Punti di Vista
ALESSANDRO BRUNI
MANUALE PER FAMIGLIE CONTROCORRENTE
L’accoglienza familiare tra teoria e pratica
Prima Edizione: 2011 ISBN 9788889845431 © 2011 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Marzo 2011 in Italia da Arti Grafiche Picene Srl Maltignano (AP) per conto di Edizioni Psiconline (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)
GLI ATTORI DELL’ACCOGLIENZA
L’accoglienza familiare di un minore è sempre un trapianto e come tale può provocare problematicità e rigetto, ma non tali da indurre a rinunciare a priori alla scelta137. La famiglia accogliente deve riflettere principalmente su una eventuale motivazione sbagliata, quali una speranza di risposta a problemi personali o della famiglia, e il raggiungimento di una ambita collocazione sociale (quella di genitori). Queste motivazioni da sole sono pericolose per la famiglia accogliente e per chi è accolto. Devono essere accompagnate da una forte coesione di coppia e da una consapevolezza condivisa di accettazione dell’accolto per quello che è, e non per quello che si vorrebbe. La famiglia accogliente deve sempre stare in guardia dai rischi di sentirsi onnipotente e capace di affrontare tutte le situazioni; di vedere la famiglia d’origine come pericolo; dal gravare l’accolto di attese per lui troppo difficili; dal volere un recupero repentino e totale o pretendere di recuperare attraverso di lui propri fallimenti e frustrazioni138. Non è né opportuno né utile cedere alla tentazione di caricare di un eccesso di interventi il minore accolto. L’efficacia genitoriale poggia sulla struttura in sé della famiglia, più nel vivere quotidiano fatto di gesti e non di discorsi, che peraltro incidono nella comunicazione per non più del 5%. L’educazione e la formazione avvengono per osmosi e non per interventi risolutori, non vi sono “interventi chirurgici” da fare, ma solo un pacato e lento rimodellamento che il minore attua giorno dopo giorno ricostruendo la propria identità nel riflesso della famiglia accogliente139. La famiglia accogliente deve, per difficile che sia, accettare la famiglia d’origine così com’è, senza giudicarla o pretendere di “redimerla” e senza volerne modificare il ricordo in caso di adozione. Deve accettare e rispettare il bambino con il suo passato ed i suoi limiti; onorare, rispettare e salvare sempre le figure materna e paterna che lo hanno generato; accettare le regressioni che si verificano obbligatoriamente nelle fasi di recupero; saper creare l’ambiente affettivo commisurato alle esigenze del accolto con la pazienza 137 Cassibba R., Elia L. (2007), L’affidamento familiare, Carocci, Roma; Migliorini L., Rania N. (2008), Psicologia sociale delle relazioni familiari, Laterza, Roma-Bari. 138 Fruggeri L. (2005), Diverse normalità. Psicologia sociale delle relazioni familiari, Carocci, Roma; Alte L. (2006), Culla di parole. Come accogliere gli inizi difficili della vita, Bollati Boringhieri, Torino. 139 Limone P. (2007), L’accoglienza del bambino nella città globale, Armando, Roma.
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PUNTI DI VISTA adeguata ai tempi necessari al bambino140. Ancora oggi, in un mondo socialmente in rapida evoluzione, non esiste un’istituzione migliore della famiglia per l’allevamento dei bambini141. Non esiste istituzione educativa migliore di un’altra famiglia quando la propria famiglia naturale è assente (per incapacità o per assenza fisica)142. Non c’è alternativa alla funzione della famiglia nel recupero dei bambini abbandonati o che provengono da esperienze familiari negative o di emarginazione143. Se partiamo dall’assunto, provato e dimostrato, che l’accoglienza familiare è la forma migliore per educare i bambini soli, è naturale che la conoscenza dell’accoglienza nelle sue radici fondamentali e negli attori che la attuano è un fatto assolutamente fondamentale. Soprattutto oggi, un tempo in cui la percezione della famiglia è divenuta liquida modellandosi secondo situazioni personali, adattandosi a schemi individuali, avendo perso la rigidità istituzione di un tempo144. In passato non era necessario spiegare l’accoglienza in quanto trovava ragioni socioreligiose intrise nel vivere quotidiano. Oggi non è così. L’accoglienza è un’arte di cui si è un po’ dispersa la conoscenza naturale, la dobbiamo imparare e conoscere. Dobbiamo soprattutto comprendere i saperi e i sentimenti che fanno muovere gli attori dell’accoglienza familiare: la famiglia naturale, la famiglia affidataria, la famiglia adottiva, il bambino e i servizi, tutti fortemente incidenti nel progetto sociale dell’accoglienza. Approfondimento. La stanchezza delle mongolfiere Negli incontri con i servizi psicosociali di varie realtà territoriali, si tocca spesso l’aspetto dell’accoglienza familiare e delle difficoltà a realizzarla. Se da un lato la fatica delle famiglie accoglienti è nota e comprensibile, meno (apparentemente) comprensibile è la stanchezza degli operatori psicosociali. Il loro lavoro è assai gravoso, molto coinvolgente, porta facilmente al burning out (molto più della famiglia accogliente che ha una 140 Aglietti M.C., Cavalli S. (2003), Desiderare un figlio, adottare un bambino, Armando, Roma; Fadiga L. (2003), L’adozione, Il Mulino, Bologna. 141 Si noti il paradosso. Nelle società meno evolute il bambino è tenuto ad emanciparsi molto presto, mentre nelle società più evolute la sua emancipazione avviene tardivamente. In questo incidono non solo ragioni economiche, ma di rappresentazione sociale e di formazione (scolarità protratta, tardiva emancipazione economica, ecc.). Questo aspetto è stato sottolineato da molti sociologi: da un lato si tende, ad esempio, a dare precocemente ai giovani alcune autonomie (uso dei veicoli, voto politico, libertà di spesa, libertà sessuale, ecc.) salvo poi invocare interventi legislativi che ne cautelino gli eventuali eccessi o distorsioni. Con una mano si dà e con l’altra si prende, senza porre in mezzo il tempo e la dedizione formativa familiare e istituzionale. Per un approfondimento sul tema si veda: Ingrosso M. (2003), Senza benessere sociale. Nuovi rischi e attese di qualità della vita nell’era planetaria, Angeli, Milano. 142 Si noti un altro paradosso. Mentre in passato era fatto comune che i parenti (zii, soprattutto) si facessero carico dei figli di congiunti deceduti o impossibilitati a svolgere le funzioni genitoriali (malattie o guerre), oggi questa disponibilità è assai ridotta. Si preferisce l’intervento del servizio sociale al farsi carico dei figli dei parenti. 143 Boffo V. (2005), Attaccamento e formazione. Unicopli, Milano; Cassibba R., van Ijzendoorn M. (a cura di) (2005), L’intervento clinico basato sull’attaccamento. Promuovere la relazione genitore-bambino, Il Mulino, Bologna. 144 Cirillo S. (2005), Cattivi genitori, Raffaello Cortina, Milano; Tessarolo M. (2005), Vecchi e nuovi bisogni delle famiglie in un mondo in trasformazione. In Cusinato M., Panzeri M. (a cura di) (2005), Interventi e valutazione nel lavoro con le famiglie. pp. 23-38, Il Mulino, Bologna.
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MANUALE PER FAMIGLIE CONTROCORRENTE fiammella utopica che quasi sempre continua ad ardere). L’ardore professionale ed ideale degli operatori psicosociali vola come le mongolfiere: le fiammate iniziali le fanno salire arditamente, e rapidamente permettono loro di vedere tutto il territorio umano che devono tenere sotto controllo. A loro sembra di poter continuare a navigare essendo padroni del mezzo tecnico e di poter individuare dall’alto ogni singolo particolare che compone l’insieme. Poi man mano che il tempo passa, le fiammate di gas (il calore dell’utopia) perdono il ritmo, prevale il mestiere e sentono il peso dell’aver fatto molto con poco risultato. È il momento in cui le mongolfiere cominciano a raffreddarsi, si abbassano e sono sempre più in balia dei venti che le portano dove loro non vorrebbero. Questi sono i momenti delle frasi: l’affidamento è in declino, l’adozione è troppo spesso un fallimento, l’accoglienza è mera utopia. È la fatica e la stanchezza che finisce col portare i bambini verso soluzioni meno coinvolgenti sul piano personale, verso la collocazione in comunità, anche se sono piccoli. È una forma di difesa per deresponsabilizzarsi di una attività personale e di servizio. come quella del seguire le famiglie adottive e affidatarie, che è gravosa e che consuma interiormente. È così che nascono gli operatori che si definiscono “pratici” che “non perdono tempo in riflessioni estenuanti per trovare l’equilibrio di situazioni difficili”. Quando il gas è finito le mongolfiere precipitano, dove capita, cinicamente anche nei campi del cuore. La condizione per un ragionamento approfondito deve partire dagli attori devianti o patologici (la famiglia naturale), dall’attore deviato o potenzialmente patologico (il bambino deprivato o violato), dalla famiglia accogliente (potenzialmente a rischio di problematicità). Gli altri partecipanti all’evento sono: gli operatori psicosociali (alla regia) e il giudice del tribunale dei minori (produttore decisionale dell’evento). Gli elementi che rendono l’accoglienza mutevole e flessibile sono le variabili nell’interpretazione che ciascun attore, comparsa, regista, produttore inserisce, proprio come in una qualsiasi recita che si rispetti. L’espressione può sembrare fantasiosa, ma è reale: l’accoglienza è un’opera d’arte in cui la conoscenza degli strumenti è fondamentale, ma che si esprime con la lettura interpretativa dell’evento di ogni partecipante145. Approfondimento. Metafora sanitaria dell’affido eterofamiliare In metafora medica la famiglia affidataria costituisce il farmaco: come la medicina è indispensabile per l’operato del medico così la famiglia affidataria è indispensabile all’operatore psicosociale per attuare il recupero al benessere, la condizione di difesa autogena al proprio benessere da parte del bambino. La famiglia affidataria è nella condizione di “uso” temporaneo, come il farmaco che va preso solo per il tempo stabilito dalla risolu145 L’accoglienza musicalmente somiglia più a una jam session jazzistica che a un contrappunto barocco. L’elemento interpretativo prevale rispetto allo spartito, dato che l’improvvisazione è alla base dell’unicità dell’intervento.
