Subway

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A Tu per Tu

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Ciro Pinto Rossella Gallucci

Subway

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Prima Edizione: 2016 ISBN 9788898037964 © 2016 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di marzo 2016 in Italia da Universal Book srl - Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)

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INDICE

Prologo

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PRIMA PARTE Capitolo primo Capitolo secondo Capitolo terzo Capitolo quarto Capitolo quinto Capitolo sesto Capitolo settimo Capitolo ottavo Capitolo nono Capitolo decimo Capitolo undicesimo SECONDA PARTE Capitolo dodicesimo Capitolo tredicesimo Capitolo quattordicesimo Capitolo quindicesimo

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Capitolo sedicesimo Capitolo diciassettesimo Capitolo diciottesimo Capitolo diciannovesimo Capitolo ventesimo Capitolo ventunesimo

131 139 147 155 163 173

TERZA PARTE Capitolo ventiduesimo Capitolo ventitreesimo Capitolo ventiquattresimo Capitolo venticinquesimo Capitolo ventiseiesimo Capitolo ventisettesimo Capitolo ventottesimo Capitolo ventinovesimo Capitolo trentesimo Capitolo trentunesimo Capitolo trentaduesimo Capitolo trentatreesimo

189 197 203 211 217 225 233 249 261 267 277 287

Epilogo

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I luoghi descritti, i nomi delle persone citate e le vicende narrate non hanno alcun riferimento con la realtĂ .

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Dedicato a tutti quelli che pur nel buio anelano alla luce, sempre!

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PROLOGO

Maledetto re bemolle, si era inceppato, roba da fargli torcere le budella. Bella mattinata, incominciamo bene, pensò guardando con raccapriccio la sua pianola di quattro ottave; pigiò più volte il tasto nero, ma quello era rigido e tosto come una pietra. Quel problema inaspettato rischiava di rovinargli l’intera giornata. Doveva cercare il Tondo, lui lo avrebbe riparato, ma chissà dove stava, in quale stazione si era fermato. Paolo Maria storse la bocca, richiuse il coperchio sulla tastiera, ripiegò il carrellino e lo assicurò alla pianola così che lo strumento divenne un trolley. Raccattò la bottiglia mezza piena di birra, il baschetto con dentro due monetine, lo zaino nero, sdrucito e logoro. Quindi, con tutto l’armamentario cominciò a spostarsi verso l’alto, nel piano di mezzo, tagliando il flusso di persone che scendevano frettolose e serie verso i binari. Non disdegnò di porgere il cappellino tra la folla e di sciorinare qualche frase a effetto: ho fame, mia sorella piccola sta morendo e altre formule del genere. Qualcuno gli mollò dieci

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o venti centesimi, una signora grassa lo spinse via, un paio di ragazzi gli calarono una bustina arrotolata di M&M’s, qualcuno lo mandò a quel paese. Era l’ora più prolifica, quella dove i treni erano pieni, zeppi di persone tutte di corsa al lavoro, e lui non poteva suonare. Maledetta sfiga, imprecò. Decise di andare al cesso, doveva pensare al da farsi. I cessi della 24 erano tra i più puliti della linea rossa. Nel puzzo di piscio e tra le cartacce che imbrattavano il pavimento si appoggiò con le mani a un lavello tutto striato di calcare, ficcò lo sguardo nello specchio sfregiato in più punti e cominciò a pensare. Doveva cercare Stella; la cosa lo infastidiva non poco, ma era l’unica soluzione. Lei cantava d’incanto, dal fado al blues, aveva una voce che le usciva dal petto, una chitarra elettrica e un piccolo amplificatore. Strimpellava quattro accordi, cercava un solista e aveva chiesto a lui di darle una mano. Io non suono quella roba lì, l’unica musica che ha senso viene da qui, le aveva detto indicando la sua creatura, la quattro ottave che portava in giro per i treni. Lei lo aveva ancora pregato di pensarci, perché assieme avrebbero raccattato più soldi. Ma lui era stato irremovibile. «Coglione» si disse con gli occhi fissi nello specchio opaco e sfregiato. Decise di andare in cerca di Stella, la donna con dieci anni in più e dieci chili di troppo aveva un debole per lui. Paolo Maria sputò nel lavandino, forse gli sarebbe toccato scoparsela. Ma quello non sarebbe stato un problema. Svuotò la bottiglia di birra e la buttò nel cesto, raccolse il

