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Pianeta donna Lia Giovanazzi Beltrami Pagina

Pianeta donna

di Waimer Perinelli

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Lia Giovanazzi Beltrami: regista la donna può lavorare per la pace

“La mia è una vita piena e fortunata” a soli 53 anni , Lia Giovanazzi Beltrami, nata a Trento il 13 ottobre del 1967, riassume il passato e guarda con fiducia al futuro. Non è da tutti, non è per tutti e pochi sanno riconoscere e accettare la loro fortuna. Ha studiato lingue nella sua città e si è laureata nel 1991 con una tesi sul regista austriaco Fritz Lang, naturalizzato statunitense; un maestro della storia del cinema alla quale ha dato tanti capolavori, il più noto, forse, Metropolis del 1927. Un maestro anche per lei che ha approfondito e documentato la sua arte producendo una tesi per immagini, avvalendosi dei filmati dell’università ed approfondendola in seguito con i corsi alla New York Film Accademy. Sembrava un percorso in linea retta, fatto di sceneggiature ed effetti speciali, ma Lia Beltrami ha scoperto invece l’attrazione della realtà. “E’ per questo dice, per fissare la realtà, che ho scelto di occuparmi di documentari, di raccontare quello che accade attorno a me, senza copioni, senza sceneggiature. E’ vero che quando scegli una situazione, un’ inquadratura, puoi cambiare il messaggio, ma proprio per questo non devi avere preconcetti”. Il primo film documentario la scrittrice e regista trentina lo ha girato nel 1992 in Africa, dove l’avevano invitata per raccontare la loro storia, i frati cappuccini. La vocazione già presente nella tesi di laurea e approfondita nelle molte ore di montaggio, si consolida perché, dice Lia Beltrami, il documentario ti permette di: “ ritrarre ambienti e modi di vita reali, ti consente di incontrare e raccontare come sono,

Lia Giovanazzi Beltrami

come vivono, persone di tutto il mondo”. L’incontro per lei non è solo uno scambio di saluti, è la condivisione di conoscenze, di idee, di concezioni della vita e dell’Anima immortale. Lia Giovanazzi Beltrami all’immortalità dell’Anima ci crede; è cristiana, cattolica praticante e comunica la propria Fede con le immagini dei suoi film documentari. Dal 1992 ne ha realizzati oltre quaranta in ogni parte del mondo, vincendo 97 premi e riconoscimenti internazionali, dal RushDoc film di New York al festival del cinema di Sochi e quello di Salerno. Nel 1997, ispirata dal Festival Film della Montagna di Trento, dove era membro della consiglio direttivo, nasce l’idea di Religion Today, un Festival di cinema e dialogo fra le diverse religioni. Una felice intuizione. con la quale entra nella necessità professata dal Concilio Vaticano secondo del dialogo fra le diverse religioni. “ La religione è importantissima, dice, è come accendere una lampada e illuminare il mondo,la vita. E’ come i binari per il treno ti fa viaggiare mantenendoti sulla retta via. La religione è la forza della fede”. Per lei credere non è solo ricchezza personale, è strumento indispensabile per il dialogo interreligioso fra cristiani e mussulmani, questi ultimi accusati da Oriana Fallaci nel 2005, nel celebre saggio “Le radici dell’odio” di predicare e praticare la violenza. “ Rispetto la visione della Fallaci, dice Lia Beltrami, ma l’esperienza mi ha insegnato che la religione può diventare strumento di guerra se usata in modo falso, ma, se vissuta nella vera fede, aiuta il dialogo che è più facile fra credenti e credenti che non con i non credenti. La sua forza è tale, aggiunge, che, per esempio, mentre visitavo un

santuario mussulmano in Iran, riflettevo silenziosamente sulla tenerezza di Dio, perché Islam vuol dire proprio tenerezza quando uno sconosciuto dietro di me, mi disse che avevo ragione: Dio è tenerezza. Ma io non avevo detto proprio nulla. Credo che la religione sia anche empatia”. L’empatia è forse la sua dote maggiore; con essa ha affrontato il compito amministrativo affidatole dal Presidente della Provincia Lorenzo Dellai, dal 2008 al 2013, che la volle assessore alla Solidarietà Internazionale e Convivenza. “Un’esperienza fantastica, ricorda Lia Beltrami, che mi ha offerto l’opportunità di avviare progetti di aiuto e solidarietà. Ancora oggi nelle valli del Trentino trovo persone con le quali ho collaborato e assieme ricordiamo quei fantastici e costruttivi momenti.” Sono gli anni in cui fonda il movimento Donne di Fede per la Pace nel quale confluiscono donne con ruoli importanti nelle comunità provenienti dalla terra Santa e da tutto il mondo. “La donna è portatrice di pace perché è per sua natura accogliente. La donna può aiutare il mondo a vivere in pace”. Lia Beltrami regista cinematografica, è anche autrice di sei libri. Fra tutti ricordiamo “Libertà, incontro

Pianeta donna

Lia Giovanazzi Beltrami ad incontro multietnico

ed avventura” del 2017 e “Arte del picnic” uscito da poco, dove con apparente leggerezza esplora l’improvvisazione culinaria di varie parti del mondo invitando al superamento della solitudine da Covid 19. Pandemia permettendo, a Lia Beltrami e Lorenzo Menguzzato, pittore in arte Lome, è nata l’idea di un giro del mondo in dieci puntate. Sarà l’occasione per intervistare persone impegnate nella salvaguardia del Creato e della Fratellanza, con pittura e musica e, al termine, la realizzazione di un documentario. documentario.. Lia si firma Beltrami in quasi tutte le sue produzioni, ma lei di cognome è Giovanazzi, figlia di Sergio, uno dei più noti architetti trentini. Beltrami è il cognome di suo marito Alberto, anch’egli regista, musicista e produttore cinematografico. “Io voglio bene alla mia famiglia di origine e ne sono orgogliosa, dice Lia, ma mi è sembrato giusto essere parte importante della nuova famiglia senza conflitti di genere o pregiudizi sociali, senza rinunciare alla mia identità di donna e madre”. L’ultimo pensiero è per padre Paolo Dall’Oglio il missionario gesuita rapito in Siria nel 2013. Un amico sincero, un combattente per il dialogo e la pace. “Ho ancora speranza che sia vivo, dice, ma temo sia accaduto il peggio”. Lei sempre sorridente e positiva, improvvisamente diventa triste, poi si riprende: la fede aiuta soprattutto in questi momenti.

In ricordo di una grande attrice

Piera degli Esposti

di Katia Cont

La scorsi in camerino, la porta non era totalmente chiusa e la vidi mentre di fronte allo specchio illuminato da una serie di lampadine, con i polpastrelli cercava di ravvivare la sua chioma bionda. Mi fece sorridere, perché pensai a tutte le attrici che prima di andare in scena si fanno sedute di trucco e parrucco anche quando il personaggio non lo richiede. Era li per una conferenza, per parlare dell’arte del teatro, del cinema. Notai gli occhi truccati con una matita nera un po’ sbavata ma che nonostante fosse imperfetta le donava tantissimo. Mi colpì il foulard scuro, che lei teneva sempre con una mano come a non farlo mai andare via, scuro come quella matita che le segnava lo sguardo, penetrante che raccontava tanto di lei. Un rossetto vivace le sottolineava il viso accompagnato da un sorriso contagioso. I suoi tratti distintivi. Non la conoscevo artisticamente fino a quel primo appuntamento al quale andai per pura coincidenza. Mi trovai seduta in un piccolo teatro studio alle porte di Udine, e lei si presentò sul palco e pretese di parlare senza microfono. “Siamo tutti vicini, ci sentiamo benissimo anche senza microfono”. Poi aggiunse rivolgendosi alla direttrice del teatro :”e poi loro (indicando noi tra il pubblico) loro non lo hanno, e loro sono qui per parlare con me.” Ruppe subito il ghiaccio e ci sentimmo tra amici. Iniziò una lunga serata di confronto tra persone che parlavano la “stessa lingua” e che sognavano le stesse cose. Non so ancora se fu quell’occasionale incontro che la rese ai miei occhi una delle attrici più affascinanti del panorama culturale Italiano. Ho sempre associato a lei il connubio perfetto tra bellezza interiore e bellezza esteriore, tra forza e fragilità, la scoprii una donna movimentata, estremamente colta e spesso controcorrente e sfrontata. Fu raccontata in molte occasioni, come nel libro della sua grande amica Dacia Maraini “Storie di Piera” dal quale emerse il particolarissimo ritratto della madre di Piera, e il loro rapporto tormentato e doloroso. Da quegli scritti, Marco Ferrari fece un film “Tutte le storie di Piera “ che si distacca dalla sola biografia privata per riattraversarla seguendo le tappe della vita artistica, nel teatro, innanzitutto, e nel cinema, nel rapporto di stima con i registi, a cominciare da Ferreri con cui, si rivela nel film con pudore, l’attrice ebbe una storia d’amore. E’ stata una grandissima attrice. Lei non interpretava dei personaggi, ma prendeva se stessa e si trasformava nel personaggio, trasmetteva, comunicava al pubblico senza il filtro della sceneggiatura. Per Piera degli Esposti, recitare era terapeutico, la aiutava ad esprimere le emozioni e a non reprimerle, era interprete drammatica e comica, incarnava ogni personaggio senza ereditarne le caratteristiche. Pensava che recitare la rendesse immortale e sperava di essere la prescelta per non morire mai. Credeva che la vita fosse come il teatro e che si potesse “immobilizzare” e lei che si considerava con il temperamento di Antigone con un forte legame con il padre e la madre, ha scelto di non sposarsi e di non avere figli per poi accorgersi che la vita procedeva e lentamente iniziava a portarsi via i suoi affetti e alla fine anche lei.

Piera degli Esposti (da Siracusa News)

Scrittori e libri

di Laura Mansini

“Nel nome del padre, della vite e del vino”

Fresco da gustare come un dolce grappolo d’uva, gradevolissimo da leggere in queste giornate estive; sulla spiaggia, o sotto un albero, oppure su una terrazza sul lago, con i vigneti che punteggiano la collina, questo primo libro scritto da Flavio Demattè.

Esordio nell’arte del racconto di Flavio Demattè, vignaiolo, insegnante di scuola primaria, già assessore comunale a Vigolo Vattaro, si è occupato di politiche giovanili e di teatro come attore e regista. E’ autore di testi teatrali umoristici, sia in dialetto trentino che in lingua italiana. Alcune di queste opere sono state premiate in varie edizioni del Concorso per autori “Teatro per idea” pubblicate nella Collana del Teatro Trentino. “Essere dei sognatori aiuta senz’altro ad andare oltre; ci aiuta a pensare e progettare qualche cosa che non esiste… così è stato anche per questo libro”! Questa frase ci racconta chi in realtà sia Flavio Demattè. Il libro in oggetto, dal suggestivo titolo, ironicamente serio: “Nel nome del padre, della vite e del vino” edito da Effe Erre Edizioni, Trento- Maggio 2021, è stato presentato ufficialmente il 24 Giugno, alla Cantina Sociale di Trento. Conosco Flavio Demattè da quando frequentava i corsi di Teatro organizzati dalla COFAS (Presidente Lanfranco Pirajno) in collaborazione col Teatro Stabile di Bolzano. Erano gli anni 1982 e 1983, ed io ero docente di Storia del Teatro; fra i colleghi mi piace ricordare Rosa Masciopinto ed Alberto Fortuzzi. Nato a Trento il 3 novembre 1961, Flavio è l’ultimogenito della famiglia Demattè, di Vigolo Vattaro; infatti il primo (1950) è il dottor Dario, psichiatra-criminologo presso l’ospedale di Arco (attualmente in pensione) gemello di Rosanna, storica impiegata all’anagrafe del Comune di Vigolo Vattaro, ora in pensione anche lei, Fernanda del 1955 prematuramente scomparsa all’età di cinque anni, Giuseppe del 1959, pure lui medico, pediatra. “Io sono quello rimasto in casa più a lungo”, mi racconta sorridendo, “fino a 33 anni! Mi sono diplomato alle magistrali di Trento, ma assieme all’insegnamento, ho sempre amato fare il vignaiolo, per merito di mio padre Federico, al quale dedico questo libro e di mio nonno Bepi, famoso per il suo carattere burlone”. Flavio ha mantenuto quel carattere impetuoso, divertente, che ricordavo dai tempi della filodrammatica e della Cofas. Autore di Commedie brillanti, di testi per le scuole, in seguito alla morte dell’anziano padre (2017) ha sentito l’esigenza di raccontare che cosa sia stato per lui la vita e la storia della sua famiglia. “I ricordi, le sensazioni, i giochi di quando ero piccolo, mi si affastellavano nella mente, sentivo l’esigenza di raccontare, perché queste esperienze vissute in un ambiente contadino, che fatica ad andare avanti, per me siano così importanti da ricordare per i miei figli e per i giovani in generale”. Il padre, nato nel 1921, figlio di un vignaiolo, era un uomo determinato, deciso, faceva il contadino, ma anche il negoziante. Amava profondamente la sua famiglia, il paese, aveva fatto parte della filodrammatica e la porta della sua casa era sempre aperta, anche per merito della mamma Alma Giacomelli (1922-2005). Il nonno Bepi fu una figura fondamentale per il nipote, che lo accompagnava in campagna e ascoltava rapito quei detti e quei racconti sulla storia della vite, sul rispetto che si deve a questa pianta. Le generazioni di mio nonno e di mio padre hanno vissuto le due guerre mondiali. Due esperienze terribili che hanno messo a dura prova i giovani della prima metà del secolo scorso. Noi siamo stati fortunati, viviamo in quest’Europa unita e pacificata, bellis-

Come eravamo

Flavio Demattè nel vignale

sima, che io amo! “Nel nome del padre…” è nato anche grazie agli incontri che Flavio ha fatto con Pino Loperfido. “Devo anche a lui, ci racconta, se sono riuscito a scrivere questo libro! Mi ha aiutato a dare una struttura narrativa originale e a riordinare le idee che mi brulicavano nella mente con importanti consigli letterari. A Mauro Neri, carissimo amico, devo l’appassionato e prezioso coordinamento editoriale assieme al continuo incoraggiamento”. In 14 capitoli l’autore racconta l’evoluzione della vite, da quando è una barbatella (pianta giovane) fino alla trasformazione delle uve in vino, collegandola alla propria evoluzione ed a quella dei suoi amici vignaioli. Racconta di come, un tempo, la vite facesse parte della famiglia, della casa. “Ogni vecchia casa di Vigolo aveva la sua bella vite di uva fragola o bacco che faceva ombra d’estate, sulle terrazze o sui poggioli; una delle ultime viti rimaste è quella aggrappata alla casa natale di Santa Paolina, la nostra amata Santa degli emigranti”. Il libro gode delle belle tavole che lo illustrano, realizzate con la tecnica del pennarello sottile e china acquarellata dal collega Giuliano Pradi, artista, pittore, illustratore, residente anche lui a Vigolo Vattaro .