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PUNTI DI VISTA zione della patologia. In campo sanitario il ventaglio di interpretazione dell’azione terapeutica da parte del medico si è fatto più ristretto man mano che la scienza ha progredito (con protocolli di intervento sempre più rigidi ed universalmente accettati) e sulla base dei rapporti tra efficacia e costo che l’intervento deve avere. La globalizzazione dell’intervento sanitario ha portato alla esaltazione del rapporto collettivo patologia-terapia e alla riduzione del rapporto individuale uomo-vita. Nel campo psicosociale per la stessa natura dell’intervento il ventaglio delle possibilità dello psicologo è assai ampio, può cambiare da operatore ad operatore, ha necessità di flessibilità perché ogni “paziente” tende ad essere un caso a sé146. Se queste sono verità accertate sulle quali le professionalità psicosociali si fondano, esiste anche una deriva di mal prassi per cui essendo un lavoro poco controllabile finisce con dare luogo a possibili sacche di personalismi e di inefficienze. Per farla breve in campo medico si è fatto strada un protocollo di intervento alla patologia sempre più rigido, mentre in campo psicosociale si assiste ad un ventaglio professionale ampio incanalato in un protocollo di gestione del servizio sempre più rigido. Queste discrepanze di filosofia di intervento finiscono col portare a mala prassi sul piano pratico. Nel campo della professionalità psicosociale della famiglia si sta tentando di razionalizzare e di rendere meno “liberamente” spontanei gli interventi per incanalarli in un sistema di maggiore rigore collettivo (quello individuale di intervento è stato raggiunto da tempo), tuttavia ancora molto si deve fare sul piano del controllo pratico degli interventi e del valore di gestione nel sistema che questi hanno (non può essere posto a pari valore gestionale il bilancio economico e l’intervento psicosociale dato che il primo dovrebbe essere al servizio del secondo e non viceversa)147.
1. Primo attore: la famiglia naturale Generalmente la famiglia naturale si rifiuta di riconoscersi come portatrice di una qualche “patologia” e rigetta ogni riflessione e ogni colpa verso il servizio socio-sanitario (che gli porta via il bambino “ingiustamente”) oppure verso la propria condizione socioeconomica (“siamo poveri ed è per questo che ci hanno portato via il bambino”)148, oppure verso il “malanimo” e la “discriminazione” che le istituzioni sociali hanno verso di 146 Cirillo S. (1986), Famiglie in crisi e affido familiare: guida per gli operatori, La Nuova Italia Scientifica, Roma. 147 Migliorini L., Rania N. (2008), Psicologia sociale delle relazioni familiari, Laterza, Roma-Bari; Greco O., Iafrate R. (2001), Figli al confine. Una ricerca multimetodologica sull’affidamento familiare, Angeli, Milano; Chistolini M. (1998), L’affido familiare: un modello di intervento, In AAVV, CAM, La valutazione delle famiglie affidatarie, Angeli, Milano. 148 Si sa quanto questo sia falso perché nessun operatore scientemente opera con questa intenzione. Sappiamo che possono esserci errori, ma questa condizione è statisticamente assai rara. Si veda: Cirillo S., Cipolloni M.V. (1994), L’assistente sociale ruba i bambini?, Cortina, Milano.
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MANUALE PER FAMIGLIE CONTROCORRENTE loro (scuola, polizia, ecc.). Questo succede soprattutto nelle famiglie non socialmente integrate che difendono la loro esistenza con una chiusura di confini che il figlio per la sua stessa natura sociale rompe e quindi diviene elemento di pericolo da reprimere e ricondurre alla funzionalità familiare originaria. In questi casi manca la flessibilità al nuovo che il figlio determina e quindi viene visto come elemento che può distruggere la condizione di isolamento protettivo che la coppia attua per il proprio esistere149. La famiglia naturale si trova ad essere nella condizione del malato che non riconosce la propria malattia e di conseguenza del paziente più difficile da trattare. A causa di questa sua disposizione l’intervento dei servizi su di essa è alquanto problematico poiché non può reggersi sulla condizione di terapia coatta, imposta150. L’operatore può solo determinare condizioni che suscitino una riflessione a partire dalla privazione del bambino (unico atto coatto compiuto dal tribunale per la salvaguardia del bambino e non per punire i genitori). TAB. 4.1. Gli strumenti di progettazione di interventi a favore della famiglia naturale. 1
Modelli teorici di benessere psicologico e funzionamento ottimale, di cui sia possibile verificare la validità.
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L’utilizzo e l’implementazione di strumenti metodologici finalizzati all’indagine della qualità di vita percepita.
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La valutazione delle risorse ed opportunità disponibili nel contesto socio-culturale in vista di un’effettiva promozione dell’autonomia.
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La verifica del ruolo delle relazioni familiari e sociali nel favorire o nell’ostacolare l’autonomia e la fruizione di opportunità di socializzazione e partecipazione, utilizzando sia indicatori oggettivi e contestuali che soggettivi.
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Lo sviluppo di programmi di intervento personalizzati tramite il coinvolgimento diretto.
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L’attenzione alla dimensione transculturale, al fine di proporre progetti applicabili e trasferibili.
In linea teorica il protocollo di intervento degli operatori sociosanitari dovrebbe essere quello di agire nel tempo sulla riflessione, sul riconoscimento dei fatti, sulla volontà di rimediare, sulla accettazione di essere aiutati, sulla guida tutoriale di assistenti sociali, psicologi sulla base anche dei rapporti con la famiglia affidataria o alla famiglia accogliente che funge da appoggio e da riferimento verso una loro autonomia relazionale che permetta il ri-inserimento del bambino151. Questo processo è assai complesso ed esige un lavoro di recupero sociale di alta specializzazione da parte degli operatori, un lavoro in cui il tempo, l’accettazione, la motivazione, le qualità umane e professionali degli operatori sono messe a dura prova152. Nella buona prassi gli operatori sono agenti di cambiamento sociale, di riferimento 149 CISMAI (2005), Linee-guida per la valutazione clinica e l’attivazione del recupero della genitorialità nel percorso psicosociale di tutela dei minori, in http://www.cismai.org 150 Guidi D., Carini R. (1995), La famiglia naturale da cancellare o da condividere, in Saviane Kaneklin L., Adozione ed affido a confronto, Angeli, Milano. 151 Cassibba R. (2003), Famiglie biologiche, affidatarie e adottive: costruzione e ricostruzione dei legami di attaccamento. Infanzia e Adolescenza in Puglia, Regione Puglia, pp. 33-43, Istituto degli Innocenti, Firenze. 152 Di Blasio P. (2005), Tra rischio e protezione. La valutazione delle competenze genitoriali, Unicopli, Milano.
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PUNTI DI VISTA costruttivo per i genitori naturali. Nella mala prassi essi divengono i controllori, persone da tenere a distanza, da imbrogliare, da non fidarsi perché fonte di ogni problema. Si noti l’ambivalenza di questa posizione con la possibilità di derive autoprotettive da parte della famiglia naturale che si chiude a riccio perché non vuole essere “aperta”, “vivisezionata” dall’operatore, ma al contempo con le possibili derive determinate dal servizio che sceglie scientemente il ruolo di controllore senza peraltro determinare alcun vero intervento per migliorare la condizione sociale e relazionale della famiglia naturale. È un intervento difficile che richiede tempo e alta capacità e quindi se l’operatore è impreparato su piano motivazionale o anche professionale, tende a non impegnarsi più di tanto su questo fronte che certamente non è per lui fonte di molte soddisfazioni nel sistema dei servizi psicosociali. Gli interventi in ambito assistenziale e riabilitativo per la famiglia naturale depauperata dovrebbero prefiggersi due scopi fondamentali. A livello individuale, dovrebbero far tesoro della flessibilità e delle potenzialità di sviluppo e di coinvolgimento attivo del singolo genitore, al fine di mobilizzare le sue risorse in vista del perseguimento di obiettivi autodeterminati. A livello di coppia, dovrebbero offrire adeguate e significative opportunità di integrazione e socializzazione in attività di gruppo guidate153. Esperienza. Sono sfortunata Aveva cinque anni il mio bimbo quando me l’hanno portato via, ora ne ha sette. Il papà lo portava sempre nella sua officina e lo teneva con lui per giornate intere, diceva che doveva farne un uomo e che era giusto che stesse con lui. Quando lo portai al pronto soccorso pediatrico perché aveva il naso tutto nero e sanguinava, mi fecero un sacco di domande sul suo naso e sui suoi lividi; io dissi quel che mi aveva detto Alberto: nell’officina cadeva spesso e si faceva male. Fu allora che decisero che il mio bambino non poteva tornare a casa. Poi ci furono molti incontri con una psicologa e poi alla fine mi dissero che il bambino aveva detto: “papà mi picchia per insegnarmi a diventare forte come lui”. Mio marito smise di parlarmi e dopo qualche mese l’assistente sociale mi disse che era malato e che doveva essere ricoverato in una clinica psichiatrica. Il bambino lo potevo vedere solo una volta la settimana in presenza dell’assistente sociale. Sono stata sfortunata a trovarmi un uomo malato; capii che dovevo farmi un’altra vita. Nei lavori di casa ero brava, così cominciai a fare la domestica da diverse persone. Avevo chiesto la separazione in attesa del divorzio; non andava male, solo che avevo paura di perdere il mio bambino (cosa avrei raccontato ai miei genitori in Sicilia?). Mi dissero che il suo rientro sarebbe stato a breve, tanto che potevo andare a trovarlo nella nuova casa dove abitava. 153 Sul piano del metodo si veda: Vaccaro A.G. (2003), Abilitazione e riabilitazione, McGraw-Hill, Milano; Bello F., Mannu J., Baroni E. (2008), La riabilitazione psicosociale tra riparazione del danno e promozione della salute: lo strenghts model, Psichiatria e Psicoterapia, 27, 4, 283-291.
