che il numero degli operai acquartierati negli stessi è molto maggiore di quello all’epoca del collaudo. 4 operai dormono in uno stanzino che basta appena per due. 3 operai dormono in un solo letto in uno stanzino costruito di recente, anche questo assolutamente inammissibile. Altri quattro operai dormono in 4 stanzini che sono da considerarsi corrispondenti. Per gli operai si dovrà destinare un dormitorio corrispondente. Il dormitorio dovrà avere pareti di doppio assito con frammesso uno strato di materiale isolante, pavimento di assi e soffitto regolare. Lo stesso dovrà essere riscaldato e contenere il necessario per la pulizia corporale. Ogni operaio avrà un letto separato ed i singoli letti dovranno distare fra loro almeno 60 cm. Agli operai viene detratto cumulativamente il 3% della mercede. Una simile detrazione è contraria allo spirito del 78 reg. ind. Le singole poste, cassa ammalati, assicurazione infortuni, acconti ecc. dovranno essere specificate nelle liste mercedi e nei bollettini che vengono consegnati colla mercede agli operai
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Poesia e arte di Walter Laurana
Il BOSCO dove
CANTANO i POETI “S empre caro mi fu quest’ermo colle......” così Giacomo Leopardi canta nella celebre poesia l’Infinito, la collina dove, giovane poeta, si fermava a riflettere sulla vita, il destino, la fortuna. Non una semplice altura bensì 130 ettari di bosco scosceso alle pendici dei Lessini veronesi, nel cuore della Val d’Adige, sono stati acquistati da un valente commerciante originario del Tesino, per riflettere sulla caducità della vita. “Costava poco , dice, ma più che il prezzo, poi ancora un po’ risicato, a convincermi è stata la bellezza del posto, il fascino della montagna.” Sarà pur vero: il luogo è affascinante, querce, carpini e lecci si specchiano nell’Adige all’altezza della chiusa di Dolcè, ma l’uomo, in passato, oculato venditore di calzature in centro a Trento, ha intravisto poco tempo dopo, la possibilità di usare il sito per valorizzare la cultura: alpestre, boschiva, ma anche artistica. Per la selva si è avvalso di professionisti e volontari della pulizia per sgomberare il luogo da frigoriferi, pneumatici, lavatrici, contenitori di plastica, gettati alla rinfusa fra i cespugli dagli stessi o da loro imitatori che, sempre più spesso, scelgono, per le loro immondizie, i bivacchi alpini come il Madonnina sulla Vigolana dove, dice il presidente della Sat di Caldonazzo, Valerio Campregher, è servito un elicottero per trasferire da monte a piano, la plastica ed altre schifezze. A bosco pulito, il nostro Roberto Menguzzato, si è consultato con il generale della Forestale, oggi in riserva, Isidoro Furlan, ed è nata la col-
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laborazione per la creazione di un sito naturale in cui alloggiano uccelli migratori, rapaci, ricci e altri animali selvatici. Tutti animali con le ali o quattro zampe. Mancava l’uomo ma non la fantasia e di questa è ricco Lorenzo, il figlio di Roberto che, per scelta, di professione fa l’artista. Con un buon successo e molti amici che dipingono o scrivono. E’ così ch’ è nato “Il Bosco dei poeti” luogo reale e fantastico per gente appassionata e qualificata; un’Associazione che ha, fra i soci onorari, Luigi Oldani, uno dei segnalati per il futuro nobel della letteratura, Alberto Casiraghi, editore ed aforista, Igor Costanzo poeta e performer, Fabio Cavallucci, direttore di musei d’Arte, Sergio Dangelo, ultraottantenne pittore fra i più quotati d’Italia, Jakob de Chirico, pittore tedesco, insegna a Monaco di
Il poeta Guido Oldani con Lome nel Bosco dei poeti
Baviera, lontano parente di Giorgio, e poi Annachiara Marangoni, Maria Riccarda Moser, Paolo Malvinni e tanti altri. Ad ottobre “Il bosco dei poeti” ha eletto presidente Alberto Beltrami regista impegnato nella rassegna cinematografica mondiale Religion Day. L’Associazione sarà presentata entro novembre al Mart e successivamente alla Fondazione d’ arte contemporanea Mudima di Milano.
Guido Oldani e Igor Costanzo con altri
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Ieri avvenne di Andrea Casna
Valsugana in guerra (1915-1918) Quando gli alpini cercarono di prendere alle spalle forte Busa Verle Il racconto di Giovanni Strobele
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ell’agosto del 1915, mentre sull’altopiano del Vezzena infuriavano gli scontri, gli italiani erano in Valsugana, all’altezza di Ospedaletto e in Val di Sella. Ad ovest, all’altezza di Levico gli austriaci avevano già predisposto una linea difensiva di sbarramento. Era lo sbarramento di Tenna: una lunga linea difensiva che da Caldonazzo, attraverso il Monte Sommo, si collegava ai Forti di Tenna e delle Benne, per risalire fino alla Busa Granda. Nel corso dell’estate del 1915, esattamente nel mese di agosto, i reparti
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italiani tentarono di aggirare le forze austroungariche sull’Altopiano con lo scopo di prendere alle spalle Forte Busa Verle. Un’operazione che viene raccontata nel diario di Giovanni Strobele: un trentino, originario della Valsugana, arruolato volontario nell’esercito italiano. Strobele fu uno dei quasi novecento trentini che decisero, nel 1915, di “morire per l’Italia”. Quasi mille, quindi, i trentini che si sono arruolati volontari nell’esercito di Vittorio Emanuele per coronare un sogno: vedere Trento diventare una città italiana. Un sogno che si avverò nel novembre del 1918 quando le truppe italiane entrarono vittoriose in una Trento stremata e messa alla fame dopo quattro anni di guerra. Fra questi novecento “irredentisti” troviamo, come detto sopra, anche il valsuganotto Giovanni Strobele. Esattamente era nato il 19 giugno 1895, a Strigno da Alberto e Rosina Osti. (morirà nel 1976). Prima della guerra era impiegato presso la Banca Cooperativa di Trento e si arruolò vo-
lontario il 28 maggio del 1915 nell’esercito italiano, nel sesto e settimo reggimento alpini per poi, nel primo dopoguerra, partecipare anche alle campagne militari in Africa. Fu anche un alpinista e uno scrittore di guide e articoli di montagna. Già nei primi mesi di guerra viene inviato in Valsugana. Lo storico Luca Girotto, nel suo lavoro dal titolo «La lunga trincea. 1915-1918. Cronache della Grande Guerra dalla Valsugana alla Val di Fiemme» (Gino Rossato Editore), riporta un estratto molto interessante proveniente proprio dal diario di Giovanni Strobele (Guerra mondiale 1915-1918, depositato presso l’archivio della Fondazione Museo Storico del Trentino). Si tratta, nel dettaglio, di un tentativo italiano di prendere il Monte Persico (Levico) per risalire verso il Pizzo di Levico. Nel dettaglio, come scrive Girotto, il piano prevedeva la discesa degli alpini nella zona del Sella, attraversare il vallone di Barco, superare Monte Persico per costeggiare le pendici settentrionali del Pizzo per poi prendere l’antico sentiero del Menador fino al monte Calmo per raggiungere lo Spiazzo della Volpe al fine di attaccare alle spalle Busa Verle. Il tentativo fallì a causa dell’intervento da parte degli standchützen e delle artiglierie posizionate sulla collina di Tenna. Qui un estratto del racconto di Giovanni Strobele: «Scendiamo in silenzio da Porta
Ieri avvenne Manazzo appena fa buio e dietro viene steso il cavo del collegamento telefonico (...) e giù fino a dove sale la mulattiera da Barco (Frazione di Levico). La compagnia si nasconde su un cucuzzolo nel bosco e il ten. Calvi (ed altri) ci nascondiamo trai i cespugli ai lati della mulattiera per evitare sorprese. Sentiamo discutere ad alta voce in tedesco, e di colpo ci troviamo davanti un ufficiale austriaco ed alcuni soldati. Spariamo; il tenente è ferito, cade. Gli standschutzen spariscono!(...). Scende intanto la sera del 24 agosto e si avvicina l’ora dell’azione sull’altopiano. Il forte Tenna intanto tira qualche colpo a casaccio verso il posto ove era stato ferito l’ufficiale». Verso le 20, si legge sempre nel diario, inizia l’attacco italiano al grido “Savoia”: i fanti lanciati all’assalto vengono fermati dall’artiglieria e dalle mitragliatrici au-
striache. La missione non ottiene i risultati sperati. «Prima che faccia chiaro risaliamo -scrive sempre Strobele- a Porta Manazzo. Gli austriaci sparano qualche colpo verso di noi all’impazzata. Non abbiamo nessun ferito. Ora che ci penso, non so come la compagnia avrebbe potuto fare ad aggirare il Pizzo di Levico. C’è da attraversare prima il profondo vallone di Barco, salire sul m.Persico, attraversare un alto vallone, risalire sul m. Calmo e poi salire ancora fino a Busa Verle».