Scrittori e libri

In filigrana

di Nicola Maccagnan

Le vendite telefoniche e l’utilizzo dei call center

Inseguiti dalle telefonate promozionali dei call center: storia (semiseria) della dura battaglia quotidiana tra chi cerca di fare il proprio lavoro e chi non vorrebbe passare le giornate al telefono.

Se avete un telefono cellulare o uno smartphone, divenuto oramai strumento di uso quotidiano di molti di noi - e non solo dei più giovani - sapete benissimo di che cosa stiamo parlando. Il telefono squilla, numero con prefisso di Brindisi. Il telefono squilla di nuovo, numero con prefisso di Como. Di lì a breve suona ancora, questa volta la chiamata arriva addirittura da Tolmezzo. E poi da Milano, Palermo e perfino dall’estero. Dopo un po’ ecco un’altra telefonata: a richiamare la nostra attenzione è questa volta un’utenza da telefono cellulare. Che cos’hanno in comune tutte queste chiamate? Arrivano da call center da cui, attraverso percorsi via etere che nemmeno vogliamo immaginare, addetti alle vendite cercano di creare con noi un contatto per proporci, ovvero venderci, una merce o sempre più frequentemente un servizio, legato magari alle forniture di energia, assicurazioni o altro ancora. Tralasciamo qui tutto il tema legato alle truffe, o alle tentate truffe, che purtroppo si registrano legate a questa modalità di stipulare contratti, spesso ai danni di utenti più deboli e indifesi, come le persone anziane o in difficoltà. Questa è materia penale e non ci addentriamo. Focalizziamoci invece su tutta l’attività di vendita telefonica condotta nel rispetto delle regole e quindi legittima. Un vero e proprio “mare magnum” in crescita esponenziale negli ultimi anni e che, evidentemente, dà i suoi frutti, in termini commerciali ed economici. E’ qui che si giocano le sorti di molte aziende che hanno scelto questo canale per cercare di sviluppare, del tutto legittimamente ripetiamo, i loro affari, talvolta addirittura in maniera esclusiva. Niente negozi o punti di consulenza, con relativi costi di affitto e personale, ma soltanto grandi magazzini di stoccaggio (nel caso delle merci) da cui far partire l’ordine poco dopo la conferma di acquisto. E uno stuolo più o meno nutrito di addetti ai call center, appunto, pagati spesso con contratti tutt’altro che faraonici, e incentivati dallo stesso sistema di remunerazione a “spingere” sulle vendite. Si è scritto e detto molto sul sistema

In filigrana

di reclutamento di questi operatori telefonici, spesso tutt’altro che sprovveduti, a volte giovani, non di rado laureati o comunque molto qualificati, alla ricerca di un’occasione per inserirsi nel mondo del lavoro. Ed è per questo, qui lo ammetto candidamente, che – anche all’ennesima chiamata quotidiana a cui magari ho pure risposto – non me la sono mai sentita di rispondere in malo modo o con tono arrogante. Dall’altra parte del telefono, ho spesso pensato, potrebbe esserci un venditore senza scrupoli, ma forse anche un giovane che cerca di mettere insieme, non senza fatica e con ritmi ossessivi, il pranzo con la cena. E merita il massimo rispetto. Va detto però, per contraltare, che anche la proverbiale pazienza di Giobbe a un certo punto ha un limite. E soprattutto se sto lavorando, magari alla ricerca della concentrazione non sempre così pronta, una telefonata che ti interrompe a ogni piè sospinto qualche pensiero e parolina non proprio da educanda alla fine te li strappa. Strumenti per “difendersi”? Sulla carta parecchi. Dal Registro Pubblico delle Opposizioni, al blocco dei numeri o all’attivazione di particolari App sullo smartphone, fino ad estremi, ma complicatissimi “rimedi”, come il ricorso alle associazioni di consumatori o addirittura al Garante della Privacy. Col rischio, peraltro non remoto, di bloccare - tra le chiamate indesiderate – quelle di aziende o intermediari che invece ci interessano e a cui magari, qualche tempo prima, siamo stati proprio noi a dare il nostro contatto. “La domanda sorge spontanea”, diceva quello. Possibile che non esista un metodo più civile e “indolore” per regolamentare quella che sembra divenuta a tutti gli effetti una giungla telefonica? Una questione solo all’apparenza marginale. Il tempo è diventato un bene sempre più prezioso per tutti noi, in questi anni frenetici. Contemperare le legittime aspettative di tutti (chi deve vendere i propri prodotti/servizi, chi telefona perché questo avvenga e chi, esausto, non ne può più) non è semplicissimo, ce ne rendiamo conto. Magari istituendo un registro nazionale “certificato” a cui gli utenti sono liberi di accedere su base volontaria per selezionare singole aziende, categorie merceologiche o di servizi a cui sono realmente interessati (con la possibilità di revocare poi la propria adesione)? Forse potrebbe essere un’idea.

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Cinema, società e religione

di Walter Laurana

“RELIGION TODAY” I FILM SULLA FEDE

Dal 22 al 29 settembre 2021 Religion Today Film Festival tornerà al Teatro San Marco e nei cinema di Trento per portare speranza dopo due anni difficili, raccontando proprio la bellezza del viaggio e del pellegrinaggio: “Nomadi nella Fede” sarà un’edizione incentrata sulla ricerca; la ricerca dell’altro e di Dio, in qualsiasi sua forma e credo.

Da sempre il Religion Today Film Festival ha in sé l’idea del mettersi e pensarsi in viaggio: la sua dimensione itinerante esprime la volontà di mettere la propria sensibilità e la propria esperienza sui sentieri del mondo, non per rinunciare ad avere una casa, ma per costruire più case in più culture. Questo è il nodo del suo carattere sempre innovativo. In questi anni Religion Today ha fatto tappa in molte località italiane e del mondo, come Assisi, Bologna, Bolzano, Nomadelfia (Gr), Ravenna, Roma, Londra (Inghilterra), Gerusalemme (Israele), São Paulo (Brasile), Teheran (Iran), Dhaka (Bangladesh) e Zamo (Polonia).

Gruppo di artisti e collaboratori religion today

Ogni edizione conferma e rafforza quest’anima migrante con un denso programma distribuito tra vari centri italiani e un ventaglio di collaborazioni internazionali. È l’espressione di un’identità in cammino, che affonda le proprie radici in una storia ben specifica, ma che proprio da questa storia è spinta a mettersi sul sentiero del cambiamento nel segno dell’incontro e di una società plurale. Un confronto estetico tra le varie confessioni, affidato non all’asperità e all’astrattezza della parola, bensì all’immediatezza dell’approccio cinematografico come possibilità di incontro aperto e non pregiudiziale. Il tema del viaggio e del pellegrinaggio è trasversale in tutte le fedi e le credenze che popolano la terra, basti pensare al grande Cammino di Santiago o agli innumerevoli itinerari europei dei cristiani che portavano a Roma ieri e a Lourdes, Medjugore, Loreto oggi. É un pilastro dell’Islam con milioni di fedeli che si riversano alla Mecca. É importantissimo nel buddismo, con i tanti cammini dedicati ai luoghi sacri del Buddha. Anche per l’ebraismo nell’antichità c’era l’obbligo di recarsi in pellegrinaggio al tempio, ed oggi al muro del pianto. Il festival in quest’anno che si augura di ripresa vuole rimettersi in cammino, fedele alla sua anima vagabonda, e riflettere con il pubblico ed i tanti ospiti internazionali sulla potenza del viaggio di fede, vissuto proprio come scoperta ed incontro non solo di altre fedi ma di una spiritualità più profonda e autentica. I numerosi film in concorso confermano l’andamento positivo degli ultimi anni. Sono 83 le pellicole partecipanti, provenienti da 36 paesi diversi e suddivise in cinque categorie: documentario, documentario corto, feature film, cortometraggio, animazione. “Parlare di viaggio in questo periodo storico assume una valenza ancora

Cinema, società e religione

più importante” spiega il direttore artistico della manifestazione, Andrea Morghen “significa riflettere veramente su chi siamo, sui nostri limiti ma soprattutto sull’importanza dell’incontro con l’altro. Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle l’importanza della relazione e del confronto in questi due anni segnati dalla pandemia”. Le pellicole in concorso sono state scelte tra più di 1400 ricevute, un segnale più che positivo, che conferma l’importanza del lavoro portato avanti da Religion Today Film Festival negli anni: le numerose partnership costruite e la qualità dei registi ospiti, che ogni anno partecipano con interesse ed entusiasmo alla manifestazione. Anche quest’anno non mancheranno presentazioni di libri, ospiti nazionali e internazionali e, in particolare, la “Tenda di Abramo”, che già da lunedì 20 settembre accoglierà in piazza Fiera chiunque voglia conoscere il Festival, confrontarsi o partecipare ai numerosi eventi organizzati. Religion Today è il Festival del confronto, della diversità arricchente, dell’esplorazione dell’altro e di sé stessi: un vero e proprio viaggio interiore alla ricerca di Dio e poi concreto, verso l’altro. “Stiamo lavorando con tenacia per riuscire a regalare al pubblico un Festival in cui emerga la nostra voglia di esserci” spiega Alberto Beltrami, presidente dell’Associazione BiancoNero, che ogni anno con passione organizza Religion Today “oggi più che mai è fondamentale parlare dei temi dell’incontro e del dialogo, nonostante le incertezze dovute alla situazione sanitaria. Vedere i numerosi film arrivati da ogni parte del mondo nel nostro amato Trentino ci dà la forza di continuare con determinazione a dare voce a registi e artisti nel trasmettere un messaggio di pace e fratellanza”.

L’importanza di dire “Grazie”

di Nicola Maschio

Giornata mondiale della GRATITUDINE

Era il 1965, ma la parola “grazie” esisteva già da parecchio tempo. Eppure, per sottolineare quanto sia importante il suo significato, solo il 21 settembre di quell’anno (precisamente alle Hawaii) si pensò d'istituire quella che poi sarebbe passata alla storia come la “Giornata della Gratitudine”. L’idea è semplice: la parola “grazie” racchiude tante cose, dalla gentilezza all’educazione, dall’empatia alla cortesia. È un modo forte e diretto per dimostrare vicinanza ad un’altra persona, per riconoscere l’importanza rispetto a quanto si è ricevuto. Inoltre, ci sono anche alcuni aspetti particolarmente significativi del ringraziare gli altri: si pensi ad esempio alla ricerca di Robert Emmons, dell’Università della California, che ha scoperto come la gratitudine impatti sull’essere umano in un modo straordinario, riducendo del 23% il livello di stress e del 7% i sintomi d'infiammazione nei pazienti con insufficienza cardiaca. Lo stesso dottor Emmons, unitamente al collega Michael McCullough, condusse poi ulteriori esperimenti: in particolar modo, i due chiesero ad alcuni volontari di scrivere una serie di note ed appunti, ogni giorno per parecchie settimane; i gruppi in tutto furono tre, con uno di questi composto da persone che riportavano solo fatti positivi, uno invece solo quelli negativi ed il terzo ed ultimo gruppo riportava indistintamente episodi di ogni genere. Il risultato? Coloro che decisero di concentrarsi sugli aspetti positivi delle loro giornate, videro incrementare il loro livello di ottimismo e soddisfazione, come conseguenza dell’essere grati nei confronti di qualcosa o di qualcuno, sviluppando poi una maggiore resistenza fisica in termini di salute, recandosi in meno occasioni dal medico. Inoltre, combatte la depressione, diminuisce la pressione sanguigna e può impattare sulla qualità del sonno, migliorandola, così come sembra favorire notevolmente le capacità di apprendimento e giudizio. Essere grati permette d'instaurare rapporti di fiducia, relazioni interpersonali solide, ottenendo spesso il rispetto di chi sta dall’altra parte o, quantomeno, di non causare effetti negativi come sospetto o disprezzo. Questo ovviamente nel caso in cui la parola “grazie” non venga usata in tono sarcastico o fuori luogo, magari per evidenziare una qualche mancanza o dimenticanza. Ancora, uno stato d’animo caratterizzato dall’essere disposti a ringraziare ed essere “aperti” con chi ci sta attorno influenza positivamente l’umore, migliora la salute ed impatta addirittura sull’efficienza lavorativa, rendendo infatti più sereno l’individuo. Ancora, gli studi pubblicati da The Journal of Psychology e quelli condotti dalle dottoresse Blaire e Rita Justice dell’University of Texas - Health Science Centre, hanno confermato che che la gratitudine apporta notevoli benefici fisici e psicosociali, soprattutto relativamente a salute, umore e legami. Addirittura, hanno spiegato gli esperti dell’University of Birmingham “La lista di potenziali benefici è circa infinita: meno errori di giudizio, efficaci strategie di apprendimento, più supporto verso le persone, maggiore fiducia in sé stessi, migliore approccio al lavoro, rinforza la resilienza, diminuisce la sofferenza fisica, influisce positivamente su salute e longevità”. Insomma, quello che oggi in tanti conoscono come il World Gratitude Day sarà un appuntamento molto importante per la nostra salute psico-fisica. Essere grati infatti sembra comportare, in modo scientifico e comprovato, una migliore qualità della vita.

