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Punti di Vista
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Marco Nicastro
Il carattere della psicoanalisi Considerazioni critiche sul metodo psicoterapeutico di Freud
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Prima Edizione: 2017 ISBN 9788899566067 © 2017 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 r.a. Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Marzo 2017 in Italia da Universal Book srl - Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)
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Indice
Premessa I - Le origini della psicoanalisi: casi clinici e primi scritti sulla tecnica 1.1 Cenni biografici: il desiderio di emergere 1.2 Gli Studi sull’Isteria (1892-1895): la psicoanalisi inizia a prendere forma 1.3 Il caso di Dora (1905): importanza della teoria sessuale della nevrosi 1.4 Gli altri casi clinici: «Il piccolo Hans» (1908) e «L’Uomo dei topi» (1909), «L’Uomo dei lupi» (1914) II - Gli scritti tecnici del periodo intermedio: definizione delle caratteristiche del trattamento 2.1 Alcuni scritti sulla tecnica (1904-1912): le libere associazioni, il transfert e altri aspetti del setting 2.2 «Nuovi consigli sulla tecnica psicoanalitica» (1913/1915): individuazione di alcune questioni problematiche del trattamento 2.3 «Vie della terapia psicoanalitica» (1919): eccezioni e rischi nell’analisi 2.4 «Il problema dell’analisi condotta da profani»
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(1926): la questione dell’analisi personale del terapeuta III - L’ultimo periodo: disillusione o realismo? 3.1 Osservazioni intorno alla terminabilità dell’analisi: il carattere del paziente, il carattere dell’analista 3.2 La questione delle «costruzioni nell’analisi»: quale verità?
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Considerazioni conclusive
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Riferimenti bibliografici
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In tutti i modi i lettori sappiano che quanto riferirò è tratto da quello che ho udito, senza che io vi abbia apportato alcuna modificazione con la mia influenza. Dunque non mi rimaneva che tener presente il saggio detto che vi sono più cose in cielo e in terra che nei sogni della nostra filosofia. E di queste cose riuscirebbe certo a scoprirne molte di più chi fosse in grado di sbarazzarsi integralmente dei suoi pregiudizi. S. Freud – Il caso dell’«Uomo dei lupi» (1914)
Un’analisi psichica non è una ricerca scientifica spassionata, bensì un’azione terapeutica. In effetti non si tratta di dimostrare, ma di modificare una situazione. S. Freud – «Il caso del piccolo Hans» (1908)
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Premessa
L’obiettivo principale di questo lavoro è anzitutto quello di analizzare alcune caratteristiche della tecnica psicoanalitica – così come sono nate e si sono evolute – attraverso gli scritti1 di Freud che si riferiscono maggiormente ad essa, cercando di riportare, quando utili, le parole stesse del padre della psicoanalisi, molto più esemplificative di tante spiegazioni postume. Si tenterà di ipotizzare un legame tra le caratteristiche del metodo psicoanalitico e quelle idiosincrasie/preferenze del suo ideatore che potrebbero aver avuto un ruolo essenziale nel fare in modo che quel dispositivo di cura venisse ad assumere certe peculiarità piuttosto che altre possibili. In sostanza, si cercherà di capire quanto ci sia in quel metodo di essenzialmente legato alle specifiche caratteristiche della personalità di Freud e quanto possa essere considerato non strettamente imprescindibile da tutti quei terapeuti che, nel proprio lavoro, ancora oggi accettano l’idea psicoanalitica di un inconscio capace di influenzare il comportamento degli individui. Uno scopo ulteriore sarà quello di provare a comprendere quanto, nella tecnica freudiana, ci sia di logicamente suffragabile o eticamente accettabile dal punto di vista di un terapeuta contemporaneo; e di ciò che, invece, sia possibile considerare come 1 La maggior parte degli scritti di Freud citati sono tratti da: Sigmund Freud, Opere, 1886-1905/1905-1921, Roma, Newton Compton 1995 (2 vol.). Per l’elenco completo dei testi di Freud consultati, anche se non direttamente citati nel testo, si vedano i riferimenti bibliografici in fondo al libro.