Ritratto di Giovanni Strobele
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Il Circolo Fotografico Luigi Cerbaro in collaborazione con Valsugana News in occasione del 55esimo anniversario del Circolo
ORGANIZZA
il CONCORSO FOTOGRAFICO LE QUATTRO STAGIONI IN VALSUGANA Il concorso inizia il 3 novembre 2021 e terminerà il 21 settembre 2022 ed è riservato a tutti i residenti dell’Alta e Bassa Valsugana, del Tesino, Pinetano e Vigolana compresi. Il concorso è suddiviso in 4 categorie: Autunno, Inverno, Primavera, Estate.
E ognuna terminerà con lo scadere delle varie stagioni. Le classifiche - per stagione e quella finale - saranno stabilite in base ai like ricevuti su Facebook. Al termine di ogni stagione sarà stilata la classifica temporale e quindi annunciati i vincitori. Regolamento su Facebook gruppo e pagina Circolo Fotografico Cerbaro - Borgo Valsugana. Per ulteriori informazioni: circolofotograficocerbaro@gmail.com In caso di utilizzo improprio e illegale o per appropriazione indebita delle foto pubblicate su Facebook del Circolo fotografico Luigi Cerbaro, quest’ultimo declina qualsiasi responsabilità civile, penale ed economica. Per la pubblicazione delle foto aventi come soggetto dei minori è obbligatoria la liberatoria sottoscritta da entrambi i genitori.
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Il cinema allo specchio
di Nicola Maschio
BLACK MIRROR
Quando la tecnologia cambia la vita
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na vita influenzata dalla tecnologia e non viceversa. È il (possibile?) futuro disegnato e raccontato da Black Mirror, serie che tanto ha fatto parlare di sé sul portale Netflix ma che ancora, dopo diverso tempo, lascia aperte molte interpretazioni. Black Mirror si costruisce su diversi episodi, ognuno dei quali ha vita propria. Non c’è una storia unica, ma tanti spunti di riflessione che hanno come filo conduttore la tecnologia, il cambiamento digitale e le ripercussioni (positive e negative) che questi elementi hanno nella vita di tutti i giorni. Sostanzialmente, la serie spinge a chiedersi: in un mondo che giorno dopo giorno si sta incanalando sempre di più su una strada “devota alla tecnologia”, quanto ne saremo realmente dipendenti nel prossimo futuro? Black Mirror: le tante trame Come accennato in precedenza, non esiste una storia di Black Mirror, ma ci sono invece tante e diverse realtà che, un episodio dopo l’altro, vengono poste allo spettatore quasi come fossero degli interrogativi. Ogni puntata spinge a farsi delle domande. Qual è il ruolo della tecnologia oggi? Quale potrà essere in futuro? E se davvero
il mondo dovesse cambiare in una direzione digitale, quali conseguenze avrebbe questo sulla nostra socialità, sul nostro modo di essere e sulle nostre abitudini? Si parla infatti di social media, di dispositivi in grado di simulare emozioni o controllare la mente, di intere campagne elettorali fondate sull’apporto tecnologico. Insomma, le tematiche sono tante e le sfumature di ognuna veramente complesse, ma straordinariamente attuali. I personaggi Ancora una volta, occorre ragionare in termini generali. Ogni personaggio ha una sua storia, i suoi trascorsi e le sue peculiarità. Tutti però sono legati dal sottile filo che, come già spiegato qualche riga più in alto, riguarda il tema della tecnologia. Le emozioni, i rapporti tra i protagonisti, addirittura la loro vita verte attorno all’influenza di quello che è a tutti gli effetti il mondo tecnologico, predominante nella loro esistenza. Il messaggio: Black Mirror ipotizza un futuro diverso, ma migliore o peggiore? Non è chiaro se l’intento di Black Mirror sia quello di sensibilizzare rispetto alle problematiche che l’eccesso di
digitalizzazione e tecnologia potrebbe comportare alla specie umana o se invece, più generalmente, gli ideatori volessero azzardare diversi scenari per capire come ognuno di essi potrebbe influenzare la nostra vita. Quel che è certo è che Black Mirror rappresenta un incredibile punto di partenza per tantissimi ragionamenti rispetto a tematiche che oggi vengono trattate quotidianamente. Ci sono coloro che fondano la propria vita sui social network e sull’approvazione degli altri, entrando così in un circolo vizioso dove consenso genera consenso e, di contro, la disapprovazione porta all’esclusione sociale. C’è poi chi sceglie di utilizzare la tecnologia per punire i colpevoli di terribili reati, ed in questo caso viene da chiedersi come possa evolvere il concetto di “giustizia” in un mondo ad alta influenza tecnologica. Ancora, altri scelgono di usare quest’ultima per raggiungere obiettivi personali. I punti di vista su Black Mirror, le interpretazioni e le conclusioni che ogni persona elabora al termine di ogni episodio, sono fortemente personali. Ma è proprio qui che emerge la vera natura di una serie che, oltre a spingere a ragionamenti profondi, porta ognuno di noi ad interrogarsi sul futuro.
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La storia parlata di Waimer Perinelli
LADINI
UNA LINGUA UN POPOLO
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a signora Maria, persona intelligente e cortese, negli anni 70 abitava in via Grazioli a Trento. Era nata a Cortina d’Ampezzo quando regnava Francesco Giuseppe,ma non si sentiva austriaca, era molto trentina, ma soprattutto ladina. Nei primi anni del 900 parteggiava per l’Italia, con i sostenitori di Cesare Battisti, ma con moderazione perché non amava le cose urlate e le manifestazioni di piazza. A vent’anni aveva sposato un imprenditore di Trento, uno spirito inquieto, da cui ebbe due figli prima che partisse per il Sud America in cerca di fortuna. Vi trovò la morte e Maria non tornò più nell’ampezzano fra i ladini, ma di questi il Trentino, l’Alto Adige, cosi’ come la provincia di Belluno, abbondano. Ladine sono quelle comunità che parlano e scrivono una lingua con antiche reminiscenze latine non sempre uguali fra i diversi territori abitati. Nell’area centro- orientale della regione Trentino-Alto Adige, in Val Gardena (Gherdeina), la usano 8148 abitanti, 80-90 per cento della popolazione; in valle di Fassa è parlato dall’82, 8 per cento degli abitanti, 7.553 persone, che usano ben tre varianti: la moenat, la brach e la caset. A queste comunità ladine consolidate, unite geograficamente e culturalmente ai ladini dell’Aldo Adige-Sud Tirol, cercano di aggregarsi da una ventina d’anni i nonesi, abitanti della Valle di Non con addentellati della Valle di Sole e di Rabbi. A trascinarli nell’avventura culturale è l’associazione
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Retia (Rezia) guidata da Caterina Dominici, la rossa di capelli e, un tempo, di pensiero. La politica conservatrice li classifica però come discendenti dalla cultura celtica preromana. Ma i nonesi insistono e le opposizioni al loro progetto sembrano più amministrative che culturali, perché lo Statuto di autonomia assicura ai ladini trentini almeno un seggio sicuro nel Consiglio Regionale e i ladini dell’area fassana, che ne hanno finora sempre usufruito, non sono disposti a cederlo e nemmeno a vederselo contendere. Hanno meno privilegi ma uguale forte sentimento di appartenenza i ladini del Veneto alpino, delle valli Badia e Marebbe, 9.222 abitanti fra i quali il 95% ha come lingua madre il ladino-badioto, classificata come Cadorino. Abitano a Cortina, a Calanzo, Auronzo..Borca. Usano il Fedom o ladino dell’alta val
Cordevole o Livinallese, gli abitanti di Livinallongo del Col di Lana e del colle di Santa Lucia. Queste zone, classificate come ladino-atesine, secondo gli studiosi, soffrono di contaminazioni venete. Da questi monti, a cascata si scende infatti nell’Agordino, ad Alleghe, Falcade-Falciade, in piena provincia di Belluno, dove viene classificata anche una lingua o parlata, semi ladina. La questione non è di poco conto. Anzi. Recentemente anche in provincia di Belluno, grazie alla normativa sulle minoranze linguistiche storiche (legge 482/1999), sono stati riconosciuti ladini i comuni del Cadore, del Comelico, dell’Agordino, della valle del Biois, dell’alta val Cordevole, e della val di Zoldo. È attivo l’Istituto Ladin de la Dolomitesistituto “Cultural Cesa de Jan”, (Istituto Culturale delle Comunità dei Ladini
La storia parlata Storici delle Dolomiti Bellunesi), con sede a Borca (Borcia) di Cadore. Recentemente è stato concluso il progetto SPELL che mira ad una lingua ladina standard. Si è iniziato con la standardizzazione e l’informatizzazione del patrimonio lessicale e successivamente si sono realizzati un dizionario e una grammatica di base. L’obiettivo, per nulla segreto, è di agguantare le norme già esistenti nella Provincia autonoma di Bolzano dove la lingua ladina è ufficialmente riconosciuta in base all’articolo 102 dello Statuto di autonomia sulla valorizzazione delle iniziative ed attività culturali e la minoranza ladina viene tutelata con l’insegnamento nelle scuola pubbliche e la facoltà di usare la lingua ladina nei rapporti con la pubblica amministrazione. In Alto Adige nelle scuole delle località ladine la lingua si insegna al pari dell’italiano e del tedesco. Con un limite, sulla base della delibera n 210 del 27 gennaio 2003, è possibile usare la lingua ladina negli atti degli enti pubblici e normativi, solo nelle forme del ladino unificato della Val Badia e della val Gardena. Un esempio per i cugini veneti, con l’invito a fare presto e bene uniformando le diversità e lottare insieme per salvaguardare identità, lingua, cultura. In tempi di Euregio non sarebbe male avere un congresso a Cortina d’Ampezzo, nell’ Ampezzan, all’ombra del monte Cristallo di Cortina, quello a cui guardava, con affetto, la signora Maria.