Il personaggio

di Massimo Dalledonne

Giuseppe Pacher e le Terme

Giuseppe Pacher deve essere considerato un pioniere nel campo delle cure balneari. La storia delle Terme di Levico, o propriamente dette di Vetriolo, è legata anche al suo nome. Era l’11 marzo del 1860, infatti, quando con il collega medico Girolamo Avancini diede vita alla Società balneare, finalizzata alla promozione e all’adeguamento delle infrastrutture di accoglienza e cura. Originario di Roncegno, dove nacque il 3 febbraio del 1815, fu dapprima allievo del sacerdote Francesco Dall’Orsola a Borgo e, successivamente, proseguì gli studi a Trento e presso le università di Padova, Praga e Vienna. Come scrive Antonio Zanetel nel suo volume “Dizionario biografico di uomini del Trentino Sud- Orientale” proprio a Vienna si laureò in medicina, con somma lode, in medicina e chirurgia. “Presso l’ospedale maggiore della capitale austriaca fu assistente del professore Sigmund con il quale intrecciò un’amicizia che durò fino alla morte. Dopo aver visitato diverse cliniche – si legge nel volume – nel 1845 ritornò in patria per esercitare la professione a Strigno e Roncegno”. Nel 1848 Giuseppe Pacher ebbe la condotta medica di Levico e la direzione del locale stabilimento balneare che ebbe origine all’inizio dell’Ottocento quando, sul monte Fronte, fu eretto, in vicinanza di alcune sorgenti, il primo stabilimento da bagno. È quanto testimoniato in un documento del 1804 nel quale si auspicava «di vedere tali Fabbriche fatte colla possibile decenza» (Levico Terme, Archivio Comunale, Periodo Comunitario, Atti e Lettere, busta 13, lettera del 28 ottobre 1804). Questi primi caseggiati furono sostituiti da due edifici dotati di camere per i soggiornanti e di stanze per le cure termali, così com’è testimoniato da alcuni atti del 1847, che descrivono con precisione i lavori e le ristrutturazioni ipotizzate. Nel 1860 con il collega Avancini Giuseppe Pacher diede vita alla Società balneare a cui il comune concesse in locazione le fonti acquistate dalla famiglia Dorna di Trento, con un contratto di quarant’anni, a partire dal primo gennaio. Nell’estate dell’anno successivo, fu ultimato lo stabilimento situato nella zona Ovest del borgo, denominato Grand Hotel Levico des Bains, ulteriormente ampliato nel 1871. La Guida di Levico di Ottone Brentari (1852-1921) così descriveva lo stabilimento a fine Ottocento: «Il fabbricato consta d’un pianterreno, mezzanini e piano nobile. Al pianterreno ci sono molti camerini da bagno (di prima, seconda e terza classe), con vasche di marmo; la stanza per i consulti medici; i locali dell’amministrazione; nell’ala destra il caffè e bigliardo, gabinetto di lettura, trattoria; la sala di ricreazione e ballo (alta due piani) contornata da galleria, che conduce alla sala da pranzo capace di 200 persone. Nel piano nobile e nei mezzanini vi sono […] più di 100 stanze con oltre 100 letti».

Il merito di Giuseppe Pacher fu quello di valorizzare le acque termali occupandosi esclusivamente degli studi idrotermali e terapeutici. Come scrive ancora

Antonio Zanetel “non solo approfondì gli studi di analisi e di cura delle acque, ma si preoccupò di far conoscere, specialmente in

Germania ed in Austria, i benefici effetti delle acque levicensi”. Diede alle stampe diverse pubblicazioni, tutte dedicate allo stabilimento termale di Levico, e fece pubblicare anche delle analisi, redatte dai professori Barth e Weidel, sulla costituzione delle stesse acque.

Giuseppe Pacher morì il 15 aprile del 1884 all’età di 69 anni.

Levico Terme - Concorso Kinderle

di Franco Zadra

Alice e la prima edizione

Fossero stati mai dei dubbi che si possa far cultura anche scrivendo racconti per bambini, per il folto pubblico levicense accorso alla installazione Sequoia nel Parco Asburgico di Levico Terme per sentire Eppe Zampedri e Mauela Buttignol, autore il primo e illustratrice la seconda del volume “Alice e il segreto delle Benne” (Edizione Forte delle Benne, 2021) presentato nel contesto della rassegna “Levico incontra gli autori”, è del tutto chiarito che certamente scrivere per (e da) bambini è fare cultura! Non a caso, conduttori d’eccezione del bel incontro nel quale si è svolta anche la premiazione della prima edizione del concorso letterario “Kinderle”, sono stati Gustavo Corni, la moglie Nirvana Martinelli, e la figlia Elisa Corni, una famiglia di “eccellenze accademiche” che non potevano mancare di dare lustro a quel momento celebrativo, grazie anche al loro coinvolgimento appassionato nelle attività legate al Forte delle Benne divenuto vero centro propulsore di iniziative culturali, sempre con il patrocinio dell’assessorato alla cultura del Comune di Levico Terme, la partecipazione della Biblioteca comunale, e la Piccola Libreria di Lisa Orlandi. “Alice e il segreto delle Benne” racconta di una bambina curiosa - di proposito omonima di quell’altra Alice uscita dalla penna di Charles Lutwidge Dodgson sotto lo pseudonimo di Lewis Carroll -, un nonno che stravede per lei, una simpatica cagnolina, e una gazza parlante, alla scoperta del segreto del vecchio forte sul Colle delle Benne che conduce alla consapevolezza circa l’inutilità della guerra. In calce al racconto alcune pagine illustrate e a fumetti conducono il lettore “Alla scoperta del Forte delle Benne con Spuma”, a cura delle Guide del Forte. Ma veniamo alla premiazione del concorso Kinderle che ha valutato ben 82 lavori di oltre 160 autori, tra alunni, ragazzi, e adulti, e ha coinvolto molte scuole. Le opere vincitrici e quelle segnalate dalla giuria, che saranno pubblicate entro quest’anno in conseguenza al reperimento del necessario finanziamento, sono state, per la sezione “A” riservata a piccoli e giovani autori, singoli o in gruppo, di età inferiore ai 16 anni, ha vinto “La vera storia degli animali del bosco” di Greta Piscitelli, 12 anni di Pergine, e sono state segnalate le opere di, Eleonora Beber, “Un cespuglio invitante”; di Aglaia Costa, “Viviana: l’anguana vagabonda”; e di Veronica Stroppa, “Nina l’apprendista strega”. Per la sezione “B” riservata agli over 16, giovani e adulti, ha vinto “Uova sbattute”, di Francesco Zadra, giovane studente residente a Levico Terme, e sono state segnalate le opere di, Benedetta Quaiatto, “Sileno e la strega del vento del Nord”; di Martina Marzari, “Il viaggio di Biagio”; e di Fabrizio Ognibeni, “Otto, le uova e le galline”. Nella sezione “C” riservata a classi o gruppi di alunni di classi della Scuola primaria e Secondaria di primo grado, ha vinto “La Valsugana di Re Regino e dell’amico-nemico Re Giorgio”, scritto dalla classe 1.A della scuola secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo Levico Terme, con 23 alunni, e l’insegnante di riferimento Orietta Ingala. In questa sezione sono state segnalate le opere: “Le avventure di Marcus”, di Gianpaolo e Matteo della 1.B della Scuola secondaria di primo grado di Roncegno Terme con insegnante di riferimento Lara Campestrin; classe che si è meritata anche la segnalazione per “La storia di un sogno realizzato”, di Greta, Damir, e Patrizia; “Il castello di Avles”, della 5.B della Scuola primaria di Levico Terme con insegnante di riferimento Silvia Curzel; “Le stagioni della valle incantata”, delle classi 1.A e 1.B della Scuola primaria di Canezza con insegnante di riferimento Cristina Villotti; “Ella e la magia di Levico”, della 3.D della Scuola primaria di Levico Terme con insegnante di riferimento Ilaria Bertoldi. Le scuole che hanno partecipato, anche con più classi, al concorso sono state la “primaria” di Canezza, Castelnuovo, Levico Terme, Tenna, e Zivignago; l’Istituto Comprensivo “Rita Levi Montalcini” di Gardolo, e il “Buttigliera Alta-Rosta” della provincia di Torino; la “secondaria” di Levico Terme, di Roncegno Terme, e di Telve.

Cinema e società

di Nicola Maschio

CIRCLE: giudicare gli altri per proteggere sé stessi

Prende il via, con questo numero, una rubrica dedicata al cinema. Ma non a quei film di cui abbiamo già sentito parlare tanto, bensì a quelle pellicole meno famose ma che, per certi aspetti, trasmettono messaggi o richiamano analogie particolari. Non si tratterà inoltre di un giudizio rispetto alla qualità del film, né tantomeno di una recensione, ma semplicemente di un’analisi di elementi interessanti e d’attualità. Il lungometraggio che consideriamo in questo primo appuntamento è Circle, un film disponibile sul portale Netflix in lingua originale (inglese) con sottotitoli in italiano. Al suo interno, nonostante la trama per certi aspetti scontata, troviamo tanti elementi attuali: differenze di etnie, giudizi sul sesso, aspetti legati alla pandemia Covid.

La trama di Circle

La storia, in realtà, è abbastanza banale: 50 persone vengono rapite da un’astronave aliena e rinchiuse in una stanza, all’interno della quale devono restare in piedi al proprio posto. Non possono uscire dalla loro zona e neppure toccarsi l’uno con l’altro. Ogni due minuti circa, un raggio di luce viene emanato da un nucleo centrale, colpendo ed uccidendo una persona dell’ampio “cerchio umano”. La selezione all’inizio sembra casuale, ma i protagonisti capiscono presto che sono loro stessi a votare, in modo segreto, chi eliminare ad ogni turno.

I personaggi

Il gruppo di soggetti che compongono il cerchio è eterogeneo. Abbiamo il pessimista, che fin dal principio ritiene che non ci sia alcuna speranza di sopravvivenza. C’è poi l’egoista, un ragazzo giovane che, per guadagnare tempo, convince gli altri che sia necessario sacrificare prima di tutto le persone anziane. Ancora, abbiamo i patrioti ed i tradizionalisti, persone che sostengono sia imperativo difendere prima la propria cultura. Ci sono poi esponenti delle Forze dell’ordine, dediti alla giustizia ed al sacrificio, ed infine anche quelli che potremmo definire come simboli dell’innocenza: una donna incinta ed una bambina piccola.

Perchè la storia di Circle sembra così attuale?

Il film, ovviamente, è frutto della pura e semplice fantasia. Eppure, ci sono momenti e passaggi che sembrano calarsi perfettamente all’interno del contesto sociale in cui stiamo vivendo. In primo luogo, pensiamo ai soggetti anziani: nel film vengono etichettati come persone che “hanno già vissuto la loro vita” lasciando intendere che quest’ultima, in qualche modo, valga meno di quella di un giovane; un po’ come ciò che è successo durante le prime fasi della pandemia di Coronavirus quando, nonostante l’elevato numero di persone anziane decedute, in tanti pensavano che fosse un fatto meno rilevante rispetto a giovani o adulti di mezza età. Ancora, il tema dell’omofobia: quando una donna dichiara di avere una moglie, c’è chi si schiera a suo favore e chi, viceversa, la giudica “colpevole” di un qualche reato verso la società. Vi è poi anche il tentativo di dialogo e di confronto, volto alla costruzione di conoscenza, che tuttavia si sgretola in pochi minuti, sbattendo contro idee e convinzioni contrarie ed opposte: si pensi ad esempio, in questo caso, all’attuale dibattito sulla vaccinazione anti-Covid. Infine, si ripresentano il tema del razzismo (un uomo di colore accusa i “bianchi” di accanimento nei suoi confronti), ma anche della violenza di genere (il voto unanime condanna un uomo che ha picchiato la fidanzata). Insomma, per quanto la trama non ricalchi i grandi capolavori cinematografici del passato, Circle è sicuramente un film ricco di spunti. Una frase in particolare ne riassume il significato: “Hanno fatto questo per vedere a cosa diamo valore, cosa ci sta a cuore: quando giudichiamo qualcuno, sosteniamo che ci sia qualcosa di sbagliato in lui”.

Guido Tommasini, autore “Noir”

di Waimer Perinelli

MISTERI E DELITTI A BOLZANO PENSATI IN VALSUGANA

Her Gino è un vice sovrintendente di polizia in forza al commissariato di Bolzano una città crocevia fra le culture tedesca e italiana. Un centro multietnico piacevole da vivere ma dove è facile morire ammazzati. Almeno secondo il pensiero di Guido Alfonso Tommasini scrittore di romanzi duri, per uomini duri, per città dure. S’intitola proprio Hard Boiled Bozen il suo più recente giallo pubblicato nel 2020 per i tipi di Curcu.

Hard Boiled è un genere letterario, che ha per principale interprete Micky Spillane, scrittore e sceneggiatore statunitense (1918-2006), e per protagonista Mike Hammer, investigatore privato, dall’indole violenta e maschilista. Appartiene a tutt’altro genere Gino Barani, l’investigatore di polizia ideato da Tommasini per il romanzo il cui titolo Hard Boiled Bozen, tradotto significa Duro Bolzano. Gino, il protagonista, è un quarantenne equilibrato, rispettoso dei regolamenti, delle procedure e delle gerarchie, ma non esita ad assumersi, se necessario, iniziative personali. La sua formazione e cultura lo portano al centro di situazioni scabrose, delitti feroci, traffici internazionali, nei quali risulta preziosa la sua conoscenza dell’arabo. E’ nato a Rimini da una famiglia italiano-libica cacciata, nel 1970, da Gheddafi che non ha potuto impedire al ragazzino di portarsi appresso la lingua imparata dalla nonna materna originaria di Bengasi. E’ grazie a questa conoscenza linguistica che Gino indaga sul traffico di droga organizzato da estremisti turchi assieme a ex combattenti dell’Isis e foreign fighters ma, quasi contemporaneamente in parte casualmente si trova ad affrontare uno o più assassini seriali. Tutto accade, come detto, nella città di Bolzano che malgrado tanto noir l’autore descrive per come appare: una tranquilla cittadina distesa fra i fiumi Adige ed Isarco, circondata da colline e montagne ubertose, ricche di viti e ville. Nelle descrizioni di Guido Tommasini ho ritrovato la città mistilingue archetipo della Mittel Europa, dove ho vissuto dodici anni nel mondo del teatro e ritrovato fra descrizioni di dolcezza e vecchi rancori, serene convivenze fra stili architettonici gotici e romanici, via Portici e via Druso, il mercato delle erbe e gli antichi masi fra i vigneti. Com’è

COMUNICATO AI LETTORI

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Guido Tommasini, autore “Noir”

Guido Alfonso Tommasini

possibile che in un ambiente tanto idilliaco due donne, madre e figlia, scompaiano forse barbaramente assassinate? Her Gino indaga e mentre il racconto si dipana, scopriamo che almeno altre due donne, con caratteristiche analoghe, possono avere fatto la stessa fine. L’investigatore si trova il caso fra le mani e si avvale di tre cittadini, collaboratori ben intenzionati quanto sprovveduti. Utili perché la loro curiosità, la tenacia e sensibilità li conducono sulle giuste tracce ma spetterà al vice sovrintendente, seguire i molti indizi seminati dagli assassini e trafficanti e, alla fine, tirare le fila e arrestare i colpevoli. La fine è nota ma non si dice. Il romanzo poliziesco non è bello se non rimane segreto ed è quasi inutile leggerlo se si conosce la soluzione. Guido Tommasini è abile nel guidarci all’interno della vita dura di Bolzano e crea la giusta attesa, capitolo per capitolo, delle molte domande formulate ad arte. Egli è vero giallista dalla vita avventurosa. Nato il 14 aprile del 1945 , dopo essersi laureato in scienze politiche a Firenze, ha lavorato nell’U.S. Departmen of The Army in Germania e nel settore bancario per alcuni anni in Venezuela ,collaborando anche con l’università Los Andes di Mèrida. Poi ha scelto di esercitare la professione di segretario comunale girando 33 comuni trentini, ultimo Roncegno dov’è rimasto per 25 anni. In tutti questi anni ha scritto, come giornalista collaborando con Vita Trentina, e come romanziere, giallo- noir, scrivendo testi quali Valzer Nero del 2010, Periplo Tenna del 2015, seguito da Quaresima Rosso Sangue, nel 2016, dove i fatti, pur truci, scorrono piacevolmente. Non certo per le vittime, che non sono poche, e ad alcune ci si affeziona, ma il romanzo giallo-noir ha i suoi riti sacrificali. Oggi vive a San Cristoforo sul lago di Caldonazzo. Come ogni scrittore che si conosce ha un suo posto dove rilassarsi. Tommasi di Lampedusa aveva il caffè Greco a Roma, Guido Tommasini, più modestamente, il non meno suggestivo bar di un alberghetto di Ischia, dove l’abbiamo incontrato. Un uomo chiaro, schivo, rispettoso ma non privo di misteri come si addice ad un romanziere noir .

