Il futuro che non c era. Storie di donne e di vite negate

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A TU PER TU AA.VV.

Autori Otto giovani scrittori che hanno deciso di intingere la loro penna nella speranza e nel futuro in funzione di un progetto dove la vita e non la morte diventa la vera protagonista. Nomi che in un progetto comune trovano ispirazione e vena creativa: Sergio Aquino, Massimo Bisotti, Alberto Gherardi, Alessandro Greco, Andrea Malabaila, Carmine Monaco, Alex Pietrogiacomi, Paolo Zardi.

Edizioni Psiconline

www.edizioni-psiconline.it redazione@edizioni-psiconline.it

In copertina: Foto di Marco Goisis

Il futuro che non c’era Storie di donne e di vite negate a cura di ALESSANDRO GRECO Prefazione di CHIARA SIMONELLI

Il futuro che non c’era

Simonetta Cesaroni, Elisa Claps, Yara Gambirasio, Meredith Kercher, Carmela Petrucci, Melania Rea, Sarah Scazzi, Vanessa Scialfa. Otto donne. Otto vite spezzate, quasi certamente, per mano di uomini. Otto uomini, dunque, raccontano in questo volume le vite di queste donne regalando loro Il futuro che non c’era. Tutti conoscono nei dettagli quel che queste donne hanno fatto nella loro breve vita. Ma nessuno sa – e nessuno purtroppo saprà mai – quel che, invece, avrebbero voluto fare, quel che avrebbero potuto fare. Chi avrebbero amato, dove avrebbero vissuto, quali emozioni avrebbero provato a ogni piccola conquista dei figli che avrebbero avuto (o che avevano già, ma che non vedranno crescere). Le protagoniste di queste vicende vivranno nelle pagine di questa antologia oltre che nella mente di chi le ha amate davvero. Partendo, infatti, dal fatto di cronaca del quale abbiamo mantenuto solo il luogo e la data, abbiamo raccontato la vita di queste donne, come fosse proseguita normalmente. Una vita nuova, né perfetta né terribile. Un futuro semplice, fatto anche di sogni, infranti e realizzati, o di desideri accessibili.

COLLANA A TU PER TU Una Collana dedicata alla vita, alle esperienze, ai sentimenti che si svelano nell’incontro con la psicologia. Racconti personali, vita vissuta, considerazioni di chi un giorno, per scelta o per necessità, ha preso contatto con una materia così bella ma anche così dura e concreta. E, comunque sia finita, vuol portare tutti i lettori a confrontarsi, compenetrarsi, capire cosa accade e come cambia il proprio quotidiano.

Il Futuro che non c’era.

Sergio AQUINO Massimo BISOTTI Alberto GHERARDI Alessandro GRECO Andrea MALABAILA Carmine MONACO Alex PIETROGIACOMI Paolo ZARDI

€ 16,00

Edizioni Psiconline

Storie di donne uccise, raccontate e nuovamente immaginate da uomini: un primo, importantissimo passo.

Loredana Lipperini


Edizioni Psiconline Š 2013 - Riproduzione vietata


A Tu per Tu



Alessandro Greco (a cura di)

Il Futuro che non c’era Storie di donne e di vite negate

con scritti di

Sergio Aquino - Massimo Bisotti Alberto Gherardi - Alessandro Greco Andrea Malabaila - Carmine Monaco Alex Pietrogiacomi - Paolo Zardi Prefazione di

Chiara Simonelli


Prima Edizione: 2013 ISBN 9788898037162 © 2013 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Maggio 2013 in Italia da Atena.net srl di Grisignano (VI) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl) Questi racconti sono opera della fantasia degli autori. Nomi, personaggi, luoghi, avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione e, se reali, sono utilizzati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti e persone viventi o scomparse è del tutto casuale.


INDICE

Prefazione

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Chiara Simonelli

Perché questo libro

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Alessandro Greco

Il cielo sopra di me

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Sergio Aquino

Un giorno qualunque. Domani

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Massimo Bisotti

La collezione degli attimi

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Alberto Gherardi

Mamma Alessandro Greco

Qui non è Hollywood Andrea Malabaila

Merito di più Carmine Monaco

73 85 103 5


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Sulla soglia Alex Pietrogiacomi

Il resto della Vita Paolo Zardi

Autori

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PREFAZIONE Chiara Simonelli

Lo definirei un libro prevalentemente onirico e polifonico. Queste vite messe a tacere per sempre rappresentano non solo se stesse ma un’intera popolazione femminile che sparisce ogni anno, interrotta brutalmente e con molte probabilità, per mano maschile: stiamo parlando di femminicidio. Un fenomeno antico e orribile, diffuso in quasi tutte le culture anche ai nostri giorni. Quest’operazione editoriale, unica nel suo genere, ha il merito di trattenere nella memoria di chi legge le protagoniste, superando quel momento cruciale e buio, restituendo un corpo, una luce e una voce a chi purtroppo non li ha più. Tutto poteva andare diversamente e sul come potesse essere il futuro prende forma ogni racconto. La finzione letteraria non può certo riparare questa realtà aberrante e alla prevenzione debbono impegnarsi le forze politiche e le istituzioni pedagogiche. Quello che possiamo fare però è immaginare che questo non sia un destino femminile ineluttabile e, come nel bel vecchio film Sliding doors, citato nel racconto di Alessandro Greco, sognare che un’ipotesi migliore e felice possa esistere da un senso di parziale speranza. Speranza per un futuro collettivo dove le donne non abbiano più da temere di perdere la vita. 7


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Nel ricostruire un ipotetico futuro per Melania Rea, l’autore scrive: “E qui il film si sdoppia. Cioè lei si sdoppia… La prima lascia il fidanzato. La seconda, invece, no… Una delle due muore. L’altra vive.” Dare a Melania la possibilità di crescere insieme alla propria figlia non sana l’irreparabile storico ma è un frammento poetico dove seguiamo insieme una donna che matura affrontando le pene e le gioie con quell’attenzione dolce alla verità, verità tutta da condividere con la sua piccola. Sapendo che è pura immaginazione questo può far soffrire ancor di più ma queste vite inventate ci esortano a non dimenticare né Melania né tutte le altre donne a cui è stato tolto il diritto di crescere, maturare e invecchiare. Gli autori, ognuno a suo modo, sognano e restituiscono a queste singole biografie rivisitate una possibilità col suo fluire di pensieri, emozioni e progetti per il futuro. Proprio quel futuro di cui queste vittime sono state ingiustamente private. Nulla può più cambiare realmente le cose per queste otto donne né per tutte le altre uccise da un altro essere umano. È apprezzabile che a scrivere questi racconti siano stati proprio otto uomini, tutti giovani scrittori e, in quanto tali sensibili, capaci di proiettarsi nel mondo interiore femminile con particolare empatia. Se essere oggetti o vittime non è un destino ineluttabile per le donne, è proprio qui la chiave di lettura dolorosa ma a tratti vivace e vitale, comunque sempre convincente perché interpretata con gli occhi e con la mente di scrittori che pongono un’alternativa alla morte e alla violenza di alcuni uomini. Prof.ssa Chiara Simonelli Università degli Studi “La Sapienza” - Roma

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PERCHÉ QUESTO LIBRO Alessandro Greco

Sono 124 le donne uccise in Italia dal compagno/marito/ amante nel 2012. Sono state 137 nel 2011. I numeri non sono ufficiali perché i conti sono stati fatti da associazioni di volontariato. Pochi calcoli, comunque, e il conto è presto fatto: una donna ogni due giorni circa viene uccisa. Numeri terribili, quelli di una strage silenziosa. Qualcosa gli intellettuali possono e devono fare per interrompere questa spirale. “Si uccidono le donne. Le uccidono i maschi. È ora di dirlo, di vergognarcene, di fare qualcosa per stroncare la barbarie” Pierluigi Bersani, 28 Aprile 2012 “Il futuro che non c’era” è principalmente un’operazione culturale, solo dopo un testo dal forte impatto letterario. Quella che vi apprestate a sfogliare è un’antologia di racconti che ha come impulso un argomento estremamente delicato, ma l’obiettivo è stato appunto culturale, letterario e nient’affatto cronachistico. Simonetta Cesaroni Elisa Claps Yara Gambirasio Meredith Kercher Carmela Petrucci Melania Rea Sarah Scazzi Vanessa Scialfa 9


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Otto donne. Otto vite spezzate, quasi certamente, per mano di otto uomini. Otto uomini, dunque, hanno raccontate le vite di queste donne regalando loro “Il futuro che non c’era”. Tutti ormai conosciamo nei minimi dettagli quel che queste donne hanno fatto nella loro breve vita. Le trasmissioni televisive lo hanno raccontato in tutte le salse, spesso anche morbosamente. Ma nessuno sa – e nessuno purtroppo saprà mai – quel che, invece, queste donne avrebbero voluto fare, quel che avrebbero potuto fare. Chi avrebbero amato, dove avrebbero vissuto, quali emozioni avrebbero provato a ogni piccola conquista dei figli che avrebbero avuto (o che avevano già, ma che non vedranno crescere). Le protagoniste di queste vicende vivranno nelle pagine di questa silloge oltre che nella mente di chi le ha amate davvero. Partendo, infatti, dal fatto di cronaca – del quale abbiamo mantenuto solo il luogo è la data – abbiamo raccontato la vita di queste donne, come fosse proseguita “normalmente”. Una vita nuova, né perfetta né terribile. Un futuro semplice, fatto anche di sogni, infranti e realizzati, o di desideri accessibili. Non ci interessa il voyeurismo e nemmeno il cronachismo; non intendiamo in alcun modo sostituirci agli inquirenti e anzi, abbiamo, come già detto, tutt’altro intento. Come ideatore e curatore del progetto ho scelto questi otto “casi” perché rappresentativi del problema violenza sulle donne. Ho scelto otto uomini perché è fondamentale che a parlare del problema siano gli uomini, perché è un problema degli uomini che come tale va affrontato prima di tutto dagli uomini. Ho piena coscienza del pericolo di poter urtare alcune sensibilità, ma così come mi sono rimesso all’intelligenza, al tatto e alla sensibilità degli autori (me compreso) – prima – mi rimetto a quella dei lettori – ora – poiché riconosco alla letteratura proprietà terapeutiche senza eguali. Questa antologia non ha nessuna voglia di vittimizzare la don10


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na, ma nemmeno di compiere un’operazione consolatoria. La donna non vuole essere consolata. La donna vuole essere tutelata e rispettata. E non dagli scrittori ma dalle leggi e dagli uomini. Nella realizzazione dei racconti siamo stati attentissimi, perché sbagliare la prospettiva equivale a fare sessismo al contrario, un qualcosa (perdonatemi il paragone) simile al politicamente corretto negli Stati Uniti verso gli afro-americani: sfocia sempre o quasi nel pietismo, o in una forzatura delle conseguenze del rispetto. Non è mia intenzione avallare in alcun modo l’atteggiamento di cui sopra dato che trovo urticante il qualunquismo con cui molti uomini fanno il mea culpa verso la donna, chiedendo scusa per ciò che altri uomini hanno fatto, come se anche loro, al posto di chi ha ferito o ucciso o quant’altro, avrebbero fatto lo stesso *in quanto uomini*. L’obiettivo dell’intero progetto editoriale, quindi, è stato quello di ricordare i fatti accaduti (e non minimizzarli) utilizzando un approccio diverso. Un approccio che mira a stimolare le coscienze attraverso uno sguardo inatteso. Sono pronto a ricevere una valanga di critiche da parte di chi questo libro non lo leggerà mai. Non mi interessa. D’altro canto spero che chi lo legga riesca a cogliere quel che abbiamo provato a metterci: passione, intensità e, paradossalmente, vita.