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aspetto essenzialmente derivato dal contesto filosofico-culturale dell’epoca in cui nacque e visse Freud. Considerazioni del tutto personali saranno di tanto in tanto avanzate relativamente al modo in cui vengono condotte attualmente le psicoterapie ad orientamento psicoanalitico (o la psicoanalisi stessa), cercando di sottolineare criticità e aspetti a mio parere ancora controversi nella pratica clinica. Non tutta la sterminata produzione di Freud è stata passata al setaccio; tuttavia, le opere qui citate, seguite di solito nella loro scansione temporale, sono solo una parte di quelle effettivamente lette. Coerentemente col mio scopo, e data la vastità e varietà della produzione freudiana, non potevo che limitarmi ad approfondire soltanto quegli scritti (soprattutto i casi clinici e i saggi sulla tecnica) che mi pareva presentassero il materiale più significativo relativamente al tema di fondo del libro. Inoltre, all’interno di questi lavori, mi sono soffermato in particolare su quei passaggi che, a mio avviso, potevano gettare una luce proprio sullo specifico, delicato rapporto tra Freud e la tecnica psicoanalitica nascente. Non era mia intenzione, ad esempio, approfondire le questioni metapsicologiche che egli ha affrontato ed elaborato nel corso degli anni in diversi testi fondamentali, né altri aspetti prettamente speculativi. Ciò che mi interessava era soprattutto la pratica analitica e come questa veniva da Freud progressivamente elaborata nel suo intrecciarsi, spesso inconsapevole, con la sua personalità. Ho cercato così di dare attenzione innanzitutto ai ‘fatti’ del lavoro terapeutico così come descritti dall’autore, in particolare nei casi clinici. Infatti, credo che i dati clinici, rispetto a speculazioni puramente teoriche, pur sempre soggetti ad uno specifico modo di osservazione siano comunque elementi più facilmente condivisibili con un osservatore esterno, anche a distanza di molti anni, specie se vengono 10
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descritti limitando le considerazioni personali e i termini troppo vaghi o derivanti da una specifica teoria. Nell’elaborazione di questo saggio, sono stato dunque guidato dalla consapevolezza dell’importanza di una riflessione puntuale a partire da questi ‘fatti’ del lavoro clinico di Freud e dalle sue idee su cosa fare in una psicoterapia, ispirandomi a quanto lui stesso ebbe a dire in merito alla preminenza del dato clinico-esperienziale sulla speculazione teorica (1915-1917, p. 400): «La psicoanalisi è sorta come terapia [...] e il suo approfondimento, così come il suo ulteriore sviluppo, sono tuttora legati alla pratica con i malati. Solo così possiamo ottenere la massa di impressioni dalla quale formiamo le nostre teorie». Del resto, sulla stessa lunghezza d’onda si collocava, al tempo, un altro illustre psicoanalista e collega di Freud, C.G. Jung: «Si comincia sempre con lo scoprire fatti, e non teorie. Le teorie nascono in seguito dalla discussione fra molti» (1928, p. 129). L’importanza dunque di dare rilievo a quanto concretamente avviene nel corso del lavoro coi pazienti, prima che alla speculazione teorica sugli accadimenti clinici, pareva essere ben chiara ai maggiori psicoanalisti dell’epoca. Ovviamente, lontano da qualsiasi pretesa di assolutezza e ben consapevole delle acquisizioni della moderna epistemologia relativamente al ruolo centrale dell’osservatore nel processo di conoscenza dell’osservato – specie nelle scienze sociali, in cui il sistema osservato sempre reagisce con intenzionalità nei confronti del sistema osservatore provocandone ulteriori reazioni, in un circuito complesso caratterizzato da continue e inevitabili influenze reciproche dei suoi componenti (Bocchi, Ceruti, 1985; Ceruti, 1986; Castiglioni, Corradini, 2011; Von Foerster, 1987) – intendo qui le succitate affermazioni di Freud e Jung soprattutto nel senso della necessità di una doverosa valorizzazione da par11
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te del terapeuta del dato empirico-clinico rispetto alla teoria di riferimento. Una valorizzazione che può essere da quest’ultimo attuata solo molto faticosamente, grazie soprattutto a un attento e continuo monitoraggio dei processi conoscitivi, interattivi ed emotivi in atto nel rapporto col paziente, nonché alla costante disponibilità a rivedere le proprie acquisizioni teoriche per quanto tradizionalmente accettate, soggettivamente importanti o affettivamente investite. Cercherò di chiarire meglio quanto appena affermato riportando una descrizione molto efficace di un episodio clinico in cui a mio avviso si evidenzia proprio l’atteggiamento osservativo sopra descritto, atteggiamento che è possibile sperimentare verso un paziente soltanto partendo dalla consapevolezza della complessità irriducibile dei processi psichici in gioco che si sviluppano nel corso delle interazioni tra essere umani in un contesto terapeutico. L’esempio è tratto dall’ultimo lavoro di Mario Galzigna (2013, pp. 37-40). L’autore, che quel giorno stava partecipando ad un’attività terapeutica di gruppo con pazienti “gravi” in qualità di consulente epistemologo presso un Centro di Salute Mentale, descrive quel breve frangente della seduta in cui viene improvvisamente irretito dal resoconto di un paziente relativo ad un ricordo del suo recente passato. Si trattava di un paziente dimesso poco tempo prima dall’ospedale dopo un ricovero coatto, con una diagnosi di schizofrenia paranoide e che in realtà l’autore già conosceva di vista, essendo entrambi grandi appassionati di musica classica ed avendo per questo motivo frequentato lo stesso Auditorium della zona, in passato. Il paziente “schizofrenico” con il suo racconto vivace e fortemente poetico affascina l’autore (l’osservatore, nel contesto terapeutico), il quale riesce a mettere temporaneamente da parte la diagnosi che l’altro si 12
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portava addosso: davanti, in quel momento, ha solo una persona che sta descrivendo in modo coinvolgente e icastico un episodio della propria vita. Tale condizione di libertà osservativa è ben diversa però da quella in cui si trova a osservare e a vivere l’incontro uno degli psichiatri conduttori, il quale, avvicinandosi al nostro, gli sussurra un commento un po’ sprezzante relativo alla gravità del quadro psichico del paziente, dato il carattere piuttosto singolare di quella narrazione. Galzigna, infastidito da quell’atteggiamento così marcatamente riduttivo, prova invece a valorizzare allo psichiatra la forza poetica di quel discorso e le qualità immaginative possedute dal paziente. Dinnanzi alla bellezza di quella narrazione gli risultava infatti particolarmente difficile incasellarlo in schematismi psichiatrici, finendo invece per intravedere e poi accogliere, attraverso una condivisione interpersonale profonda dell’esperienza narrata dal paziente, altri aspetti estremamente significativi della sua personalità, sicuramente utili per poter instaurare un rapporto non distanziante e non etichettante con la sua sofferenza. La capacità di abbandonare naturalmente gli schemi del sapere psichiatrico condiviso, dando spazio alla complessità e all’“imprevedibile” dell’incontro con un altro essere umano, per quanto “patologico” possa essere considerato, permette al clinico di realizzare un incontro maggiormente capace di sondare possibilità alternative di comprensione e di contatto. Una disposizione interiore, quella appena descritta, che ben rappresenta quanto intendevo in precedenza: la necessità di dare una preminenza al dato esperienziale rispetto ai presupposti teorici di riferimento del sistema osservante (specie in psichiatria), per quanto coerenti e accettati dalla comunità scientifica tali presupposti possano essere. Ciò detto, mi sia consentita un’ultima precisazione. 13
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In questo scritto ho voluto concentrarmi, in genere, su quelle caratteristiche del trattamento psicoterapeutico ideato da Freud che potevano costituire, a mio avviso, aspetti critici o punti di contraddizione. Poche volte la mia attenzione si è soffermata su quanto di notevole ci sia stato nel suo lavoro di psicoanalista: l’instancabile dedizione alla sua attività lavorativa e al suo progetto, la sua disciplina intellettuale, la capacità di elaborare una teoria ampia e sistematizzata relativa ad un campo ancora molto oscuro a quei tempi, la genialità di alcune intuizioni teoriche e cliniche per affrontare il disagio psichico, l’importanza data alla libertà di espressione dei pazienti e quindi alla loro soggettività, il coraggio di difendere un metodo che, proponendo una cura non riduttiva (non manipolativa, non meramente contenitiva) della sofferenza mentale, dava finalmente una speranza a molte persone relativamente alla possibilità di affrontare attraverso la parola la propria condizione patologica, sostenendo il desiderio di guarigione degli stessi “malati”, per quanto conflittuale. Tali caratteristiche – che risultano evidenti anche ad un lettore non troppo attento della sua opera – sono ben riferite e valorizzate, direttamente o indirettamente, in buona parte della letteratura psicoanalitica in circolazione. Lo scopo di questo saggio sarebbe invece quello di sottolineare qualcos’altro, di spostare l’attenzione su aspetti della teoria della tecnica psicoanalitica meno noti a coloro che non hanno avuto modo di approfondire direttamente lo studio delle opere freudiane2. Si tratta di aspetti spesso controversi e contraddittori, che non vengono evidenziati facilmente da chi ritiene il metodo 2 Cosa ancora abbastanza comune tra gli studenti di psicologia e tra molti specializzandi in psicoterapia, i quali, nel proprio percorso di studi, approfondiscono il metodo freudiano solo indirettamente: attraverso i compendi fatti da altri autori o partendo dallo studio delle sue evoluzioni più recenti, e leggendo solo saltuariamente qualche estratto o capitolo dei testi freudiani più importanti.