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Un tuffo nell’archeologia

di Chiara Paoli

Pietro Paolo Giorgio Orsi

“Dalle tradizioni culturali della sua terra attinse l’impulso alla ricerca archeologica, attuata in fortunatissimi scavi nel Trentino, nella Sicilia nella Calabria. Illustrò le sue vaste indagini con opere di dottrina che gli diedero fama nel mondo e lo portarono agli onori del Senato. Tenne vivo nel cuore il ricordo e l’amore per la città natale che volle erede delle sue raccolte d’arte.” Questa citazione è tratta dal monumento dedicato a Paolo Orsi, collocato nel portico di palazzo Alberti Poja a Rovereto.

Pietro Paolo Giorgio Orsi nasce a Rovereto il 17 ottobre del 1859, allora territorio dell’Impero austro-ungarico, dove frequenta l’Imperial Regio Ginnasio. Appena sedicenne diviene socio del Museo Civico della città della quercia e assistente di archeologia ed entomologia. Nel 1880 ottiene l’incarico di conservatore per la Sezione Archeologica e Numismatica, che mantiene sino alla morte. Intanto nel 1877 aveva avviato i suoi studi umanistici presso l’Università di Padova, che poi prosegue a Vienna, dove si specializza in storia antica e archeologia; si reca anche a Roma dove segue le lezioni di paleontologia di Luigi Pigorini. Nel 1882 ottiene la laurea e due anni dopo fa richiesta e gli viene riconosciuta la cittadinanza italiana. Le prime ricerche archeologiche si concentrano nella terra natia, con alcuni scavi presso il Colombo a Mori, la Busa dell’Adamo a Lizzana e Castel Tierno. Lavora come insegnante per un periodo, per poi entrare nella direzione generale delle antichità e delle belle arti di Roma, ma la sua vita cambia nel 1888, con la vittoria del concorso di ispettore di III classe degli scavi e dei Musei a Siracusa. Qui ha modo di operare sotto la direzione di Francesco Saverio Cavallari, in un territorio ancora sconosciuto. La sua ricerca si concentra sulla preistoria, sui centri attivi nell’età del Bronzo e sulle colonie greche. Esegue ricerche anche in Calabria, per l’esattezza a Locri, dove ha modo di collaborare con il direttore dell’Istituto Germanico di Roma Eugene Petersen. Nel 1891 diviene direttore del Museo archeologico di Siracusa, sotto la sua guida vengono ampliati gli spazi espositivi e le collezioni, che vengono prontamente inventariate. Molteplici le campagne di scavo a cui ha preso parte negli anni, esplorando templi, catacombe, necropoli e mura. Per un breve periodo riveste la carica di Commissario del Museo Nazionale di Napoli tra il 1900 e il 1901, gettando le fondamenta per il riordinamento totale dell’Istituto, che si realizza con il suo successore.

Nel 1907 viene deputato all’organizzazione della Soprintendenza alle antichità della Calabria con sede a Reggio Calabria e ha collaborato fattivamente alla nascita del grande Museo

Nazionale della Magna Grecia. Nel 1907 con l’istituzione delle Soprintendenze, ottiene la nomina a Soprintendente per la Calabria sino al 1924 e per la

Sicilia Orientale, incarico rinnovato nel 1923. Sempre nel 1924 su raccomandazione di Ettore

Tolomei, viene eletto senatore del Regno d’Italia, con l’intento di sostenere la ricerca archeologica. Paolo Orsi è da riconoscere tra i fondatori della Società Italiana di Archeologia, nata nel 1909 e nel 1920 con Umberto Zanotti Bianco, costituiscono la “Società Magna Grecia” designata alla raccolta di fondi per gli scavi e la rivista «Archivio storico per la Calabria e la Lucania». Oltre 300 sono gli scritti che lo conducono alla vittoria del Gran Premio

Paolo Orsi - Museo civico di Rovereto (Televignole)

Un tuffo nell’archeologia

Targa in ricordo di Paolo Orsi (da Televignole)

di Archeologia dell’Accademia dei Lincei. Dopo il pensionamento rimane a Siracusa per collaborare all’ordinamento del museo che ora porta il suo nome. Nell’autunno del 1934 fa ritorno a Rovereto dove si spegne l’8 novembre dell’anno seguente. A Paolo Orsi è intitolata la Rassegna del cinema archeologico promossa dal Museo Civico di Rovereto a partire dal 1990 e che quest’anno si rinnova con un nuovo nome “ROVERETO ARCHEOLOGIA

MEMORIE” (RAM).

Così lo ricorda l’amico marchese Enrico Gagliardi: «Rivedo il maestro: alta, solida la persona, […] un solco profondo sulla fronte e lo sguardo penetrante ben rilevavano in lui l’uomo di studio e di scienza, abituato al diuturno travaglio del pensiero. Il parlare lento, misurato, chiaro, traduceva subito il carattere dell’uomo, diritto e preciso, che attraverso il lavoro senza indugi e senza stanchezza, vedeva netta la meta. La sua vita austera, d’una semplicità francescana, che rifuggiva dagli onori e da ogni teatrale popolarità, gli ha permesso di operare in silenzio in luoghi disagiati. Dovunque Egli è passato, ha lasciato un’orma profonda; perché niente sfuggiva al suo sguardo, alla sua acuta osservazione; i suoi studi si concentravano subito in limpide e fondamentali pubblicazioni che hanno illustrato intere regioni e periodi oscurissimi, mai prima di lui tentati, e da lui fatti rivivere e resi eloquenti dopo millenni di silenzio.»

Paolo Orsi

Un romanzo familiare

di Armando Munao’

“SARANNO ROSSE LE MIE SCARPE”

Ogni romanzo è sempre frutto di fantasia, immaginazione autobiografica. Non fa eccezione il romanzo “ Saranno rosse le mie scarpe” scritto da Angela Rossi, che dopo avere speso molto tempo nel campo delle risorse umane e organizzazione, consulente aziendale, ha sentito la necessità di rallentare, fermarsi pochi attimi per riflettere. Aveva 50 anni, aveva studiato giurisprudenza e lavorato sodo ma non era pienamente soddisfatta. Così ha deciso di guardarsi dentro, di rivedere la propria vita per capire se e come aveva sbagliato. “Mi sono concessa una seconda vita, dice Angela Rossi, ho voluto recuperare le mie passioni, i miei sogni tra i quali in primo piano il piacere della scrittura, la voglia di mettere su carta i miei pensieri, le mie emozioni” E così ha compiuto un viaggio che parte dall’infanzia della protagonista di nome Greta, quando è ancora una bambina e, appena trasferita a Gorizia, prende le misure con la sua nuova vita. I primi giochi nel cortile, i timidi tentativi di stringere legami e, al contempo, i battibecchi in famiglia, con la nonna specialmente, con cui forzatamente divide i suoi spazi. “Una ragazzina molto timida, sensibile e aperta alle aspettative della famiglia che la circonda, dice l’autrice, ma da questa troppa condizionata perché in parte subisce la forza pulsante della famiglia, la straordinari potenza, l’energia e gli affetti che caratterizzano la quotidianità di questa famiglia che seppur in un ambiente pieno di amorevole affetto sovente, con le sue regole e i suoi principi, condiziona il vivere di tutti i componenti raccontando come a volte un destino, fatto di elementi, come sempre misti, tra aspetti positivi e negativi, può realmente condizionare la crescita e quindi la vita futura.” Non si è davanti ad una reale sofferenza, in fondo Greta è una bimba fortunata con una nonna dalla grande personalità e la mamma più leggera a volte capricciosa. Fra le due donne uno scontro generazionale nel quale Greta è come un coccio nel menage familiare fonte di frustrazioni, ilarità, incomprensioni e condivisioni, raccontato con straordinario realismo, ed esposto

CHI È

Angela Rossi è nata a Trento. Dopo la laurea in Giurisprudenza, si è sempre occupata di Risorse e di Organizzazione, dapprima come manager in aziende private, quindi coach e consulente aziendale. Appassionata di temi di sviluppo personale, è attivamente coinvolta in attività di supporto e cura della persona. Collabora infatti da circa due anni con “Imprenditore non sei solo”, una Associazione non profit che si occupa di sostenere gli imprenditori in difficoltà, missione che realizza attraverso il dono. In una comunità virtuosa molti professionisti, imprenditori a loro volta, ed esperti in vari campi, offrono le loro competenze specialistiche agli assistiti seguendoli attraverso un protocollo formativo che dà loro strumenti, mentalità, energie utili a risollevarsi sul mercato e ristabilire il loro equilibrio personale, e familiare. E’ una associazione in espansione, che si propone di essere presente nel tempo in tutte le regioni d’Italia, impegnata a soccorrere la persona, da un lato, nel contempo a contribuire al benessere sociale. Durante il lockdown, quel terribile periodo di ripiegamento collettivo, ha scritto “Saranno rosse le mie scarpe” che rappresenta il romanzo d’esordio, con tratti fortemente autobiografici. NOTA D’AUTORE: Parte del ricavato della vendita del libro sarà destinato alla realizzazione e al sostegno dei laboratori solidali di scrittura LetterariaMente

con cristallina chiarezza. Descrive la diversità di vedute di generazioni non tanto lontane eppure incompatibili. Arriva poi nella vita il momento in cui riflettere su tutto e ciò equivale ad uscire dalla soggezione e lo scrivere è una specie di psicoterapia. Il romanzo, infatti, può essere definito una storia: sulla famiglia, sulle tre età delle donne protagoniste, nipote, madre, nonna, sui diversi punti di vista di tre generazioni e sulla faticosa ricerca della libertà e dell’affermazione individuale e che affronta il rapporto tra destino e volontà. “La molla dello scrivere il libro, dice Angela Rossi, parte dalla consapevolezza, che sebbene la nostra vita possa, a volte essere considerata normale e anche monotona, sovente invece è caratterizzata da aspetti particolari che inducono a specifiche riflessioni e analisi suggerite da spunti e non di rado anche da sensazioni. Quindi la voglia di riconsiderare le mie esperienze vissute, anche da bambina, in un particolare ambiente familiare”. Un percorso a ritroso che però arriva ai nostri giorni. Un percorso di “rifioritura” in grado di generare emozioni, sensazioni e, per certi aspetti, anche particolari novità e scelte. Il titolo è un invito a riconsiderare la vita e le sue occasioni. “ Le “mie scarpe saranno rosse”, dice l’autrice, indica la voglia di un futuro caratterizzato da intenzioni precise e forti. La voglia di vivere un viaggio nel mondo caratterizzato da quel colore rosso che è il simbolo della visibilità e del protagonismo in tutti gli aspetti e le varie fasi di un percorso di vita. E’ una promessa fatta a me stessa per rompere questa invivibilità e dare nuova vita e luce ad un roseo futuro. Alle vicissitudini che sono leggibili nel libro e che rappresentano non solo uno spaccato della mia vita ma anche un particolare coraggio di essere protagonista e prendersi il palcoscenico.” Come spesso accade un momento di crisi come quello creato dalla pandemia di Covid 19, può diventare un’occasione creativa. “ E’ così, scrive Angela, che nel particolare momento, quello del lockdown, si è rafforzato in me il desiderio di scrivere e quindi ho deciso non solo di mettere su carta una storia di vita profondamente personale e nel contempo recuperare molte emotività che erano sopite” Angela Rossi, con questa sua prima opera, ci regala una storia sulla faticosa ricerca della libertà e dell’affermazione individuale in un contesto affettivo complesso,

Un romanzo familiare

resa ancora più ardita da un evento delicatamente celato nell’ombra delle pagine interne, dense di emozioni e di grandissimo significato.

E alla domanda: se Lei una mattina dovesse guardarsi allo specchio, vede riflessa l’immagine della protagonista?

“Voglio essere estremamente sincera. Si, la vedo perché quella ragazzina, che è il personaggio del libro sono realmente io. Questo romanzo è infatti una storia profondamente autobiografica dalle innumerevoli sfaccettature e riflessi che racconta uno spaccato di vita, rivolto però ad un futuro che nella vita di ognuno di noi, deve essere, possibilmente, sempre roseo e da vivere nel migliore dei modi.” Il libro si rivolge a tutti, essendo certamente noi tutti dei figli, molti anche genitori; può essere molto apprezzato da un pubblico femminile, pur non rivolgendosi a quel target in via esclusiva, in quanto fortemente femminili sono gli argomenti trattati e le sensibilità di lettura; un lettore over 40/45 anni può particolarmente apprezzare l’ambientazione storica, avendo avuto conoscenza diretta del contesto sociale di riferimento.