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MANUALE PER FAMIGLIE CONTROCORRENTE Poi accadde un fatto che fece cambiare idea ai servizi e al giudice. Rimasi incinta: d’altra parte come potevo rimanere sola, senza un uomo. Mi dissero che questo cambiava le cose e che allungava i tempi di rientro perché dovevano vedere se la nuova famiglia che mi ero formata era adatta ad accogliere il mio bambino e se Hamin, il mio nuovo compagno, era adatto a fare il padre del mio bambino. Hamin è un bravo ragazzo, molto più giovane di me, extracomunitario, lavora come può e ha tanti parenti, per lui tanto importanti ma per me strani. Certo che ha le sue idee, e non ne vuole sapere di incontrare psicologhe e assistenti sociali perché non si fida. Negli incontri al mio bambino dicevo sempre che quella non era la sua famiglia, che io ero la sua vera mamma che presto sarebbe tornato con me e che il suo nuovo papà sarebbe stato buono. Gli portavo sempre tanti regali e gliene promettevo altri per la volta successiva. Avrei preferito che lo mettessero in un istituto, ma non ero scontenta di questa sua famiglia; lo fanno studiare e lui è bravo; per me può anche rimanere lì per qualche anno, sino a che io e Hamin non abbiamo più soldi, ma lui deve sempre sapere che io sono la sua mamma e nessun’altra. Poi all’improvviso mi hanno detto che dovevo diradare le visite perché il mio bambino non dormiva la notte, era inquieto e che ai colloqui aveva fatto una cosa buffa mettendo nello stesso letto me e il papà affidatario. Sono sfortunata perché non ho i soldi per fare causa ai servizi che portano via i bambini. Hanno detto che mi vogliono incontrare perché mi devono insegnare come mi devo comportare con lui. Ma sono io la sua mamma e io so come devo fare con il mio bambino.
2. Secondo attore: il bambino È secondo attore solo per motivi cronologici. Nelle nostre storie è, e deve essere, l’attore principale. È tuttavia un attore che raramente si impone sulla scena, che non invoca i tempi e le battute, ma che permea spesso silenzioso ogni atto e ogni intervento degli altri attori e delle figure di contorno (vicinato, scuola, ecc.). In termini psicosociali il bambino è un individuo deprivato dei suoi bisogni fondamentali di formazione, di crescita, di educazione, di affermazione della sua autonoma individualità al presente e di rappresentanza sociale nel futuro154. Approfondimento. La conquista della scena Nell’immaginario collettivo il bambino determina sentimenti di affetto e di tenerezza che tuttavia non devono coprire come una zuccherosa glassa il contenuto di bisogno, di struttura, di affetto per quello che è, di riconoscimento come individuo e non per quello che egli rappresenta nel nostro immaginario egoista (ovvero una estensione dei nostri bisogni). 154 Greco O., Iafrate R. (2001), Figli al confine: una ricerca multimetodologica sull’affidamento familiare, Angeli, Milano.
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PUNTI DI VISTA Nella metafora sanitaria potremo definirlo come un individuo che può aver acquisito comportamenti patogeni a causa della deprivazione, ma non è detto che questo sia avvenuto e soprattutto non è facile verificarne l’entità. In termini teatrali è colui che domina la scena (o dovrebbe, anche se fisicamente non presente) e determina il comportamento della regia (tribunale dei minori e psicologi, che costruiscono la rappresentazione su di lui), dei direttori di scena (assistenti sociali). Si fa notare come regista e direttori di scena non debbano essere presenti sul palco che è dedicato agli attori e alla rappresentazione del contenuto (il copione). Si sottolinea questo aspetto perché quando regista e direttori di scena vanno oltre i propri compiti, e sono di fatto sul palco, la commedia diviene un succedersi di protagonismi autoreferenziali che offuscano il copione. Nel nostro caso quando tribunale dei minori, psicologi e assistenti sociali finiscono con interpretare il loro ruolo professionale in termini di protagonismo viene inevitabilmente meno l’azione di servizio e chi si svantaggia è proprio il bambino (paradossalmente proprio colui al quale si dovrebbero dare le cure)155. Si comprende come il bambino rappresenti un’entità delicata e chiusa che afferma la sua presenza non sulla base di prevalenti atti diretti, ma attraverso azioni e parole che devono suscitare in noi la corretta interpretazione dei suoi bisogni profondi. Sono molte le persone che osservano e curano il bambino e ciascuna fornisce letture interpretative talora differenti perché il dato rilevato, o è manifesto e chiaramente leggibile, o è elicitato dagli interventi di chi gli è attorno e opera per il suo bene156. Per tutti noi il bambino è un concentrato di emozioni, consce o inconsce, che solo la professionalità o l’esperienza permettono di decifrare e mettere a valore. La difficoltà è nell’interpretare le nostre azioni prima ancora che le sue, la difficoltà di comprendere quanto del nostro agire è determinato dalla nostra visione egoistica o di proiezione del nostro vissuto e quanto è obiettività nel rispetto della sua personalità e delle attese e dei diritti che ha157. Non è facile essere bambini affidati: aver subito il disagio e la violenza, doversi sdoppiare tra due famiglie, tra due affetti, doversi confrontare con gli operatori158. Di chi fidasi? A chi rivolgere il proprio affetto? Bisogna divenire capaci di comprendere ruoli differenti e fare valutazioni delle appartenenze; bisogna accettare che tutti gli occhi siano puntati su di te, ma che si dipende totalmente dagli altri. Si finisce col sentire il bisogno di appartenere, ma non si comprende bene a chi.
155 Questo fenomeno è frequente in molte professioni di servizio, si pensi al protagonismo dei magistrati, dei medici, dei ricercatori, degli insegnanti, ecc. 156 Dell’Antonio A. (1992), Avere due famiglie. Immagini, realtà e prospettive dell’affido etero familiare, Unicopli, Milano. 157 Di Blasio P. (2000), Psicologia del bambino maltrattato, Il Mulino, Bologna. 158 Di Blasio P. (2005), Tra rischio e protezione. La valutazione delle competenze genitoriali, Unicopli, Milano.
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3. Terzo attore: la famiglia affidataria Nella metafora teatrale la famiglia affidataria è un attore che rimane sulla scena solo per il tempo di un atto, poi non sarà più sul palco, ma semmai verrà evocata (nel bene e nel male). Nella metafora medico-sanitaria abbiamo detto che è la medicina che viene somministrata fintanto che la patologia è in atto. Sul piano sociale familiare l’accoglienza di un minore è un’operazione che coinvolge profondamente i componenti della famiglia e che la renderà diversa. È un’esperienza tanto coinvolgente da determinare forti impatti sia nella prima accoglienza (la nascita) sia durante l’affido (la gestione operativa e la relazione degli affetti) e sia nel rientro del bambino nella sua famiglia naturale (elaborazione del lutto)159. Tutti eventi che rendono la famiglia affidataria fortemente esposta a situazioni di squilibrio che devono essere governate e che pongono talora anche a rischio la vita familiare160. Questi fattori di rischio hanno sovente acceso l’attenzione degli operatori soprattutto per le derive che la famiglia affidataria (ma anche per quella adottiva) può manifestare: senso di onnipotenza, narcisismo, autoritarismo per sentirsi unica depositaria di valori positivi, ecc. Questi sono rischi che la famiglia affidataria corre, ma che non sono sempre presenti né in termini qualitativi né in termini quantitativi. Va da sé che senso di onnipotenza e narcisismo sono da ritenersi depositari solo di piccoli valori positivi nella aliquota che è sufficiente per avere una giusta autostima. Spesso è la giusta dose di autostima che permette di superare le difficoltà. Il punto cruciale è dov’è questo limite. È chiaro che ogni famiglia ha il suo e lo interpreta nel migliore dei modi possibili, ma è altrettanto vero che negare l’esistenza di queste possibili derive sarebbe deleterio per la famiglia e per il bambino accolto161. Vediamo di risolvere questo nodo che ritengo fondamentale nella vita della famiglia accogliente e nella gestione delle famiglie accoglienti da parte dei servizi psicosociali. Affrontiamo il problema in modo capovolto partendo dalle derive più gravi che la famiglia affidataria può manifestare: • Onnipotenza. Ad es. quando sussiste la volontà di voler continuare ad accoglie bambini anche al di sopra delle proprie reali possibilità di gestione; • Narcisismo. Quando lo specchiarsi nella propria immagine di perfezione diviene tanto manifesta da soverchiare il lavoro silente di cura che si deve svolgere sul bambino. Si verifica quando diviene manifesto il continuo esaltare la propria abnegazione e le proprie qualità nascondendo insuccessi, difficoltà, dolori, e quindi finendo in una realtà di finzione; • Superiorità. È collegata al narcisismo: quando ci si considera al di sopra di ogni confronto mostrando soprattutto quella superiorità che non teme confronto perché “unti dal Signore”. 159 Guida M. G., Kaneklin S. L. (1993), Conoscenza della famiglia affidatario e ipotesi d’abbinamento, in AA.W. (a cura di). Affido familiare. Approfondimenti teorici e metodologici di un percorso. Quaderni di Psicoterapia Infantile, Borla, Roma. 160 A questo proposito si segnala un’opera molto ricca di suggerimenti, anche se svolta su una realtà diversa da quella italiana: Martin J. G. (2000), Foster Family Care. Theory and Practice, Allyn & Bacon, Boston. 161 Pistacchi, P., Galli J. (2006), Un viaggio chiamato affido. Un percorso verso la conoscenza dei soggetti e delle dinamiche dell’affidamento familiare. Unicopli, Milano.