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Il personaggio di Francesco Zadra
DAVIDE ZAMBELLI, uno strudel di simpatia
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ntusiasmo travolgente, 24 anni e un accento da vero “trentinàz”. È questo l’identikit di Davide Zambelli, giovane chef della Val di Sole che, reduce dalla vittoria a La Prova del Cuoco, decide di lanciarsi in un’impresa folle quanto geniale: allestire uno studio televisivo in garage per unire il talento in cucina con la passione per l’intrattenimento. In pochi anni i suoi tutorial hanno fatto il giro della rete superando addirittura il milione di visualizzazioni. Non c’è da stupirsi, perché Davide mixa con brio modernità e tradizione, rendendo piacevole, ancorché utile, seguirlo nel creare step by step degli squisiti manicaretti. Siamo andati a trovarlo per fare due chiacchiere (non il dolce di Carnevale, sebbene Zambelli ne sia perfettamente in grado). Eccoci quindi sbarcati nelle terre solandre, precisamente a Stavel, “frazione” di Castello a sua volta frazione di Pellizzano. Davide, come nasce la passione per la cucina? Ho cominciato per caso: quand’ero piccolo ci trovavamo con i cugini a casa dei nonni e mio nonno mi diceva «dai Davide vei a darme ‘na man en cosina»; mi è sempre piaciuto aiutarlo a impastare e armeggiare tra i fornelli… da lì ho cominciato ad aiutare anche mia mamma in cucina, dato che a casa siamo in sette e c’è sempre un gran da fare. Insomma è nato tutto in famiglia, del resto anche il mio bisnonno era uno chef rinomato che gestiva un ristorante in Val di Pejo.
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E com’è proseguita la tua formazione? Finite le medie ho iniziato ragioneria, avevo mezza idea di passare al turistico dopo il biennio perché mi piacevano le lingue. Ma ben presto mi sono accorto che contabilità, diritto, e indici di bilancio non facevano per me. Mia madre, memore della mia passione culinaria, mi ha quindi proposto di passare all’alberghiera di Ossana e ho detto «dai proviamoci, che magari ‘sta passione diventa un lavoro!».
Avevi finalmente trovato la tua strada! In realtà no. Sono partito facendo sia sala che cucina, ed ero indeciso: mi piaceva l’idea di cucinare ma mi mancava il contatto con le persone. Ho scelto di proseguire con cucina facendo tirocinio in alcuni ristoranti e i miei dubbi sono stati confermati: l’ambiente è molto rigido e bisogna essere rapidi, no te podi star lì a contarghela su. Quindi sono ritornato a scuola per prendere anche la qualifica di cameriere. Potevo così esprimermi al meglio e intrattenere i clienti facendo stupidate, ero però lontano dai miei amati fornelli. Hai partecipato a La Prova del Cuoco per chiarirti le idee? È una storia un po’ strana perché mi ha iscritto mia zia, a mia insaputa. Di colpo mi sono trovato al provino a Padova con una semplice crostata, ma si vede che ho saputo raccontargliela così bene che ho passato la selezione e sono finito in TV con la Clerici. Grazie a questa avventura ho capito la mia mission: unire la passione per la cucina con la mia indole “da comediante”. E così ti sei rimboccato le maniche… Esatto, con la quota vinta (inizialmente 30.000€ ma poi, tra tasse e balle varie, è scesa a 15.000) ho ristrutturato un vecchio locale vicino al garage per trasformarlo in una cucina professionale con tutto il necessario per registrare video. Mia mamma non poteva trovarsi ogni due giorni la “sua” cucina sotto sequestro per le mie riprese.
Il personaggio A quale target ti rivolgi? Secondo le statistiche sono seguito principalmente da due fasce d’età: 18-24 e over 60. Mi piace pensare che la mia cucina sia un ponte tra generazioni. Il tuo canale youtube, attivo ormai da tre anni, gode di una community molto vivace, ma è tutto rose e fiori? Guarda, su internet si trova veramente di tutto. Dalle vecchiette che ti vorrebbero adottare fino a proposte di matrimonio da perfetti sconosciuti (sia donne che uomini), passando per le avances più trash: mi hanno pure chiesto di vendergli le mie mutande… Be’, poteva diventare un bel business… Non ci avevo pensato! Purtroppo ho trovato anche haters pronti ad insultarmi per il mio aspetto fisico e altre cattiverie gratuite. Ma a queste persone basta non dare corda e si sgonfiano da sole. Tutto sommato sono contento, i video vengono commentati da tanta bella gente che mi fa sentire benvoluto e apprezzato nei miei pregi e difetti. Mi arrivano perfino messaggi da italiani emigrati all’estero che attraverso le mie ricette riscoprono emozioni e sapori che credevano dimenticati.
Cucina italiana orgoglio nazionale. A proposito, per chi mette l’ananas sulla pizza: pena capitale o ergastolo? Sono contrario alla pena di morte, ma qualche annetto di galera non glielo toglie nessuno… Sui tuoi canali social traspare un rapporto dolce e genuino con tua nonna Lina, come le hai spiegato il tuo mestiere d’influencer? G’ho ben spiegà ma no l’ha ancor capì. È un mondo talmente diverso da quello in cui è cresciuta che non è facile spiegarglielo. Ogni tanto la “sfrutto” per qualche comparsata nei video, fa la timida ma so che sotto sotto se la gode. Ma devo stare attento a non esagerare sennò la me manda en monega.
Come hanno impattato sulle tue attività la pandemia e il lockdown? È stato un periodo pesante, come per tutti. Per fortuna vivendo in montagna uscivo spesso a far due passi nel bosco attorno casa. Ho cercato di fare la mia parte per sollevare il morale ai followers proponendo ricette economiche e con ingredienti facilmente reperibili durante il lockdown, il tutto accompagnato da qualche gag comica. Mi scoccia, però aver dovuto rinunciare a molti miei eventi e show cooking, in cui il contatto con la gente è centrale, ma a breve conto di riprendere. Per il futuro che cosa “bolle in pentola”? Punto alla conduzione di programmi televisivi culinari ma con un format che mi permetta di esprimere la mia vena artistica: suono la chitarra e il violino, e nutro fin da bambino la passione per il canto. Non sai quanti spettacolini in mansarda si sono sorbiti i miei familiari… Futuro giudice di Masterchef? No, mi scarterebbero subito: son masa bon.
Potete trovare le ricette di Zambelli su: www.davidezambelli.com
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Pantone 484 C C M Y K
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Ieri avvenne di Massimo Dalledonne
VIGILIO CECCATO U
n benefattore. Così lo definisce Antonio Zanetel nel suo volume “Dizionario biografico di uomini del Trentino Sud-Orientale”. Il cavaliere Vigilio Ceccato è scomparso esattamente un secolo fa. Era il 15 novembre del 1921, infatti, quando, all’età di 54 anni, moriva a Bordighera. Nato a Cinte Tesino, ancora giovane partì dal suo paese natale come commerciante ambulante, seguendo la via intrapresa da molti suoi convalligiani. Faceva il pertegante: così venivano chiamati, nella parlata tesina, i mercanti girovaghi. Era gente intraprendente e coraggiosa che, “pertica su pertica” batteva le strade portando sulle spalle, nella “casèla”, un carico d’arte, di religione e di piccole mondanità che venivano distribuite tra le folle d’Europa e del mondo.