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psicoanalitico standard il più adeguato ad affrontare il disagio psichico. Tale tentativo è stato compiuto a partire da un’ottica essenzialmente psicoanalitica, a partire cioè da una grande passione per lo studio e per la pratica della psicoterapia a orientamento psicoanalitico. Spero quindi che esso possa risultare il più possibile scevro da quei pregiudizi che solitamente caratterizzano chi critica un orientamento teorico differente dal proprio senza prima averne maturato un’adeguata conoscenza.
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I. Le origini della psicoanalisi: casi clinici e primi scritti sulla tecnica
1.1 Cenni biografici: il desiderio di emergere Freud nacque a Freiberg, piccola cittadina austriaca, da una famiglia di origine ebraica. All’età di tre anni tutta la famiglia si trasferì a Vienna, per gli impegni di lavoro del padre. L’educazione religiosa di Freud non fu rigida; Sigmund non fu mai professante (anzi fu dichiaratamente ateo), anche se conservò un forte senso di appartenenza al popolo ebraico (Mangini, 2001, pp. 37-39). Questo sentimento non fu quindi motivo di identità religiosa, quanto il fondamento dell’idea di far parte di una minoranza – come il popolo ebraico appunto – costretta a lottare per la propria sopravvivenza ed il proprio riconoscimento. I suoi interessi culturali, fin dalla giovane età, furono molto ampi, andando dalla letteratura classica a quella moderna, dalla filosofia alle scienze naturali. Si iscrisse alla facoltà di Medicina, pare per un interesse prettamente di ricerca in campo biologico; passò sei anni presso l’Istituto di Fisiologia diretto da Ernst Brucke, un neurofisiologo che influì molto sulla prima formazione accademica di Freud, capostipite assieme ad altri di quella scuola di pensiero antivitalistico in campo fisiologico che attribuiva le manifestazioni vitali all’azione di forze chimiche e fisiche, in opposizione ai concetti spiritualistici che avevano per17
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meato la filosofia della natura di derivazione idealistica. Da queste prime influenze, oltre che dai successivi studi ed esperimenti sugli stati ipnotici, deriveranno i concetti energetici e dinamici che caratterizzeranno la successiva teorizzazione psicoanalitica dello psichismo. In seguito egli si separò dai suoi primi mentori, sia per divergenze teoriche, in particolare dopo il ritorno da Parigi e l’approfondimento delle cause psicologiche inconsce dei fenomeni isterici (ipotesi mal tollerate dalla Società di Medicina di Vienna e che gli causarono l’ostilità dei suoi colleghi), sia per motivi pratici, sentendo Freud il bisogno di giungere presto ad una condizione di indipendenza economica dopo essersi sposato e aver deciso di metter su famiglia, condizione che le incerte possibilità di carriera universitaria non potevano certo garantirgli (ivi, pp. 41-44). Da diversi biografi il giovane Freud è descritto come un individuo acuto, amante della letteratura, orgoglioso delle proprie origini etniche e particolarmente incline alla rivalità, tratti questi che spesso non resero facili i suoi rapporti con colleghi e amici, soggetti a contrasti accesi o rotture definitive (ivi, pp. 40-41). Alcuni elementi interessanti relativamente alla sua personalità, e in particolare all’intreccio di questa con la sua attività di studio e di ricerca, è possibile ricavarli dallo scritto Storia della mia vita (1925), dove emerge spesso il desiderio di Freud di essere notato e di uscire dalla condizione di studente straniero emarginato a causa della propria origine israelitica. Anzi, forse proprio la consapevolezza di quella condizione pregiudizievole di inferiorità in cui a quel tempo tendeva ad essere collocato chi come lui era ebreo, nonché il peso soggettivo della ghettizzazione di cui si sentiva oggetto, alimentarono il suo desiderio di emergere, di ritenersi destinato a qualcosa di unico, ad un’opposizione naturale al parere della maggioranza. 18
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[...] Anzitutto mi feriva l’idea che l’appartenere alla religione israelitica mi dovesse porre in una condizione di inferiorità nei confronti dei miei colleghi che mi trattavano da straniero. Decisamente però non mi sentii inferiore a loro (p. 14, corsivo mio). [...] queste prime impressioni universitarie ebbero la conseguenza importantissima di abituarmi fin dal principio al destino di stare nelle file dell’opposizione, e all’ostracismo della “maggioranza compatta”. In questo modo sono state gettate le basi per una certa mia indipendenza di giudizio (ivi, p. 14).