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IL CIELO SOPRA DI ME Sergio Aquino

Premessa Elisa Claps è la ragazza scomparsa a soli 16 anni da Potenza, città dove viveva con i genitori e due fratelli. Elisa frequentava il liceo classico del capoluogo lucano, sognava una laurea in medicina e il suo carattere estroverso e disponibile con gli altri la rendeva diversa dai suoi coetanei. Domenica 12 settembre 1993, Elisa esce con la sua amica del cuore Eliana, per la consueta passeggiata nel centro cittadino. Non farà più ritorno a casa. La famiglia inizia a cercarla dappertutto, prepara volantini da diffondere in città e si affretta a denunciare la sua scomparsa. Da quel momento iniziano le indagini, costellate da depistaggi che conducono in Albania e in Sudamerica, da false dichiarazioni e da strani ‘intrecci’ che collegano il magistrato che si occupa delle indagini alla famiglia del maggior sospettato: si tratta di Danilo Restivo, un ventunenne che Elisa doveva incontrare il giorno della sua scomparsa e che aveva già evidenziato in precedenza comportamenti disturbati verso le donne. La Chiesa meglio frequentata della città, la Santissima Trinità, il suo parroco e un centro giovanile collegato alla stessa, fanno da sfondo all’intera vicenda che solo il 17 Marzo del 2010 ha una svolta: proprio nel sottotetto di quella chiesa vengono ritrovati alcuni resti umani. Una perizia del medico legale stabilirà che si tratta del corpo 13


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di panico” ti colloca ai primi posti della classifica mondiale dei creatori di eufemismi! In realtà ero completamente terrorizzata, la testa mi girava, anzi no, era il mondo che girava vorticosamente intorno a me e i miei occhi lo seguivano indipendentemente dalla mia volontà. Non potevo muovermi, gli arti erano paralizzati e non avevo il controllo di nessuna parte del mio corpo. Una sensazione orribile, credimi!» «Ma cosa ha scatenato questa crisi? Sei stanca, Lisa, te lo si legge in faccia, forse hai chiesto troppo a te stessa: operi anche dodici ore al giorno e in queste condizioni d’emergenza, poi. L’ultima paziente è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso!» «Non è stata la stanchezza, Marcello: piuttosto sono state le condizioni di quella ragazza...». «Beh, certo, aveva numerose ferite, c’era molto da suturare e da rimettere a posto: dobbiamo ancora intervenire sul braccio...» «No, no, Marcello, non c’entra nulla la quantità delle ferite. A scatenare la mia crisi è stato vedere quella povera ragazza vittima di uno stupro proprio oggi». «Perché ‘proprio oggi’? Oggi è un giorno speciale, per te?» «Del perché ‘proprio oggi’ ti dirò tra poco, ma intanto è importante che tu sappia che è lo stupro che mi scatena reazioni incontrollabili: lo stupro di guerra, poi, mi è così inaccettabile che riesce a sconvolgermi fino agli angoli più reconditi della mente. Il solo pensare che si possa violentare una donna, anche se in guerra accade anche agli uomini e ai bambini, per affermare una vittoria sul campo, è da bestie! Siamo nel XXI secolo, Marcello!» «La natura bestiale della guerra e il peggio che riesce a tirare fuori dagli uomini non conosce progresso, se non in senso peggiorativo. A distanza di oltre venti secoli si ragiona ancora come nell’antica Grecia, quando lo stupro era considerato un comportamento socialmente accettato nelle regole di guerra perché le donne facevano parte del bottino dei vincitori: un’idea del genere relegava le donne a mera proprietà degli uomini, per cui passa18


Sabbia. Sole. Polvere. E poi ancora sabbia, sole e polvere. E quel puzzo di sudore, di infezione, di cancrena e di morte che già dopo il primo mese di questo lavoro ho smesso di sentire, impegnata come sono giorno e notte a suturare, tagliare, disinfettare, lottare con la scarsezza di medicine... Cosa ci sarà di così prezioso in questo buco arido e brullo, senza vegetazione, senza grandi fiumi, un posto in cui la miseria riesce a materializzarsi e diventare qualcosa di reale e palpabile e non più solo un’idea, da spingere le persone ad uccidere, mutilare, torturare e spesso stuprare civili inermi, donne, bambini e anziani? Sono da sei mesi in questo che ci ostiniamo a chiamare ‘ospedale da campo’ e ancora non riesco a capire perché le due fazioni in guerra tra loro abbiano deciso di eliminarsi a vicenda, sostenute in questo assurdo massacro dai vari Paesi che nel mondo si ergono, paradossalmente, a paladini della pace e sentinelle della democrazia: mi duole la testa e mi fa male il cuore al solo pensare a questa situazione, simile a molte altre in giro per il pianeta, ma per fortuna di solito ho molto poco tempo a disposizione per dedicarmi a speculazioni sociopolitiche! Sotto questa tenda non c’è mai un attimo di sosta perché abbiamo piazzato il nostro ‘ospedale da campo’ in una zona che è crocevia di molte delle rotte scelte dai fuggiaschi civili che cercano inutilmente di sottrarsi alla violenza della guerra e così, ad ogni ora del giorno e della notte, c’è un incessante andirivieni di 15


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feriti, mutilati e moribondi che hanno bisogno di aiuto. Ma oggi è il 12 settembre e, ormai da tanti, troppi anni, ogni volta che arriva questo giorno ho addosso una strana inquietudine che non si attenua neppure di poco con il trascorrere del tempo. Una specie di compleanno: in effetti, a pensarci bene, è come se fossi nata un’altra volta, quella domenica. Mi fa una strana impressione ripensare a quel giorno oggi, in questo luogo dimenticato da Dio, con una temperatura intorno ai quarantacinque gradi all’ombra...se ce ne fosse di ombra: anche se a quest’ora il sole ha finalmente superato la linea dell’orizzonte e le ombre delle dune si allungano, regalandoci un’illusoria sensazione di fresco. Mi sono allontanata dalla tenda-ospedale perché ho bisogno di qualche minuto di riposo; non mi capita mai di sentirmi così stanca a metà giornata, ma oggi, come ogni anno, sono in una condizione psicologica tale che ogni gesto, ogni azione mi costa più fatica del solito. Eppure, mi ripeto da anni, sin da quando ho deciso di prestare la mia opera gratuita nelle zone di guerra, in questi posti sono a contatto con tanta di quella violenza che prima o poi forse riuscirò finalmente ad aumentare la mia soglia di ricettività e quello che stava per accadermi non mi tormenterà più. «Dottoressa Lisa, dottoressa Lisa! Tu corre qui, presto!» La voce concitata di Sharifa, la mia assistente indigena, all’occorrenza infermiera, ferrista e spesso anche cuoca che, sull’entrata della tenda, mi chiama e mi fa segno di tornare dentro mi strappa ai miei pensieri e mi riporta alla terribile realtà. «Che c’è, Sharifa?» «Hanno portato adesso donna giovane picchiata da soldati! Viene dottoressa, presto, perde tanto sangue!» La donna è sul tavolo di legno che usiamo per operare: ha perso tanto sangue e neppure il colore nero della sua pelle riesce a mascherare il pallore del suo viso; è magrissima, e ha il braccio destro piegato in modo innaturale e appoggiato sull’addome. Ha numerose ecchimosi su tutte le parti scoperte del corpo e 16


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mentre mi chino a guardare meglio quelle che sembrano bruciature di sigarette sul dorso delle mani, il mondo intorno a me si mette improvvisamente a girare come se stessi su una giostra e se non fosse per due mani che mi sorreggono cadrei giù per terra come un sacco vuoto. «Che succede, Lisa? Non è certo la prima donna che vedi in queste condizioni». Marcello, il mio collega, mi aiuta a sedermi e mi allunga un bicchiere d’acqua: è preoccupato, non mi ha mai vista in questo stato. «È passata, Marcello, tutto a posto, tranquillo». Bevo lentamente, a piccoli sorsi, il liquido a temperatura ambiente «Occupiamoci di questa poveretta, adesso. Dopo ti spiego, se ne avrai voglia: ora diamoci da fare». In due ore riusciamo a mettere fuori pericolo la vita della nostra paziente e concludiamo il nostro lavoro bloccando il braccio che è stato rotto in più punti: domattina trasporteremo la povera ragazza in città e provvederemo a fare le radiografie all’arto. Adesso, stremati, siamo seduti tutti e due per terra sulla sabbia, l’uno di fianco all’altra, con le spalle appoggiate alla parete in mattoni a secco del pozzo; sulle nostre gambe, in un piatto di carta pressata, alcune fette di kebab e pane in cassetta e in mano un bicchiere con una bibita fredda, unico lusso che ci concediamo nel nostro albergo a mille stelle, come ci piace chiamare la nostra brandina sulla quale riposiamo di notte, con il cielo a farci da tetto. «Mi hai fatto prendere un bello spavento, Lisa: credevo di non fare in tempo a prenderti prima che cadessi a terra! Non ti avevo mai vista in quelle condizioni: e sì che in questi mesi sul tuo tavolo operatorio te ne sono passati di tutti i colori! Mi è sembrato che tu fossi in preda ad un vero e proprio attacco di panico». Il kebab e la bibita fresca mi hanno riconciliato con il mondo, ho ripreso il controllo e riesco anche ad ironizzare. «Certo che come psichiatra non sei all’altezza della tua bravura come chirurgo d’urgenza: chiamare la mia condizione “attacco 17


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UN GIORNO QUALUNQUE: DOMANI Massimo Bisotti