Il personaggio

di Waimer Perinelli

RENZO FRANCESCOTTI

e “LA POESIA ALL’ANGOLO”

Giunto alla venerabile età di 83 anni, il 22 settembre, Renzo Francescotti riesce ancora una volta a sorprenderci. Lo conosco da quando nel 1971 ho abitato in via Grazioli a Trento e lo incontravo mentre dalla sua abitazione prossima al convento dei Francescani scendeva verso l’Istituto Tambosi dove insegnava. Uomo di poche parole, riservato per non dire scontroso. Io studente di sociologia l’ho incontrato ad alcune serate culturali e ho conosciuto la sua storia. Nato a Cles da genitori delle Giudicarie e di Rovereto, ha perso il padre a 17 anni provando un grande dolore espresso nella prima raccolta di versi dal titolo “Niente e qualcosa è la vita”. Diventa insegnante, fonda nel 1968 con un gruppo di studenti del Tambosi il Gruppo Neruda, e s’immerge sempre più nella critica sociale, nell’impegno politico, nella lotta all’ ingiustizia. Senza perdere una briciola della sua suscettibilità. Come succede spesso la scontrosità è però una maschera che nasconde fragilità, timidezza, generosità. E così l’abbiamo riscoperto pienamente 50 anni dopo in occasione della presentazione della sua nuova raccolta di liriche: “La poesia all’Angolo”; un titolo che è una provocazione pugilistica in una società nella quale l’interpretazione poetica della vita è sempre più relegata nel cantuccio dove, metaforicamente, si ritira a respirare il pugile fra un round e l’altro, oppure dove, pessimisticamente, è ristretto dall’avversario che lo sta riempiendo di botte. Lo stesso titolo tuttavia, ben si presta all’interpretazione opposta; quella dove la poesia ha un suo angolo ritagliato nel clamore della società, nel caos della vita quotidiana, nello spazio di un giornale. Ed è questa la versione più verosimile dell’idea di Francescotti, che sulla rivista “Uomo Città Territorio” diretta da Alessandro Franceschini, ha avuto un Angolo tutto suo nel quale descrivere e commentare poeticamente la vita del mondo. Il libro, grazie all’organizzazione del Centro d’Arte La Fonte, è stato presentato in prima assoluta a Caldonazzo, in uno spazio all’aperto, dove i vincoli del Covid hanno ristretto la partecipazione a cinquanta appassionati di poesia mentre altri hanno assistito da un basso muretto che delimita la strada. La raccolta di liriche “La poesia all’angolo”, Edizioni BQE, Trento, propone

Caldonazzo - Presentazione racacolta "La poesia all'angolo - Trentatre liriche mensili" di Renzo Francescotti, illustrazioni di Silvio Cattani

33 componimenti accompagnati ed illustrati da altrettante originali tavole di Silvio Cattani, artista di notorietà internazionale, vicepresidente del MART. Liriche raffinate dal linguaggio poetico ricercato, a tratti romantico, sorprendenti da parte di un poeta e insegnante, noto per le ricerche storiche e analisi critiche. Francescotti spoglia la società, la mette a nudo evidenziandone le contraddizioni. Un esempio illuminante viene dalla poesia “La fiaba del leader” :Attorno alla sua culla quando nacque quattro fate gli fecero un regalo: intelligenza, forza, preveggenza generosità al servizio del popolo -usale perché tu sarai un leader-Crebbe e le usò come credette utile. : la preveggenza per capire in tempo chi doveva fregare e distruggere: la generosità la usò con i suoi satelliti, commensali della Grande Merenda. E le Fate perché non intervennero per mettere fine a quel lugubre scandalo, dov’erano, dov’erano le fate? Non si sa: si dice che fuggirono il giorno che le avevano stuprate.” Un’amara quanto spietata analisi

Caldonazzo - Presentazione racacolta "La poesia all'angolo - Trentatre liriche mensili" di Renzo Francescotti, illustrazioni di Silvio Cattani. Nella foto l'Autore

Come eravamo

dell’abbuffata quotidiana di capi e capetti, ci dice Francescotti che dell’ingratitudine e infelicità umana si è occupato con oltre cinquanta libri, narrativa , poesie, commedie, in lingua e dialetto, con traduzioni negli Stati Uniti, in Messico e Romania. La “Prima” del libro è stata un vero e proprio spettacolo con Alessandro Franceschini autore della prefazione, e il Gruppo Neruda, nato con Francescotti nello storico Sessantotto, con le voci recitanti di Chiara Turrini ed Arrigo Dal Fovo, e i musicisti Maurizio Agostini e Franco Grasselli. Un omaggio all’autore che da sempre ha perseguito il tema della libertà , dalla parte degli emarginati degli oppressi, dagli Apostolici di Fra Dolcino e Margherita da Trento, i Rustici, i pellerossa, gli emigranti e i migranti, con coraggio, lucidità e una voce poetica alta inconfondibile.

Il personaggio

Il personaggio di casa nostra

di Armando Munao’

ENRICO COMUNELLO

e la sua impresa di assoluto valore

Sì, è stata una impresa davvero encomiabile, e per certi aspetti unica, quella che ha saputo concretizzare Enrico Comunello, titolare dell’omonimo negozio di Borgo Valsugana, partecipando alla NorthCape4000 una particolare gara-competizione alla quale, insieme al “nostro” con un altro trentino, hanno partecipato 192 concorrenti in rappresentanza di 30 nazioni con partenza da Rovereto. La NorthCape4000, così com’è descritta nel sito, è una competizione ciclistica in modalità “selfsupported”, cioè, non prevede che i partecipanti possano ricevere aiuti da esterni, al di fuori di ciò che ogni uno potrà trovare lungo il tracciato prestabilito, come negozi per assistenza, alberghi, ristoranti, e quanto altro. Questa particolare gara è stata concepita per dare agli “atleti” l’opportunità di vivere un’esperienza umana straordinaria. Fin dalla sua nascita, infatti, è aperta a differenti filosofie e prestazioni, perché il percorso da coprire – 4.000 km (da Riva del Garda a Caponord) – può essere fatto con la massima libertà e senza tempi obbligati, godendo lo stesso dell’evento e della sua magica atmosfera, in ogni suo aspetto. Il tracciato è uguale per tutti e deve essere rispettato, pena l’espulsione dalla gara. Nella quarta edizione della NorthCape4000 erano previsti 4 Gates lungo il percorso, identificati in modo univoco da coordinate geografich, Balaton (Ungheria), Krakow (Polonia), Riga (Lettonia), e Rovaniemi (Finlandia). I Gates sono passaggi obbligati che ogni partecipante è tenuto a raggiungere, pena la squalifi-

La partenza

Il personaggio di casa nostra

ca, e in cui dovrà compiere un’azione di convalida dell’apposita tessera. In più, per conquistare e fregiarsi del titolo di Finisher ed essere quindi inseriti nell’ordine di arrivo, il percorso, attraverso 11 Stati, Italia, Slovenia, Ungheria, Slovacchia, Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia, Finlandia, Norvegia, si doveva completare nel tempo massimo di 22 giorni, ovvero giungere alla meta coprendo in media la distanza di 180 km al giorno. Enrico Comunello ha saputo fare di più, perché non solo i chilometri totali da lui percorsi sono stati 4.500 nel tempo di 14 gg 6h 45m, ma la sua media è stata di 325 km al giorno, con punte di 400 km in una giornata, nel tragitto da Riga a Tallin. Alla fine si è classificato 18esimo, un risultato di tutto rispetto, impensabile alla partenza. Da sottolineare che Enrico non è nuovo a queste ”particolari” inprese; già nel 2016 ha paartecipato a un’analoga competizione, la Transam-Bike Race (Transamerica), che lo ha portato dall’Oregon fino in Virginia, percorrendo oltre 6.700 km in 23 giorni circa (scusate se è poco). In quel caso il risultato da lui ottenuto si può considerare davvero di assoluto rilievo (11esimo su circa 100 concorrenti). Volessimo ripetere a mente il percorso fatto da Comunello, una volta lasciatoci alle spalle il Lago di Garda, affronteremo le Alpi Giulie, arrivando al primo confine con la Slovenia, per giungere a Kranjska Gora, circondati dalle vette del Triglavski Narodni Park. Giunti al Lago di Bled e attraversando la campagna slovena, entreremo in Croazia e poi in Ungheria. Puntando a Nord-Est arriveremo a Balaton, sulle sponde del più grande specchio d’acqua d’Europa, il “mare d’Ungheria”. Di là, fino a Budapest, ci sono 135 Km. Continuando, arriveremo in Slovacchia nel Narodni Park, in vista dei Monti Tatra, fino al confine con la Polonia e avendo percorso già 1300 km. Giungeremo quindi a Krakow, sulle sponde del fiume Vistola. Attraverseremo la Polonia puntando a Est, verso il confine con l’Ucraina e in seguito la Bielorussia, per arrivare nelle Repubbliche Baltiche, Lituania, Lettonia, ed Estonia, vero punto di svolta della NorthCape4000. Lasciato il Gate 3 di Riga, ci dirigeremo verso l’imbarco di Tallinn, per raggiungere a Helsinki, in Finlandia, ed entrare in Scandinavia. Pedalando verso il Grande Nord, giungeremo in Lapponia e quindi al Gate 4 situato nel Santa Claus Village di Rovaniemi, da dove mancano gli ultimi 700 Km fino a Caponord, la fine del Mondo. Dalle parole dello stesso Enrico, possiamo immaginare da quali sentimenti potremmo essere riempiti a questo punto. «Oh! La bellezza aspra e selvaggia – ha detto Comunello – dell’Oldefjord e del Mare di Barents! Alla fine, dopo un’avventura che vi porterà a viaggiare nel profondo della vostra anima e per tutta Europa, il promontorio di Mageroya e il globo di Caponord vi appariranno per quelli che sono, simboli eterni del coraggio e dello spirito pionieristico che alberga nel profondo di ogni essere umano».

L'arrivo

Gli eroi della guerra

di Andrea Casna

Josef Josi Kiss, «Il Cavaliere del cielo»

Era chiamato così per via del suo comportamento leale e cavalleresco perché cercava sempre di risparmiare la vita all’avversario. Al momento della sua morte, in combattimento, nel 1918, nei cieli di Lamon (nel Feltrino), aveva al suo attivo ben 113 missioni di guerra con 19 vittorie. Volava su un Albatros D.III dipinto di nero con una grande ‘K’ raffigurata su entrambi i lati delle ali.

ÈJosef Josi Kiss, asso dell’aviazione austroungarica, nato a Bratislava 26 gennaio 1896 (morto Lamon, 24 maggio 1918). La sua è stata una carriera incredibile. Allo scoppio del primo conflitto mondiale, nel 1914, Kiss abbandona gli studi ginnasiali per partire volontario nell’esercito di Francesco Giuseppe d’Austria. Nell’ottobre del 1914 entra a far parte del 72º Reggimento di Fanteria dell’esercito austro-ungarico, e inviato sul fronte orientale in Galizia contro le armate dello Zar di Russia. Ferito gravemente in battaglia viene rimandato a casa per un periodo di recupero. Ed è durante la convalescenza che si avvicina, con ambizione e curiosità, al mondo dell’aviazione facendo quindi domanda per entrare nell’arma aerea. Nell’aprile 1916 riceve il brevetto e il diploma di sergente pilota per essere poi assegnato alla nuova squadriglia aerea Flik 24 stanziata lungo il fronte italo-austriaco al Cirè di Pergine in Valsugana. Nella tarda primavera dello stesso anno Kiss compie la sua prima missione di volo sull’altopiano dei Sette Comuni e poi nell’area tra il bellunese e il Friuli. La prima operazione bellica avviene il 20 giugno 1916 colpendo un aereo italiano. Il 25 agosto l’aereo pilotato dal giovane Kiss infligge una serie colpi ad un bombardiere italiano Caproni Ca.33, del Capitano Gaetano Coniglio della 5ª Squadriglia, costringendolo ad atterrare in emergenza sull’aeroporto di Cirè. E le vittorie di questo asso dell’aviazione austroungarica proseguono senza sosta. Il 17 settembre attacca, sempre nei cieli del Trentino, un bombardiere Caproni Ca.3, pilotato dal capitano Filippo Valdimiro: anche in questo caso il capitano è costretto ad atterrare oltre le linee nemiche, ma a Chizzola, in Vallagarina. Il 10 giugno 1917 a bordo di un Hansa-Brandenburg D.I Kiss abbatte un caccia italiano Nieuport sul cielo di Asiago. Grazie a queste vittorie Kiss diventa un “Asso” dell’aviazione”, entrando a far parte della Kaiser Staffel (ovvero squadrone imperiale), dotata di

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Gli eroi della guerra

Josef Kiss

velivoli Albatros D.III. In mancanza di titoli di studi, e per le sue umili origini familiari, non può accedere alla nomina di ufficiale. E con il suo aereo da caccia continuò i suoi successi in combattimento ricevendo otto medaglie, ottenendo, nei successivi due mesi e mezzo, fino al gennaio 1918, ulteriori dodici vittorie aeree, di cui otto in missioni di guerra. Il 25 gennaio 1918 K vien ferito all’addome in un duello aereo, fra Asiago e Val d’Assa, contro l’asso italiano Silvio Scaroni. Kiss è quindi costretto ad effettuare un atterraggio di emergenza a Ciré dove, svenuto e sanguinante, viene trasferito presso l’ospedale militare da campo nei pressi di Trento. Il 24 maggio 1918, non ancora del tutto guarito dalla ferita, Kiss, con altri due commilitoni, parte dal campo d’aviazione di Cirè per quella che sarà la sua ultima missione. Durante il combattimento, che vede impegnati tre aerei austro-ungarici e i nove aerei britannici, Kiss si trova ad affrontare da solo sei velivoli avversari. Kiss muore per un colpo al petto: il velivolo precipiterà avvolto dalle fiamme oltre le linee italiane. La sua salma verrà ricomposta da alcuni fanti del Regio Esercito e cavallerescamente consegnata alle truppe austro-ungariche. A ventiquattro ore dalla morte l’imperatore Carlo I lo promosse a Tenente della riserva: caso unico nella storia dell’Imperiale-Regio esercito austro-ungarico. Durante la commemorazione funebre, nell’aeroporto di Cirè, gli alleati gli diedero i massimi onori delle armi ed aerei italiani, francesi e britannici, lanciarono dal cielo una corona commemorativa, appesantita da una chiave inglese, recante la scritta: «Il nostro ultimo omaggio per il nostro coraggioso avversario». Josef Kiss venne in seguito sepolto a Pergine Valsugana. La fidanzata di Kiss, una ragazza di Pergine, Enrica Bonecker, visitò ogni giorno la tomba dell’amato per i successivi cinquantadue anni, fino alla sua morte. Nel 1970 la salma fu traslata al Sacrario militare di Castel Dante di Rovereto.