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PUNTI DI VISTA Quando in definitiva si cade in questi eccessi, la famiglia affidataria entra in una sfera patologica che dovrebbe essere immediatamente corretta dal servizio psicosociale. Direi di più, se la famiglia affidataria, invece di sentire ragioni, si avvolge in una spirale di chiusura progressiva nel proprio mondo egocentrico, si dovrebbe togliere loro il minore affidato perché collocato in un ambiente che sicuramente non è adatto ed opportuno alla sua crescita.
FIG. 4.1. Schema ipotetico dello sviluppo della crescita formativa in relazione al tempo di un minore in affido giudiziario. I valori numerici non sono assoluti ed esprimono solo un andamento tendenziale.
La famiglia affidataria deve essere cosciente di quanto accadrà nel momento in cui accoglierà un minore. In FIG. 4.1 è riportato un caso ipotetico che per necessità di esemplificazione è sviluppato su un caso di affido sine die che si protrae da 2 a 18 anni. Questa situazione non si dovrebbe verificare nel concreto, ma è qui usata strumentalmente per poter dare un quadro unitario di quanto può accadere nell’affido sulla base dello sviluppo delle capacità cognitive, operative ed emozionali di un bambino. L’arco di tempo considerato è impropriamente lungo per dare modo di considerare quel che può accadere con l’affidamento in funzione dell’età di passaggio da una famiglia all’altra (che non è detto che avvenga a due anni, ma anche a 16 anni). Consideriamo ora la situazione esemplificata in FIG. 4.1. A due anni, dopo un grave problema penale il bambino viene allontanato dalla famiglia di origine e prosegue la sua crescita in una famiglia affidataria. Un genitore della famiglia di origine mantiene la patria potestà seppure in condizioni di labilità psichiatrica. Nella zona a cuneo centrale è riportato il range di ipotetica normalità nella crescita
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MANUALE PER FAMIGLIE CONTROCORRENTE di un minore. I dati considerati sono quelli relativi alla crescita emozionale o affettiva, alla crescita della capacità operativa o di azione, alla crescita di capacità di cognizione nel tempo. Nella prima infanzia i tre parametri sono fusi nella espressione e divengono separati nel momento della crisi. Il bambino sente affezione verso i genitori per spirito di sopravvivenza, ma è ad un livello di capacità al di sotto della media, la capacità di agire autonomamente è debole e ancora più debole è la sua capacità cognitiva perché fortemente deprivato. Dopo l’ingresso nella famiglia accogliente i diversi parametri crescono verso la normalità con differente trend. La linea emozionale o degli affetti cresce rapidamente dapprima, ma poi, giunto alla fase della consapevolezza del suo stato, inizia la crisi di identità che si prolunga sino ad adolescenza piena. La curva dell’autostima è in relazione al suo livello di intraprendenza e subisce nel tempo diverse oscillazioni perché soggetta all’interazione di contesto e di confronto con altri bambini. La curva della conoscenza aumenta stabilmente, subendo qualche oscillazione del tutto nella norma durante il periodo dell’adolescenza. La figura sottolinea come la crescita formativa del bambino non proceda nel tempo in modo armonico e di pari livello tra le tre capacità espresse. Questo è normale in qualsiasi bambino, ma certamente il suo vissuto abbandonico, le sue caratteristiche personali, la sua capacità reattiva alla nuova situazione lo fanno progredire con disarmonia che deve essere attentamente rilevata dal servizio psicosociale e dalla famiglia affidataria. Il lavoro della famiglia affidataria deve essere conseguente alla crescita reale del bambino accompagnando e stimolando gli aspetti che ancora non ha raggiunto un livello ottimale. Questo lavoro attento, amorevole, di disponibilità permette di far procedere il bambino in una crescita per lui naturale sviluppando via via le componenti sulla base delle sue sensibilità e dell’acquisizione della capacità secondo la scala di Maslow162. L’accoglienza etero-familiare è un intervento di grande delicatezza che sfugge a regole predefinite e deve essere valutato, seguito, espresso, con determinanti differenti da caso a caso: è necessaria grande professionalità da parte degli operatori dei servizi psicosociali e grande flessibilità ed empatia da parte della famiglia affidataria. Questo significa che la conoscenza e l’esperienza devono sempre essere tra loro integrate e l’intervento sul minore diviene necessariamente un atto originale ed unico. Si potrebbe dire che l’affido è un concerto in cui lo spartito (progetto) va scritto e definito con chiarezza, ma continuamente modificato nell’esecuzione e nella concertazione in relazione alle capacità e alle intuizioni dei musicisti che devono introdurre virtuosismi interpretativi, ma non possono prescindere dalle conoscenze tecniche ed esperienziali di base. Come si è detto, l’affido è un’opera “artistica”, frutto dell’operato umano che si base sulla forte e consapevole certezza del sapere. Come per i concerti, l’accoglienza produrrà un risultato che sarà di volta in volta diverso ed originale, come lo sono le interpretazioni “live” dei musicisti.
Il bilancio dell’impegno nell’affido consensuale Vediamo ora di fare delle valutazioni sull’impegno che le diverse forme di accoglienza hanno sui diversi protagonisti dell’accoglienza. In FIG. 4.2, si può notare che all’inizio 162 Maslow A. H. (1973), Motivazione e personalità, trad. it., Armando, Roma.
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PUNTI DI VISTA dell’affido consensuale l’incidenza della famiglia naturale con le negatività che hanno portato all’allontanamento temporaneo del minore sono rilevanti, grosso modo valutabili per un 25 % del totale. Anche il lavoro del servizio sociale è all’inizio dell’affido molto impegnativo dovendo determinare le condizioni di avvio e di ottimizzazione delle regole che devono governare la gestione dell’operazione. Gli operatori psicosociali in questa fase oltre a dover dedicare molto tempo, hanno un carico di responsabilità pari a quella di un chirurgo che deve operare un trapianto d’organo. Devono avere una forte professionalità, una forte esperienza, una misurata consapevolezza del dolore altrui, una consapevole ragionevolezza nella valutazione delle ragioni e dei pesi che devono essere spostati tra minore, famiglia naturale e famiglia affidataria. All’inizio la famiglia affidataria ha un peso di impegno ridotto (circa il 15 % del totale), ma è sotto un forte impatto emotivo. È il momento in cui si rendono concreti tanti pensieri e tante attese, ma è anche il momento in cui i dubbi e le normali incertezze emergono. Anche l’impegno del minore è oggettivamente ridotto all’inizio, ma è pervaso dalla confusione nell’attesa di qualcosa che, per quanto spiegato, non ha capito. Sente che sta per fare un salto nel vuoto ed è in trepida attesa oscillando (in relazione all’età e alla situazioni subite) tra il confuso, i sensi di colpa e la rabbia. Appena l’affido prende l’avvio, l’impegno della famiglia naturale si riduce progressivamente, come anche quello dei servizi che procederanno dall’intervento diretto al monitoraggio della famiglia affidataria e del bambino, mentre l’impegno della famiglia affidataria aumenterà progressivamente raggiungendo circa alla metà del tempo stabilito per l’affido il suo massimo. Successivamente il suo impegno dovrebbe diminuire perché dovrebbe aumentare l’autonomia del minore e la sua capacità di governare se stesso e la situazione. La famiglia naturale nel frattempo dovrebbe mutare il suo segno di impegno da negativo a positivo. Questo passaggio è in funzione del grado di resilienza e dall’azione del servizio psicosociale sulla famiglia. La presenza attiva, ma silente, che via via il servizio svolge è di fondamentale importanza poiché costituisce il paracadute che evita le crisi ingestibili, determina il collante tra minore, famiglia naturale e famiglia affidataria. Come si è detto all’inizio l’autonomia del minore è debole, poiché sarà disorientato e poco partecipe alle nuove situazioni familiari. Questo periodo di scarsa reattività si potrà prolungare, ma poi, se tutto va bene, acquisterà valore riducendo via via la quota di lavoro della famiglia affidataria e dei servizi sociali. Verso la fine dell’affido si dovrebbe vedere un significativo aumento di presa di coscienza della famiglia naturale che dovrebbe via via modificare i suoi atteggiamenti anche in relazione all’azione di sostegno che i servizi hanno loro rivolto e anche per l’azione di tutorato che le famiglia affidataria ha svolto con loro. Se tutto ha funzionato come dovrebbe al termine del periodo di affido il minore dovrebbe avere maggiore autonomia di relazione e maggiore forza di posizione sentendosi rafforzato nella sua dimensione esistenziale e la famiglia naturale dovrebbe essere nelle condizioni di poter iniziale una nuova vita di relazione di coppia e di famiglia offrendo al proprio figlio un substrato adatto alla sua crescita. Gli elementi condizionanti in questo processo rimangono soprattutto gli interventi del servizio sociale e il comportamento della famiglia affidataria verso la famiglia naturale.
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MANUALE PER FAMIGLIE CONTROCORRENTE
FIG. 4.2. Schema del fluire delle attività in termini quantitativi nell’affido consensuale tra attività della famiglia naturale, attività del servizio sociale (compreso quello di rete delle famiglie affidatarie), attività della famiglia affidataria e autonomia del minore. Nelle verticali i valori in percento dell’impegno (a sinistra all’inizio dell’affido a destra al raggiungimento della maggiore età del minore). I valori numerici non sono assoluti, ma basati su valutazioni esperienziali ed esprimono solo un andamento tendenziale.