Premessa La scena può ricordare un filmaccio di quelli più violenti, ma è tutto tragicamente vero: Carmela Petrucci, 17 anni, è riversa senza vita in una pozza di sangue nell’androne del suo palazzo di Palermo. Lucia, sua sorella, un solo anno di più, è accanto a lei, porta il segno di venti coltellate, ma è ancora viva e si salverà, di lì a poco, in una stanza di rianimazione dell’ospedale “Cervello” della città siciliana. A colpirle è stato Samuele Caruso, 23 anni, invaghito di Lucia e deciso a vendicare l’affronto di essere respinto. Si avventa su Lucia, ma la sorellina si mette in mezzo, per difenderla, e si prende le coltellate mortali. Con un filo di voce, sotto choc, Lucia adesso la racconta così: «È stato Samuele, mi minacciava, mi perseguitava, mi mandava quei messaggi, ma non pensavo che arrivasse a tanto. Lui ci ha aggredite. Era una furia. Ci ha sorprese nell’androne e, senza dire una parola, con il coltello in pugno, si è avventato contro di noi». Proprio queste le poche parole che Lucia ha trovato la forza di pronunciare dal suo letto d’ospedale, per ricostruire quei tragici momenti. Lucia e Carmela, giovani, belle, solari, unite, anzi inseparabili. Carmela amava sua sorella e voleva proteggerla dalle coltellate di Samuele, e per questo è finita sgozzata. Samuele, detto “tigrotto”, era pazzo di Lucia. L’aveva conosciuta otto mesi fa su Facebook e si era infatuato di lei. (Visto, ndr)

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Tutto ha inizio da un nome nella vita. La vita ci dà un nome e noi ce ne ridiamo uno diverso ogni giorno, anche nuovo rispetto a quello che ci hanno regalato alla nascita. Il mio è legato a quello di mia sorella. I legami non si stringono come lacci e quando esistono non puoi tagliarli come coi lacci potresti fare. Ci sono nodi che stringono e nodi indivisibili che sono intrecci invisibili di anime e pensieri. Questo siamo io e Mia. Ho scelto di andare a scuola un anno prima pur di iniziare ogni cosa con lei e così siamo state sempre insieme nella stessa classe. I veri legami sono intrecci mentali inesauribilmente potenti. Dovrebbe essere possibile per ognuno di noi rinascere nuovi ogni volta che ne abbiamo voglia e nessuno dovrebbe strapparci questo diritto per alcuna ragione, mai. Siamo tutti sul filo di impercettibili casualità che ci attraversano e ogni piccolissimo particolare stravolge gli eventi in maniera irreversibile. Così è la nostra vita, spesso senza veri perché, così strana, così bella, così crudele. Frazioni di minuti, sottrazioni di momenti e noi, mescolati agli altri, siamo il prodotto di tutte queste operazioni. Quel giorno, un giorno qualunque della nostra piccola fragile vita, il 19 ottobre del 2012, una nostra compagna ci ha consigliato di non tornare subito a casa, dopo la scuola. Emanuele che da tempo perseguitava mia sorella, perché lei lo aveva lasciato a causa della sua gelosia morbosa, ci stava aspettando nell’androne del nostro palazzo. Era stato avvistato poche ore prima intorno alla scuola armeggiare con qualcosa, fortemente nervoso. Così perlomeno dalla finestra della nostra aula lo avevano descritto e riconosciuto. Un passaparola fra compagni, un po’ allarmati, soprattutto quelli che conoscevano la storia. Mia ne aveva parlato molto con me e con qualche amico già 33


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in precedenza. Da settimane la seguiva senza lasciarle scampo e respiro. Ce lo ritrovavamo dappertutto. Probabilmente sospettava che mia sorella avesse una nuova relazione con un altro ragazzo. Così scegliemmo di andare a pranzare al mare quel giorno, a Mondello. I nostri compagni non vollero lasciarci da sole e proposero di riaccompagnarci loro poi. Dissi quindi a nostra nonna di andare a fare la spesa tranquillamente e che saremmo tornate più tardi. Avvertimmo nostro fratello che in quel momento era in casa. Mia gli spiegò più nei dettagli qualcosa che non aveva detto a chiare lettere in famiglia, siamo state sempre molto riservate nelle nostre questioni personali: aveva avuto una piccola storia con lui ma ora non ne voleva più sapere e desiderava essere lasciata in pace. Accertandosi della situazione, mio fratello si accorse che Emanuele era in effetti sotto casa, si occupò dunque di chiamare i carabinieri per farlo allontanare. Della presenza di Emanuele che si aggirava ripetutamente nei paraggi si era accorta anche una vicina che rientrava dal supermarket confinante con la palazzina. Più volte aveva visto il ragazzo circolare lì intorno anche in giornate precedenti. Anche il personale del supermercato lo aveva notato perché più o meno si imparano a riconoscere le facce dei clienti che giornalmente frequentano un posto. Successivamente mia sorella chiese un ammonimento del questore, per sentirsi di nuovo completamente padrona della propria vita. Si sentono spesso sprecare parole sulla libertà. Non so a quanti davvero ne sia chiaro il concetto primario, il vero significato primordiale che dovrebbe essere cucito sulle nostre coscienze alla nascita. Libertà è non oltrepassare mai il limite fra ciò che si vuole per sé e cosa invece invade la volontà degli altri. Libertà è diritto di reinventarsi la propria vita, persino le volte che ci sfugge dalle mani ma non di prendersi fra le mani la vita di un altro che vuole fuggire. All’inizio si danno spiegazioni e lei ne aveva date. Chi non vuole ascoltare tuttavia non capisce, perché mi sono accorta che si comprende solo ciò che spesso per comodo si desidera comprendere e alla fine dare spiegazioni stanca, sfianca ed è così che tutto si affievolisce, quando di fiato non ce n’è più 34


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e allora ci si allontana. Ci si allontana prima mentalmente. Le persone questo non lo capiscono quasi mai. Poi ci si allontana bruscamente, intimando di non farsi più vedere, perché si arriva davvero all’esasperazione. Mia sorella era andata addirittura dai carabinieri per raccontare che da un po’ riceveva strani messaggi anonimi, telefonate con silenzi più minacciosi delle parole, ma loro le avevano solo consigliato di buttare la vecchia scheda telefonica e prenderne una nuova. «Avrei voluto farlo ragionare, fargli capire, - mi aveva detto che toccare una mente è assai più complicato che toccare un corpo, perché un corpo puoi stringerlo in un letto ma una mente no. Una mente va dove vuole. Quando resta, una mente, vuole darti tutto, vuole darsi davvero. Oltre presenze e assenze, oltre distanze e vicinanze, oltre quello che puoi dire o non dire, fare o non fare. È ubiquamente tua. Sa sorriderti più delle labbra, quando si accorge che non vuoi possederla ma prendertene cura. Possesso è l’esatto contrario del prendersi cura. Ed è questo il miracolo profondo, il senso denso di un vero incontro. Questo l’apice di ogni corrispondenza d’anima. Questo il senso di vera appartenenza. Partire per restare. Viaggiare senza spostarsi ma andare insieme dappertutto. Mantenersi forse sempre un po’ selvatici ma farsi attraversare oltre i limiti dei propri confini. E lasciarsi finalmente contaminare gli occhi da radici felici». Noi siamo scelti dall’amore per amore, nessun altro motivo in mezzo. I sentimenti non si vincono e non si pretendono. Quando scegli una persona è quella che vuoi, si eleva sopra tutto il resto e la risceglieresti ogni giorno. C’è il desiderio di sognare insieme, di costruire progetti comuni, di farli avverare, uno per uno, di abitarsi interni e esterni, come una casa, arredata in due. Un po’ come dirsi: «Ogni giorno sono sempre libero di andarmene ma ogni giorno decido di restare». Amarsi sembra davvero cosa complessa eppure lo straordinario è nelle cose semplici. Il doloroso stupore di vedere una persona che si amava alimentare rabbia e violenza contro di noi ci paralizza. Non c’è niente di peggiore al mondo che dover provare quel frustrante stato di im35


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potenza. Dover difendersi per non arrendersi a situazioni che non vogliamo scegliere. Chissà perché a volte ci giustifichiamo senza alcuna ragione, perché dovremmo essere titolari a pieno diritto dei nostri no, pronunciarli sempre quando vogliamo e le persone dovrebbero accettarlo, senza bisogno di ripercussioni. Non siamo certamente soprammobili in esposizione, oggetti d’arredamento da esibire nelle circostanze della vita. Amarsi semmai è perdere il controllo non desiderio di controllare. C’è una quasi totale assenza di amore per sé e dunque una quasi assenza di amore per l’altro in questo modo malato di voler gestire. Sarà che un conto è supporre dove sia il punto di arrivo da cui ripartire e un conto è arrivarci davvero nel modo migliore. I veri addii scattano nella mente, sono silenziosi. Sono i più veri, i più pericolosi. Sono quelli che tieni per te. E puoi anche continuare a sentirla una persona. Non ti avrà più se l’hai salutata dentro. Ora mi trovo in questa stanza con accanto il nostro gatto e tutti i miei libri. Ogni volta che ho voglia di chiudermi in un piccolo uovo rassicurante accendo il camino, mi siedo sul tappeto con intorno i miei cuscini e leggo un libro nuovo. A volte ne rileggo anche qualcuno che conosco. Guardo la libreria, che ha la forma inconsueta di una chiave di violino. L’ho scelta perché la musica ha la chiave per spalancare porte di rivelazioni. A volte invece accendo la radio, apro una pagina a caso e vi trovo sempre una qualche risposta. La puntualità con la quale rispondono i libri alle nostre richieste interiori credo sia più unica che rara. Sono un pugno di tenerezza in pieno viso. I libri migliorano l’estetica del mondo. La mia casa ha queste ampie vetrate che mi permettono di accorgermi ogni giorno della bellezza della mia città. Questa Palermo sa essere così dolce e così feroce. Eppure m’incanta, mi ha sempre incantato, la amo come si ama la propria famiglia. Perché forse un posto dove nasci e decidi di restare a vivere è anch’esso sembianza d’amore, lo scegliamo e ci risceglie. Mondello è la spiaggia di Palermo. La particolarità di questo luogo è che è frequentato indistintamente in tutte le stagioni. Fra Monte Pellegrino e Monte Gal36


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lo abbraccio la terra che si lascia abbracciare. Wolfgang Goethe d’altronde disse che il Monte Pellegrino è il più bel promontorio del mondo e qui io stringo forte in modo impalpabile il profumo del mare che sprofonda nelle narici e si tuffa a perdifiato nell’essenza della mia vita. L’odore della carta di un libro intrisa dell’odore del mare può creare un profumo di serenità. Una volta un amico mi disse che le donne che leggono sono più sensuali di quelle che sfilano sul lungomare. Hanno negli occhi una luce di rara bellezza. Mi disse che la vera bellezza è sempre tale perché non sa di esserlo. Credo sia vero. Proprio quando non c’è tutta quella calca che la popola nei mesi estivi cerco una panchina per le mie letture. In questo modo ho incontrato mio marito, così per caso, direbbe qualcuno, o perché doveva essere così, direbbe qualcun altro. Si è fermato a parlarmi mentre leggevo. Era autunno ma era ancora vestito leggero, se pure avesse sul collo una sciarpa svolazzante a proteggerlo dal vento. C’è questa dicotomia in questa città. Gli alberi perdono le foglie e Palermo non perde il sole. In tutto il resto d’Italia inizia il freddo e qui si potrebbe ancora camminare a piedi nudi a calpestare le foglie. Mi sembra che le foglie calpestate facciano un suono tutto loro più che un rumore, il suono della vita nel momento in cui perdiamo qualcosa per acquisirne un’altra, il suono di un attimo che si può sentire unicamente in questa breve stagione. «Cosa leggi?», mi ha chiesto. «Milan Kundera - ho risposto -, è in rilettura». E lui ha pronunciato queste parole del libro che sapeva a memoria: «Fare l’amore con una donna e dormire con una donna sono due passioni non solo diverse, ma quasi opposte. L’amore non si manifesta col desiderio di fare l’amore, - desiderio che si applica a una quantità infinita di donne - ma col desiderio di dormire insieme, - desiderio che si applica a un’unica donna». Credo che mi abbia conquistato già lì, guardandomi con quella dolce sicurezza che ha la sincerità, quando si posa addosso come un lieve velo. Esiste una sicurezza dolce che non nasce 37