Borgo Valsugana

Lunedì: 15.00 - 19.30 Martedì: 9.00 - 12.30 / 15.00 - 19.30 Mercoledì: 9.00 - 12.30 / 15.00 - 19.30 Giovedì: 9.00 - 12.30 / 15.00 - 19.30 Venerdì: 9.00 - 12.30 / 15.00 - 19.30 Sabato: 9.00 - 19.30 (continuato) Domenica: 9.00 - 12.30 / 15.00 - 19.30

Presso il Centro Commerciale “Le Valli” di Borgo Valsugana

Società e dintorni

di Chiara Paoli

La Giornata Mondiale dei Sogni

“In tempi duri dobbiamo avere sogni duri, sogni reali, quelli che, se ci daremo da fare, si avvereranno.” Queste le parole di Clarissa Pinkola Estés, poeta, psicoanalista e scrittrice statunitense, che si è occupata di aiutare molte persone dopo eventi traumatici, come il Massacro della Columbine High School, che risale al 1999 e in seguito ai più famosi attentati dell’11 settembre 2001. E forse anche questo periodo di pandemia può andare ad inserirsi tra quelli da definire “tempi duri”, che “rubano i sogni” a molte persone. Ma i sogni e le aspirazioni devono continuare ad alimentare la nostra mente e aiutarci a superare anche questo periodo buio. Daisaku Ikeda d’altra parte dice “Proprio come un fiore sboccia dopo aver sopportato il rigido freddo invernale, un sogno può avverarsi solo se si è preparati a sopportare i tormenti che ne accompagnano la realizzazione e a compiere tutti gli sforzi necessari!” Per realizzare i propri desideri è necessario rimboccarsi le maniche e darsi da fare, in nostro aiuto arriva il World Dream Day, cioè la giornata mondiale dei sogni. Questa ricorrenza, che viene celebrata il 25 settembre, si basa su tre principi basilari: creatività, collaborazione e partecipazione. Il WDD è stato ideato nel 2012 dall’americana Ozioma Egwuonwu docente universitaria ed esperta in strategie motivazionali, per spingere ogni individuo sulla strada della realizzazione delle proprie aspirazioni. Il sogno visto come proposito che induce al cambiamento, un’organizzazione che negli anni si è trasformata in un movimento globale, che promuove numerose iniziative. Condividere sogni e aspirazioni, ci aiuta ad affrontare meglio le difficoltà che ci si presentano lungo il cammino, in fondo come sostiene Michele Lessona, “Volere è potere”, questo il titolo del suo saggio datato 1869. Sul sito dell’organizzazione worlddreamday.org è possibile scaricare la “Dichiarazione del sogno”, che può aiutarci a focalizzare l’attenzione su un desiderio e formulare delle strategie, almeno 3, per concretizzarlo. Sono molti i personaggi illustri che hanno parlato di questo argomento, emblematiche anche le parole di Walt Disney: “Pensa, credi, sogna e osa”, che mettono in luce il fatto che per seguire le nostre aspirazioni dobbiamo anche azzardare, tentare e se necessario perseverare. Questa giornata vuole promuovere la positività e se anche voi volete dare il vostro contributo potete farlo condividendo sui social i vostri sogni e quanto siete riusciti a ottenere con impegno e dedizione, utilizzando l’apposito hashtag #WorldDreamDay. Anche Arthur Schopenhauer aveva una sua opinione a proposito: “La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro. Leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare.”

Storie di casa nostra

di Massimo Dalledonne

Le MERIDIANE di MARIO GIONGO

All’ingresso una scritta: la baita delle meridiane. Quando ci avevano parlato di questo luogo, ce lo avevano descritto come il posto ideale per chi voglia tuffarsi nel mondo della gnomonica. È proprio vero. In località Costa Cortù, a quasi 1200 metri d’altezza, nel comune di Torcegno meridiane e orologi solari la fanno da padroni. In tutti i sensi. Qui, per molti mesi all’anno, vive Mauro Giongo. Da sempre è appassionato di tutto ciò che sembra muoversi. Alle linee preferisce le curve ma, soprattutto, è un grande appassionato di meridiane ed orologi solari. Alla “baita delle meridiane”, in questo magnifico balcone della Valsugana ha realizzato il suo sogno: creare un luogo dove dare la possibilità a tutti, appassionati e non, di avvicinarsi al mondo della “gnomonica”. Mauro Giongo in Valsugana ci è arrivato diversi anni fa. Per caso. Residente a Lavis, a Pressano, esattamente 15 anni fa ha acquistato la baita dove ha deciso di creare il suo rifugio e quello della famiglia. Classe 1953, 67 primavere sulle spalle, dopo una lunga attività lavorativa ora si gode la meritata pensione. Una passione per la gnomonica nata sul posto di lavoro. Collaboratore della Sat di Trento, si è appassionato di meridiane e orologi solari leggendo il bollettino sociale. E, come in tutte le cose più belle che succedono nella vita, giorno dopo giorno la passione ha riempito sempre più le sue giornate. Fino a quando, con la moglie, ha deciso di costruire a Torcegno, in Valsugana, la loro “baita delle meridiane”. In tutti questi anni, tra meridiane e orologi solari delle più svariate dimensioni, ne ha realizzate circa una trentina. Dalle più semplici a quelle originali. Alcune le ha realizzate lontano dalla baita delle meridiane. Come quella che dal 2019 campeggia nel cortile interno della casa della Sat a Trento. “Quell’orologio solare l’ho costruito

con l’amico Rudi Patauner, nel posto dove il Sole arriva per alcune ore durante tutto l’anno. Lo stilo è un’asta in ottone posizionata sopra la meridiana e parallelo all’asse di rotazione terrestre in modo che la sua ombra segni le ore dalle 7 alle 3 del pomeriggio. Sulla meridiana è raffigurata un’aquila, simbolo della Sat. Sono state inserite, non a caso, due spille storiche per non dimenticare il vecchio logo”. Meridiane e orologi solari li ha realizzati, in questi ultimi anni, anche con le scuole De Gaspari di Trento. “Il primo orologio solare l’ho costruito a Lavis nel 1998 – ci racconta – mentre a Costa Cortù, sempre con Rudi Patauner, la prima opera è datata 2004, dedicata a mia moglie Lucia. Di me dicono che sono un bastian contrario, sarà anche così, ma qui in montagna le porte della mia baita sono aperte a tutti, dodici mesi all’anno”. All’ingresso due scritte: Meri e Diana. Quando si entra si mette piede in un giardino dove le meridiane (quelle che indicano il mezzogiorno) e gli orologi solari (costruiti sui muri) la fanno da padrone. Mauro Giongo era molto legato a Giuseppe Tamanini, scomparso lo scorso anno all’età di 80 anni. È lui che ha catalogato tutti i suoi lavori. Giongo ha lavorato con Rudi Patauner, Elisa Zeni, Lucia Chini e Giuseppe De Donà. Alla baita delle meridiane arrivano tante persone, anche delle scolaresche in visita ed i ragazzi delle colonie estive dell’Ecomuseo del Lagorai. Si possono ammirare orologi solari come Costarte, uno ad ora italica dedicato alla nipotina Ilaria, un altro a Modigliani fino a quello realizzato nell’orto e dedicato a mamma Fausta. Sulla parte nord della baita c’è una meridiana, “El medodì de Traozen”. E tante, tante altre ancora con versi dedicati a Leopardi e Leonardo Da Vinci. Alla baita delle meridiane, in località Costa Cortù a Torcegno, non è solo il tempo ad essere misurato. Anche lo spazio. Con cannocchiali, per osservare le cime circostanti, ed un distanziometro con i nomi e le distanze da vari punti del mondo. È protetto da un vecchio coperchio di un alambicco, attrezzo utilizzato spesso in Trentino per distillare la grappa. All’interno, su un muro della casa, una originale meridiana, collegata a Cima Portule, ed un orologio solare che Giongo ha chiamato “Punto e Gamma”. Alla baita delle meridiane la gnomonica è davvero di casa. Ci sono anche orologi ad acqua. Ed uno solare, realizzato su un asse di pino, dedicato all’amico e maestro di gnomonica Giuseppe Tavernini che Giongo ancora oggi ricorda con il gnomignolo fraterno di “Ursus Tridentum”. Per conoscerne le caratteristiche, ognuna di loro è dotata anche di un QR code. Per lui la forma più bella al mondo è quella dell’uovo, la matita lè stata la più bella invenzione. I suoi numeri preferiti? 2π e Ø. Un sentito ringraziamento a Emilio Marzaroli per la gentile concessione delle foto.

Mauro Giongo e la moglie

Storie di casa nostra

Bambini e tecnologia

di Patrizia Rapposelli

CATTIVE ABITUDINI

Un bambino con un boccone in bocca e il cellulare in mano è un bambino moderno. Nell’era digitale smartphone e tablet sono diventati i moderni babysitter dei piccoli, soprattutto a tavola. Ad oggi la vita frenetica porta la famiglia moderna a sedersi a tavola di fretta. I genitori esausti per lo stress lavorativo e per gli impegni quotidiani preferiscono figli che durante i pasti non creano problemi. Serve qualcosa che li incanta. Infatti, un bel cartone animato online o una divertente app di giochi intervengono in aiuto del genitore moderno. Il bambino stordito dal suo tablet mangia qualsiasi cosa, senza accorgersene o disturbare. Questo atteggiamento sta diventando prassi quotidiana e gli effetti sulle abitudini alimentari, di vita e famigliari sono disastrosi. Una cattiva abitudine che inclina il dialogo famigliare, gli stessi adulti sono spesso di male esempio, e crea disattenzione verso il pasto. Il cibo riempie con i colori, i sapori e il gusto, ma questa brutta consuetudine va a disperdere il rito del piacere del convito, momento in cui il bambino dovrebbe imparare a seguire un corretto stile di vita. Attenzione a cosa e a come si mangia. La scena è pressoché sempre la stessa, uno o più genitori, uno o più bambini, uno o più videogiochi. Gli adulti parlano o sono affaccendati con gli smartphone, mentre i più piccoli si intrattengono da soli. Accade inoltre che, quando i bambini sono più di uno, ognuno è in possesso del suo tablet o console ed ignora la presenza del coetaneo. Situazione inquietante sotto molti aspetti. Prescindendo dal fatto che tutto questo è contrario alle regole del galateo, è allarmante l’assenza totale di co-

“Mangio se mi lasci tablet e smartphone”

municazione non solo tra piccolo e adulto, ma anche tra bambini. Oltre a ciò, una corretta abitudine a tavola permette al bambino di distinguere gli stimoli e di comprendere il senso di sazietà. Semplificando: l’immaturo deve imparare cosa significa tale sensazione altrimenti il rischio è di cadere poi in obesità. Imparare a masticare il cibo ed apprezzarlo, senza distrazione. Il cibo perde sapore, è più interessante l’aggeggio elettronico. Prima tra i piccoli si giocava con il cibo a tavola e adesso non più, si ingoia senza partecipazione. I pasti in famiglia dovrebbero rappresentare un momento importante per comunicare con i figli, per trasmettere serenità e stabilità. Decisivo è il ruolo del genitore, il quale dovrebbe dare il buon esempio. Oltre la metà dei bambini italiani usa abitualmente internet. Lo rivelano i dati di un’indagine condotta da Save the Children e una fetta lo utilizza come distrazione a tavola. È questo l’inquietante ritratto della famiglia di oggi? Importante inoltre sottolineare come il “pasto tecnologico”, al di là di compromettere l’ascolto e la comunicazione in famiglia, può contribuire alla messa in atto di comportamenti sbagliati dal punto di vista alimentare. Qualità e quantità di cibo non contano. Madre e padre hanno forse smesso di fare i genitori? Mancano regole stabilite e norme di condotta. La comodità ha reso la tecnologia il nuovo ipnotizzatore dei bambini. Non si può parlare di innovazione digitale, se prima non c’è una vera e propria educazione digitale. I genitori devono tornare a fare mamma e papà, risvegliando il senso della convivialità a tavola e educare il bambino alle buone abitudini. Forse, sul piano educativo qualcuno ha un po’ mollato?

Salute & Benessere

di Rolando Zambelli, titolare dell’Ottica Valsugana, è Ottico Optometrista e Contattologo

Delle semplici regole per una buona igiene visiva per i bambini

Èfondamentale già in età scolare fare una buona prevenzione. Questo prevede l’attenzione da parte dei genitori ad insegnare al bambino una corretta postura di studio, poiché un’efficace igiene visiva facilita l’apprendimento e il rendimento. Di seguito una serie di semplici accorgimenti per ridurre lo stress visivo cognitivo, che rappresenta spesso la causa di mal di testa, affaticamento visivo, bruciore agli occhi e lacrimazione, tutti segnali di un sistema visivo che ha bisogno di aiuto. Alzare lo sguardo: a intervalli regolari, durante un prolungato lavoro da vicino (es. lettura di un libro) è necessario distogliere lo sguardo e guardare lontano per alcuni minuti per rilassare il sistema visivo e mantenerne la flessibilità. Corretta distanza di lavoro: la giusta distanza per poter leggere o scrivere si ottiene appoggiando il mento sulla mano chiusa a pugno con il gomito appoggiato sul banco. Evitare le posizioni distese: quando si legge o si guarda la tv ci si deve sedere correttamente evitando posizioni sdraiate o piegate in avanti o di lato. È difficile mantenere distanza e visione equilibrata stando sdraiati sul letto o sul divano. Impugnatura nella scrittura: una scorretta impugnatura della penna o della matita può portare il bambino ad assumere una postura non idonea, che potrebbe causare problemi muscolo-scheletrici o di visione binoculare. È quindi opportuno tenere la penna o la matita a 2 cm dalla punta, in modo tale da poter vedere la punta senza inclinare di lato la testa o il busto. Si consiglia di utilizzare matite triangolari o pencil grip per ottimizzare l’impugnatura. Piano di lavoro: per mantenere una corretta postura è utile e consigliabile utilizzare un piano di lavoro inclinato di circa 20°/30°. Illuminazione: non leggere o scrivere mai con un’ unica lampada accesa, ma utilizzare una luce che viene dall’alto e una lampada posizionata dal lato opposto della mano con cui si scrive. Televisione: per quando riguarda la tv, si consiglia di guardarla ad una distanza pari a 7 volte la diagonale dello schermo (almeno 3 metri) in un ambiente illuminato. Poiché l’utilizzo della TV, dei videogames e di tutti i dispositivi elettronici in generale sviluppa pochissime capacità visive, pertanto si consiglia vivamente di incentivare il bambino a svolgere attività all’aperto. Con queste semplici regole è possibile ridurre molti problemi visuo-posturali che rappresentano un’importante fonte di stress visivo cognitivo nel bambino.