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baschetto, tirò fuori la monetina da dieci centesimi e ficcò in bocca due palline di cioccolata rivestite di caramello verde, accartocciò la bustina di M&M’s ormai vuota e la gettò. Si girò a prendere zaino e pianola, e lo vide. O meglio, vide una scarpa che spuntava dalla parete che delimitava i cessi. Si avvicinò, l’uomo di mezz’età era steso a terra, aveva il viso congestionato, quasi rosso rubino, e una mano stretta al petto. Gli occhi erano sbarrati; era morto, lo capì subito. Era malconcio, sporco. Gli pareva di averlo già visto prima. «Sì, è Devil» disse a voce alta. Di lato a lui c’era una sacca di tela blu, l’aprì, c’erano dei fogli e delle maglie di lana. Cercò nelle tasche e gli tastò il petto, non aveva nient’altro. Il giovane prese la sacca e uscì in tutta fretta; nessuno entrava in quei cessi, almeno nessuno che fosse a posto con la testa, ma meglio andar via subito e così fece. Ritornò giù ai binari, andò lontano dalla calca, quasi all’imbocco del tunnel, si sedette a terra e cominciò a rovistare nella sacca blu: due maglie intime di lana ingiallite e infeltrite, un pezzo di pane raffermo, un coltello a serramanico, due giornali del giorno prima, un portafotografie di plastica della Kodak con qualche foto ammuffita, una corda arrotolata e un blocco di fogli bianchi, una penna senza tappo e una busta chiusa. Sulla busta c’erano un marchio: Ali, e un simbolo: un uccello con la testa di uomo. Gli sembrò familiare. Perché? si chiese. Il cuore gli fece un balzo, cosa diavolo significava? Girava e rigirava la busta tra le mani senza decidersi ad aprirla; gli occhi azzurri e arrossati ebbero una scintilla, come se d’improv-

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viso gli fosse sovvenuto qualcosa. Doveva risalire al piano di mezzo, rientrare nel cesso e osservare meglio il cadavere. Si mosse verso le scale mobili, la gente scendeva parlottando in modo allarmato, sentì: poveraccio, sarà morto stanotte per il freddo e la Polizia è già lì. Ritornò sui suoi passi, cercando di nascondere il più possibile la sacca blu. Il treno stava arrivando, si fece spazio tra la calca e con tutto il suo armamentario salì appena le porte si aprirono.

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Prima Parte

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Subway Si persero nel mondo per ritrovarsi nel fondo, giù giù dove il treno girava in tondo. Dove vernici acide chiazzavano le ombre e il tanfo riempiva di sudore. Qualche spicciolo tintinnava a bucare lo stomaco, un lembo di donna appariva in una curva, guardava cieca sempre oltre. Il grasso scuro e flaccido l’impregnava e l’urina scorreva lenta, lungo un muro mai più dritto. Alzarono gli occhi a sbattere sui metalli, cercando stelle che non c’erano. E la notte non s’alzava mai!

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CAPITOLO PRIMO

L’aria già si appesantiva, infeltrendosi di tanfo e di umori portati da passeggeri frettolosi, ansiosi. Sudori e profumi si mescolavano, ma Argo riusciva a dipanare la matassa e ad attribuire a ognuno il suo aroma. Del resto che poteva fare se non restare ad annusare, steso con il muso sulle zampe accanto al suo padrone? Il problema era l’odore ferroso che faceva da sottofondo e impregnava tutto, riusciva a confondere persino l’odore del piscio; per questo, a volte, non era in grado di schivare rigagnoli fetidi di urina, e quello era un guaio. Stamattina quest’odore di ferro mi ha fregato, maledizione! pensò. «Che hai combinato, Argo? Mi hai fatto camminare sul piscio. Sento la puzza che mi arriva al naso, non vedo ma il mio olfatto è intatto. Stai invecchiando, amico mio, siamo bell’e combinati.» Argo si alzò sulle zampe e poggiò il muso sulle gambe di Omero, così da fargli capire che lo aveva inteso. Il vecchio lo carezzò a lungo tra le due orecchie emettendo sospiri che parevano sbuffi di una locomotiva di altri tempi. Omero era cieco da quasi vent’anni, nei primi cinquanta