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LA COLLEZIONE DEGLI ATTIMI Alberto Gherardi

Premessa Yara Gambirasio, tredicenne di Brembate Sopra, un laborioso paese in espansione ai piedi del Monte Linzone e a una dozzina di chilometri da Bergamo, verso le 17,30 di venerdì 28 novembre 2010 esce di casa per recarsi alla palestra del paese, distante poche centinaia di metri. Incontra le amiche della squadra di ginnastica ritmica e consegna loro uno stereo. Alle 18,30 riparte dalla palestra per tornare a casa. Non ci arriverà mai. L’ultimo contatto di Yara con una figura amica è via sms: una compagna di squadra le manda un messaggio pochi minuti dopo la sua uscita dalla palestra e lei le risponde. Poi il suo cellulare aggancia alle 18,49 la cella di Mapello, un paese a due chilometri di distanza. Quando, alle 19,11, la mamma le telefona preoccupata dal ritardo, a rispondere trova soltanto la segreteria. Alle 19,30 i genitori di Yara chiamano i Carabinieri. Partono le ricerche. Da subito si ipotizza un rapimento, ma le testimonianze sono poche e confuse. Ben presto si dimostrano inutili. Una prima ipotesi porta gli inquirenti a un cantiere di Mapello, dove è in costruzione un enorme centro commerciale. È il fiuto dei cani molecolari a condurli lì. Ma l’ipotesi si arena col passare delle ore. Nei giorni successivi, i gruppi di ricerca aumentano. Alle forze dell’ordine si uniscono migliaia di determinati volontari, disposti a prendere le ferie dal lavoro e ad alternarsi, per molte settimane e sotto il coordinamento delle autorità, in un commo45


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vente pattugliamento di massa dell’intero territorio orobico. È in atto la più grande ricerca di una persona scomparsa della recente storia civile italiana. Ma Yara è introvabile, sembra letteralmente svanita nel nulla. Il 4 dicembre 2010, su un traghetto diretto a Tangeri, viene arrestato il muratore marocchino Mohamed Fikri. La sera della scomparsa di Yara si trovava al cantiere di Mapello, e una ambigua intercettazione telefonica parrebbe inchiodarlo. Ma la traduzione delle parole del marocchino viene presto rivalutata e i nuovi traduttori smentiscono la prima versione delle frasi in dialetto da lui pronunciate. Fikri viene dunque rilasciato, anche se resta indagato. Il 26 febbraio 2011, quasi tre mesi dopo la scomparsa, un appassionato di modellismo aereo entra in un campo incolto di Chignolo d’Isola, a una decina di chilometri da Brembate Sopra, per recuperare il suo aeroplanino. E s’imbatte nel corpo di Yara, in avanzato stato di decomposizione. Le analisi di laboratorio stabiliranno che Yara, ferita nove volte da un coltello, è stata condotta nel campo la sera stessa della scomparsa, ed è morta in quelle ore, probabilmente per concausa fra le ferite riportate e l’ipotermia. Quasi fosse un’atroce beffa del destino, si scopre dunque che Yara, a lungo celata dalla neve dell’inverno, è sempre rimasta a poche centinaia di metri dalla sede della Polizia Locale dell’Isola Bergamasca, primo centro di coordinamento delle ricerche. Ulteriori accuratissime analisi di laboratorio eseguite sul corpo e sui vestiti di Yara portano all’individuazione del DNA dell’assassino (nome in codice “Ignoto 1”) e, nei mesi successivi - grazie a un mastodontico lavoro di prelievo di campioni in varie parti d’Italia - all’identificazione del padre biologico di Ignoto 1, tale Giuseppe Guerinoni da Gorno, un paesino di montagna sempre in provincia di Bergamo. Ma anche questa pista si arena: il Guerinoni è infatti morto nel 1999, e il test sul DNA dei suoi tre figli li scagiona senza ombra di dubbio. Gli inquirenti, guidati dal PM Letizia Ruggeri, ipotizzano allora che l’assassino possa es46


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sere un figlio illegittimo di quell’uomo morto. A tutt’oggi questa resta la pista investigativa più battuta e avanzata, ma l’identità o anche solo l’esistenza del figlio illegittimo del Guerinoni è tutta da provare. A due anni e mezzo dalla scomparsa di Yara, Mohamed Fikri continua a risultare l’unico indagato, anche se l’accusa di omicidio si è recentemente modificata in ipotesi di favoreggiamento. Come, e di chi, rimane un mistero. La caccia continua, mentre l’inspiegabile morte di Yara continua a bruciare sottopelle, come una cicatrice mal curata.

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Cima del Monte Linzone (Bg), 1392 metri s.l.m. 20 ottobre 2017 Dicono che l’autunno sia la stagione dei morti, solo perché le foglie e gli uomini si comportano allo stesso modo, seguendo o soffrendo il tiro del vento fino al giorno in cui si staccano e diventano suolo. Ma all’autunno interessa la morte solo perché garantisce il futuro di chi rimane. E così, soprattutto in montagna e nei luoghi appartati, i giorni d’ottobre sanno dare conforto a tutti quelli che, vivendo controvento, hanno molte ferite da curare. I colori del pomeriggio sono pastelli di legno che attenuano le rigature dei ricordi, il cielo ampliato dal vento di caduta suggerisce all’orizzonte nuove prospettive, e la natura che riduce all’osso le pretese mostra il segreto che tiene in vita il domani: rispettare l’inevitabile inverno, rinnovarsi per non desistere, resistere per continuare a esistere. Sono quasi le undici di un giorno ideale per chiunque voglia riprendere in mano la propria vita, e lì, seduta sull’erba smunta in cima al monte che domina la pianura lombarda, c’è una donna che sin dalle prime luci dell’alba sta fissando la porzione d’Italia da cui proviene. È il suo terzo giorno consecutivo passato sul Linzone. Ed è il più bello, perché sino a ieri la foschia e lo smog generati dai campi e dalle cittadine della grande pianura compromettevano il panorama. Oggi, invece, la terra nordica s’è messa a nudo, e il sole autunnale è un amico sincero che accarezza le spalle sciogliendone le tensioni, e così la donna seduta sul prato rilassa la schiena e 49


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il ventre slacciando le braccia che sino a quel momento ha tenuto unite e avvolte attorno alle ginocchia in una posa estatica. Ora la donna poggia i gomiti sull’erba, i lunghi capelli neri le scivolano oltre le orecchie e il collo, le gambe si allungano verso valle e lei, ormai distesa, chiude gli occhi di fronte all’abbaglio della stella diurna, mentre l’intero suo corpo si abbandona alla lusinga di un torpore improvviso che con un sospiro si va trasformando in respiro di sonno. Il suo nome è Floriana. Nel corso degli anni, molte persone le hanno detto che ha un nome bellissimo. Lei ci ha creduto a metà, soprattutto quando a dirglielo è stato un maschio, e non ha mutato la convinzione maturata nell’adolescenza: il suo nome non l’avrebbe mai amato, al massimo l’avrebbe sopportato. Troppo delicato, troppo romantico e quasi da feuilleton per sentirlo suo. Avrebbe desiderato un nome più corazzato, ermetico, adatto ad affrontare il suo carattere schivo, introverso, e anche la particolarità del suo lavoro: l’analisi della morte altrui, lo studio dei dispensatori di morte. La donna che sta dormendo in cima al pendio erboso del Linzone fino a quattro mesi prima è stata Floriana Franceschi, quarantadue anni, una formazione affidata alla Polizia di Stato e una maturazione come criminal profiler freelance, laureata a pieni voti e con specializzazioni varie in psicologia, studio del comportamento umano, patologie criminali, analisi della scena del crimine e altre particolarità inadatte ai puri di cuore. Dopo essere uscita dalla Polizia, è stata per molti anni l’apprezzata consulente di vari organi istituzionali di polizia giudiziaria del Nord Italia, ha lavorato all’estero e su alcuni omicidi dagli importanti risvolti mediatici. Una carriera rilevante e ben remunerata, anche se questo non le è mai interessato granché. Fino a quattro mesi prima, Floriana Franceschi è stata anzitutto un invisibile, implacabile, infaticabile segugio a caccia di innocenze violate, di vite rubate, di domani interrotti spesso per 50


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banalissimi motivi, per somma d’incomprensioni familiari, per capricci dell’attimo e dell’animo. E in tutti quegli anni non ha desiderato altro che risposte alla sua sete inesausta di verità: andare oltre le apparenze e le quasi certezze, scavare all’infinito per comprendere tutte le ragioni dell’odio e del male per dare un senso anche minimo alle già avvenute conseguenze. Non ha mai sentito il bisogno di altro e di altri. La sua sfera privata è rimasta volutamente inesplorata, il richiamo della missione in corso era troppo assordante per permetterle svaghi emotivi, e una missione in corso nella sua vita c’è sempre stata. Oggi, però, quell’implacabile donna segugio non esiste più. La snella figura appisolatasi sul prato panoramico del Linzone è soltanto Floriana, il suo nome lieve non è più una colpa privata perché la sua vita è stata saturata dal dolore e lei se ne è resa conto un secondo prima di soccombere. Floriana ora è un buon nome per scappare dall’antico desiderio di capire il male. Ha lasciato la libera professione e ogni altro incarico lavorativo il dodici giugno duemiladiciassette, dopo aver consegnato agli inquirenti l’ultimo rapporto che si era ripromessa di completare, nonostante fosse stata proprio quella morte terribile contenuta al suo interno, una morte totalmente insensata, ad averle fatto maturare la decisione di chiudere con la professione. La fine atroce di una donna l’ha fatta barcollare. Quella donna era la più importante di tutte le donne del mondo: sua madre. Sua madre era stata uccisa, e a farlo era stato uno dei suoi due figli, quello maschio. Vedendo gli agenti portare via suo fratello, mentre altri coprivano col pietoso lenzuolo sua madre, Floriana per la prima volta si è sentita inutile, smarrita, assurda nel tentativo di affrontare da vicino il mostro che ogni essere umano si porta dentro dalla nascita. La sensazione che tutto fosse definitivamente compromesso non le è più passata. Suo fratello aveva ucciso la loro madre senza un perché, viveva con lei da trentacinque anni e una sera era rincasato e poco dopo l’aveva strangolata. Non ha mai spiegato nulla a nessuno, neppure a Floriana. Sta 51