È di grande importanza che non si verifichino situazioni di competizione tra le famiglie e questa relazione è tutta sulle spalle della famiglia accogliente che deve essere vero strumento dell’integrazione sotto la guida e il controllo dei servizi sociali. Qualcuno potrebbe obiettare che queste condizioni sono utopiche e che difficilmente si potrà trovare una famiglia accogliente con queste caratteristiche, difficilmente si potrà trovare una famiglia naturale con questa buona disposizione e, aggiungiamo, difficilmente si potrà trovare un servizio sociale tanto lungimirante da agevolare questo percorso. Eppure è possibile, ma è un evento che non si verifica per caso, è frutto di impegno e sinergie responsabili.
Il bilancio dell’impegno nell’affido giudiziario in famiglie affidatarie o in case famiglia Con l’affido giudiziario si pongono in modo più netto i confini di azione della famiglia naturale la cui presenza o viene limitata perché non produca danno al minore, oppure, nei casi più gravi viene addirittura esclusa. Nel caso di un bambino ancora in età infantile si potrà correttamente procedere, dopo un periodo di decantazione breve in una struttura neutra163, alla collocazione del minore in una famiglia affidataria o in una casa famiglia. Nel caso di un preadolescente o di un adolescente o di un minore già con una 163 Indicativamente si suggerisce che questo periodo deve essere tanto più breve quanto minore è l’età del bambino.
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PUNTI DI VISTA identità personale costruita o con una personalità già in via di affermazione, la collocazione più auspicabile è in una famiglia affidataria esperta con altri figli o in una struttura familiare più aperta come una casa famiglia.
FIG. 4.3. Schema del fluire delle attività in termini quantitativi nell’affido giudiziario tra attività della famiglia naturale, attività del servizio sociale (compreso quello di rete delle famiglie affidatarie), attività della famiglia affidataria e autonomia del minore. Sulle vertiucali i valori in percento dell’impegno (a sinistra all’inizio dell’affido a destra al raggiungimento della maggiore età del minore). I valori numerici non sono assoluti, ma basati su valutazioni esperienziali ed esprimono solo un andamento tendenziale.
In queste situazioni (FIG. 4.3) il peso della famiglia naturale è inizialmente elevato essendo determinato dal vissuto. È una presenza virtuale importante che grava soprattutto in funzione dell’età del minore e dalla gravità degli atti che hanno determinato l’allontanamento. Man mano che l’affido procede il loro peso si riduce. Nel caso in cui l’affido preveda il ritorno del minore nella famiglia naturale recuperata valgono le considerazioni fatte in precedenza per l’affido consensuale. Nel caso in cui, a causa dell’età del minore o delle non certe situazioni di recupero della piena genitorialità da parte della famiglia naturale, l’affido procede con una modalità che è simile a quella precedente, ma in questo caso l’impegno dei servizi psicosociali si fa più gravoso inizialmente per la necessità di stabilire un avvio corretto in presenza di situazioni che possono determinare crisi. Successivamente l’impegno si riduce ed il peso dell’impegno si poggia sulla famiglia affidataria e sulla acquisita autonomia del minore. È ovvio che quanto si è detto vale per una situazione teorica, ogni caso ha una storia a sé ed è necessario essere pronti a operare le varianti necessarie in opera. La scelta delle variabili, come si sa, avviene per considerazioni sulla personalità del minore e per opportunità. La famiglia affidataria (o casa famiglia) ha dapprima un peso
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MANUALE PER FAMIGLIE CONTROCORRENTE di impegno limitato che poi diviene via via più grande man mano che il minore comincia a sentire la famiglia come il suo riferimento fisso. È in questa fase in cui il lavoro della famiglia affidataria diviene massimo poiché deve essere capace di divenire punto di riferimento per un minore provato, arrabbiato contro il mondo, sfiduciato e magari fermamente deciso a rigettare il suo passato o a farlo rivivere in altra forma nella stessa famiglia affidataria. Il compito della famiglia affidataria in questi casi è assai gravoso: deve avviare il minore all’autonomia e deve con i servizi definire le tappe di questa autonomia cercando di prendere non tanto i tempi cronologici, quanto i tempi psicologici del minore. Gli interventi riparativi saranno sempre parziali, sarà la conquista di un tassello dopo aver lavorato faticosamente su un intero mosaico. In questi casi la famiglia affidataria deve possedere capacità professionali non banali, deve essere preparata sia psicologicamente che culturalmente, soprattutto perché all’inizio dovrà essere comprensiva ma autorevole, non potendo fare grande leva sull’affetto perché questo non si è ancora formato. Successivamente quando inizierà una fase affettiva dovrà cercare di governarla sulla base di assunti corretti, dato che il minore, se ha avuto esperienze abusanti manca totalmente di una corretta educazione ai sentimenti. Quest’ultima dovrà precedere tutte le altre azioni educative perché è la leva con la quale si determina maggiormente il suo recupero e il suo futuro di persona. Se si è operato correttamente e se il minore ha ancora capacità di recupero lentamente il suo grado di autonomia aumenterà. Al raggiungimento della maggiore età il suo grado di autonomia sarà simile a quello di un qualsiasi ragazzo cresciuto nella sua famiglia naturale, ovvero rientrerà nella media. La famiglia affidataria sarà divenuta il suo punto di riferimento familiare per i futuro ovvero avrà quelle funzioni “marsupiali” che gli permetterà di rivolgersi a lei ogniqualvolta ha un problema mantenendo via via la sua indipendenza personale (sia che lavori o che studi). Come si può notare guardando la FIG. 4.3, il peso dell’operazione è in massima parte sul servizio e poi sulla famiglia affidataria. Se l’abbinamento è stato fatto correttamente, il peso operativo del servizio sociale si riduce. Tuttavia, il peso gestionale per compiere un monitoraggio accurato ha una certa consistenza. Il servizio psicosociale deve seguire periodicamente il minore e la famiglia affidataria. L’interazione con la famiglia affidataria deve essere governato con sensibilità, ma con chiarezza dei ruoli. Troppo spesso si assiste, come più volte si è detto, o ad un rapporto freddo e poliziesco, o a un rapporto di amicalità impropria. Sono atteggiamenti devianti che devono essere evitati soprattutto dal servizio: la regia spetta a loro e il risultato dell’affido passa anche attraverso la loro capacità di instaurare con la famiglia affidataria un rapporto rispettoso, ma orientante, con il garbo, la competenza e la determinazione che sono necessarie.
Il bilancio dell’impegno nell’affido in comunità familiari Si può dire che questa situazione è una variante delle precedenti. Le differenze sostanziali sono determinate dalla tipologia della comunità familiare e dal tipo di organizzazione interna. In genere nel territorio nazionale sono prevalenti presenze di comunità
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PUNTI DI VISTA familiari a sfondo religioso. Questo fatto ovviamente non è di per sé negativo, anzi. Queste comunità familiari hanno un forte spirito coesivo che indubbiamente determinano un forte senso di appartenenza nel minore.
FIG. 4.4. Schema del fluire delle attività in termini quantitativi nell’affido in comunità tra attività della famiglia naturale, attività del servizio sociale (compreso quello di rete delle famiglie affidatarie), attività della famiglia affidataria e autonomia del minore. Sulle verticali i valori in percento dell’impegno (a sinistra all’inizio dell’affido a destra al raggiungimento della maggiore età del minore). I valori numerici non sono assoluti, ma basati su valutazioni esperienziali ed esprimono solo un andamento tendenziale.
Per alcuni minori, specie con gravi problemi, le comunità familiari rappresentano una risposta della società più sensibile e quindi sono sicuramente insuperabili per impegno ed abnegazione. Tuttavia, non bisogna dimenticare che anche in queste comunità familiari dominate da uno spirito ideale possono annidarsi remore e devianze che determinano problematicità164. Uno dei nodi maggiori sta nella prassi governata da due poli: da una parte la tendenza ad avere una forte autoreferenzialità dovuta ad un esaltato spirito di clan, dall’altro la tendenza del servizio a “scaricare” a loro i casi che prevedono di difficile gestione, limitando la loro attività ad un controllo sempre più labile ed inconsistente, magari fatto non in modo diretto, ma per interposte persone (psicologi o educatori pagati dalla stessa comunità accogliente, che per quanto professionalmente preparate possono essere sottoposte ad un conflitto di interesse). Osservando la FIG. 4.4, si può notare che sicuramente il peso del contesto familiare
164 Bastianoni P. (2000), Interazioni in comunità. Vita quotidiana e interventi educativi, Carocci, Roma.
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MANUALE PER FAMIGLIE CONTROCORRENTE precedente viene a prolungarsi da parte del minore il quale non ha un vero confronto con una situazione familiare strutturalmente simile a quella che lui aveva in precedenza. In questo modo il suo ricordo non solo non viene sostituito, ma permane tanto da divenire, paradossalmente un mito, un ricordo che da negativo diviene positivo. Come sappiamo quando riviviamo, dopo qualche tempo, le esperienze negative, tendiamo a scaricarle del loro peso emotivo o autogiustificandoci, o cercando di dare la colpa ad altri. La comunità familiare per struttura e per agire ideologico è qualcosa a se stante che offre in taluni casi la vera soluzione ai problemi dei minori, ma non può essere la soluzione per tutti i minori che devono essere accolti. In alcuni casi si assiste da parte dei servizi sociali ad un appoggiarsi alle comunità familiari in modo indiscriminato e non come la soluzione ideale per quel bambino165. In FIG. 4.4 si può notare come l’attività del servizio è alleggerita all’inizio, ma diviene più rilevante successivamente, soprattutto quando il minore giunge alla maggiore età. Un dato caratteristico è costituito dalla maggiore difficoltà del giovane a rendersi autonomo, soprattutto se la comunità familiare ha una struttura chiusa. L’aver vissuto a lungo in una realtà protetta, quasi sotto “serra”, determina il mancato confronto con la vita esterna. Paradossalmente la stessa comunità lo renderà meno capace di inserirsi in una realtà di vita normale e tenderà a richiedere attenzione da parte del servizio sociale, soprattutto nel passaggio all’autonomia fuori dalla comunità. Questa affermazione viene confermata da diversi indicatori paralleli e indirettamente dal fatto che molti ragazzi e ragazze che sono stati cresciuti in questo clima di volontariato ideologico finiscono con scegliere di rimanere al loro interno divenendo loro stessi educatori o divenendo famiglie che fanno parte della comunità166.