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della sua vita la vista era sempre stata poca, e alla fine si era spenta lasciandolo al buio e togliendolo dal lavoro. Argo e l’assegno di una pensione appena decente divennero i suoi nuovi compagni. Sicuri e affidabili, certo più di suo figlio che la mattina all’alba lo scaricava all’ingresso del metrò e se ne andava in giro a combinare guai. «È tutto strano, questa mattina, Omero. Non hai mica visto passare Paolo Maria?» Argo alzò la testa un attimo, trattenne un po’ di bava ma inutilmente. Appena lo vedeva gli succedeva così. Kostas era un insulso, sempre a temere tutto, a chiedere favori a ognuno e a non farne a nessuno. Un pezzente nell’animo, ecco cos’era, sentenziò dentro di sé. «Beh, se chiedi a me se ho visto qualcuno, allora sei davvero fuori, ragazzo» gli rifilò infastidito il vecchio. «L’ho visto alla fermata 24 della linea rossa, armeggiava con quella cazzo di pianola, poi ha richiuso tutto e se n’è salito; è ridisceso e all’improvviso si è infilato in un treno.» «E allora? Lo incontrerai prima o poi. Cos’hai di così urgente da dirgli?» sibilò Omero alquanto seccato. Kostas gli faceva saltare i nervi con le litanie dei suoi lamenti. Lui e Argo avevano sempre la stessa opinione su tutto, anche sul giovanotto greco che sfoggiava un fisico da culturista, una voce acuta da femminuccia e movenze ambigue che Omero intuiva dal suo modulare della voce. «Te l’ho detto che da ieri tutto è strano. Millie parla di un tizio, un ubriaco, caduto per cercare di accarezzare la Sirena. Morto, a suo dire, ma scomparso in un attimo. Stamattina un altro è morto nei cessi. Paolo Maria si è dileguato. Questo è un

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giorno che non mi piace.» Argo era intontito dagli effluvi alla pesca dello shampoo dozzinale che aveva reso i capelli del greco ancora più lucidi e fluenti. È a caccia, pensò il cane. Omero non rispose, l’altro continuò a blaterare ancora un po’ e poi rassegnato se ne scese ai treni. Omero e Argo stazionavano sempre nel piano di mezzo, allo Snodo, tra la linea rossa e la verde. Il vecchio era seduto su una seggiola che il figlio gli portava da casa, una di quelle pieghevoli, il cane restava accucciato al suo fianco, davanti a loro un cappello di paglia tutto sfilacciato per raccogliere gli spiccioli. Omero ripensò a Unico, il figlio che chiamava così con l’aria soddisfatta di chi sa di aver limitato i danni. Quel figlio di puttana non lavorava, spendeva i pochi soldi della sua pensione. Se lui non avesse raccattato un po’ di monete ogni giorno, sarebbe finito alla casa dei poveri. Argo la pensava esattamente come lui, a ogni passante metteva su lo sguardo triste e commovente oppure slinguazzava le mani del padrone, così per fare un po’ di scena. Il cane non era d’accordo sul nome affibbiatogli dal vecchio. Lui era un pastore tedesco, non c’entrava nulla con i cani da caccia, ammesso che il cane di Ulisse lo fosse stato, un cane da caccia. Ma il suo padrone era fissato con l’Odissea, Argo pensava fosse l’unico libro che avesse letto quando gli occhi gli funzionavano. Perciò tutti lo chiamavano Omero, e nessuno conosceva o ricordava più il suo vero nome. Non solo perché era cieco, lo chiamavano così perché conosceva tutta l’opera