Questa sensazione di esclusione, e il conseguente bisogno di rivalsa e di visibilità, si presentarono anche in altri periodi e occasioni e non paiono riconducibili semplicemente alla sua consapevolezza di essere ebreo. Tali elementi caratterizzarono, ad esempio, anche il suo soggiorno di studio a Parigi nell’ottobre del 1885, durante il quale ebbe modo di approfondire il metodo ipnotico di Charcot sulle pazienti isteriche3. Attratto dal gran nome di Charcot, che aveva conquistato larga fama, presi la decisione di prendere prima la docenza in malattie nervose e di trasferirmi per qualche tempo a Parigi per un ulteriore perfezionamento (p. 16). [...] Non mi si dedicò, all’inizio, nessuna particolare attenzione, confuso com’ero tra i numerosi medici stranieri che si iscrivevano come allievi alla “Salpetrière” (ivi, p. 17, corsivo mio).
Fin dall’inizio della sua attività di studioso, forse per compensare quei sentimenti di esclusione, l’ambizione e il desiderio 3 Si recò a Parigi grazie ad una borsa di studio concessa dall’Università di Vienna, presso la quale aveva poco tempo prima ricevuto un incarico di docenza in neuropatologia per intercessione dello stesso Brucke. Durante il suo soggiorno di studio francese, Freud ebbe modo di approfondire le nuove teorie dell’isteria di Charcot e Bernheim, che sostenevano entrambe, solo con lievi differenze, l’ipotesi di una causa inconscia della sintomatologia isterica, rintracciabile in agglomerati ideativi o affettivi dissociati dall’esperienza cosciente ma che facevano sentire ugualmente la loro influenza attraverso i sintomi.
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di creare qualcosa di unico furono un motore decisivo del suo lavoro di ricerca. La prospettiva di diventare assistente alle cattedre di Fisiologia prima (con il prof. Brucke) e di Anatomia Cerebrale dopo (con il prof. Meynert) non esercitarono mai su di lui una particolare attrazione, proprio per il ruolo di “secondo” in cui si sarebbe venuto a trovare, oltre che per gli scarsi vantaggi economici che potevano derivarne a breve termine (ivi, p. 16). La prospettiva, invece, di acquisire fama cimentandosi in un ambito poco conosciuto lo allettò a tal punto da investire nello studio delle malattie nervose e recarsi per motivi di formazione a Parigi attratto «dal gran nome di Charcot»4. Come accennato, non esitò in seguito a scontrarsi coi propri superiori e con la stessa Società di Medicina di Vienna, relativamente alle originali pratiche terapeutiche sui pazienti “isterici” apprese proprio a Parigi, né esitò a prendersela con chi poteva rallentare o ostacolare tale percorso di crescita professionale. Non mancò, ad esempio, di attribuire delle colpe alla sua fidanzata dell’epoca (Martha Bernays, poi sua moglie), per il fatto di aver rallentato la sua carriera con il progetto di convolare a nozze e il conseguente trasferimento definitivo a Vienna, proprio quando stava ipotizzando, nel corso dei suoi studi parigini e berlinesi, l’utilità di un uso medico della cocaina, cosa che invece riuscì a fare un suo collega e amico solo poco tempo dopo: Posso qui, tornando indietro nel tempo, affermare che fu colpa della mia fidanzata se non divenni celebre fin da quegli anni giovanili.[...] Tuttavia, non ho serbato alcun rancore a mia moglie per l’occasione perduta (1925, p. 19, corsivo mio).