Medicina & Salute

di Erica Zanghellini *

Disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività

Quali sono le strategie più efficaci?

Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (anche denominato ADHD) è un disturbo che viene rilevato in età evolutiva, ma che si manifesterà per tutto il ciclo di vita. Questo disturbo del neurosviluppo porta con sé una compromissione importante a livello della regolazione e si caratterizza come una persistente alterazione dell’attenzione e dell’iperattività/impulsività che interferiscono significativamente nella vita di chi ne è affetto. Queste alterazioni devono essere riscontrate, prima dei 12 anni e interferire con la vita scolastica e sociale. La disattenzione si manifesta come un’ incapacità a rimanere attenti su compiti che richiedono uno sforzo prolungato, come ad esempio nella lettura di testi lunghi, oppure rimanere concentrati durante una spiegazione a scuola o ancora durante le conversazioni. Da fuori potrebbe sembrare che il bambino non ci stia ascoltando, che non sia capace a porre attenzione ai particolari e capite bene come queste caratteristiche si traducono in una problematicità importante nello svolgere i compiti a casa . Per di più, frequentemente si trovano associate alterazioni nelle abilità di pianificazione e di organizzazione che aggravano sicuramente la situazione. Se guardiamo invece, il piano dell’ im-

pulsività e dell’ iperattività noteremmo una difficoltà a gestire gli impulsi e a calcolare le conseguenze delle proprie azioni. Queste si traducono in bambini che, non riescono a stare fermi, li vedremmo per esempio alzarsi dalla sedia anche in situazioni in cui gli è richiesto di stare seduti, o ancora interrompere le conversazioni perché non sanno aspettare il loro turno oppure rispondere frettolosamente, magari senza aver finito di sentire la domanda fino alla fine. Asseconda delle peculiarità che il bambino riporta si delineeranno profili diversi, non è infatti per forza necessario che siano presenti tutte queste caratteristiche, ma nonostante ciò, il bambino ne soffrirà. Di solito infatti, sono bambini sensibili e intelligenti e quindi si accorgeranno ineluttabilmente delle differenze tra loro e i loro amichetti. Per di più molto spesso si riscontrano nella loro vita, situazioni in cui i feedback rispetto il loro operato saranno negativi (a scuola, nelle attività quotidiane o anche a casa) e questo non farà altro che minare la loro autostima. Per evitare questo, è importante cercare di individuare precocemente tale disturbo, proprio per mettere in atto il prima possibile degli aiuti che supportino il bambino e rafforzino la sua efficacia e quindi di conseguenza la sua autostima. Vorrei ricordare agli adulti che girano attorno a bambini che soffrono di questo disturbo, che per quanto complesso e difficile gestire la situazione, il bambino non lo fa apposta ad avere quel tipo di comportamenti ma, è il disturbo specifico a dettarli. Aggiungerei quindi che l’atteggiamento adottato dagli adulti può fare la differenza per rafforzare o ridurre i “sintomi” o “segni” del disturbo. Partendo dal presupposto che ogni intervento dovrebbe essere calibrato sugli elementi distintivi specifici del bambino e quindi individuati ad doc, potrei comunque consigliare alcuni suggerimenti che si possono mettere in pratica da subito. Più persone che interagiscono col bambino li metteranno in pratica pedissequamente più risultati ci saranno. Purtroppo in questo caso c’è la necessità di operare in gruppo proprio perché le manifestazioni ci sono in tutti gli ambiti di vita del minore. L’ambiente diciamo può intervenire sull’intensità e la durata dei sintomi e quindi accrescerli o diminuirli. Le strategie importanti che si possono mettere in pratica nella quotidianità sono due e adesso le vediamo qui di seguito: 1) Stabilire una routine giornaliera. Come accennavo prima il bambino con questa problematicità fa molta fatica a pianificare, a organizzarsi ecco perché se noi organizziamo la giornata al posto suo, lui si sentirà più al sciuro e più efficace. Le regolarità e le scadenze pattuite lo aiutano a comprendere meglio le situazioni e a renderle più prevedibili. Mi raccomando calibrate bene i tempi, anche in questo caso è importante essere realistici e proporre le varie attività asseconda i tempi di attenzione del bambino. 2) Stabilire quello che si vuole ottenere dal bambino e cosa invece succede se il minore infrange l’accordo. Il bambino fa fatica a immaginare le conseguenze delle sue azioni ecco perché è importante essere chiari a stabilire richieste. Le regole devono essere semplici, esplicitate con un linguaggio adeguato per l’età del ragazzo, sempre volte al positivo e limitate come numero. Una volta decise e condivise col bambino risulta necessario anche prevedere cosa succederà se non verranno portate a termine. Mi raccomando andiamo per gradualità, cerchiamo di avere una stima realistica di quello che il bambino può fare, ed eventualmente aumentiamo la difficoltà in un secondo momento. Nel caso in cui il minore non porti a termine quanto concordato deve avere già nella sua testa cosa accadrà, io vi suggerisco di evitare di infliggere punizioni vere e proprie ma, eventualmente prestabilire ad esempio la perdita di qualche privilegio o la perdita di qualche attività piacevole. E ora, non mi resta che augurarvi buon lavoro

Medicina & Salute

* Dott.ssa Erica Zanghellini Psicologa-Psicoterapeuta Riceve su appuntamento Tel- 3884828675

Il personaggio di casa nostra

di Massimo Dalledonne

Agostino Lunardoni

La figura di Agostino Lunardoni non è molto conosciuta in Valsugana. Un nome che, per i lettori di Valsugana News, non dirà, forse, nulla. Ma per gli appassionati di cose agricole e forestali, questo illustre personaggio viene ricordato come uno studioso appassionato di entomologia agraria e forestale ed autore di molti testi sull’argomento. Agostino Lunardoni nasce a Borgo Valsugana il 13 dicembre del 1858 e, come ci racconta Antonio Zanetel nel suo dizionario biografico dedicato agli uomini del Trentino Sud- Orientale “riuscì ad iniziare e proseguire gli studi superando le gravi difficoltà che gli provenivano dalla scarsezza dei mezzi finanziari della famiglia”. Portò a termine gli studi tecnici a Rovereto dove frequentò la Scuola Superiore e, a Vienna, quella agricolo-forestale tra il 1878 ed il 1881. Si laureò presso la Scuola forestale di Vienna dove fu assistente alla cattedra di zoologia agraria del professore Henschel. “Compiuti i 17 mesi di servizio militare – scrive Zanetel - Agostino Lunardoni si recò in Albania quale ingegnere forestale al servizio della ditta A. Monos con l’incarico di stimare taluni boschi. Dopo essere stato per qualche tempo in Slavonia, nel 1884 entrò al servizio del marchese di Torre Alfino a Roma. Vi rimase un anno per passare, quindi, al servizio dell’onorevole Fazzari per il quale tenne l’amministrazione delle foreste e delle miniere in Calabria”. Per due anni venne designato agli Uffici montanistici di Trieste laureandosi nel frattempo, è il 1886, presso la Scuola Superiore in Portici. Subito dopo passò ai servizi dello stato Italiano dopo aver vinto il concorso per l’incarico di vice segretario al Ministero dell’Agricoltura, Industria ed Artigianato. Qui, Agostino Lunardoni raggiunse i massimi livelli fino a diventare ispettore generale. Venne incaricato direttamente dall’allora ministro di riorganizzare i servizi agrari della Venezia Tridentina. Cessò il lavoro nel 1929, per i raggiunti limiti d’età. Agostino Lunardoni viene ricordato come uno studioso appassionato di entomologia agraria e forestale ed autore di molti testi sull’argomento. Ancora Antonio Zanetel. “Con le sue pubblicazioni vinse il concorso per cattedra di estimo ed agraria presso gli Istituti Tecnici e più tardi conseguì pure la libera docenza presso la Scuola di Portici. Insegnò anche, temporaneamente matematica e scienze naturali, presso il Ginnasio Romano Ennio Quirino Visconti. Conoscitore dell’italiano, del tedesco, del francese, dell’inglese e dello spagnolo, curò per molti anni le pubblicazioni, in queste lingue, che la rivista “Italia enologica”, di cui fu pure redattore, la Settimana vinicola ed altre stampe andranno via via pubblicando”. Nel 1880 la sua prima pubblicazione “Le cause dell’ascensione della linfa”, una traduzione dal tedesco di un testo del professor Boehm per la Nuova Rivista Forestale di Firenze. Ne seguirono tantissime altre pubblicate sul Bollettino Sociale dei Viticoltori Italiani, il Giornale d’Agricoltura Pratica e tante altre riviste tecniche del settore. Agostino Lunardoni tenne diverse conferenze, sia in Italia che all’estero ed il suo prezioso vademecum “Gli insetti nocivi” del 1889 ottenne medaglie e diplomi e venne tradotto anche in portoghese, croato e greco. Agostino Lunardoni muore nel 1933 all’età di 75 anni.

Il Trentino in cronaca

di Chiara Paoli

Chi dice mela dice Trentino

Sembra che il melo faccia parte da sempre del nostro paesaggio Trentino, con i suoi bianchi fiori primaverili e i suoi frutti pronti in questo periodo per la raccolta. In realtà fino alla prima metà dell’800 di alberi di melo in Valle di Non e nel Trentino più in generale ce n’erano pochissimi e si potevano trovare solamente nei broili, piccoli giardini recintati delle ville di nobili e aristocrativi che si dedicano alla coltura di piante frutto per puro diletto. Questa coltivazione è giunta a contraddistinguere il paesaggio delle nostre valli, quella di Anaunia soprattutto, soltanto nella seconda metà dell’800, quando viti e gelsi hanno iniziato a essere colpiti da parassiti e malattie che ne hanno compromesso i raccolti. Nel 1852 Agostino Perini scrive in Statistica del Trentino “La coltivazione degli alberi da frutto, pomi, peri, prugni, ciliegi, è in generale negletta in Trentino. Fanno eccezione alcuni territori di monte e specialmente Revò e i villaggi vicini nella Valle di Non, ove si producono in tanta copia dei frutti squisiti d’inverno da farne commercio non solo in tutta la valle, ma si spediscono anche in più lontani paesi”. Ecco le avvisaglie di quello che sarà il boom della mela, che trova riscontro anche nella “Relazione sull’andamento dell’annata agricola per il Trentino” del 1873 con questa frase premonitrice: “La pomologia ha un bell’avvenire in Valle di Non”. I contadini hanno così iniziato a piantare meleti, a Cles nel 1882 sono stati prodotti 1.729 quintali di frutta, quantità che in soli tre anni è triplicata giungendo a 5.000, per la maggior parte “pomi”. Nel 1889 si tiene a Vienna una mostra pomologica, che vede la Valle di Non aggiudicarsi il primo premio assoluto, consacrandola così alla coltivazione del melo. Agli inizi del ‘900 in valle di Non prevale l’accostamento di prati e frutteti e negli anni ’30 infatti il 40% di tutta la frutta della nostra provincia, proviene sa questa valle, dove ancora oggi regna incontrastata la mela. Nel secondo dopoguerra si ha un vero e proprio exploit grazie alla meccanizzazione, alle innovazioni in campo agricolo, ma anche alla creazione di realtà di cooperazione e al sostegno da parte di enti come l’Esat (Ente di sviluppo per l’agricoltura trentina) prima e l’Istituto agrario di San Michele all’Adige poi, cui si aggiunge

Il Trentino in cronaca

la politica di incentivi concessi dalla Provincia autonoma di Trento. Si afferma così quella che potremmo definire “l’industria delle mele”, che negli anni 2000, produce ogni anno tra i 4 e i 4,5 milioni di quintali di frutti di diverse varietà che giungono in tutti i maggiori mercati internazionali. Questo nostro tempo diviene emblema della monocultura con i suoi pali di cemento e le antigrandine, che è andata a sostituire quel variegato paesaggio che fino a due secoli fa contraddistingueva le nostre valli, coltivate a vite, gelso, cereali, diversi tipi di legumi, patata e molteplici alberi da frutto cui si aggiungevano erbe aromatiche e officinali, che affiancavano l’allevamento. Per sostenere questo tipo di agricoltura è stato necessario costruire nuovi acquedotti, oltre a quelli già realizzati nel XVIII secolo, che garantissero il fabbisogno idrico necessario alla coltivazione della mela. Nel 1930 saranno ben 33 gli acquedotti funzionanti. Nel 2012 su oltre 9.500 ettari lavorati a meleto, circa 6.500 sono concentrati nella sola Valle di Non, segue la Valle dell’Adige con soli 950, la nostra Valsugana con la valle dei Mòcheni ne detiene 760 circa, 680 la Piana Rotaliana. Ora però bisogna tenere conto che gli alberi sono molto ravvicinati tra loro, quello che vediamo attraversando la Val di Non è un “paesaggio costruito” dall’uomo che negli anni ’90 vedeva ancora, come evidenziato dal censimento della popolazione, un 15% della forza lavoro locale, addetta all’agricoltura contro una media provinciale che si attestava al 4%. Ma in questi ultimi anni i lavoratori spesso provengono da altri stati; quella che era una terra di emigrazione è divenuta zona di immigrazione che richiede all’estero lavoratori per la raccolta delle mele. L’altra faccia della medaglia di questa coltivazione è l’uso di fitofarmaci utilizzati nel secondo dopoguerra per combattere le malattie delle piante, ma che spesso si rivelano dannosi per le persone. Per questo motivo si è acceso in questi ultimi anni il dibattito per una conversione al biologico. Regina incontrastata della valle è la Golden Delicious, che garantisce oltre il 65% della produzione, ma le varietà offerte sono oltre una decina, per cui a voi la scelta e ricordate: “una mela al giorno toglie il medico di torno”, ma mi raccomando, mangiatela con la sua buccia che è ricca di vitamine; la mela inoltre sostiene il nostro sistema immunitario contro i mali di stagione ed è ricca di antiossidanti che ci aiutano a rimanere giovani.