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a memoria, pareva quasi che l’avesse scritta lui. Il vecchio cominciò la sua litania. Argo rizzava le orecchie e lo guardava ammirato; nessuno ci faceva caso, però di tanto in tanto qualche spicciolo centrava il cappello. Sì disse orando e l’udì Palla. Il veglio Guidava intanto al suo regal palagio Generi e figli. Giunti, in su gli scanni Tutti posâr per ordine e sui troni. Mescea il Re nella coppa a ciascheduno, A mano a mano, un dolce almo licore Che la custode nell’undecim’anno, Dall’urna allora scoverchiata, attinse. Com’ebbe empiuta Nèstore la tazza, Libando, i vóti alzò supplici a Palla, Inclita figlia dell’Egìoco Giove. Coriandolo era stremata, non mangiava da due giorni, il ciclo la prostrava, perdere sangue e non ficcare niente nello stomaco era una combinazione micidiale. Avrebbe preferito avere già la menopausa, sarebbe stato molto meglio. I suoi cinquant’anni e la vita raminga l’avevano consumata nel corpo ben oltre i suoi anni, ma dentro la sua biologia funzionava ancora come un orologio. Non poteva certo rubare. Da questo principio non aveva mai derogato. Nei casi estremi si era fatta scopare da qualcuno in cambio di un po’ di soldi, ma era successo tanto tempo prima, quando era ancora passabile e si lavava almeno ogni paio di giorni.

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Ora era una crosta, non ci badava nemmeno più agli strati di sporcizia che le imbrattavano la pelle. L’ultima volta che si era lavata era stato circa un mese prima, quando stremata dal freddo e dalla fame era andata dalle suore. Le avevano chiesto di fare il bagno, altrimenti non le avrebbero dato da mangiare. Lei aveva supplicato, implorato che non la costringessero, ma non c’era stato verso. Le suore l’avevano messa alla porta. Aveva ribussato. L’avevano ripulita con una spugna che le era sembrata una retina da cucina, l’avevano massacrata. Tutte le piaghe avevano perso la crosta e avevano sanguinato per giorni. Aveva perso un mare di capelli in quel lavaggio. Una parte della testa era rimasta quasi scoperta, come un cratere malefico. Coriandolo non ci voleva tornare dalle suore. Doveva trovare un’altra soluzione. Era così minuta che Geremia, quel maledetto birbante di un vecchio, l’aveva chiamata Coriandolo e se n’era innamorato. Quanti anni sono che hai tirato le cuoia, Geremia? pensò, sperando di riuscire a ricordare. Ormai negli ultimi tempi i pensieri le venivano in mente e sostavano solo pochi attimi, portandole via un po’ di memoria, come i treni della Subway che a ogni passaggio svuotavano le pedane. «Geremia, Geremia, anima mia» la donna cominciò a ripetere in continuazione trascinando la sua sacca color senape e macchiata di ogni cosa. La schivavano tutti, puzzava come una capra ed era così magra che la faccia sembrava un teschio, eppure Coriandolo era stata bella una volta. Dentro la sacca color senape, riposta in un piccolo porta-

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fogli da uomo, aveva una foto a colori, tranciata a metà, che sembrava ancora come nuova. Lei la proteggeva da tutti e da tutto. Sorrideva in quella foto, aveva poco più di vent’anni, era bionda, aveva gli occhi verdi e due labbra che andavano all’ingiù. Sembrava una bambina. Il naso era piccolo, tondo, e i colori del viso erano radiosi come il sole. Sulle sue spalle era poggiato un braccio che pareva quello di un uomo, e tra lei e la figura tagliata pendeva una sacca blu.