Da sinistra Guido Larcher, G.B. Vigini e Vigilio Ceccato (foto Trentino Cultura)
Un’attività iniziata verso il 1600 e che si sviluppò nella metà del 1700 quando l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, chiamata dalle popolazioni tesine e valsuganotta Teresona in senso di affettuoso rispetto, concesse ai girovaghi delle particolari prerogative. Come ricorda Zanetel “dotato di particolare intelligenza fece fortuna e mise in piedi a Mosca una ditta per il commercio di quadri, incisioni e oggetti d’arte che, tra l’altro, godeva il privilegio di servire la Casa Imperiale, oltre alla nobiltà russa”. Viglio Ceccato, però, più che per la sua attività commerciale viene ricordato per la sua grande bontà d’animo. Soprattutto per la preziosa opera di assistenza che profuse a favore dei soldati italiani (trentini e valsuganotti) che facevano parte dell’esercito austro-ungarico. A Mosca, infatti, ricopriva le cariche di console onorario d’Italia, presidente della Camera di Commercio e della Società Dante Aligheri. “Si sentiva legato all’Italia – si legge nel volume – che considerava la sua patria. E questo nonostante si fosse allontanato da Cinte e dalla conca del Tesino sin dalla giovane età”. Ecco come lo ricordava a suo tempo Pietro Carraro di Strigno, allora prigioniero e ricoverato in un ospedale per le ferite. Nelle sue memorie. “Ai prigionieri donava cibo, indumenti, vestiari e li visitava negli ospedali. Aveva un conforto per tutti e per molti di loro divenne come un padre affettuoso. Durante la mia permanenza a Mosca però un giorno fui anche confortato: all’insaputa nella camerata è comparso un signore, andava
Da sinistra Cavalier Vigilio Ceccato, Covi e il Maggiore Tonelli (foto Trentino Cultura)
cercando trentini. Costui era un certo cavaliere Ceccato di Cinte Tesino. Il suo atto caritatevole fu ricordato da tutti i feriti trentini che si trovavano in quell’ospedale, perché a ciascuno ci ha regalato un rublo in argento”. Ancora Antonio Zanetel. “In questa azione altamente umanitaria e patriottica Vigilio Ceccato coinvolse altre famiglie oriunde del Tesino come i Fietta, gli Avanzo, i Tessaro ed i Broccato, Collaborò inoltre attivamente con la commissione che il governo italiano aveva inviato in Russia per trattare il rimpatrio degli irredenti. Dopo aver perduto, causa gli eventi rivoluzionari, tutta la sua sostanza, frutto di decenni e decenni di lavoro, tornò in patria nel 1918”. Vigilio Ceccato visse gli ultimi anni a Trento e morì, per motivi di salute, cento anni fa a Bordighera. Per ricordare la sua figura il comune di Cinte Tesino gli ha intitolato una via del paese.
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Il Campione di Alessandro Caldera
GIUSEPPE MEAZZA , il “Balilla” a cui intitolarono uno stadio O
gni città può essere identificata con un uomo che ha contribuito a renderla celebre o immortale nel tempo. Pensiamo a Leonardo che addirittura deve il suo cognome al borgo di provenienza, oppure a San Francesco d’Assisi, o per non allontanarci troppo dal nome appena citato, a Totti capace, a modo suo, di rivoluzionare la storiografia romana per ergersi ad ottavo re della Capitale. Il racconto di oggi ci porta a parlare di una delle mete più conosciute dai turisti che si accingono a visitare il nostro amato Paese: Milano. Una precisazione però va fatta: non parleremo della Milano del XXI secolo, nota per la sua modernità ed avanguardia, ma di quella dei primi anni del Novecento pura, ma intaccata ben presto dai due tragici conflitti mondiali. L’anno in questione è il 1910 e l’uomo in grado di stabilire un legame magico con il capoluogo lombardo si chiama Giuseppe, detto “Peppino”, Meazza. Nato e cresciuto nel popolare quartiere di “Porta Vittoria”, la prima a cadere in mano agli insorti durante le famose “Cinque Giornate”, il futuro centravanti azzurro rimase orfano di padre, perito nel 1917 in piena Grande Guerra, venendo pertanto accudito interamente dalla povera madre e vedova Ersilia. Il primo contatto con il mondo del calcio lo ebbe all’età di 6 anni, quando incontrò dei ragazzi, provenienti da aree limitrofe come ad esempio Porta Romana, ribattezzati successivamente i “Maestri Campionesi”, che giocavano con un pallone fatto di stracci. A 12 anni finalmente entrò a far parte di una squadra, il Gloria F.C., mentre sullo sfondo iniziò ad intravedersi
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Giuseppe Meazza (1935)
l’anno 1924. Dal punto di vista della storia del nostro Paese, il momento in questione è quello nel quale l’Italia sperimentò, in prima persona, il modus operandi del Partito Fascista, sublimato e riassunto dal tragico “Delitto Matteotti”. Nel nostro raccon-
to quella data chiave sancisce invece il primo incontro tra Meazza e l’Inter, un amore però basato su un clamoroso e paradossale retroscena. Prima dell’approdo nella compagine nerazzurra, Peppino fu infatti scartato dal Milan, a causa di una conformazione fisica troppo gracile che ingannò gli scout rossoneri e che li portò a compiere un imperdonabile errore, visto che poi l’attaccante di Porta Vittoria è ancora oggi tra i migliori realizzatori all-time della “Beneamata”. Per quanto concerne le abilità e le doti di Meazza, il primo ad avvedersene fu un certo Fulvio Bernardini, mediano interista della seconda decade novecentesca, che lo segnalò all’allenatore dell’epoca: Arpad Weisz. Il tecnico magiaro la cui fine sopraggiunse troppo presto, una mattina di gennaio ad Auschwitz per colpa della abominevole macchina nazista, su consiglio del già citato Bernardini lo aggregò giovanissimo alla prima squadra, fatto che portò il centravanti
Giuseppe Meazza, Italia-Brasile (1935)
Il Campione Leopoldo Conti a proferire la famosa frase: “Adesso facciamo giocare anche i Balilla?!” Oggi possiamo dire che sì, il Balilla, termine che si usava appunto per designare i ragazzini , poteva giocare eccome e questo lo capirono a loro spese le difese italiane che furono perforate una dopo l’altra dal giovane prodigio. A livello di militanza nel nostro campionato, Giuseppe si legò per 14 stagioni all’Inter, dove vinse 3 Scudetti e una Coppa Italia, traguardi raggiunti tutti prima del famoso “piede gelato”, ossia un’occlusione ai vasi sanguigni del piede sinistro, che ne limitò la carriera. Ecco perché la vita calcistica di Meazza a partire dal ’40 non è più rilevante; a 30 anni non ha più l’esplosività dei giorni migliori, gioca persino alla Juventus e al Milan, oltre che a Varese e all’Atalanta, senza però incidere mai, prima di fare ritorno nel 1946 dove
Giuseppe Meazza (da Storie del Calcio - Altervista)
tutto era iniziato. Il genio e l’estro di Peppino contribuirono a far uscire il calcio italiano da una dimensione provinciale. Sotto la gestione di Vittorio Pozzo, l’allenatore più vincente della storia Azzurra, l’Italia ottenne ben 2 mondiali e per la prima volta poté giocarsela alla pari con gli Inglesi, i maestri del gioco.
Sul giocatore e sulla persona sono state scritte moltissime storie, quello che si dice è che non fosse schivo ed impacciato ma al contrario molto sicuro delle proprie potenzialità. Capello sempre pieno di brillantina, amore per il gioco, lauti stipendi e un’automobile sono questi alcuni dei tratti che lo avrebbero caratterizzato, al punto da renderlo un’icona per il tempo. Al di là delle possibili speculazioni quello che è certo è che, a quasi 69 anni, un carcinoma ha deciso di portarselo via anche se come disse Gianni Brera: “Lui stesso negli ultimi anni era assai poco convinto in cuor suo che quella vita meschina meritasse più di venire vissuta”. Oggi Giuseppe Meazza detto “Peppino” è però ancora tra i simboli di Milano, dal momento che lo stadio di San Siro dal 2 marzo 1980 porta il suo nome.