Il desiderio di notorietà e di fama (di cui ampiamente godevano i suoi “maestri” francesi Charcot e Bernheim), assieme alla 4 Di questa ambizione si trovano esempi significativi in diversi passaggi delle lettere a Fliess (1887-1904) e alla fidanzata (1873-1939).
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graduale scoperta dei notevoli limiti di altre metodiche terapeutiche, lo influenzò nella scelta dell’ipnosi quale possibile metodo terapeutico per le malattie nervose: Poiché intendevo vivere con la cura dei sofferenti di malattie nervose dovevo mettermi nelle condizioni di prestar loro qualche aiuto (p. 20) [...] l’ipnotismo dava all’attività medica una notevole attrattiva: il medico, per la prima volta, si liberava dal sentimento della sua impotenza ed era lusingato dalla fama di ottenere cure miracolose (ivi, p. 21).
L’entusiasmo tuttavia durò poco e Freud abbandonò presto il metodo ipnotico per varie ragioni. Non solo perché non sempre gli riusciva d’ipnotizzare i pazienti (anche per i limiti intrinseci all’ipnosi come metodo efficace di induzione di uno stato di trance), ma anche perché si convinse della rilevanza di due elementi che quel metodo tendeva a non prendere debitamente in considerazione: la stretta dipendenza dei risultati terapeutici dalla qualità del rapporto medico-paziente (effetto suggestivo) e l’azione di un fattore relazionale sotterraneo molto potente – che in seguito definì transfert – che poteva opporsi al buon esito della cura. Come vedremo, al posto del metodo ipnotico egli avrebbe optato ben presto per una tenace «esortazione a ricordare» – già usata da Bernheim come fondamento del suo metodo suggestivo – mantenendo però la posizione supina propria dell’ipnosi e collocandosi dietro al paziente «in modo da poter vedere, senza essere visto» (ivi, p. 33, corsivo mio). Emerge, da vari passaggi di questo conciso scritto autobiografico del 1925, la tendenza di Freud a creare un metodo che si adattasse al meglio alla sua personalità, caratterizzata da un’accesa conflittualità inconscia nei confronti del desiderio di essere visto (come si evince dalla frase citata poco sopra), che possiamo considerare come un’altra forma di quel desiderio di distin21
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guersi dagli altri e di primeggiare di cui diede prova fin dagli inizi della sua esperienza di clinico e di teorico. Un desiderio inconscio che guidò potentemente la sua carriera fin dagli esordi, ma i cui effetti, in particolare sulla tecnica terapeutica, egli non riuscì probabilmente a comprendere appieno.
1.2 Gli Studi sull’Isteria (1892-1895): la psicoanalisi inizia a prendere forma Realizzato con il contributo determinante di Breuer, Freud descrisse in questo lavoro sia l’evolversi della sua concezione dei meccanismi patologici alla base dell’isteria, sia quello dei procedimenti terapeutici rivolti a questa condizione patologica. Si evidenzia, sin dai primordi della sua teorizzazione, una strettissima e fondamentale connessione tra clinica e teoria, con influenze predominanti della prima sulla seconda. L’idea che ci fossero dei complessi ideativi patogeni a influenzare la coscienza da un settore psichico diverso (l’inconscio) prese chiaramente corpo e venne sistematizzata proprio in questo scritto (ivi, pp. 138-140). I primi tentativi terapeutici lo videro usare una tecnica che combinava l’induzione di stati ipnotici all’utilizzo di comandi suggestivi e alla facilitazione della catarsi affettiva, al fine di depotenziare la carica energetica libera nella psiche; ciò avvenne, ad esempio, nel caso di Anna O., trattato in precedenza dal suo collega Breuer seppur con effetti solo temporanei. Tuttavia, è solo a partire dallo studio del caso di Emmy von N. che Freud cominciò a dubitare del reale e duraturo effetto terapeutico della suggestione ipnotica. Notò infatti una particolare resistenza di questa paziente a lasciarsi ipnotizzare, oppure una debolezza delle suggestioni ipnotiche quando queste miravano a contrastare direttamente le idee patogene inconsce. Inoltre, capì che il 22
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