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aspettando il processo in completo silenzio. Floriana non è più lei, si è guastata dentro. Non sa se è ancora riparabile, non sa neppure se lo vuole. Analizzava da sempre i sintomi del male per aiutare gli altri, e non si era accorta che il suo stesso sangue era già infetto. Una sera d’estate, all’improvviso, ha pensato che la soluzione migliore sarebbe stata quella di andarsene, andarsene del tutto, per non sentire mai più quel sapore di irrefrenabile amarezza per l’umanità che non sa e non vuole conservare le sue creature più fragili: l’amore, l’infanzia, la dolcezza. Ha cercato di contenere il pensiero di farla finita guardando e impugnando la pistola che aveva in casa, e che sino a poche settimane prima usava al tiro a segno. L’arma che aveva in mano era una soluzione semplice e neppure dolorosa. Lei di uccisi e di uccisori ne aveva studiati tanti ed era consapevole che sapendo indirizzare una pistola si può farlo al meglio anche contro la propria vita: serve solo un Bang! e spegni per sempre il cervello senza neppure avvertire un istante di dolore, saluti il mondo in modo istantaneo, il prima è un fulmineo non poi di cui eviti il mortificante anticipo, tutto sommato una morte istantanea non è una fortuna che hanno in molti, di norma i solitari tendono alla lenta agonia. Ma quella sera, per qualche motivo che Floriana non saprebbe spiegare, la pistola non è finita nella sua bocca ed è tornata nel cassetto. E due giorni dopo era squillato il telefono, dall’altro capo c’era Claire, una cugina francese di parte paterna appassionata di volo libero e altri sport estremi. Non la sentiva da mesi. Era a Milano, la voleva vedere. Così si erano incontrate di fronte a una pizza, e la trentaduenne francese le aveva proposto una gita in montagna per la mattina successiva. Voleva battezzare il nuovo innovativo parapendio acquistato in Italia, e aveva bisogno di qualcuno che a bordo del suo pacchiano pick-up americano la accompagnasse nel bergamasco e la recuperasse all’atterraggio. Floriana si era fatta convincere dall’estrosa francese e s’era messa in viaggio con lei per il grande costolone erboso del Monte 52


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Linzone, un posto ideale per tutti quelli che amano staccarsi dalla terra per andare a mozzare il fiato all’aria. Lassù, dopo aver confermato alla cugina il luogo e il tempo del recupero a valle, l’aveva guardata con apprensione spiccare il volo, fissando il paracadute rosso che iniziava a planare lentamente verso la pianura; e aveva percepito per la prima volta la solitudine esposta eppur discreta di quel luogo e la grandiosità della pianura padana spalancata come un urlo di ammirazione, e tutto ciò le aveva fatto sciogliere il nodo immane che da mesi aveva il suo respiro, riempiendosi d’aria montana aveva recuperato un po’ di corda dal pozzo dei polmoni, e così mentre scendeva il lungo sentiero che riportava alla macchina, dentro sé aveva pensato che non sarebbe mai riuscita a spiccare il volo come Claire, ma al tempo stesso sapeva che lassù sul monte sarebbe ritornata presto, e ci sarebbe tornata da sola, al massimo con Body, perché camminare da soli sopra le cose passate è un inizio di volo libero. Floriana ora dorme in pieno giorno sul vasto pascolo inclinato del monte Linzone, poco sotto la cima e a una cinquantina di metri dalla tenda che ha piantato due giorni prima su una zolla di terreno pianeggiante. I suoi sensi sono assopiti, soltanto le palpebre stanno montando la guardia, mentre gli occhi rintanati sotto il loro orlo proiettano immagini a circuito chiuso per lo spettacolo di un sogno che non verrà ricordato. Poi però succede che l’ombra proiettata da uno stormo che sta andando a svernare al sud le transiti sul viso rilassato, e lo oscuri per un istante facendo così scattare l’allarme delle palpebre. Gli occhi di Floriana si spalancano all’improvviso, il busto si solleva come una tagliola. L’espressione del suo viso è ora tesa, spaventata. Floriana si scherma gli occhi per fermare l’aggressione del sole. La sua mente è confusa dalla stizza del sonno interrotto, e la causa del risveglio improvviso è ancora ignota, pericolosa, nemica. Avverte una presenza alle sue spalle, il suo cuore sobbalza. 53


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MAMMA Alessandro Greco

Premessa Carmela Rea, detta Melania, 29 anni, è scomparsa intorno alle 15 del 18 aprile 2011 sul Colle San Marco di Ascoli Piceno, dov’era andata per trascorrere qualche ora all’aria aperta insieme al marito, Salvatore, militare di carriera al 235esimo Reggimento Piceno, e alla loro bambina Vittoria, di 18 mesi. Stando al racconto del marito, si sarebbe allontanata per recarsi alla toilette di uno degli chalet di zona, ma i gestori non l’hanno mai vista entrare, circostanza confermata dalle telecamere installate fuori della struttura. Sono scattate così le ricerche di Carabinieri, Polizia, Vigili del fuoco, Vigili urbani, Soccorso Alpino e Corpo Forestale dello Stato, accompagnati anche da unità cinofile. Il corpo senza vita di Melania è stato scoperto il 20 pomeriggio in seguito alla telefonata anonima di un uomo che quel giorno stesso, intorno alle 14:30 - 15:00, ha avvertito il 113 da una cabina telefonica pubblica del centro di Teramo. La salma è stata ritrovata a Ripe di Civitella, nel comune di Civitella del Tronto (Teramo), a circa 18 chilometri di distanza da Colle San Marco. Una zona boscosa, a qualche centinaio di metri da una deviazione lungo la strada provinciale 35 che collega la provincia di Teramo a quella di Ascoli, e nei pressi di una località chiamata Casermette, dove si svolgono esercitazioni militari di tiro. Una zona troppo lontana dal pianoro dov’era scomparsa la donna per ipotizzare che ci sia arrivata da sola. 73


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Melania è stata uccisa con trentacinque coltellate, soprattutto sul tronco e sul collo. Non ci sono segni di strangolamento e nemmeno di violenza sessuale. Una siringa trovata conficcata sul corpo non è stata determinante per il decesso. Una delle ferite alla gola è profonda, altre sono arrivate in profondità a ledere organi interni. L’anatomopatologo fa risalire la morte al periodo di tempo tra le ore 24 del 18 aprile e le 3 del giorno dopo, quindi, 9-12 ore dopo la denuncia della scomparsa. L’omicidio è avvenuto in un luogo diverso da quello in cui è stato ritrovato il cadavere. I Ris compiranno gli esami tossicologici sia sul liquido contenuto nella siringa sia su eventuali tracce organiche trovate sul cadavere. Carmela Rea non sarebbe stata legata e questo induce a credere che possa essere stata narcotizzata e poi uccisa. Accanto al corpo è stato rinvenuto il cellulare con la batteria scarica. È stata ritrovata un’altra sim card della quale il marito non sarebbe stato a conoscenza. Il segnale del cellulare sarebbe stato attivo fino alle 19 circa, orario fino al quale potrebbe fornire indizi sugli spostamenti della donna. Il marito, Caporal Maggiore dell’esercito Salvatore Parolisi è stato condannato dal Gup di Teramo Marina Tommolini all’ergastolo per aver ucciso la moglie Melania Rea con 35 coltellate il 18 aprile del 2011. A Parolisi sono state comminate tutte le sanzioni accessorie, dall’interdizione perpetua dai pubblici uffici alla perdita della patria potestà genitoriale. “La famiglia Rea è soddisfatta perché Melania ha avuto giustizia ma il nostro cuore è straziato. Non ci sono vincitori perché ad essere stato condannato è stato il marito di mia sorella e il padre della piccola Vittoria”, ha dichiarato Michele Rea.

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Ci sono giorni che finiscono anni dopo. Ci sono giorni che finiscono anni dopo, e ci sono una madre e una figlia su un’altalena, il 18 aprile del 2026, in un posto che si chiama Colle San Marco. Che sono madre e figlia lo capirebbe anche un alieno passato per caso dalle parti di Ripa di Civitella. Sono entrambe molto belle, lo specchio deformante l’una dell’altra. Stefania è la versione adulta e più rotonda di Vanessa. Vanessa è la versione più magra e – ancora per poco – minorenne di Stefania. C’è un cielo che sembra dipinto, di quei cieli con le nuvole dai bordi definiti, stagliate in modo netto e preciso contro l’azzurro. Le nuvole si muovono rapide spinte dal vento, lo stesso vento che muove l’erba intorno all’altalena. Il vento è tiepido e primaverile, a cavallo tra l’inverno ormai passato e un’estate che ancora è lontana. Il vento della stagione di mezzo. Madre e figlia, sull’altalena, parlano. “Perché mi hai portata qui, mamma?” Non tornavo qui da quindici anni, dice la madre. Quindici anni, Vanessa. Sai quanti sogni si fanno, in quindici anni? Quanti sogni e quanti incubi. Ho fatto migliaia di sogni. E ho avuto migliaia di incubi. E quando chiudevo gli occhi tornava sempre, sempre quest’altalena. Questo colle. Questo posto. 75


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Pensavo che fosse ora di venirci da sveglia. E di venirci con te. Tuo padre ti spingeva su quest’altalena. Avevi un anno e mezzo. C’è un filmino di quella giornata. Sembravamo una famiglia felice. Una coppia felice. Non lo eravamo. Nei sogni che faccio, i sogni belli, i sogni che non fanno paura, siamo proprio come in quella giornata. Tuo padre che ti spinge sull’altalena. Io che sorrido. Tu che sorridi. Lui che sorride. Ma nel sogno siamo felici davvero, Vanessa. Non per finta. Davvero. Non c’è quell’altra donna. Non ci sono le liti. Non ci sono le urla. Non c’è un messaggio sullo schermo di un cellulare, un messaggio che sembra fatto di sangue e di acido e fuoco per quanto fa male... Nel sogno siamo felici sul serio. Gli incubi sono un’altra cosa. Gli incubi sono lunghissimi. Sai quegli incubi in cui tutto quello che stai vivendo sembra durare ore e ore? In realtà magari stai dormendo da pochissimo, ma il tempo si dilata e si deforma, nei sogni. L’ho letto su una rivista. Un sogno che dura qualche minuto appena sembra andare avanti da ore e ore. Quello è l’incubo. Quello è l’incubo in cui tuo padre ha mantenuto la promessa. E mi ha uccisa. Non guardarmi così. Te l’ho detto, è un incubo. Non è mai successo. 76