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Salute & Benessere di Rolando Zambelli, titolare dell’Ottica Valsugana, è Ottico Optometrista e Contattologo
Corretto utilizzo delle lenti a contatto morbide
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e lenti a contatto (LaC), in base ai materiali con cui vengono prodotte, si possono suddividere in due categorie: lenti a contatto rigide gaspermeabili e lenti a contatto morbide. Le LaC morbide si dividono in due grandi famiglie a seconda dei materiali (polimeri) con cui vengono costruite, LaC in Idrogel e LaC in Silicone Idrogel. Si possono suddividere anche in base alla tipologia di porto: monouso o a ricambio frequente (settimanali, quindicinali, mensili, trimestrali, semestrali e annuali). È importante seguire le indicazioni che il contattologo in sede di applicazione spiega, il portatore deve attenersi a queste regole di igiene e manutenzione per ottenere il meglio dalle LaC usandole in modo efficace e sicuro. Metodologia per un utilizzo efficace e sicuro delle LaC morbide ● Prima di applicare la LaC DEVI lavarti ed asciugarti accuratamente le mani ● NON usare l’acqua per pulire le LaC ● Per le LaC a ricambio frequente, dopo ogni utilizzo, pulisci (strofinando la lente con la soluzione unica consi-
gliata dal contattologo sul palmo della mano), disinfetta, risciacqua e conserva nella soluzione consigliata ● Le LaC monouso (o giornaliera) dopo ogni utilizzo DEVONO essere gettate. ● Richiudere sempre il flacone della soluzione conservante ● Dopo ogni utilizzo il portalenti deve essere svuotato (non lasciare la soluzione e riutilizzarla), dev’essere pulito (NON con l’acqua, ma con la soluzione di manutenzione delle LaC) e poi asciugato. ● Il contenitore DEVE essere sostituito una volta al mese ● Utilizza le LaC per il tempo per cui sono indicate (una settimana, 15 giorni, un mese, . . . ) e per il tempo che il contattologo consiglia (es: solo qualche ora al giorno) ● Applica le LaC prima di truccarti e rimuovile prima di struccarti ● NON usare le LaC nel mare o in piscina (oppure indossa gli occhialini da nuoto e poi getta via le lenti) ● NON dormire con le LaC, a meno che non siano lenti apposite
Le LaC e le soluzione di manutenzioni sono state scelte appositamente per te: non cambiare tipo senza aver prima consultato il tuo applicatore. ● In caso di fastidio, arrossamento o altri disturbi NON applicare le LaC, contatta immediatamente il tuo contattologo e/o rivolgiti al medico oculista. È importante che il portatore verifichi periodicamente con il contattologo che la soluzione di manutenzione e le lenti stesse continuino ad essere le più idonee, vanno quindi effettuate visite di controllo periodiche per evitare qualunque possibile complicanza. ●
Fonti: SOPTI (Società Optometrica Italiana), Assottica
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Medicina & Salute di Erica Zanghellini
Stai attenta che poi prende il vizio Q
uante volte abbiamo sentito pronunciare questa frase. Tanti neo genitori o comunque genitori di bambini piccoli si saranno sentiti ripetere questa espressione, in più occasioni. Di solito quella principe è quando si ha in braccio il proprio figlio. Ma è proprio vera questa cosa? Veramente possiamo paragonare un atto d’amore, di coccola come questa, a un vizio? La scienza dice di no, si possono leggere svariati studi sul tema su come un adulto responsivo ai bisogni del minore nel breve ma, soprattutto nel lungo temine, sia promotore per lo sviluppo di una serie di capacità indispensabili per il benessere per-
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sonale. Uno su tutti, la teoria dell’attaccamento di Bowlby, ma possiamo anche leggere qualche studio più recente di etnopediatria per esempio. Comunque il fulcro di queste ricerche sta proprio ad indicare che ci sarebbero molti benefici per il bambino a essere preso in braccio, coccolato o comunque in generale tenuto a stretto contato con la propria figura di riferimento, che di solito è la madre ma, non esclude che in alcuni casi questo ruolo possa essere ricoperto da un’altra figura di accudimento. Perché questo? Perché il bisogno di contatto è un bisogno primario, innato e che non abbiamo solo noi essere umani (lo possiamo infatti trovare, anche nel mondo animale).
Si riscontra in tutti i bimbi del mondo, al di là dell’origine o della cultura, insomma possiamo escludere che sia un’abitudine appresa. E soprattutto sappiate che può influenzare anche il successivo sviluppo del bambino. Un bimbo che sente di aver a disposizione un adulto emotivamente connesso e che risponde ai suoi bisogni più intimi ed emotivi sarà un bambino che costruirà una rappresentazione di sé come un essere umano degno di fiducia e di amore degli altri. Al contrario un bambino a cui non verrà data risposta ai suoi bisogni di contatto e/o rassicurazione sarà un minore che crescerà con l’idea di non essere meritevole di attenzione e d’amore. Anche perché quando
Medicina & Salute un bambino piange o manifesta la necessità di avere una vicinanza col proprio cargiver di riferimento è in un momento dove si è attivato un bisogno, un malessere. Spesso e volentieri alla base della paura di viziarlo c’è la convinzione che per favorire lo sviluppo dell’indipendenza del bambino sia opportuno un precoce distacco del genitore. Ma non è così, non c’è nessuna evidenza scientifica che confermi che bambini cresciuti ad alto contatto creino danni o ritardi al bambino, anzi dobbiamo ricordarci che lo sviluppo dell’indipendenza di un figlio parte proprio da un legame che naturalmente e fisiologicamente è di dipendenza dall’adulto. Il contatto è un bisogno primario pari al necessità di nutrirsi.Solo nel momento in cui il bambino ha sviluppato una relazione sicura/amorevole può andare a
scoprire il mondo e quindi affrontare i primi distacchi o mettersi in gioco con i primi atti di indipendenza. Quello che ho scritto non vuol dire che dobbiamo avere sempre e comunque il bambino in braccio, o entrare in crisi quando in quel momento non è possibile rispondere repentinamente al suo bisogno. Come ogni cosa la verità sta nel mezzo, ovvero essere sufficientemente responsivi al bisogno di accudimento del bambino e nel momento in cui leggiamo nel suo comportamento disagio, aiutarlo e sostenerlo emotivamente quando possibile. Questo è un passaggio fondamentale ma, anche molto complicato, soprattutto per le mamme, che spesso sono le figure di riferimento del bambino per due motivi principali: * il primo perché se non sono stata io una bambina supportata, ascol-
tata è difficile rimanere in contatto con i bisogni del proprio figlio; * due perché sicuramente i ritmi della nostra società non aiutano. Ritmi troppo serrati, aspettative irrealistiche e giornate che comunque durano ventiquattro ore. Le mamme o chi si occupa principalmente dell’accudimento dei bambini, spesso e volentieri si devono districare tra mille compiti giornalieri e non è semplice assolvere tutto. Sarebbe bello che l’intera società mettesse in discussione il tutto e capire quanto di questo sia pregiudizio culturale e quali invece, sono e saranno sempre i bisogni delle generazioni future che dovrebbero avere la priorità su tutto. Dott.ssa Erica Zanghellini Psicologa-Psicoterapeuta Tel- 3884828675
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L’avvocato risponde di Erica Vicentini *
HO PRESTATO MA NON SONO STATO PAGATO Un lettore ci pone un quesito molto interessante, che riepilogo come segue. Dopo aver dato in prestito ad un amico una somma di denaro considerevole (euro 6.000,00) alla presenza della moglie (immagino di lui), il debitore purtroppo è deceduto. Alla richiesta del nostro lettore-creditore di vedersi restituita la somma di denaro prestata al decuius, la moglie ormai vedova ha risposto che non riconosceva il prestito al marito perché aveva utilizzato i soldi per scopi personali: quindi faceva capire la volontà di non restituirli.
Q
uante volte capita a tutti, nella vita quotidiana, di aiutare, del tutto in buona fede, un amico economicamente in difficoltà. Nel caso di specie, purtroppo, è intervenuto un fatto imprevedibile e grave che ha reso complessa una situazione che potrebbe sembrare a prima vista lineare e quasi ovvia. La vicenda, infatti, tocca questioni giuridiche molto diverse fra loro, che si intersecano e rendono la risposta articolata: si è di fronte ad un contratto verbale, stipulato in presenza solo di un testimone, fra un soggetto deceduto debitore e il creditore che intende richiedere l’adempimento. Partiamo da una premessa obbligatoria: nel nostro ordinamento, è sempre difficile il recupero di una somma di denaro data ad altri a titolo di prestito (senza interessi) o mutuo: la strada è lunga e passa da un accertamento giudiziale per poi arrivare all’esecuzione coattiva con il precetto ed il pignoramento. Ciò ovviamente se la restituzione non avviene in via bonaria, ossia per volontà del debitore, con pagamento spontaneo. Ritengo che, dal punto di vista della esistenza e validità del contratto, i dati che il lettore ci fornisce risultino sufficienti per ritenere che non vi sia-
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no ostacoli: il contratto, infatti, è stato stipulato in forma orale (immagino con la vecchia “stretta di mano”) che è del tutto sufficiente e valida per un contratto di questo tipo (artt. 1325 ss c.c.): si è creato quindi un vincolo fra le parti che contempla reciproci diritti e doveri. In più, ci viene pare che al momento della stipulazione del contratto era presente una testimone: questo elemento è sicuramente importante anche se la testimonianza non è un mezzo di prova “forte” come può esserlo un contratto scritto e firmato.