Il bilancio dell’impegno di accoglienza di una madre con bambino Questo tipo di accoglienza a livello familiare è ancora poco praticato, ma avrebbe bisogno di essere sostenuto socialmente. Ci si riferisce soprattutto a madri che hanno un bambino e che hanno difficoltà a svolgere il loro compito essendo impegnate nel lavoro o avendo, data la loro giovane età, una debole capacità a gestire il bambino. In questo caso l’accoglienza si prospetta come quella di una famiglia che accoglie nella propria casa un madre con bambino oppure quella praticata assolvendo a compiti di assistenza diurna. Si comprende come l’accoglienza nella propria casa di persone adulte pressoché sconosciute sia alquanto complessa (ma non impossibile). La soluzione, invece, di seguire con funzioni tutoriali ed affettive una madre con bambino può essere più facilmente praticata. 165 È facile comprendere se il servizio ha una certa tendenza ad esternalizzare un’attività che potrebbe svolgere in proprio. È sufficiente comparare i dati di quanti minori ha collocato in affido in famiglie e quanti ne ha collocati in comunità familiari. Se i casi di collocazione in comunità familiari superano quelli collocati in famiglia, può sorgere un ragionevole sospetto di attività orientata alla sopravvivenza manageriale del servizio piuttosto che alla sopravvivenza armonica del minore. 166 Questi fatti non devono necessariamente essere visti con un segno negativo. Quando le scelte sono fatte in libertà sono sempre corrette. D’altra parte non possono essere viste a priori in modo negativo, dato che anche il figlio di agricoltori, magari farà l’agricoltore o il figlio di medico farà il medico. L’aspetto importante, ovviamente è la libertà di scelta. Comunque sia non dobbiamo dimenticare la funzione educatrice che in prima cosa significa dare all’individuo la capacità di saper scegliere.
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PUNTI DI VISTA Nel farsi carico di un piccolo nucleo familiare si amplia il concetto di accoglienza ad una alterità più articolata, ma in passato praticata spontaneamente sia nella nostra cultura che in altre (si pensi al concetto di ménage matriarcale delle donne africane che sono abituate a farsi aiutare spontaneamente nell’educazione dei propri figli). In questi casi il concetto di accoglienza è quanto mai aperto dovendo divenire persone di riferimento sia ad un adulto, come amica o persona di riferimento, sia ad un minore, come tata, “zii” o nonni”.
FIG. 4.5. Schema del fluire delle attività in termini quantitativi nell’accoglienza di una madre con un bambino tra contesto precedente, attività del servizio sociale, attività della famiglia accogliente e autonomia della madre e del bambino. Sulle verticali i valori in percento dell’impegno (a sinistra all’inizio dell’accoglienza a destra al raggiungimento dell’autonomia della famiglia accolta). I valori numerici non sono assoluti, ma basati su valutazioni esperienziali ed esprimono solo un andamento tendenziale.
Le famiglie che l’hanno praticata confermano le difficoltà e l’esercizio di pazienza e duttilità che bisogna esercitare, ma confermano la nascita di un forte sentimento reciproco assai arricchente sul piano personale, culturale e sociale. In questa situazione l’integrazione avviene passo passo con molta naturalezza e sebbene il rischio sia elevato il beneficio è altrettanto grande. In questi casi il servizio psicosociale di solito è assai disponibile, comprendendo gli aspetti positivi dell’iniziativa e la riduzione del loro lavoro alle situazioni di maggiore profilo professionale. Infatti, la famiglia tutrice può svolgere un ruolo di sostegno agendo sul quotidiano e sulla base amicale che riduce la strada all’assistenzialismo. Sono anche indubbi i vantaggi per l’integrazione sociale del minore (dal buon vicinato alla scuola, alle norme del vivere civile in Italia, ecc.).
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MANUALE PER FAMIGLIE CONTROCORRENTE Le difficoltà nascono soprattutto dalla capacità di porsi in relazione nel confronto culturale, non solo per differente religione o per differente condizione sociale, ma soprattutto per differenti modalità di esprimere i sentimenti e dare priorità alle cose. Il processo di integrazione deve essere bilaterale e non unilaterale. Si opera per un incontro di accoglienza e quindi nel rispetto reciproco dei differenti modi di pensare. Uno dei temi più ricorrenti, ad esempio, è costituito dalla differenti modalità educative dei figli, del differente concetto di maternità e di paternità, della differente tempo di autonomizzazione dei minori, delle differenti capacità di resistere alle lusinghe di un mondo opulento. Certamente non si può compiere un’analisi dettagliata di queste situazioni poiché sono alquanto differenti ed esigono una competenza in più che deve essere espressa soprattutto da mediatori culturali e da discipline specifiche socio-antropologiche. Questa è un’impresa per famiglie controcorrente, soprattutto per quelle famiglie che provengono da un percorso di affido e che per età non possono più fare i genitori sussidiari di un bambino. Diventare nonni sussidiari dopo essere stati genitori sussidiari può essere una sfida piena di fascino!
4. Quarto attore: la famiglia adottiva Nell’adozione le difficoltà pratiche di maggiore rilevanza sono due: la prima riguarda il bambino, la seconda riguarda la famiglia adottiva. Entrambe le difficoltà hanno una costruzione che riguarda il contesto: difficoltà burocratiche, tempi stabiliti da iter non costruiti sugli attori dell’adozione, situazioni particolari dei paesi di origine, situazioni particolari della collocazione dei bambini, dispositivi di legge del paese di origine o del paese della famiglia adottante, ecc. Su queste difficoltà di contesto non voglio soffermarmi poiché sono tutte di natura assai diversa in relazione alla situazione del bambino e del paese di origine. Ritengo che questo argomento trovi larga informazione, anche se spesso con meccanismi difficili da comprendere, in diversi trattati, in internet e ancor meglio sia nei servizi sociali che nelle organizzazioni che seguono queste procedure. Per i fini di questo libro ritengo importante esplorare le difficoltà pratiche che nascono nel bambino e nella coppia adottante. La coppia che si candida per una adozione è solitamente concentrata nelle difficoltà logistiche tanto da mettere in secondo piano le difficoltà che possono nascere in loro nel momento in cui arriverà il bambino. Non basta infatti desiderare un bambino. Questa motivazione non è sufficiente di per sé per avere nella propria casa un bambino. La motivazione non può ridursi ad una dichiarazione, ma si deve riferire ad un percorso interiore che da un lato è mosso dal desiderio e dall’utopia e dall’altro deve fondare sull’oggettività di una scavo interiore ben più profondo di quello che deve affrontare la famiglia affidataria. L’adozione è per sempre, e questo non lo si deve dimenticare. Nell’adozione non esiste un periodo di prova sufficientemente lungo da permettere una valutazione profonda di se stessi e del bambino. Il fatto di essere seguiti da un sostegno psicosociale per un anno dopo l’adozione non è di per sé sufficiente in quanto in quell’anno si manifestano solitamente solo le cose migliori per entrambe le parti; sarebbe come valutare l’esito di un matrimonio dopo il primo anno che altro non è che un prolungamento della luna di miele. Nemmeno è pensabile che il bambino possa entrare in una
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PUNTI DI VISTA casa in prova e dopo un anno restituito perché non adatto! L’adozione è una strada senza ritorno che esige una coppia ad alta resilienza, fortemente motivata nell’adattarsi alla realtà del bambino, qualsiasi essa sia, e per sempre. A fronte di queste difficoltà, non insormontabili, ma reali, assistiamo ad un iter che è lungo, ma solitamente poco approfondito sul piano dell’interiorità, ad una idoneità che somiglia ad alcune certificazioni che finiscono con essere, o essere vissute, come una gabella burocratica che si deve fare senza capirne profondamente il significato. Da parte delle famiglie adottande si assiste ad un fastidio nel dover essere valutati e quindi ad un insito disvalore delle valutazioni operate dal servizio sociale. Da parte dei servizi si assiste ad un processo di valutazione obbligatorio senza la possibilità di incidere in modo profondo sulla formazione e sulle caratteristiche della coppia che lascia sempre profondi dubbi di indagine incompiuta e di atto dovuto più che di vera valutazione di idoneità.
FIG. 4.6. Schema che riporta le problematicità adottive (in verticale) tra adozioni nazionali ed internazionali in relazione all’età adottiva (in orizzontale, compresa tra 0 e 16 anni). La linea curva continua sottile rappresenta l’andamento della crescita di un figlio biologico, la linea curva di medio spessore quella di un figlio adottato di nazionalità italiana; la linea curva nera più grossa mostra l’andamento della problematicità per un adottato di etnia culturale differente da quella italiana. Le frecce con spessore differente rendono in modi inversamente proporzionale la differenza tra i diversi tipi di adozione riferendosi a come partenza a quella della genitorialità naturale. Lo schema esprime graficamente le problematicità crescenti anche in relazione alle diverse età del minore e delle tappe evolutive principali le quali ciascuna presenta una specifica problematicità. I valori non sono assoluti, ma basati su valutazioni esperienziali ed esprimono solo un andamento tendenziale.