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Se ne sarebbe stato capace? No, no, non posso crederlo. Ho amato tuo padre. L’ho amato tantissimo. Alla fine, sì, avevo paura di lui, dopo quello che ha detto, ma uccidere… no, non posso crederci sul serio. Anche se l’incubo è così chiaro, così preciso… è come se ci fosse un’altra me, un’altra versione di me che si è staccata dal mio corpo ed è morta, quel giorno, in quel modo… Sai? Poco dopo aver lasciato tuo padre, ho passato un periodo talmente triste… La sera ti mettevo a letto, cercavo di dormire, ma continuavo a pensare, e a pensare, e tutto mi sembrava buio e nero. E allora mi alzavo, andavo davanti alla televisione, e guardavo qualunque film mi capitasse davanti. E una volta ho visto Sliding doors. L’hai mai visto? C’era questa attrice, Gwyneth Paltrow, anche adesso è una bella donna, fa sempre questi ruoli della madre divorziata o depressa o alcolista, o della nonna giovanile e ancora piacente. Bè, allora era giovane davvero. E c’è questo film in cui lei sta correndo a prendere un treno della metropolitana, e le porte si stanno chiudendo, e lei si affretta per riuscire a entrare. E qui il film si sdoppia. Cioè, lei si sdoppia. C’è una Gwyneth Paltrow che riesce a prendere il treno per una frazione di secondo. E un’altra che lo perde per una frazione di secondo. La prima arriva a casa in anticipo, e trova il suo fidanzato a letto con un’altra donna. La seconda, invece, no. La seconda arriva quando l’altra donna se n’è già andata, non scopre niente, non sospetta niente. La prima lascia il fidanzato. La seconda, invece, no. Le loro vite cambiano completamente. Succedono cose differenti. Fanno cose differenti. Una delle due muore. 77


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L’altra, vive. Ecco: quando ho quegli incubi, è come se io fossi la donna che è sopravvissuta. E vedo la vita dell’altra donna. Che invece è morta. Tu avevi un anno e mezzo, Vanessa. Dormivi in macchina. Io e tuo padre eravamo dietro il capanno di legno, e facevamo l’amore. Non ti scandalizzi, vero? Non ti dà fastidio. “No, mamma, stai tranquilla.” Bene. Perché quello è il giorno in cui tutto è crollato del tutto. In cui tutto il mio mondo è crollato. In cui tutto il mio sogno è crollato. Io non ho mai avuto i sogni che hai tu, amore mio. Tu fai bene a sognare di fare l’artista, di dipingere, e poi sei brava. Sei così brava. Eri brava anche da piccola, quando prendevi un foglio bianco e in un attimo lo trasformavi in una famiglia felice davanti a una bella casetta, o in un papà sorridente davanti alla sua macchina. Sì, io lo so che diventerai una pittrice famosa. Io non li avevo, quei sogni. Io avevo il sogno più semplice di tutti: un uomo che mi proteggesse e mi amasse. Punto. Che mi facesse sentire al sicuro, sempre, senza smettere mai di essere dolce. E che mi regalasse una famiglia. Dei figli. Una casa. Sì, gli uomini mi hanno sempre guardata. Sono sempre stata bella, da giovane e adesso che ho quasi cinquantanni mi pento di non essermi piaciuta. Mi vedevo brutta, grassa. Ero bella, si voltavano tutti a guardarmi, ma io mi vedevo bruttissima. Una donna, Vanessa, può anche vedersi bella nel riflesso dello sguardo degli uomini e trovarsi orrenda nel tuo specchio. Gli uomini possono farti tutti i complimenti che vogliono, ma non ti faranno mai sentire sicura, se lo specchio riflette un mostro obeso. 78


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E ogni volta che un uomo smette di guardarti come si guardano gli innamorati nei film, ogni volta che ti sembra assente, ogni volta che smette di farti sembrare bellissima, tu, dentro di te, pensi: ecco, è perché sono ingrassata, perché ha smesso di guardarmi con gli occhi dell’amore e mi vede per il mostro che sono, finalmente si è accorto di quanto sono brutta, in realtà. Il momento in cui pensi: è inutile che mi trucchi, che mi vesta bene, che faccia la carina, che sia fantastica a letto. Mi ha smascherata. E quello è il momento in cui gli uomini cominciano a cercare le altre donne. Le troie. Papà mi ha tradito. Mi ha tradito tante volte. Mi ha presa in giro, mi ha mentito, ma non gli ho creduto. Poi però l’ho scoperto. E ho capito. Ho capito figlia mia, che un tradimento non è mai la causa della fine di una relazione. Il tradimento è la conseguenza di una relazione già spaccata. Nella spaccature qualcuno si insinua, ma a letto con quel qualcuno sono in due. E a letto con quella lì, c’ero anch’io. Ma non ho ceduto. Ho lottato. Ho difeso la mia famiglia con i denti. Il mio amore, con i denti. Ho chiamato quella donna. Le ho telefonato. Ti spacco la faccia, le ho detto, se non lasci in pace mio marito. Sì, le ho detto così. Perché credevo lui volesse essere lasciato in pace. Invece... “Ma mamma, non è così importante, la fedeltà. Le mie amiche cambiano fidanzato ogni tre giorni! Alcune hanno quattro o cinque fidanzati…” Sì, ma la fedeltà non è affatto non dare il corpo ad altri. O meglio, non solo. La fedeltà è ben altro. 79


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QUI NON È HOLLYWOOD Andrea Malabaila

Premessa Sarah Scazzi aveva quindici anni, era una ragazza timida e schiva, aveva finito il primo anno delle superiori e viveva con la madre ad Avetrana, in provincia di Taranto. Il 26 agosto 2010 doveva andare al mare con la cugina Sabrina Misseri, a cui era molto legata, ma una volta uscita di casa si perde ogni sua traccia. La madre denuncia immediatamente la sua scomparsa e la vicenda assume un grosso rilievo mediatico. Il 29 settembre viene ritrovato il cellulare di Sarah semibruciato in un campo vicino alla sua abitazione. Il 6 ottobre lo zio Michele Misseri, dopo un interrogatorio di nove ore, confessa l’omicidio di Sarah e indica il luogo dove ha nascosto il cadavere. La notizia del suo ritrovamento viene data in diretta nella trasmissione televisiva Chi l’ha visto?, dove è ospite in collegamento la madre di Sarah. Successivamente lo zio Michele cambia più volte la versione dei fatti, contraddicendosi e rendendo chiaro agli inquirenti di aver avuto un ruolo nell’occultamento del cadavere ma non nell’omicidio. Le accuse si spostano su Sabrina e sulla zia Cosima Serrano. Il movente: la gelosia di Sabrina nei confronti di Sarah e del suo rapporto speciale con un ragazzo all’epoca ventisettenne, Ivano Russo, con cui Sabrina aveva avuto una fugace relazione e di cui era ossessionata. Il 10 gennaio 2012 si apre il processo davanti alla Corte d’Assise di Taranto. Attualmente sono sotto processo la cugina Sabrina con l’accusa di omicidio volontario, la zia Co85


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sima con l’accusa di concorso in omicidio e lo zio Michele con l’accusa di soppressione di cadavere. Il Comune di Avetrana si è costituito parte civile. Il 20 aprile 2013 la Corte d’Assise di Taranto condanna all’ergastolo Sabrina Misseri e Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. Michele Misseri invece viene condannato a otto anni per concorso in soppressione di cadavere. Per lo stesso reato vengono inflitti sei anni ciascuno a Carmine Misseri e Cosimo Cosma, rispettivamente fratello e nipote di Michele Misseri.

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Isn’t anyone tryin to find me? Won’t someone please take me home It’s a damn cold night Trying to figure out this life Won’t you take me by the hand Take me somewhere new I don’t know who you are But I... I’m with you (Avril Lavigne, I’m With You) Chiara si era svegliata con un brutto presentimento. Forse era solo colpa del rumore del trapano che l’aveva buttata giù dal letto con la testa che sembrava scoppiare. O forse c’entrava la serata trascorsa in birreria con la cugina Sabina e l’amica di lei Angela. Una serata come tante, una Red Bull veloce e poi subito a casa. Ma durante il tragitto Sabina l’aveva attaccata per la sua amicizia con Cristiano. «Hai solo quindici anni» le aveva detto con la sua solita aria di rimprovero. E Chiara aveva risposto: «Lo so quanti anni ho, grazie». «Cristiano ne ha ventisette, è troppo grande per te». «È solo un amico». Chissà perché si era fissata che tra di loro ci fosse qualcosa di più. Figuriamoci. Cristiano la considerava una bambina, come tutti, anche se era l’unico che non glielo faceva pesare e anzi sembrava ascoltarla. «Quando c’è lui non consideri più nessuno» aveva continuato Sabina. «Passi troppo, troppo tempo con lui». 87


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«E ti credo! Almeno lui mi coccola! Se fossi più grande...» «Devi smetterla di vederlo. Non sta bene che voi due vi frequentiate e tantomeno quello che ti stai mettendo in testa». Stavano passando di fronte al muro su cui qualcuno aveva scritto QUI NON È HOLLYWOOD. Chiara aveva lanciato uno sguardo su quella scritta che ben conosceva e aveva detto: «Tanto un giorno me ne andrò di qui. Lascerò Avetrana e diventerò famosa». «Nessuno lascia mai questo posto». Avetrana: più che un vero paese, un agglomerato di ottomila persone e di vicoli inestricabili, lontano dalla vita e da tutto – Taranto, Lecce e Bari distano cinquanta chilometri. «Mio fratello e mio papà l’hanno fatto». Avevano trovato lavoro al Nord e le mancavano da pazzi. «E lo farò anch’io, vedrai». «Come vuoi, come vuoi» non l’ascoltava già più. «Ma intanto comportati da ragazza perbene e...» «Smettila di dirmi quello che devo e non devo fare. Non sei mia madre!» «Ma sono pur sempre tua cugina e ho sette anni più di te». «Comincerò a darti del voi». «Non sei spiritosa». «Nemmeno tu». Poi, fulminata da un’idea: «Non è che sei gelosa di Cristiano? Ti piace?» Sapeva che a lui Sabina non dispiaceva, anche se non aveva mai capito se lo dicesse soltanto per carineria oppure per davvero. «Non sono affari tuoi». «Ti piace». Sabina allora aveva minacciato di darle una sberla. Capitava spesso. Anche se in fondo Chiara la riteneva la sua migliore amica – perché di amiche vere non ne aveva – era indubbio che tra di loro ci fosse un rapporto sbilanciato. Sabina era più grande di lei, più alta, più grossa, si riteneva in diritto di sgridarla e trattarla come un essere inferiore. Chiara era la sua nemesi: piccolina – un 88