Come eravamo

Società oggi

Uva e sapori d’autunno in festa

di Chiara Paoli

La vendemmia è sempre una gran festa e come potrebbe non esserlo, visto che questo frutto ci dona dell’ottimo vino da degustare in compagnia. Dai tempi più antichi i contadini avevano l’usanza di celebrare la fine della raccolta e ancora oggi abbiamo la possibilità di prendere parte a queste celebrazioni che hanno inizio già nel mese di agosto, ma proseguono in quel di Mezzocorona nei fine settimana di settembre, fino al 19 per esaltare il Teroldego Rotaliano, vino rosso tra i più noti, nella splendida cornice di Palazzo Martini. Per informazioni specifiche su tutti gli eventi è possibile consultare il sito: www.settembrerotaliano.it Nel primo fine settimana di settembre a Levico Terme si tiene il Festival dei Sapori autunnali: uva, mais e cereali; queste giornate sono promosse dal Consorzio Levico Terme in centro per offrire una vetrina ai produttori locali. Il 4 e 5 settembre anche a Sabbionara di Avio si veste a festa per la manifestazione Uva e dintorni, con la rappresentazione storica del “Palio Nazionale delle Botti”. Tutte le informazioni su www.uvaedintorni.com. Con la Cena Gregoriana alle origini del Marzemino presso la Locanda delle Tre Chiavi, di giovedì 9 settembre, ha preso il via la ventesima edizione de “La vigna eccellente. Ed è subito Isera!” Qui si celebra quel vino che viene elogiato anche nel Don Giovanni di Mozart: “Che si versi l’eccellente Marzemino!” Molteplici le proposte messe in campo grazie al supporto organizzativo di Trentino Marketing e al coordinamento della Strada del Vino e dei Sapori del Trentino. Fino al 26 settembre è possibile visitare gratuitamente la mostra “Nomade Urbano” di Silvio Cattani allestita nella sede di Palazzo De Probizer a Isera, aperta con i seguenti orari: dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 19.00, dal mercoledì alla domenica. La festa più “storica” del Trentino dedicata all’uva rimane però quella di Verla di Giovo, giunta quest’anno alla sua sessantaquattresima edizione e che animerà il borgo tra il 24 e il 26 di settembre. Ricco il programma che prevede anche la Marcia dell’Uva e che raggiunge il suo apice con la sfilata dei carri allegorici della domenica. Per info: www.festadelluva.tn.it Si aggiunge poi nel mese successivo il fine settimana del 15 e 16 ottobre a Cembra e Lisignago, con l’evento dal titolo “Caneve En Festa”, che propone tra gli avvolti del centro storico buon vino, piatti della tradizione, musica per tutti i gusti ed esposizioni di opere d’arte. E per chiudere l’anno in bellezza, non resta che festeggiare con la grappa ne “La notte degli alambicchi accesi”, manifestazione che anima il paese di Santa Massenza dal 4 all’8 dicembre. Un’occasione per conoscere più da vicino l’antica arte della distillazione o “del lambicar”, per dirla in lingua dialettale. Vi abbiamo dato numerosi spunti per festeggiare al meglio l’arrivo dell’autunno, celebrando il suo frutto più apprezzato sulle note della musica e della danza come dice Omero: “Vino pazzo che suole spingere anche l’uomo molto saggio a intonare una canzone e a ridere di gusto, e lo manda su a danzare, e lascia sfuggire qualche parola che era meglio tacere.”

Una ricorrenza gioiosa

di Franco Zadra

La festa dei CUGINI “SEGHETTI”

Una festa gioiosa che si è prolungata fino a tarda notte, è stata quella del ritrovo dei cugini “seghetti” con le loro famiglie, 41 persone in tutto (ne mancava solo qualcuno che sta in Argentina, ma anche da molto più vicino...), alcuni arrivati anche dalla Germania e pure da Verona, in una bella giornata di fine agosto hanno ricordato, nella stessa casa di una bella foto del 6 ottobre 1962, con il nonno Remo Curzel e nonna Pina contorniati dai figli Lilli, Luigi, Arcadia, Vittorio, Rosanna, Renato, e Graziella, distribuita tra loro come un caro ricordo per ribadire che un cugino, anche quelli che non son più tra di noi, come Renzo e Gabriella, o lo zio Peter della Germania con i tanti zii che non ci son più, restano un pezzo della tua infanzia che non può essere mai perduto. Man mano che la festa entrava nel vivo, quel cibo preso insieme nutriva la consapevolezza che la segheria ad acqua che nonno Remo faceva funzionare, mossa da una grande ruota di mulino immersa nella “roza” di Caldonazzo, alimenta ancora quella prima amicizia che grazie ai cugini abbiamo incontrato fin da piccoli, e che nessuno capirà mai la tua folle famiglia come i tuoi cugini, anche se non li vedi o non ci parli da un po’ di tempo. Nonno Remo e Nonna Pina

Che tempo che fa

di Giampaolo Rizzonelli

Cambiamenti climatici 2021: il sesto rapporto dell’IPCC

Lunedì 9 agosto 2021 l’IPCC (Intergovenrmental Panel on Climate Change) ha pubblicato il primo dei tre volumi del Sesto Rapporto di Valutazione (AR6), nel quale gli scienziati rilevano cambiamenti nel clima della Terra in ogni regione e in tutto il sistema climatico. Molti di questi cambiamenti sono senza precedenti in migliaia, se non centinaia di migliaia di anni e alcuni tra quelli che sono già in atto, come il continuo aumento del livello del mare, sono irreversibili in centinaia o migliaia di anni. Tuttavia, forti e costanti riduzioni di emissioni di anidride carbonica (CO2) e di altri gas serra limiterebbero i cambiamenti climatici. Se, da una parte, grazie a queste riduzioni, benefici per la qualità dell’aria sarebbero rapidamente acquisiti, dall’altra, potrebbero essere necessari 20-30 anni per vedere le temperature globali stabilizzarsi. Sono questi alcuni dei principali contenuti del rapporto del Gruppo di lavoro 1 dell’IPCC, Cambiamenti Climatici 2021 – La basi fisico-scientifiche approvato venerdì 6 agosto da 195 governi membri del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, nel corso di una sessione virtuale che si è tenuta per due settimane a partire dal 26 luglio. I precedenti cinque rapporti erano stati pubblicati nel 1990, 1995, 2001, 2007 e 2013-14, e l’attuale sesto ciclo verrà completato nel 2022 con la pubblicazione dei rapporti degli ulteriori due gruppi di lavoro, dediti a impatto, adattamenti e vulnerabilità (secondo gruppo) e mitigazione (terzo gruppo).

Riscaldamento più veloce

Il rapporto mostra che le emissioni di gas serra provenienti dalle attività umane sono responsabili di circa 1,1°C di riscaldamento rispetto al periodo 1850-1900. Mediamente nei prossimi 20 anni, secondo il rapporto, la temperatura globale dovrebbe raggiungere o superare 1,5°C di riscaldamento. Questa valutazione si basa sulle serie di dati osservati utilizzate per valutare il riscaldamento avvenuto nel passato. Queste serie di dati sono migliorate rispetto alle analisi precedenti. Allo stesso tempo, il rapporto si basa sui più recenti avanzamenti scientifici nella comprensione delle risposte del sistema climatico alle emissioni di gas serra prodotte dalle attività umane. Ogni regione del pianeta affronta cambiamenti che stanno crescendo Molte caratteristiche dei cambiamenti climatici dipendono direttamente dal livello di riscaldamento globale, ma ciò che le persone vivono in prima persona in diverse aree del pianeta è spesso molto diverso dalla media globale. Per esempio, il riscaldamento sulla superfice terrestre è più elevato rispetto alla media globale, nell’Artico è più del doppio. Dalle analisi del rapporto emerge che nei prossimi decenni un aumento dei cambiamenti climatici è atteso in tutte le regioni. Con 1,5°C di riscaldamento globale, ci si attende un incremento del numero di ondate di calore, stagioni calde più lunghe e stagioni fredde più brevi. Con un riscaldamento globale di 2°C, gli estremi di calore raggiungerebbero più spesso soglie di tolleranza critiche per l’agricoltura e la salute. Nei grafici di figura 2 sono mostrati a) Variazione della temperatura del Pianeta (media decennale) dall’anno 1 al 1850 (ricostruzione) e dal 1850 al 2020 (rilevazioni) b) Variazione della temperatura annuale del Pianeta dal 1850 al 2020 (rilevazioni) e le simulazioni che tengono conto degli effetti naturali e dell’attività dell’uomo o solo delle attività naturali (attività solare e vulcanica)

Fig. 1 - IPCC Situazione ad oggi e cosa accadrà

Che tempo che fa

Ma la temperatura non è l’unico elemento in gioco. I cambiamenti climatici stanno portando molti cambiamenti in diverse regioni, e tutti aumenteranno con un ulteriore riscaldamento. Questi includono cambiamenti nei valori dell’umidità, nei venti, nella neve e nel ghiaccio, nelle aree costiere e negli oceani. Per esempio: I cambiamenti climatici stanno intensificando il ciclo dell’acqua. Questo porta, in alcune regioni, piogge più intense e inondazioni ad esse associate, in molte altre regioni porta a siccità più intense. I cambiamenti climatici stanno influenzando gli andamenti delle precipitazioni. Alle alte latitudini, è probabile che le precipitazioni aumentino, mentre ci si attende che diminuiscano in gran parte delle regioni subtropicali. Sono attesi cambiamenti nelle precipitazioni monsoniche, con variazioni nelle diverse regioni. Per le aree costiere ci si attende un continuo aumento del livello del mare per tutto il XXI secolo che contribuirebbe a inondazioni costiere più frequenti e gravi nelle aree basse rispetto al livello del mare e all’erosione delle coste. Eventi estremi riferiti al livello del mare che prima si verificavano una volta ogni 100 anni, entro la fine di questo secolo potrebbero verificarsi ogni anno. Un ulteriore riscaldamento intensificherà lo scioglimento del permafrost, la perdita della copertura nevosa stagionale, lo scioglimento dei ghiacciai e della calotta polare, e la perdita del ghiaccio marino artico estivo. I cambiamenti nell’oceano quali il riscaldamento, le più frequenti ondate di calore marino, l’acidificazione degli oceani e la riduzione dei livelli di ossigeno in mare sono stati chiaramente collegati all’influenza umana, si legge nel rapporto. Questi cambiamenti influenzano sia gli ecosistemi marini che le persone che dipendono da essi, e continueranno almeno per il resto di questo secolo. Per le città, alcuni aspetti dei cambiamenti climatici possono risultare amplificati. Tra questi, le ondate di calore (le aree urbane sono di solito più calde dei loro dintorni), le inondazioni dovute a forti precipitazioni e l’aumento del livello del mare nelle città costiere. Il Sesto Rapporto di Valutazione fornisce una valutazione dei cambiamenti climatici su scala regionale più dettagliata rispetto al passato. Per la prima volta il rapporto include un focus sulle informazioni utili per valutazione del rischio, l’adattamento e altri processi decisionali che sono di aiuto nel tradurre i cambiamenti fisici del clima – calore, freddo, pioggia, siccità, neve, vento, inondazioni costiere e altro – nei loro significati più diretti per le società e per gli ecosistemi.

Queste informazioni regionali possono essere esplorate in dettaglio nel nuovo Atlante interattivo (https://interactive-atlas.ipcc.ch/), dove sono disponibili anche schede sulle regioni, il riassunto tecnico e il rapporto che è alla base del materiale fornito.

Fig. 2 - Grafici variazione temperatura Pianeta

Fig. 3 - L’Orso Polare, una delle tante vittime dei cambiamenti climatici

Tra passato e presente

di Mario Pacher

Caldonazzo, le CAVE di MARMO

Non tutti sanno che un tempo ormai lontano esisteva a Caldonazzo al Valico della Fricca, una cava di marmo. A ricordarcelo è la maestra Agnese Agostini che da alcuni mesi ci fornisce interessanti notizia legate al passato e spesso riportate anche sul suo libro “All’ombra della Vigolana”. Così ci racconta. “Non sono trascorsi molti decenni da quando chi arrivava al “Giaron di Valcareta” nei pressi del capitello di Sant’Antonio, alzando lo sguardo notava due vagoncini sospesi a dei cavi di acciaio di una vecchia teleferica discendente dalla sommità del vallone. Era evidente che facevano parte di una struttura costruita appositamente per trasportare in basso del materiale. Proprio così: verso il 1960 erano stati rinvenuti dei filoni di marmo ritenuti importanti, tanto da spingere una ditta della Val d’Astico a dare il via ad una ricerca più approfondita. Trovati gli operai partì la “grande impresa”: arrivati sul posto attraverso un viottolo scavato nel vallone, messo a nudo il filone di marmo Erminio, Guido, Luciano da Caldonazzo, Celestino e un ragazzo di Calceranica, si costruirono una baracca in grado di ospitarli per tutta la settimana in ogni loro necessità. Per fortuna non tanto distante si trovava una via di collegamento con Lavarone Chiesa, il “Sentiero della pace”, che il ragazzo tutti i giorni percorreva per fornire il gruppo di ogni necessità. Nella cava il lavoro andava avanti, il volume del materiale estrapolato dal terreno dava una certa soddisfazione, tanto che sistemata una teleferica ad hoc, lo caricavano su dei vagoncini che scendevano oscillando fino allo stradone dove scaricavano il tutto su trattori facevano spettacolo che incuriosiva non poco i rari passanti. Nello stesso periodo era attiva anche una cava di marmo al “Valico della Fricca”. Entrambe, purtroppo, andarono avanti per alcuni anni, poi la ditta appaltatrice chiuse il contratto e la cosa finì lì. Ora della cava al “Giaron di Valcareta” rimane solo il racconto di qualche anziano, ma di quella al “Valico della Fricca”, esiste a due passi dal ristorante al Sindech, una piccola e graziosa struttura, la “Baita Filadonna”, già alloggio utilizzato dagli operai della cava provenienti dalla Val d’Astico.

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