Un doppio processo vissuto solitamente da entrambe le parti con rassegnazione (anche se non mancano esempi di analisi e atteggiamenti di compiutezza costruttiva da entrambi i lati). Si noti, inoltre, che nell’adozione l’intervento dei servizi sociali può essere decisivo solo prima dell’adozione, mentre ad adozione avvenuta hanno un anno di sostanziale tutorato con l’ingrato compito di fare una valutazione preveggente di una normalità pur essendo la famiglia in una stato di grazia dal quale difficilmente emergono
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MANUALE PER FAMIGLIE CONTROCORRENTE i punti nodali, le difficoltà. Gli operatori devono essere capaci di individuale le disarmonie e le difficoltà e le rigidità molto prima che siano evidenti sintomi chiari167; compiuta l’adozione e l’anno di controllo la famiglia adottiva può chiudere qualsiasi canale alla introspezione e vivere come se fosse una qualsiasi famiglia “normale”, mentre non lo è affatto. In FIG. 4.6, si può notare che le problematicità aumentano con l’età e con la tipologia di origine adottiva, nazionale o internazionale. Si sottolinea la differente cronologia delle fasi evolutive del bambino/ragazzo che assumono carattere di maggiore incidenza nelle adozioni rispetto a quelle presenti in un figlio biologico. La successione delle fasi è la seguente: l’età del ricordo (3-5 anni); l’età dell’assimilazione (5-8 anni); l’età dell’identità (8-11 anni); l’età dell’affermazione (12-18 anni). Ogni fase ha un peso differente, se si confronta la tipologia dell’adozione con la situazione di un figlio biologico. È un gioco ad incastro fortemente determinato dalla resilienza del bambino e della famiglia adottiva. Se sapranno porre a valore le differenze queste esalteranno la positività, se le subiranno esalteranno la negatività. Sempre dalla FIG. 4.6 si può comprendere che un mambino che viene adottato entro i 5 anni ha la possibilità di passare tutte le fasi evolutive con la famiglia adottiva, mentre uno che entra in adozione a 12 anni può usufruire di un periodo formativo nuovo solo nella fase finale dell’affermazione. Questo non significa che i bambini da adottare devono per forza essere piccoli, ma semplicemente che la famiglia adottiva deve usare strumenti differenti con un ragazzino più grandicello e curare quelle situazioni formative che precedentemente eventualmente non erano state raggiunte in modo adeguato. Oltre i 14 anni (ma anche già da verso gli 11 anni) è necessario avere precauzioni particolari nell’adozione e compiere un periodo di adattamento più complesso che assomiglia a quello dell’affido familiare. Concentriamoci ora sui casi più frequenti e prendiamo in considerazione dapprima i bambini che vanno da 0 a 3 anni. In questi casi il “trapianto” adottivo è più agevole e addirittura auspicabile per il benessere formativo del bambino. Potremo dire che in questi casi le problematicità sono tutte concentrate sulla famiglia adottiva e sulle sue capacità di reagire al cambiamento di stato familiare che il bambino adottato determina. Queste famiglie solitamente vivono un periodo assai felice provvedendo ad una formazione e ad una educazione psicosociale ed affettiva del bambino in modo ottimale. Solo nel momento in cui arriverà l’età dell’identità e quindi il naturale desiderio di conoscere chi si è e da dove si viene si avrà un cambiamento. La coppia adottiva deve prevedere questo evento e deve prepararlo per tempo in modo da poter rispondere alle esigenze del bambino in relazione ai suoi bisogni di identità. In questa fase l’aver svolto un percorso all’interno di gruppi di famiglie adottive la aiuterà nella soluzione di questa problematicità. Un altro momento critico si avrà quando arriverà l’età dell’affermazione di se stessi in modo compiuto (14-18 anni). A questa età il desiderio di conoscere le proprie radici e quindi i propri genitori si farà più forte, la famiglia adottiva non si dovrà spaventare, ma dovrà assecondare questo desiderio essendo parte integrante del formare l’identità adulta 167 Migliorini L., Rania N. (2008), Psicologia sociale delle relazioni familiari, Laterza, Roma-Bari.
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PUNTI DI VISTA da parte del ragazzo. Esistono molti esempi di questo cammino anche molto bene espressi in alcune opere non solo psicosociali, ma anche letterarie168.
FIG. 4.7. Schema del fluire delle attività in termini quantitativi nell’adozione tra attività di sostegno di rete delle famiglie, attività della famiglia adottiva e autonomia del minore. Sulle verticali i valori in percento dell’impegno (a sinistra all’inizio dell’adozione a destra al raggiungimento della maggiore età del minore). Si può notare come l’impegno della famiglia adottiva sia rilevante all’inizio per poi ridursi ma mano che aumenta l’autonomia del bambino. Significativo è anche l’impegno iniziale del sostegno di rete, costituito nel complesso dall’aiuto di specialisti e delle famiglie accoglienti a formare la rete di sostegno alle attività dell’adozione. I valori numerici non sono assoluti, ma basati su valutazioni esperienziali ed esprimono solo un andamento tendenziale.
Sappiamo che per i bambini nati e adottati in Italia, le difficoltà relative alla costruzione della propria identità riguardano prevalentemente la relazione tra famiglia naturale e famiglia adottiva, mentre per l’adozione internazionale si inseriscono situazioni meno chiare e meno ricostruibili in quanto i bambini più grandicelli avranno sicuramente interiorizzato la propria cultura e l’identità etnica. A questa si aggiunge anche un’immagine della realtà del paese che li accoglie molto falsata dai mezzi di informazione (prevalentemente televisione o racconti che sono stati fatti loro). Non sempre riflettiamo a sufficienza sul lavoro mentale che questi bambini devono compiere da un lato con una situazione che non li soddisfa, ma che è l’unica che conoscono, dall’altro con una situazione mitizzata di avere cose che nel orfanotrofio non hanno. Bisogna considerare con grande rispetto il loro vissuto e la loro necessità dell’investimento narcisistico che il bambino fa verso gli adulti di riferimento. Tradire questo processo determina danni cospicui non facilmente rimediabili successivamente. Il loro è comunque un percorso di abbandono: abbandonati dai genitori biologici (anche se incolpevolmente); abbandonati dai parenti, abbandonati dal collegio in cui sono cresciuti (che 168 Tra i tanti esempi si veda il recente: Schinkel A. (2009), Figlia della seta, TEA, Milano.
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MANUALE PER FAMIGLIE CONTROCORRENTE in un qualche modo li consegna ad una realtà familiare che non conoscono). Che fiducia possono avere da parte di persone che nemmeno conoscono? Certamente tutto l’apparato delle illusioni che il mondo industrializzato e socialmente evoluto che l’Italia rappresenta è un forte incentivo che spesso si dovrà confrontare con una reale perdita di valori che altrove sono più percettibili. Sarà in quel tempo che i conflitti tra bambino e famiglia adottiva si renderanno evidenti e questo tempo non è preventivabile prima. Un aspetto da considerare è anche l’immagine che la coppia adottiva ha del paese di origine, spesso stereotipata e spesso negativa per il solo fatto che non sa assicurare ai propri bambini un futuro certo. Le ripercussioni emotive sul bambino giunto in Italia sono innegabili, dagli atteggiamenti dei genitori adottivi stessi sino alla famiglia allargata, agli amici, alle persone con le quali viene in contatto. L’uso stesso dei suoi ricordi è spesso vissuto con poco rispetto. Inoltre si fa, anche inconsciamente avanti il tentativo di “appropriarsi del bambino” allontanando ed escludendo la loro educazione e cultura primigenia quasi fosse sempre e comunque un disvalore da dimenticare quasi a significare che solo attraverso gli adottivi lui potrà essere considerato come persona. Tutto questo azzeramento, voluto o non voluto, determinerà nel bambino un’ansia supplementare, quando non costituirà la “sindrome del quasi adatto”, finendo con esaltare la non integrazione tra passato e presente. Possiamo immaginare quanto tutto questo significa per la fragile autostima del bambino, per la sua insicurezza e angoscia di perdita di ciò che fino a quel momento faceva parte del suo mondo. Il processo di riparazione al trapianto adottivo potrà avvenire quando i genitori adottivi riusciranno a percepire le difficoltà del bambino, a contenerlo e proteggerlo. Quando, invece, loro stessi divengono insofferenti ai cambiamenti in atto si determina una situazione di fragilità che spesso li porta a considerare solo loro stessi e le dinamiche familiari già note del periodo preadottivo, quasi non fosse accaduto nulla nella loro vita (il padre continua con le sue attività, la partita, il cane, gli amici, ecc.; la madre le amiche, lo shopping, la palestra, il ménage del tutto pulito ed ordinato), allora le cose si complicano. In questi casi il sostegno delle famiglie adottive può fare molto per non essere soli ed avere risorse supplementari nel fronteggiare le situazioni. Approfondimento. I forti e i deboli Nell’adozione si è soliti considerare il bambino l’elemento più fragile sul quale far convergere il senso di protezione. Se il bambino è grandicello ha già assunto una conoscenza ecologica di sopravvivenza del mondo che lo circonda, lo vede chiaramente in termini distorti, ma comunque ha già assimilato talora una capacità di governo delle cose che lo circondano (e delle persone) che magari non ci garba, ma sono per lui funzionali a mantenere il suo equilibrio. In queste situazioni il bambino può di fatto essere l’elemento forte, mentre uno dei due genitori diviene elemento debole, fragile. Specie se si trascinano dei sensi di colpa per la propria mancata genitorialità naturale. È necessario provvedere sin dall’inizio con un lavoro di rete che rafforzi l’elemento debole e che riporti nelle giuste dimensioni il partner che magari tenta di eludere gli impegni che lui ritiene più gravosi, soprattutto per necessità di fare una analisi interiore più profonda del dovuto.