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CAPITOLO SECONDO

Paolo Maria scese dal treno allo Snodo. Arrivò arrancando all’uscita, facendosi strada tra la calca a forza di spintoni e spallate, tenendo la pianola con una mano sola, lo zainetto nero su una spalla e la sacca blu sull’altra. Ci mise un po’ a riabituarsi alla luce, la giornata era limpida e dovette chiudere gli occhi di fronte a un sole accecante. Non amava la luce, ormai la maggior parte delle sue giornate si svolgeva nei sotterranei del metrò; la sua vita era lì, nascosta da qualche parte, lontano da occhi indiscreti. Non ricordava nemmeno da quanto tempo il suo mondo si era trasferito nel sottobosco, come amava chiamarlo. All’inizio si era dovuto adattare a fatica, ora non avrebbe potuto farne a meno. Per un attimo il calore del sole sulla pelle lo riportò con il pensiero a quei giorni, quando tutto sembrava tranquillo. Fu di nuovo lì, nel giardino della loro casetta al mare, mentre lui ed Emanuela guardavano felici il tramonto. Poi quella maledetta notte. Sentì di nuovo quel vuoto nel petto, quel senso di vertigine che lo aveva accompagnato per tutti quegli anni e che era preludio di un attacco di panico. No, adesso non doveva pensarci. Doveva affrontare la luce, superare quell’impasse.

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Non poteva ogni volta uscire sempre e solo dopo il tramonto, aveva bisogno anche di altro. Ripensò ancora a quella busta, perché gli era familiare e cosa ci faceva nelle mani di quel delinquente? Il suo istinto lo aveva portato ad allontanarsi velocemente, pensando che forse la sua morte non era stata accidentale. Dopo aveva pensato che molto probabilmente era morto per il freddo. In ogni caso doveva affrettarsi, tornare all’ostello per aprirla senza rischiare che qualcuno lo vedesse. Non era sicuro del tutto di conoscerla, ma la filigrana, il bianco solo un po’ ingiallito dal tempo e, soprattutto, quel simbolo sull’angolo in basso a destra, un uccello con la testa umana, non gli sembravano del tutto nuovi. Come poteva aver già visto quella busta? Più ripensava a quel simbolo, più una strana inquietudine s’impadroniva di lui. E non riusciva a capire cosa potesse entrarci quell’uomo, quello che tutti chiamavano Devil, e non solo per l’aspetto. Ma questo lo avrebbe verificato dopo. Ora doveva assolutamente aprire quella busta. Riprese il passo spedito in mezzo alla gente, cercando di apparire il più naturale possibile. Aveva l’impressione che tutti gli sguardi fossero su di lui. Doveva camminare ancora un bel po’, almeno un’ora, prima di arrivare. «Paolo» una voce femminile alle sue spalle lo paralizzò. Si voltò lentamente e si trovò faccia a faccia con una donna grassa, con i denti guasti e l’alito che puzzava di rancido. «Stella, che vuoi?» «Mi hanno detto che eri in difficoltà con quel ferrovecchio che ti porti appresso. Te lo avevo detto che prima o poi lo avresti gettato nel cesso. Ti ho visto uscire dal treno e salire le

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scale di corsa. Allora ti sono venuta dietro. Suoniamo assieme?» disse in un sibilo e poi sbuffò: «Sono senza fiato, non ho più l’età per fare questi sforzi.» «No, e poi adesso ho fretta. Ne parliamo un’altra volta» e si allontanò da lei, infastidito. In realtà avrebbe dovuto dirle di sì, ma in quel momento la musica era l’ultimo dei suoi pensieri. «Senti, mi sono trascinata questo attrezzo per tutte le scale per venire ad aiutarti. Sai che ti dico? Tieniti pure il tuo catorcio e vaffanculo! E non provare a cercarmi se ti serve aiuto.» Gli voltò le spalle e riprese lentamente il cammino in senso inverso, con la chitarra a tracolla e trascinando a fatica l’amplificatore. Stella era davvero molto arrabbiata. Non capiva perché stava a perdere tempo con quel tipo. Le piaceva, ma sapeva che lui la disprezzava. Glielo aveva fatto capire in tutti i modi. Forse perché sono più vecchia, o perché sono grassa, pensava spesso. Le lacrime iniziarono a pungerle gli occhi e sembrava che la sua umiliazione si fosse fermata nella gola, perché non riusciva nemmeno più a deglutire. Si ricordava di quella volta, l’unica, che aveva fatto l’amore con lui, o meglio, che lui l’aveva scopata. Ma lei aveva preferito pensare che avessero fatto l’amore, che il suo chiudere gli occhi non fosse per non guardarla, che il fatto di non baciarla nemmeno fosse un suo particolare modo di amare. Non voleva rovinare quel suo sogno, quell’unico momento di dolcezza che in qualche modo si era concessa. Non aveva mai avuto niente dalla vita, Stella, a parte il nome. Quello era stato un regalo della madre, morta pochi