È fisiologico che il creditore chieda oggi l’adempimento a coloro che ritiene eredi anche se, da quanto ci viene esposto, non sappiamo se, al momento della stipula del contratto, sia stata pattuita una certa scadenza o termine dopo il quale fosse esigibile il pagamento. Nel caso di debitore deceduto, di regola i debiti che aveva contratto in vita confluiscono nel c.d. asse ereditario e, quindi, ricadono sugli eredi che accettano l’eredità. Poco importa qual è stato il motivo del debito o delle spese sostenute dalla persona
L’avvocato risponde deceduta: di regola, sulle figura dell’erede confluiscono tutte le posizioni soggettive (attive ma anche passive) che erano in capo al decuius. Uno dei problemi che si pone, quindi, è verificare il primo luogo se la moglie e gli altri chiamati all’eredità abbiano accettato o meno di diventare eredi (artt. 459, 470 ss c.c.). Esistono vari modi di acquisto dell’eredità: espressa, tacita, semplice o con beneficio di inventario. Laddove la moglie (o altri chiamati all’eredità) accettino di diventare eredi a tutti gli effetti, non vedo ostacoli a che il nostro lettore (e creditore) richieda l’adempimento del contratto di prestito stipulato in via orale dal decuius. Vero è, però, che l’adempimento potrebbe non essere spontaneo. In tal caso, è necessario l’intervento di un avvocato che, di regola, dapprima
diffida il debitore a pagare in maniera spontanea: ciò a mezzo di una c.d. lettera monitoria. Laddove il debitore non paghi, sarà necessario instaurare un giudizio civile in Tribunale per accertare la sussistenza del credito e vedere condannati i debitori-eredi alla restituzione della somma. Solo in tal modo, infatti, sarà possibile avere un titolo per poter poi andare a recuperare coattivamente (ad esempio con un pignoramento) la somma dovuta: non esistendo un contratto scritto, l’accertamento del Giudice sarà in primo luogo volto a verificare l’esistenza dell’accordo fra le parti (anche a mezzo di testimoni) nonché
la dazione effettiva della somma di denaro. Ottenuto il titolo, ovvero la sentenza di condanna, il nostro lettore-creditore potrà recuperare coattivamente la somma dagli eredi che hanno accettato l’eredità. Ovviamente, solo un’analisi completa di tutti i documenti e di tutte le circostanze rilevanti può permettere un parere esaustivo e una valutazione sulla necessità o meno di una causa.
*Avvocato Erica Vicentini, del Foro di Trento, Studio legale in Pergine Valsugana, Via Francesco Petrarca n. 84)
Chi desiderasse avere un parere su un problema o tematica giuridica oppure una risposta su un particolare quesito, può indirizzare la richiesta a: direttore@valsugananews.com
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Conosciamo la legge di Erica Vicentini *
LA RINEGOZIAZIONE DEL MUTUO
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egli ultimi anni spesso si sono registrate situazioni di precarietà economica tali da rendere difficoltoso il pagamento persino delle rate del mutuo di casa. Mutui, magari, contratti anni fa a tassi e piani di ammortamento più alti di quanto oggi potrebbe riscontrarsi ma dettati dalle condizioni del mercato immobiliare di allora e da condizioni economiche-reddituali spesso differenti: il riferimento corre, ad esempio, alle situazioni di perdita del lavoro o altri imprevisti che hanno condotto a dover scegliere se pagare il mutuo di casa o sbarcare il lunario. Ovviamente anche per gli Istituti di credito l’esposizione di passività rilevanti non è una situazione facile da gestire: anche se non sempre il Cliente trova la porta aperta per parlare di rinegoziazione del mutuo. Per questo, si sono susseguiti a livello normativo vari tentativi volti a incentivare questi tavoli di confronto fra Cliente (consumatore) e Banca mutuante. L’ultimo interessante strumento è stato previsto dall’art. 40 ter legge 60 del 2021, che ha tentato di introdurre un’ipotesi vincolata di Rinegoziazione del mutuo a vantaggio del Cliente-consumatore. Va detto, però, che i requisiti previsti dalla norma sono particolarmente stringenti, soprattutto con riferimento all’anticipo che viene richiesto al Cliente debitore per poter accedere alla rinegoziazione. Le condizioni prevedono, in primo luogo, che il Cliente debba rivestire la qualifica di consumatore (e non essere, quindi, imprenditore o altro) e il creditore sia una banca, una società
che ha acquistato crediti incagliati un intermediario finanziario autorizzato, garantito da ipoteca di primo grado su un immobile adibito ad abitazione principale. A ciò si aggiungono i requisiti di tipo economico, che sono certamente delicati: il debitore deve aver già rimborsato almeno il 5% della quota capitale e non solo della quota dovuta a titolo di interessi, su un credito complessivo di massimo euro 250.000,00 e deve offrire un importo specifico, pari al prezzo base dell’asta ridotto del 25% o, se l’immobile è stimato ma non si è ancora tenuta la prima asta, il prezzo di stima, oppure ancora nel caso in cui il debito residuo sia inferiore al valore dell’immobile anche con la riduzione del 25% va offerto l’intero importo del debito residuo comprensivo di spese di pignoramento e di interessi
L’istanza così redatta può essere presentata solo una volta entro il 31 dicembre 2022 e deve essere già pendente procedura di pignoramento immobiliare. Al ricorrere di queste condizioni si crea quello che possiamo considerare un diritto del soggetto cliente-consumatore di sedersi al tavolo con la Banca per rinegoziare il mutuo, facendo valere le contingenti condizioni economiche per riquantificare conseguentemente la rata di ammortamento. Spetta poi al creditore verificare il merito creditizio, nel senso soprattutto di verificare l’affidabilità del cliente debitore in rapporto a eventuali ulteriori posizioni di debito pendenti. *Avvocato Erica Vicentini, del Foro di Trento, Studio legale in Pergine Valsugana, Via Francesco Petrarca n. 84)
Chi desiderasse avere un parere su un problema o tematica giuridica oppure una risposta su un particolare quesito, può indirizzare la richiesta a: direttore@valsugananews.com
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L’ ultimo carador di Borgo Valsugana di Massimo Dalledonne
GIORGIO DIVINA I
boschi ed i sentieri della Valsugana, soprattutto quelli della Bassa, Giorgio Divina li conosce bene. A mena dito, come si dice da queste parti. Per 37 anni, da quando aveva raggiunto la maggiore età, infatti, ha fatto il “carador”. In italiano si può tradurre in carrettiere. Andava nei boschi a recuperare la legna, sia per i privati che per le aziende. Ci andava a piedi, tutti i sacrosanti giorni che Dio ha mandato sulla terra. Dal 1959 al 1996. Per ben 37 anni. “La mia era una famiglia di contadini – ci racconta – e ricordo che anche mio padre voleva seguissi le sue orme. Ma io avevo altro in testa e appena ne ho avuto la possibilità ho preso un cavallo ed ho iniziato a fare il carador”. Classe 1941, nato e residente a Borgo, Giorgio Divina ha iniziato la sua attività nel 1959. Un lavoro duro, pieno di sacrifici. Nei boschi ed in montagna si andava con il carro trainato dal cavallo. Dal lunedì al sabato. La domenica si riposava. Come erano le sue giornate? “Da
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casa si partiva alle 6 di mattina – ci racconta – ma la sveglia suonava due ore prima. Bisogna strigliare e dare da mangiare al cavallo. In media si lavorava 8-10 ore al giorno”. Ma cosa faceva el carador? “Il nostro compito era quello di trasportare il legname, come si dice in paese “le
bore”, dal cantiere di lavoro, da dove venivano tagliate fino alla strada. Poi venivano i trattori per trasportarle a valle”. Per i primi anni Giorgio lavorava tanto con i privati, poi, con il passare del tempo sono arrivate le richieste delle aziende della zona. “Quando ho iniziato a lavorare, in paese ricordo che facevano questo mestiere anche Pio Divina e Rino Rizzon. Per un periodo ho lavorato insieme a Giorgio Micheli di Scurelle”. Un mestiere, quello del carador, fatto di sudore (tanto) e fatica. Giorgio Divina l’ha fatto, ininterrottamente, per 37 anni, Fino al 1996. Gli ultimi anni li ha fatti come manovale, per una impresa edile del paese. Poi è andato in pensione. Da 15 anni fa il marito e, soprattutto, il nonno a tempo pieno. Ma i ricordi di una intera vita trascorsa nei boschi della Valsugana e del Trentino, quelli non se vanno via. In casa ancora tante foto, molte in bianco e nero, che lo ritraggono al lavoro. Sia negli album che sulle pareti in salotto. Non
L’ ultimo carador di Borgo Valsugana
solo nei boschi della sua amata Val di Sella ma anche in Calamento, Suerta, Porchera, Musiera. “Ho lavorato per diverso tempo in altre vallate trentine, così come a Pinzolo e nel Veneto. Si partiva il lunedì mattina e si tornava il sabato pomeriggio”. Quanta fatica! “E’ vero, ma soprattutto negli ultimi anni si faceva più fatica a recuperare i soldi che a lavorare…. I tempi sono cambiati, così le persone. Una volta una stretta di mano aveva un preciso significato! Poi tutto è cambiato”. Quando era lontano da casa, Giorgio passava la notte nelle casere di montagna, nelle malghe e nelle stalle presenti sul territorio. In 37 anni di lavoro ha avuto tre cavalli. Tutti razza norica. “Il primo che ho avuto è stato Sauro, è rimasto con me una decina di anni. Poi è arrivato Moro con cui ho lavorato per tanti anni, è stato davvero un amico fedele ed una
spalla insostituibile nei boschi. L’ultimo si chiamava Bajo, l’ho tenuto fino a quando ho chiuso l’attività”. Il cavallo era una preziosa risorsa per i “caradori”. Indispensabili. Tra uomo e animale c’era una grande sintonia. Lavoravano all’unisono. “Ricordo che nei primi anni di attività, quando si doveva portare a valle del legname da cantieri in alta quota, usavamo anche le teleferiche. Per farle funzionare si usava la forza del cavallo e, ogni tanto, c’era anche qualche ancoraggio che si rompeva”. Si lavorava con i privati e con le ditte della Valsugana. “In tutti questi anni ricordo con piacere i diversi carichi di legname fatti per conto della ditta Sartori di Borgo, la Remo Girardelli di Scurelle, Francesco Debortoli di Ronchi e Giovanni Pecoraro di Telve”. Di avventure, nei boschi, Giorgio ne ha passate tante. Una però è rimasta impressa nella mente. “Mi trovavo in località Canaia, sopra Borgo. Dovevo tirare della legna a valle e, una volta completato il carico del carro, ho attaccato il cavallo preparandomi per la partenza. Ricordo che mi sono distratto per pochi secondi e, quando mi sono girato, cavallo e carro (legname compreso) erano spariti”. Cosa era successo? A proposito di simbiosi tra uomo e animale, il cavallo era talmente abituato ai ritmi del suo padrone che, una volta legato, era partito da solo, Verso casa. Ed è lì che, dopo una corsa disperata, il suo padrone, sudato e spa-
ventato, lo ha trovato. Giorgio Divina, l’ultimo “carador” di Borgo Valsugana. Sono trascorsi 25 anni dal suo ultimo viaggio. Con Bajo ed il suo carro. Una intera vita nei boschi della Valsugana e del Trentino. Una ultima domanda prima di salutarci. Ma anche ai suoi tempi c’era la malattia del bostrico? “Sì. Ricordo che in primavera il legname, come si diceva, andava in amore e con el manaroto (l’ascia in italiano) si staccava la corteccia. Le ditte, infatti, volevano il legname lavorato così. In questo modo il bostrico, come si dice, non trovava tanto pane per i suoi denti, a differenza di come avviene oggi. E le ramaglie che restavano a terra la portavamo tutte via. Nel bosco restava ben poco. E, soprattutto, il bosco, ieri, era sicuramente più pulito!”.