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PUNTI DI VISTA Esperienze. Le famiglie adottive sono iperattive? Le associazioni di famiglie adottive sono mosse da una iperattività di gruppo, che se da un lato è positiva, dall’altro tende ad assumere un aspetto sindacale o di gruppo di eletti con un atteggiamento un po’ schizofrenico. Da un lato la difesa della privacy familiare ad oltranza e la debole apertura ad una scavo interiore, e dall’altro una attività pubblica di gruppo densa di eventi riunioni, seminari, convegni nazionali e internazionali. Tutto questo è da un lato encomiabile, ma verrebbe da chiedersi come fanno a dedicare un tempo pari all’impegno pubblico alla loro famiglia? In alcuni casi si assiste ad una situazione paradossale e simile a quella di tante altre famiglie: la madre dedita alla cura della prole adottiva e il padre dedito alle attività dell’associazione. Esattamente come in una famiglia non adottiva la madre si cura della casa e il padre ad esempio si cura dell’attività del partito in cui milita. In questi casi talora l’associazionismo diviene fine a se stesso. Un gioco al sentirsi in un qualche modo “speciali” contrapponendolo alla situazione precedente in cui erano sentiti “poverini”. Esperienze. Quando i controlli sono insufficienti Sconcerto negli Usa e in Russia per la vicenda di un bimbo di sette anni rispedito a Mosca dalla madre adottiva con un biglietto che spiegava perché lei aveva deciso di non tenerlo più con sé. La donna single del Tennessee ha spiegato che non voleva più essere sua madre poiché il bambino aveva gravi problemi psicologici e che l’orfanotrofio aveva mentito sulle sue condizioni. La donna aveva adottato il bambino sei mesi prima ma aveva presto scoperto che il suo nuovo ruolo di mamma non era facile come aveva sperato: “è un bambino violento, uno psicopatico con gravi problemi di comportamento. Le autorità dell’orfanotrofio russo mi hanno mentito”. Esperti di adozione americani sono rimasti sconcertati: “è l’equivalente dell’abbandono di minore. Mettere un bimbo su un aereo e spedirlo come un pacco postale è un atto orrendo”. La nostra domanda è semplice semplice: come si è potuto verificare un caso come questo? Nell’incertezza della diagnosi sul bambino, si può affermare che sicuramente la donna è psicopatica. Perché nessuno se ne è accorto?
5. Quinto attore: la coralità, famiglie che aiutano famiglie Con questa espressione si intende una famiglia (tutrice) che aiuta una famiglia in difficoltà. Sul piano etico e psicosociale presenta alcuni vantaggi e alcune difficoltà operative. Il vantaggio è costituito dal fatto che la famiglia in difficoltà può mantenere la sua unità ed i minori possono essere aiutati a crescere nel loro contesto familiare. Inoltre, ha il vantaggio di stabilire (teoricamente) un legame forte e permanente tra le due famiglie; ha anche il vantaggio di essere economicamente meno parcellizzato e più facilmente gestibile da parte dei servizi sociali. Presenta tuttavia lo svantaggio di un forte ed impegnativo
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MANUALE PER FAMIGLIE CONTROCORRENTE carico da parte della famiglia tutrice e un presupposto di solidarietà molto alto sul piano individuale e sociale. Altre difficoltà sono legate alla effettiva accettazione da parte della famiglia in difficoltà di avere una famiglia tutrice che la segue. Potremmo dire che il presupposto di partenza è molto coinvolgente, ma inevitabilmente si scontrerà con un quotidiano molto complesso dove il riconoscimento del ruolo della famiglia tutrice è alquanto difficile, sia da parte della famiglia in difficoltà, sia da parte del servizi sociali. Essendo il presupposto buono e di possibile percorrenza, bisogna valutare quanto tutto questo entra nelle logiche comportamentali di famiglie e servizi coinvolti.
FIG. 4.8. Schema del fluire delle attività in termini quantitativi nell’accoglienza, in termini di farsi carico, di una famiglia da parte di un’altra famiglia che diviene tutrice. Vengono riportati i pesi di impegno della famiglia accolta in termini di contesto precedente, delle attività del servizio sociale, delle attività della famiglia accogliente e dei livelli di autonomia che si vengono a generare da parete della famiglia accolta. Sulle verticali sono riportati i valori in percento dell’impegno (a sinistra all’inizio dell’accoglienza a destra al raggiungimento dell’autonomia della famiglia accolta). I valori numerici non sono assoluti, ma basati su valutazioni esperienziali ed esprimono solo un andamento tendenziale.
Appare indubitabile che, come per altre forme di accoglienza, non si può pensare che questa formula sia valida per tutte le situazioni, ma potrà essere una soluzione ottimale per alcuni casi che non trovano soluzione nell’accoglienza per adozione e per affido. Anche per la modalità di accoglienza sociale espressa da famiglie che aiutano famiglie si deve partire dai fondamenti teorici e sperimentali e non dare luogo a situazioni improvvisate.
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PUNTI DI VISTA Approfondimento. Il Marlborough Family Service di Londra I fondamenti psicosociologici dell’azione sociale di famiglie che aiutano famiglie parte metodologicamente dal lavoro clinico con famiglie multiproblematiche, portato avanti negli anni ’70 al Marlborough Family Service di Londra. Le famiglie oggetto dell’esperienza tendevano a presentare non solo problemi psicologici, ma anche problemi di natura sociale ed educativa, con situazioni di violenza all’interno della famiglia stessa. Per affrontare questi molteplici problemi, un team composito di professionisti si occupavano di queste famiglie. Il lavoro clinico si è stato attuato in uno specifico setting diurno multifamiliare, con 6-8 famiglie che partecipano contemporaneamente per intere giornate o settimane. Alcuni bambini sono stati posti in affido, per altri è stata riconosciuta una situazione di rischio di danni significativi, ma sono stati lasciati con i genitori. Il bambino sia che viva con i genitori naturali o meno, partecipa insieme ai genitori e alle altre famiglie agli incontri. Il lavoro di setting è stato progettato per permettere alle famiglie di essere viste in più contesti differenti. Si sono ricostruite situazioni di vita reale intorno a temi quotidiani, permettendo l’osservazione di schemi e di interazioni familiari problematici. Inoltre, si è incentivato l’aiuto alle famiglie ad affrontare i problemi di vita quotidiana, trovando soluzioni alle difficoltà abituali e specificamente cercando di ridurre la quota di violenza familiare. La presenza di altre famiglie con simili problemi ha portato ad un riconoscimento reciproco e ad una attivazione reciproca ad aiutare gli altri offrendo la loro esperienza per quello specifico problema. Questo processo offre chiaramente un tipico feedback all’interno del gruppo dei pari. Essere solo una delle tante famiglie in situazioni molto simili è generalmente un’occasione unica per le famiglie che partecipano al setting, e questo fatto tende a ridurre sentimenti di emarginazione sociale e di stigmatizzazione. Questo clima comportamentale permette alle famiglie di essere meno difensive e più aperte ad esplorare le possibilità di cambiamento. Recentemente lo spunto metodologico del Marlborough Family Service di Londra ha trovato applicazione in varie forme e tra queste quelle di maggiore concretezza si sono sviluppate dapprima in Piemonte per poi trovare applicazioni e consensi anche in altre regioni del Nord Italia. È una forma che si presta teoricamente alla soluzione di molti problemi coinvolgendo sia i servizi sociali, sia altri gruppi di volontariato che agiscono nel sociale. Come è naturale trovano maggiore applicazione nei centri metropolitani dove sia domanda che offerta trovano una sufficiente risposta numerica da riuscire ad organizzare un servizio congruo. Nelle aree più piccole la domanda non raggiunge un limite di utilità tra costo e beneficio, tenuto anche conto che nei piccoli centri l’offerta, ovvero le famiglie disponibili a questo tipo di accoglienza si riducono alquanto e risultano sparse in un territorio più ampio (in genere a livello provinciale) e questo non aiuta la logistica della gestione del sistema.
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MANUALE PER FAMIGLIE CONTROCORRENTE Le esperienze condotte in Italia hanno come base comune famiglie multi-problematiche che sono ad alto rischio e ad alto costo per la società. Queste famiglie sono anche caratterizzate dalla difficoltà ad essere raggiunte per poter proporre un intervento organico. Le loro peculiarità sono dovute a fattori plurimi spesso confusamente espressi e comunque border line. La gravità della loro situazione è spesso mal recepita non solo dalla famiglia stessa che ha un forte codice di visione interpretativa della vita, ma anche dalle strutture per la difficoltà dovuta alle categorizzazione degli interventi specialistici che richiederebbero più di una competenza. In queste condizioni chiaramente gli strumenti psicosociali consueti e collaudati non sono sufficienti ed è necessario cambiare metodo operativo. I rischi di questa soluzione di pratica corale dell’accoglienza sono tutti annoverabili nel sistema gestionale: famiglie difficili da raggiungere e difficili da curare; difficile governo di conflitti tra famiglie e operatori; difficoltà ad aprirsi per timore di diniego, ostilità e segretezza; possibilità di aumento di resistenze al “cambiamento”, aumento di professionisti coinvolti, con molteplici opinioni, paralisi operativa e spesa sociale elevata. I vantaggi teorici sono altrettanto evidenti e tutti giocati sul confronto tra pari e sul far nascere un senso di appartenenza e di non solitudine che permette un affrancamento sociale. Pur essendo in Italia i progetti “Famiglie che aiutano famiglie” ancora in fase sperimentale, esistono forme più spontanee e leggere che hanno avuto un’applicazione di costante presenza su tutto il territorio nazionale. Esse nascono spesso come declinazione di differente metodo di accoglienza solitamente affrontato da famiglie esperte già con un passato di forme di accoglienza (affido, adozione, volontariato familiare). Queste forme che nascono in effetti da un volontariato spontaneistico sono state accolte da alcuni servizi come forme possibili e seguite istituzionalmente. Solitamente fanno capo a situazioni logistiche già presenti (sedi di ex collegi e di fondazioni di aiuto a famiglie e minori) che si sviluppano con forme di applicazione adatte ai bisogni del territorio e quindi possiedono la flessibilità di andare incontro alle necessità di quel particolare territorio facendo leva sul volontariato dei singoli e delle associazioni e determinando una possibile risposta a problematicità familiari per le quali i servizi sociali possono farsi carico solo con costi di gestione molto elevati.
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