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giorni dopo il parto. Sapeva che sarebbe morta e voleva che la figlia l’accompagnasse in cielo rischiarandole il cammino. E poi quel nome sarebbe stato di buon auspicio. Non era stato così. Mentre affrettava il passo verso la stazione del metrò, nonostante il fiato corto, la mente andava a quegli episodi della sua infanzia. C’era quella casa di campagna e quel viottolo che saliva tra le canne e portava al casale. E poi un uomo, che non era suo padre. Stella si fidava ciecamente di lui, perché era il suo patrigno e le voleva bene. Ma poi quel maledetto giorno arrivò. Doveva essere un giorno di festa e lei era così felice di partecipare alla processione per il Santo Patrono, al pensiero di salire sul carro per rappresentare la Madonna, con l’abito lungo e bianco come una sposa. Poi quel pagliaio, il vestito strappato, mani sudate, respiro ansimante, dolore e sangue, tanto sangue. La corsa verso casa con le mani a stringere il ventre, il rosso che spiccava sul bianco, gli sguardi di rimprovero, la vergogna. Poi i giorni di silenzi e le notti da incubo, con quella maniglia che girava puntualmente e lei non aveva scampo. Nessuno le credette, nessuno la volle più. Istintivamente portò la mano sul bassoventre, il ricordo faceva ancora male. Arrivò al metrò trafelata, in un bagno di sudore. Scese le scale correndo, le lacrime adesso erano libere di uscire, le

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inondavano il viso e anche le spalle, non vedeva quasi niente, non le sarebbe importato di cadere, di farsi male. Anzi, forse così avrebbe attirato l’attenzione di Paolo Maria, perché ricordava che gli unici momenti in cui lui le aveva dimostrato premura e dolcezza erano stati quando un mese prima lei era stata male. In quell’occasione lui le era stato accanto giorno e notte, l’aveva portata con sé nella sua stanza all’ostello, l’aveva persino fatta dormire nel suo letto. Si fermò nel piano di mezzo, allo Snodo. Argo le venne incontro scodinzolando a più non posso, la lingua impazzita le spennellò gambe e mani, poi lei si piegò a carezzarlo e si arrese al lavaggio completo del viso. Povera, pensò Argo, come la capisco. Correre dietro a quel balordo senza cuore. «Ebbro, costui qui ’n lagrime si stempra» declamò il vecchio Omero come se avesse visto tutta la scena, poi continuò: «Ancora dietro a quel rincoglionito, Stella mia? Con tutti gli uomini che potresti trovare. Ah, se avessi dieci anni di meno, ti farei ricordare del tuo nome anche qui sotto. Vieni qui, fatti abbracciare.» Stella si avvicinò e lui affondò il viso nella piega del suo braccio contendendo il sudore con il naso del suo cane. Omero iniziò a tastarle il culo e i seni, le prese una mano e se la portò sul pube. «Senti qui l’effetto che fai a lui. In questi momenti mi ricordo di avercelo ancora, ah ah ah.» Stella si scansò infastidita, ma in cuor suo era anche un po’ lusingata.

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Paolo Maria salì la prima rampa di scale dell’ostello per raggiungere la sua stanza. Arrivato al mezzanino si ritrovò immerso nel buio. Maledizione, pensò, di nuovo la lampadina. Sentì un dolore lancinante alla testa e qualcuno che lo strattonava per il braccio. Di colpo era a terra. Nella penombra, da quella prospettiva, fece in tempo a intravedere due gambe in un paio di pantaloni larghi e una luce intermittente che proveniva dalla suola delle scarpe. Poi di nuovo buio.

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