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Storie di casa nostra di Massimo Dalledonne
PIETRO SAMONATO C osì si legge nel volume “Bieno – La nostalgia di uno sguardo perduto” di Katiuscia Broccato. Una storia, quella di Pietro Samonato, che merita davvero di essere raccontata. “Le donne hanno pur diritto a una parte nella storia dei perteganti – si legge - storia che fu di uomini ma con la certezza, la stabilità, la continuità riposta nel mondo femminile. Le donne avevano il compito di provvedere alle necessità materiali della vita quotidiana durante l’assenza dei mariti”. Lavori nei campi, la cura del bestiame, preparare i cibi, filare, tessere, cucire... e allevare i figli. Queste erano le vicende di molte donne, soprattutto di quelle che si erano sposate con un pertegante. Alcuni di loro si sono fatti strada e posizione in paesi lontani, partiti senza un soldo in tasca e ritornati con patrimonio, esperienza e carisma. Altri, meno intraprendenti o fortunati, hanno comunque mantenuto dignitosamente le loro famiglie e hanno sempre tenuto il contatto con le radici natie e vivo il desiderio di ritornarci. “Uno di questi era Pietro Samonato, figlio di povera famiglia che si dette al commercio di stampe per conto dei Remondini di Bassano. Come tale si trovò a esercitare in piazza Navona a Roma e a essere inconsapevolmente coinvolto in uno spiacevole affare che gli procurò qualche mese di prigione”. La sua vicenda è raccontata da Mariano Avanzo nella rivista della Provincia autonoma di Trento “Il Trentino” del giugno 2000. E riportata nel volume di Katiuscia Broccato. “Nel 1766 Giovanni Battista Remondini fece eseguire una stampa del Giudizio Universale. Tale immagine era la copia di una precedente edita a Parigi che, a sua volta, era la copia di un’altra fatta eseguire dai Francescani e dedicata al cardinale Annigoni. Poiché la stampa era destinata prevalentemente al mercato spagnolo, l’incisore cui venne affidato l’incarico ritenne opportuno sostituire lo stemma del cardinale con quello di Carlo III senza preoccuparsi del fatto che lo stemma fosse accanto ad un gruppo di diavoli che sembravano agitarsi per prenderlo”. Tirata in quattromila copie e spedita in tutta
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Carlo III di Spagna (1716-1788)
Storie di casa nostra Europa essa venne diffusa senza alcun problema fino a quando, nel maggio del 1772, giunse al Remondini questa lettera: “Quelli Tesini che vendono stampe vicino a Piaza Navona sono carcerati perché hanno esposto una stampa del Giudizio Universale, nella quale vi è l’arma del re di Spagna dalla parte dei demoni vicino all’inferno, essi hano deposto che l’hano avute dai Remondini”. Come si legge ancora nel volume “Bieno – La nostalgia di uno sguardo perduto” di Katiuscia Broccato “l’equivoco, dunque, era stato quello di credere che la stampa fosse una satira dei Gesuiti contro quel Re che allora li maltrattava. Proprio in quegli anni, infatti, i sovrani borbonici erano entrati in lotta aperta contro l’invadenza della Compagnia di Gesù e, dal momento che i Gesuiti erano diffusi ovunque, si pensò che essi avessero in qualche modo “manovrato” - visti anche i loro ottimi rapporti con i Remondini - la creazione dell’immagine del Giudizio universale. Ne seguì una diatriba che coinvolse Venezia, il papato e la Spagna e che rischiò di incrinarne i rapporti e le relazioni commerciali. Difatti le autorità spagnole avevano minacciato una sorta di blocco mercantile e la risonanza internazionale della questione atterriva un po’ tutti per la sproporzione tra l’effettiva entità del motivo e l’imprevedibilità delle implicazioni. Solo dopo alcuni processi fu dimostrato che la stampa era stata realizzata ad esclusivo scopo di lucro e venne dimostrata anche la buona fede del Remondini il quale, dopo aver manifestato l’intenzione di ritirarsi in convento per attendere pacificamente la morte, si era poi spento in Tesino dove si era rifugiato”. Ma chi era il commerciante che aveva esposto e venduto l’immagine incriminata? Era Pietro Samonato di Bieno, titolare di un negozio di stampe in piazza Navona che, pur se ignaro di tutte le moti-
Pietro Samonato e le stampe proibite
vazioni che stavano alla base del suo arresto, fu condotto in carcere in catene dalle guardie del papa dopo che gli ambasciatori degli stati borbonici, Francia, Spagna e Regno di Napoli, avevano inviato una protesta ufficiale a Clemente XIV. Scrivono al proposito documenti conservati nell’Archivio Remondini al Museo civico di Bassano del Grappa: “Fatale giorno fu quello del dì 21 Aprile del corrente anno 1772 nel cui memorabil giorno seguì in Roma la carcerazione dell’onestissimo uomo Pietro Samonato Tirolese, del quale essendo seguito l’arresto da Birri fù egli subito da questi condotto alla di loro Guardiola, ivi strettamente custodito con catena al piede senza che nessuno potesse parlargli ne accostarsi come se fosse stato Reo di
Morte”. Sei mesi furono necessari a Pietro Samonato per essere scarcerato. Sei mesi passati a scrivere lettere e memoriali a quanti potevano essere, a sua conoscenza, in grado di toglierlo da quell’impiccio; sei mesi nei quali egli venne nominato “mastro di casa delle Carceri” con compiti di sorveglianza, oltre che sul vitto anche sulla moralità di tutti i carcerati. “Persona fiera –si legge ancora nel volume “Bieno – La nostalgia di uno sguardo perduto” di Katiuscia Broccato - il Samonato non si accontentò dello scampato pericolo tanto che, al momento della scarcerazione, presentò ai Remondini una pesante nota delle spese e perdite per recuperare i guadagni del periodo di forzata inattività”.
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Che tempo che fa di Giampaolo Rizzonelli *
CHI, COME E DOVE RIEMPIE GLI OCEANI DI PLASTICA?