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metro e cinquantotto per quaranta chili scarsi –, biondina, con l’aria spaurita e indifesa di chi sembra più giovane della sua età. Avrebbe dato qualsiasi cosa per crescere, superare l’adolescenza, togliersi di dosso quell’aspetto da bambina. Essere presa sul serio, finalmente. E così Chiara era tornata a casa col sapore amaro di una serata storta. Aveva annotato qualcosa sul suo diario, poi l’aveva sfogliato un po’. Faceva sempre un certo effetto rileggersi, perché si ritrovavano sensazioni e pensieri dimenticati. In una pagina campeggiava un cuore e dentro il cuore la scritta CRISTIANO TI VOGLIO BENE. Già, che gli volesse bene era indubbio, ma era solo bene il suo o c’era qualcosa di più? Le venne il dubbio di essersela presa con Sabina perché l’aveva punta sul vivo, su cose che lei non voleva ammettere nemmeno a se stessa. Eppure, anche se avesse provato qualcosa di più, che sarebbe cambiato? Lei sarebbe rimasta tale e quale, una bambina senza tette – a dire il vero sua cugina le aveva regalato il suo primo reggiseno, ma era più che altro un investimento per il futuro – e Cristiano un giovane uomo interessato a ben altra merce. Sprofondò la testa nel cuscino e si mise a piangere. Perché crescere era così complicato? Perché non si poteva fare da un giorno all’altro, senza traumi? Era tutto tremendamente difficile e lei non aveva un’amica vera e nemmeno suo fratello per confidarsi. Le rimaneva solo Avril Lavigne, incollata su tutti i muri. Lei sì che ce l’aveva fatta, e dire che anche lei sembrava una ragazzina bionda e minuta, una vittima designata! E invece era diventata un mito, bellissima, bravissima, con l’aria da dura. I testi delle canzoni di Avril li aveva ricopiati ovunque: nei diari, nei fogli impilati nei cassetti del comodino vicino al letto, sulla sua pagina di Facebook. Complicated era la sua canzone preferita. Forse perché anche lei si sentiva complicata, un mistero su cui nessuno aveva voglia di indagare. Per fortuna almeno era estate e non c’era scuola. Il giorno dopo sarebbe andata al mare con Sabina, magari avrebbero fatto 89


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pace e poi si sarebbero messe a ridere come due vere amiche. Era già successo altre volte, ma la Red Bull unita alla discussione di poco prima le dava una strana eccitazione. Non aveva sonno e non aveva nemmeno voglia di andare al mare con Sabina. Rimase per un tempo lunghissimo – ore, forse – a fissare i peluche di quand’era bambina e i poster di Avril, di Marilyn Manson, dei Green Day e di Dirty Dancing. Quel film la faceva sognare e lo rivedeva continuamente. Chissà se un giorno anche lei, come la protagonista Baby, avrebbe trovato qualcuno che la difendesse e la amasse e la facesse volare in alto in uno scatenato mambo. Cristiano no, non ce lo vedeva nella parte, era sempre troppo serio e posato. Però era gentile e questo valeva più di qualsiasi movimento di bacino. Si addormentò con questi pensieri confusi e si svegliò col rumore del trapano. Faceva un caldo infernale e si sentiva la pelle appiccicosa. Era il 26 agosto 2010. Si mise una maglietta rosa, dei pantaloncini rosa e le infradito. Forse non era ancora pronta ad essere una vera ribelle come Avril. Le uniche concessioni al dark erano uno smalto nero per le unghie e un rossetto molto scuro. Ma le volte che si era truccata così, aveva dovuto subire le ramanzine della madre che le aveva detto di lavarsi subito. Sua madre era un po’ reazionaria e aveva cercato di inculcarle tutte le sue idee e il suo impegno come testimone di Geova. Su certe cose, poi, era proprio fanatica. Il computer secondo lei era il Male e a casa sua non lo voleva. Chiara era costretta a servirsi di quello della biblioteca, cosa che la faceva sentire ulteriormente disadattata rispetto alle sue coetanee. Passava interi pomeriggi in biblioteca, a chattare e a scrivere su Facebook. A volte usava anche la webcam, ma solo quando era truccata. La mattinata trascorse tra la noia, il mal di testa e il malumore. Chiara cercava di immaginarsi la giornata che avrebbe passato al mare – quasi di sicuro a San Pietro Specchiarica – con Sabina e 90


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Angela. C’era il sole, forse si sarebbe divertita e le sarebbero passati i cattivi pensieri. Di certo, una volta uscita di casa, avrebbe messo su il sorriso d’ordinanza. La gente doveva pensare che lei fosse una ragazza allegra, ma come aveva scritto Jim Morrison e come aveva riscritto lei di suo pugno su un poster ESSERE ALLEGRI NON SIGNIFICA ESSERE FELICI. SPESSO SI RIDE E SPESSO SI SCHERZA PER DIMENTICARE, SE SI HA VOGLIA DI PIANGERE. Dopo pranzo Chiara fece per uscire, ma sua madre la fermò. «Hai messo a posto la tua camera?» «Mamma, sono in vacanza e...». «Se non metti tutto a posto, niente mare». «Lo faccio quando torno». «Lo fai adesso». «Ma cosa cambia!» Solo con sua madre si permetteva di alzare la voce, ma gli effetti erano comunque scarsi. «Non farmi arrabbiare, lo sai che c’è un mucchio da fare e che devi darmi una mano». «Sei cattiva!» le urlò, poi tornò in camera sua, col mal di testa che pompava forte e la sensazione che avrebbe ceduto un’altra volta. Nessuno che le volesse bene, nessuno. Rifece il letto e mise in ordine alla bell’e meglio, in modo che sua madre non avesse niente da ridire. Poi prese lo zainetto nero e ci infilò dentro un telo da mare. «Vado» disse in modo indifferente. «Non tornare tardi» rispose la madre. Avesse potuto, non sarebbe proprio tornata. Passò tra le case basse e le strade di pietra, che a quell’ora – le due del pomeriggio – erano deserte. La casa di Sabina era a quattrocento metri e a ogni passo Chiara sentiva crescere un po’ l’agitazione: come si sarebbero salutate? Avrebbero continuato a litigare come la sera prima? Maledetti sensi di colpa. Possibile che si sentisse sempre in difetto con tutti, anche quando aveva ragione? Era come a scuola 91


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MERITO DI PIÙ Carmine Monaco

Premessa Simonetta Cesaroni è stata uccisa a Roma, il 7 agosto 1990, ai suoi ultimi giorni di lavoro prima delle vacanze estive, nella sede dell’Associazione Italiana Ostelli della Gioventù, in via Carlo Poma, 2. Aveva solo vent’anni. Un delitto orrendo del quale sono accusati prima il portiere della palazzina, Pietrino Vanacore, poi Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare Valle, che viveva nello stabile da lui stesso disegnato negli anni Trenta, e infine Raniero Busco, all’epoca fidanzata della vittima. Un caso fitto di misteri, reso inestricabile da errori investigativi tali da pregiudicare la cattura dell’assassino. Qualcuno ha ripulito la scena del delitto dal sangue della vittima e da quello dell’aggressore: la presenza di sangue è troppo scarsa rispetto alle ferite inferte da ventinove coltellate, e sul telefono, sulla maniglia della porta d’ingresso della presunta stanza del delitto e nell’ascensore vi sono tracce di sangue con un dna incompatibile sia con quello di Simonetta sia con quello di Raniero Busco. Ben quattro portieri sono presenti per tutto il pomeriggio nel cortile comune su cui danno i portoni d’ingresso delle sei palazzine: nessuno ha visto entrare né uscire l’assassino. Solo uno di essi si è allontanato dal cortile tra le 17,30 e le 18,30, orario dell’omicidio: Pietrino Vanacore, che sarà però scagionato sia nel 1995 sia nel 2009, ma a tal punto esasperato, o spaventato, dal dover soltanto testimoniare nel processo del 2010, che vedeva Raniero Busco quale unico 103


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indagato, da suicidarsi prima della sua deposizione, gettandosi in mare dopo essersi legato un piede a un albero, poco lontano dalla sua casa di Torricella. Alcuni indumenti di Simonetta, rispuntati fuori dal cassetto di un medico legale dopo decenni, avevano dato luogo al processo da cui Raniero Busco uscirà assolto per non aver commesso il fatto. Il vero assassino non ha mai pagato per il suo crimine. O per i suoi crimini.

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In fondo dovrei ringraziarlo. Se sono stata capace di ribellarmi anche questa volta alla mancanza di amore e all’indifferenza della persona che amo, lo devo a lui, alla palestra di vita che ha rappresentato per me. Quando l’ho rivisto, mentre viaggiavo in autobus qualche mese fa, quasi non lo riconoscevo. Ero sul 63, all’altezza di piazzale Flaminio, tenevo la testa appoggiata al vetro, che è una cosa che mi ripugna molto, a pensarci, ma a volte mi capita di farlo senza volerlo, quando sono profondamente immersa nei miei pensieri. Lui è apparso come un riverbero nel vetro unto, una specie di fantasma che camminava al contrario, mescolandosi alle auto in marcia, ai riflessi degli alberi e delle colonne di Villa Borghese mentre scendeva dal marciapiedi, in direzione del Lungotevere. Un ologramma sbiadito, dai contorni tremolanti. Mi sono voltata ed era lì in basso, in direzione opposta, a pochi metri da me. Non lo vedevo da più di vent’anni. Magro, forse troppo, pochi capelli, il colorito pallido, lo sguardo meno vivo di allora, ma ancora animato da quella scintilla di autoreferenziale solitudine, di quella egoistica prospettiva personale che gli faceva vedere le cose unicamente dal suo punto di vista e lo rendeva incapace di amare. O almeno di amare me. Ho alzato la mano d’istinto, come per salutarlo o attrarne l’attenzione ma poi l’ho visto andare verso una donna con un cappotto rosso che teneva per mano due bambini piccoli, un maschio e una femmina, e l’ho lasciata lì, sospesa, vicino al vetro. Lo attendevano davanti a un negozio di arredamenti, lui li ha salutati con un bacio ciascuno e poi ha dato a lei un bacio sulle labbra. Sembrava molto innamorato, soprattutto dei bambini. Erano belli. Sì, in fondo era soltanto questo il problema: non mi amava. Io sì, lo amavo, 105


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e pure tanto, anche se ora mi chiedo, come capita a quasi tutte quelle che finalmente hanno smesso di amare qualcuno che non le ricambiava e magari non le meritava, come ho potuto amarlo così? Ho scostato la mano dal vetro e mi sono voltata di nuovo a guardare la nuca del passeggero che mi stava davanti, nel senso di marcia dell’autobus, lasciandomi alle spalle riflessi e pensieri, ma con un senso di amarezza nel cuore. In quel momento pensai: «Possibile che vederlo con un’altra donna, quasi certamente la moglie e i figli, possa avermi fatto provare della gelosia dopo tanti anni?» Non era gelosia, era tutt’altro, mi ci volle solo un po’ di tempo per capirlo. Scrivere la premessa è stata dura, ma allo stesso tempo semplice. Nella premessa bisogna attenersi ai fatti accertati dalle indagini perché si danno delle “informazioni storiche” ai lettori e bisogna essere precisi. In fondo parliamo di cronaca: «Attenersi ai fatti, evitare le interpretazioni personali». Le interpretazioni, non il coinvolgimento. Si può evitare di interpretare i fatti nello scrivere una premessa, ma non è evitabile in alcun modo il coinvolgimento personale nello scrivere un racconto, qualsiasi esso sia – almeno per me, per il mio carattere. Figurarsi questo. Scrivere questo racconto è tutt’altra cosa. È difficilissimo: forse quello più complicato che abbia mai scritto. L’idea è quella di far stendere a degli uomini delle narrazioni di quei crimini contro le donne – adesso si usa chiamarli “femminicidi”, io li chiamerei più volentieri “crimini contro l’umanità”, anche se il termine “femminicidio” ha una sua storia e una sua sacrosanta ragione di esistere e di essere utilizzato –, che più hanno colpito l’opinione pubblica in questi anni, immaginando però quelle vite integre, non violate, non distrutte dalla violenza omicida. Uomini che narrano vite di donne spezzate da altri uomini, che immaginano e raccontano il loro sviluppo, il proseguimento del loro normale corso, se quel giorno una bestia disumana di sesso maschile non avesse incrociato il cammino di quelle donne. Una storia che istintivamente mi rifiuto di narrare per quasi due mesi (fino quasi alla scadenza dei termini contrattuali), perché qualcosa mi 106


