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Ieri avvenne

Ha ucciso: si taglino la testa e una mano

Grazie ai documenti d’archivio è stato possibile ricostruire, seppur parzialmente, un episodio giudiziario avvenuto agli inizi del Settecento in Valsugana. Si tratta del rendiconto delle spese sostenute per organizzare la cattura, il processo e la condanna alla pena capitale di un assassino; con poche carte, qualche riflessione e un po’ di fantasia si può ricostruire una piccola, piccolissima storia.

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Correva l’anno 1711; era il 31 luglio e a Caldonazzo Pavolo Chilicer, accusato dell’omicidio di Antonio Petribone di Schio, è incarcerato. Pavolo Chilicer abitava a Canezza, in Valle dei Mocheni, ma era probabilmente figlio di immigrati di seconda o terza generazione; il suo cognome è infatti tipico dalla Moldavia - regione nella quale è ancora presente - regione dalla quale la sua famiglia si era con ogni probabilità trasferita alla ricerca di impiego come contadini o minatori. Non sappiamo di preciso né quando né dove fu commesso il delitto ; è certo però che Chilicer fu catturato probabilmente nel vicentino da “sbirri stranieri”, e da questi tradotto alla Corte Trapp. Il rapinatore e omicida fu rinchiuso in una cella del castello che a quanto pare era in disuso da tempo, dato che la prima spesa che risulta è quella di un falegname per la ricostruzione della porta. Per ottenere la clemenza della Corte Pavolo Chilicer confessò dove aveva nascosto il denaro rubato, ma ciò non fu sufficiente per scampare alla dura sentenza: il taglio della testa e della mano. Secondo l’arcaico principio della “legge del taglione”, infatti, era legittimo infliggere ai colpevoli lo stesso male da essi provocato e dunque il taglio della mano ai ladri, della lingua agli spergiuri, la condanna capitale agli assassini, agli adulteri, ai falsari. La certezza dell’esecuzione, fissata per il 6 novembre, spinse Chilicer a tentare negli ultimi giorni di ottobre una disperata evasione. Provò inutilmente a demolire la porta della cella: i fori furono prontamente richiusi, l’uscio rinforzato con altri due catenacci e foderato dall’interno con una miriade di chiodi come risulta proprio dal rendiconto preso in esame. Tre giorni prima della fatidica data prese avvio il rituale che accompagnava le esecuzioni capitali. Fu fatto venire un carnefice da Merano; furono allestite la forca, alla quale sarebbe stata appesa con delle catene la mano del decapitato, e la “chiesuola”, un piccolo altare dove il condannato avrebbe avuto l’ultima occasione per pregare e chiedere perdono a Dio; si andò a prendere a Trento la tavoletta, dipinta con una scena sacra, che i due “confortatori” designati avrebbero dovuto tenere davanti agli occhi del condannato per impedirgli di vedere chicchessia mentre veniva condotto al patibolo e favorirne il ravvedimento. Dopo 98 giorni di carcere Pavolo Chilicer fu decapitato, non prima però che gli venisse concesso di bere un bicchiere di vino malvasia. L’iter giudiziario costò alla Corte Trapp quasi 400 fiorini: 50 andarono al boia e 80 alle figure istituzionali che a vario titolo parteciparono al processo, di Elisa Corni più di cento servirono per assicurare i pasti al condannato, a sbirri, carnefici, servitori, testimoni. In seguito al dibattito innescato dal libro di Cesare Beccaria, “Dei delitti e delle pene” pubblicato nel 1764, il primo ad abolire la pena di morte fu nel 1786 il granduca di Toscana, seguito nell’anno successivo dall’imperatore austriaco Giuseppe II; in Italia fu cancellata nel 1889 per poi essere reintrodotta nel 1926 da Mussolini e dall’allora ministro della Giustizia Alfredo Rocco per punire reati contro la Stato. Nella nostra Costituzione la pena di morte è abolita dall’articolo 27 se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.

Decapitazione - Caravaggio David con la testa di Golia

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