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n questo numero non parlerò di clima o meteorologia ma di un argomento che mi sta particolarmente a cuore, ovvero quello dell’inquinamento da plastica negli oceani. A tal riguardo il sito www.ourworldindat.org ha presentato a maggio 2021 un report redatto da Hannah Ritchie i cui dati mi hanno stupito e fatto capire che quello che stiamo facendo noi in Italia e in Trentino non è altro che una goccia nell’oceano, tanto per stare in tema di mare. La maggior parte della plastica negli oceani proviene da fonti terrestri: dal 70% all’80% è plastica che viene trasportata dalla terra al mare attraverso i fiumi o le coste, il restante 20%-30% proviene da fonti marine come reti da pesca, lenze, corde e navi abbandonate. Se vogliamo contrastare l’inquinamento da plastica, dobbiamo impedire che entri nell’oceano dai nostri fiumi. Il problema è che abbiamo centinaia di migliaia di foci fluviali attraverso le quali la plastica raggiunge gli oceani. Per dare priorità agli sforzi di mitigazione dobbiamo capire quali di questi fiumi trasportano la plastica al mare e quali contribuiscono maggiormente. Il report esamina la distribuzione della plastica nei fiumi del mondo; perché alcuni fiumi trasportano molta plastica mentre altri ne hanno pochissima? Quali paesi rappresentano la quota maggiore di inquinamento da plastica? Studi precedenti suggerivano che la maggior parte della plastica provenisse solo da alcuni dei fiumi del mondo. L’ultima ricerca, appena pubblicata su Science Advances ha rivoluzionato questo
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Fig. 1 - Principali fiumi che immettono plastica in mare (% sul globale)
approccio, Lourens Meijer ha sviluppato modelli a risoluzione più elevata da cui si è scoperto che i fiumi hanno immesso negli oceani circa 1 milione di tonnellate di plastica nel 2015 (con un’incertezza che va da 0,8 a 2,7 milioni di tonnellate). Circa un terzo delle 100.000 foci fluviali prese a campione hanno trasportato plastica in mare, mentre gli altri due terzi non immettevano quasi plastica nell’oceano, ma, soprattutto, l’ultima ricerca suggerisce che i fiumi più piccoli svolgono un ruolo molto più importante di quanto si pensasse in passato (si veda Fig. 1). Nel grafico di figura n. 1 vediamo quali sono i dieci maggiori “fiumi contributori”, con la relativa percentuale rispetto al globale. Sette dei primi dieci sono nelle Filippine, due sono in India e uno in Malesia. L’inquinamento da plastica è dominante laddove le pratiche locali di
gestione dei rifiuti sono carenti. Ciò rende chiaro che migliorare la gestione dei rifiuti è essenziale. In secondo luogo, i più grandi fiumi che trasportano plastica tendono ad avere città nelle vicinanze. Città come Giacarta in Indonesia e Manila nelle Filippine sono drenate da fiumi relativamente piccoli, ma sono responsabili di una quota consistente delle immissioni di plastica. Peraltro i bacini fluviali hanno alti tassi di precipitazioni, il che significa che la plastica viene riversata nei fiumi e la portata dei fiumi verso l’oceano è alta. Gli autori illustrano l’importanza del clima, del terreno del bacino e dei fattori di prossimità con un esempio. Il bacino del fiume Ciliwung a Giava è 275 volte più piccolo del bacino del fiume Reno in Europa, genera il 75% in meno di rifiuti di plastica, tuttavia immette 100 volte più plastica nell’oceano ogni anno (da 200 a 300
Che tempo che fa tonnellate rispetto a solo 3/5 tonnellate). Il Ciliwung immette molta più plastica nell’oceano, nonostante sia molto più piccolo perché i rifiuti del bacino vengono generati molto vicino al fiume, il che significa che la plastica entra in primo luogo nella rete fluviale, per poi finire nel vicino oceano. Inoltre, piove molto di più, il che significa che i rifiuti di plastica sono più facilmente trasportabili rispetto al bacino del Reno. Passiamo quindi ad analizzare l’immissione globale per continenti i cui dati sono davvero impressionanti (si veda Fig. 2). Nel grafico vediamo la ripartizione delle immissioni di plastica globali nell’oceano per regione. L’81% della plastica oceanica viene immessa dall’Asia che ospita il 60% della popolazione mondiale. L’Africa è responsabile dell’8%; Sud America per il 5,5%; Nord America per il 4,5% e l’Europa e l’Oceania insieme meno dell’1%. Le Filippine rappresentano più di un terzo (36%) delle immissioni di plastica, non sorprende dato che ospita sette dei primi dieci fiumi. Questo perché le Filippine sono costituite da tante piccole isole dove la maggioranza della popolazione vive vicino alla costa. Ma è un importante aggiornamento sulla nostra precedente comprensione dove si pensava che Cina e India dominassero. L’India rappresenta il 13% e la Cina il 7%. Le persone spesso trovano sorpren-
Fig. 2 - Plastica immessa negli oceani suddivisa per continente
dente questa distribuzione globale. Dal momento che i consumatori nei paesi ricchi tendono a usare molta più plastica, le persone si aspettano di contribuire molto di più all’inquinamento da plastica di quanto non facciano effettivamente. E non si tratta solo della popolazione: anche su base pro capite, i paesi ricchi contribuiscono con pochissima plastica all’oceano. I paesi europei, ad esempio, immettono meno di 0,1 chilogrammi di plastica a persona. Questo rispetto a 3,5 kg nelle Filippine o 2,4 kg in Malesia. I paesi ricchi producono molti più rifiuti di plastica pro capite rispetto ai paesi più poveri. La maggior parte produce da 0,2 a 0,5 kg per persona al giorno, rispetto a 0,01 in India o a
0,07 kg nelle Filippine. Anche quando moltiplichiamo per la popolazione i paesi ricchi generano molto. Il Regno Unito, ad esempio, genera il doppio dei rifiuti di plastica rispetto alle Filippine. Quello che poi il report mette in evidenza è come vengono gestiti questi rifiuti, i paesi a reddito medio basso tendono ad avere scarse infrastrutture di gestione, con i rifiuti che possono essere scaricati al di fuori delle discariche e quindi più facilmente possono raggiungere i fiumi e finire quindi in mare. Il report quindi pone l’accento su cosa si può fare per migliorare questa situazione, i paesi ricchi possono sostenere i paesi a reddito medio-basso nel miglioramento delle infrastrutture di gestione dei rifiuti e vietare l’esportazione di qualsiasi plastica in altri paesi in cui potrebbe essere gestita male. Per fermare l’inquinamento da plastica nei nostri oceani abbiamo bisogno di un approccio globale per ridurre i rifiuti e gestirli in modo appropriato per impedirne la dispersione nell’ambiente naturale. * Giampaolo Rizzonelli è appassionato di meteorologia e climatologia
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Novaledo in cronaca di Mario Pacher
IL TORRENTE ROGGIA
S
ono molte ed interessanti le pagine di storia che descrivono grandi opere in Valsugana realizzate soprattutto per salvaguardare il patrimonio e che nel contempo portare, con il lavoro, sostegno all’economia vita. Negli archivi abbiamo trovato dei documenti autentici riguardanti fra li altri, i lavori attorno al Torrente Roggia per difendere molte case e campi dalle inondazioni e dalle piene di quel Rio. Lavori questi che sarebbero stati eseguiti in due riprese: prima con il “Consorzio Torrente Roggia Sponda Destra” nato nel 1.846 e successivamente con il progetto del “Consorzio Torrente Roggia Sponda Sinistra”, il cui atto costitutivo porta la data di approvazione del 9 marzo del 1871. E’ quindi facilmente intuibile come anche il Torrente Roggia di Novaledo, che dallo stato di abbandono è stato una decina di anni fa parzialmente recuperato a cura del Servizio Ambientale della Provincia, costituì un tempo un’importante bacino di difesa dalle abbondanti acque piovane che minacciavano sia le campagne adiacenti che le abitazioni.
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il torrente Roggia di Novaledo intorno all’anno 1930
Negli atti si trova scritto anche che per poter eseguire questi lavori si dovette logicamente occupare il suolo di privati e procedere a diversi espropri creando grande malcontento e proteste dei proprietari per possibili sperequazioni nella quantificazione degli indennizzi. Proprio a questo proposito nel fascicolo storico abbiamo trovato un ricorso manoscritto datato 20 gennaio 1907 indirizzato all’Inclito (illustre) Imperial Capitanato Distrettuale di Borgo in cui si nota una particolare sottomissione del cittadino verso le
istituzioni, e che per questo usa modi oggi ritenuti di esagerata soggezione, come “al riverente ufficio” e, al momento della firma, “umilissimo e devotissimo servo”. Molte definizioni poi contenute nel ricorso, non fanno più parte del nostro parlare quotidiano, mentre, come lo si riscontra spesso anche in altri scritti, i nomi di famiglia dei nonni rispuntano quasi di regola attraverso le generazioni. Durante la Grande Guerra le opere furono gravemente danneggiate per colpa anche dell’esercito che, spinto dalla necessità di procurarsi acqua potabile, creò delle aperture sulle tubature in legno dell’acquedotto comunale poste all’interno del torrente, lasciando poi scorrere l’acqua lungo i versanti. Nell’alveo del torrente Roggia i tedeschi inoltre avevano costruito degli sbarramenti e trincee per impedire l’avanzata dell’esercito italiano. Un’azione militare questa che si rivelò determinante. Verso gli anni ’30 vennero rinforzati e in parte rifatti gli argini sul conoide perché il Torrente Roggia, in presenza di abbondanti piogge, possa ritornare ad essere ancora una garanzia sia per le abitazioni che per la campagne circostanti.
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1/4
100% freschi vantaggi
unquarto MUTUO unquarto 1/4, oltre le aspettative
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