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blocca davanti al monitor: ogni inizio, ogni traccia, ogni percorso, non mi sembrano quelli giusti, butto via o cancello decine di fogli di appunti e almeno due stesure (l’ultima un’ora fa), e in più sento crescere dentro di me un’angoscia che ha, questa sì, un significato ben preciso, contenuto in una domanda: che cosa sto facendo? Il dato di fatto, la realtà, mi dico, è che Simonetta Cesaroni è stata uccisa da un uomo, come migliaia di altre donne, e ognuna di queste morti pone a tutti noi delle domande alle quali proprio noi uomini dobbiamo rispondere per primi: perché tutto ciò è possibile? Perché la nostra società è incapace di fermare questo massacro? Cosa facciamo noi uomini, cosa faccio io, uomo, per impedire che questo accada ancora? In tutta sincerità, non ho una risposta precisa a queste domande e credo che nessun uomo ne abbia realmente una, tanto è vero che la strage di donne continua e aumenta, sull’onda di una violenza cieca che è un problema assolutamente e profondamente maschile, il cui prezzo viene però pagato dalle donne. Sono loro che muoiono. Non so bene come e cosa, perché su questo punto bisogna confrontarsi con gli altri, a partire dagli specialisti fino ad arrivare alle istituzioni, ma so che è arrivato il momento di rispondere noi uomini, da uomini, a questa strage, se ancora si vuole riuscire a dare una connotazione positiva alla parola “uomo”. Ecco perché mi mette in un profondo imbarazzo che si chieda a degli uomini di scrivere storie in cui, di fatto, si negano questi omicidi e si raccontano quelle vite spezzate di donne, come se un altro uomo non le avesse mai uccise; come se la nostra società ancora troppo profondamente intrisa di maschilismo, non le avesse ammazzate più e più volte, prima ancora che lo facesse un marito, un fidanzato, un familiare, un amante, un pazzo qualunque. Vengono uccise, infatti, quando vanno a sporgere denuncia perché, appunto, un marito, un fidanzato, un familiare, un amante, un pazzo, una merda qualsiasi (perché questo siamo, a volte, signori uomini: facciamocene una ragione) diventa troppo ossessivo e violento, al punto di minacciarne le vite, e un rappresentante delle forze dell’ordine dice loro: «Ci ha pensato bene, signora? Guardi che 107


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poi la situazione peggiora». Vengono uccise quando vanno da un avvocato e questo risponde loro: «Signora mia, purtroppo la legge non offre una vera tutela in queste circostanze». Vengono uccise quando si rivolgono alle istituzioni e queste rispondono: «Abbiamo le mani legate! Siamo impotenti! Non abbiamo fondi, né mezzi, né risorse per le case famiglia, lo stato non ci dà i soldi per gli assegni di sostegno, altrimenti...!» Altrimenti cosa? Vengono uccise quando chiedono aiuto e si vedono addirittura fare delle avances da chi invece è pagato da tutti noi per proteggerle, per proteggerci. Alla luce di tutto ciò, se non è catarsi maschile, cos’è questo modo di raccontare quelle vite che quelle donne non hanno avuto per colpa della violenza degli uomini? Cosa vuol dire? E non riesco a scrivere finché continuo a chiedermi se sia giusto raccontare questa storia proprio così, e a non trovare una risposta valida. Rivederlo mi fece ricordare la profonda umiliazione del rapporto a senso unico, la solitudine che la sua compagnia non alleviava ma, al contrario, aumentava, ingigantiva, rendeva senza fine. Sapevo che non mi amava ma non riuscivo a trovare la forza di lasciarlo. Allora ero convinta che fosse qualcosa che capitava soltanto a noi donne, ma poi ho scoperto che succede quando si ama troppo qualcuno e non si ama abbastanza se stessi, e non ha importanza che si sia donne o uomini. Ho conosciuto tanti uomini capaci di soffrire per amore di una donna che non li ricambiava, e la sofferenza, la paura e la solitudine che leggevo nei loro occhi non erano diverse da quelle di noi donne, né lo era la risposta amara a tutto questo. Nel guardarlo camminare con lo sguardo scuro che vagava in giro e il passo incerto, mi tornarono alla mente le parole che scrissi tanto tempo fa a una mia amica. Volevo arrivare a odiarlo, “odiarlo più di quanto lo amavo”, ero disgustata da quel rapporto senza amore, in cui soltanto io davo e lui si limitava a prendere con sufficienza, con noncuranza, come se tutto gli fosse dovuto per chissà quale motivo. Io meritavo di più, io merito di più, allora come oggi, merito qualcosa di vero e di pulito. L’amore è fatto di piccole cose, un sorriso, una carezza. 108


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Invece, con lui le sole cose che ricevevo in cambio del mio amore erano indifferenza e sesso. Per questo volevo odiarlo, ma non ci riuscivo. Perché non era l’odio la risposta, ora lo so. Il disgusto che provavo era forse più per me stessa, per la mia incapacità di cacciarlo dalla mia vita, che per lui. Io sapevo di meritare di più, di meritare l’amore vero, e anche se per chissà quale assurdo motivo non l’avessi meritato, io lo volevo ugualmente: era mio diritto desiderarlo e pretenderlo, perché per me l’amore era, è, e sarà sempre la cosa più importante di tutte! Provavo pure a spiegarglielo, ma lui semplicemente non ci arrivava. Non poteva arrivarci perché o si ama o non si ama, non era colpa sua, ora lo so. Le piccole cose che cercavo, i sorrisi, le carezze, il vivere quotidiano, hanno un senso solo quando hai la persona giusta al tuo fianco e io non l’avevo, e neppure lui, ora lo so. Se non ti ama, la persona che sta con te può darti solo indifferenza e sesso e, se proprio sei fortunata, amicizia, perché altro non ha, e ora lo so. L’amore non s’inventa, se non l’hai dentro, non può apparire dal nulla. Per questo dico che non è stata neppure colpa sua se non mi amava, solo che all’epoca non lo sapevo, soffrivo e mi sentivo addosso tutto il peso di un mondo che sentivo senza amore quando in realtà il mondo è pieno d’amore, solo che io lo volevo dalla persona sbagliata. Così come ora so che quella di mollare tutto e tutti, soprattutto lui... piantare tutto e partire, mandare tutti al diavolo, compreso il mio “senso di responsabilità” e il mio lavoro, ritirare tutti i miei risparmi e andare in vacanza con le mie amiche, fu la decisione più giusta che potessi prendere in quelle giornate di agosto che passavo ad ammuffire tra le carte per un lavoro che non era certo quello che volevo fare davvero. Via, in vacanza, dopo una breve trattativa in agenzia viaggi, acquistare un biglietto, dare un bacio ai genitori, lasciarli di stucco per quello che fu il primo vero colpo di testa della mia vita, prendere un aereo e via: «Nel dubbio, parti!» È la mia formula magica, una formula vincente, sempre. Lo so per esperienza, l’ho usata anche altre volte da allora e non ha fallito mai. Anche adesso, prima di decidermi finalmente a rivolgermi a un avvocato e interrompere 109


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SULLA SOGLIA Alex Pietrogiacomi

Premessa È stata trovata morta Vanessa Scialfa, la ragazza di vent’anni scomparsa martedì pomeriggio a Enna. È stato infatti ritrovato il cadavere di una giovane donna in provincia di Enna e, anche se al momento non trapelano notizie e dettagli dagli inquirenti e manca ancora il riconoscimento ufficiale da parte dei familiari, si tratta proprio della giovane, sparita nel nulla dopo un litigio con il fidanzato. Era stato il convivente giovedì mattina a raccontare agli investigatori di un litigio avvenuto nella mattinata di martedì 24 aprile: nel primo pomeriggio la ragazza si sarebbe allontanata da casa senza avere con sé soldi, documenti e cellulare. La giovane, secondo il racconto del convivente, era scomparsa a poche ore dal litigio. Subito dopo la notizia della sua scomparsa il padre, Giovanni Scialfa, aveva lanciato numerosi appelli sia tramite i social network sia tramire la tv, in particolare al programma “Chi l’ha visto” per ricevere notizie su possibili avvistamenti della figlia. Vanessa era una ragazza normale, tranquilla, non abituata a colpi di testa, almeno stando alla descrizione dei familiari: per questo la notizia della sua scomparsa aveva destato grande preoccupazione nella famiglia che aveva subito fatto scattare le richieste di aiuto. Secondo le prime informazioni riportate dai media locali si sarebbe trattato di omicidio e si parla già di un primo fermato. 127


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L’unica notizia certa è che ora gli inquirenti stanno valutando la versione del fidanzato che ha raccontato del litigio, avvenuto il giorno della scomparsa. Gli investigatori stanno cercando testimoni che abbiano visto la ragazza nel pomeriggio di martedì 24, quando scomparve da casa, ma non ci sono tracce né avvistamenti per cui al momento l’ultimo ad averla vista viva è il convivente. Secondo i familiari Vanessa non si sarebbe allontanata spontaneamente da casa: saranno ora le indagini a dover stabilire la verità sulla sua morte. Il fidanzato confessa: “L’ho uccisa io” Francesco Lo Presti, il convivente di Vanessa Scialfa, la ragazza trovata uccisa ad Enna, ha confessato. Inizialmente aveva dato un’altra versione dei fatti, raccontando che la ragazza si sarebbe allontanata dopo un litigio causato dalla gelosia. Lo Presti è stato sottoposto ad un interrogatorio durato 12 ore e alla fine ha confessato l’omicidio, chiarendo anche i motivi che l’hanno portato a questo atto violento. È stato anche messo in evidenza che Lo Presti dopo l’omicidio avrebbe pensato anche di suicidarsi recandosi a Catania. La relazione fra Vanessa e Francesco aveva dei problemi. Una vicina di casa ha confermato che molte volte i due litigavano e che a volte era stata chiamata anche la polizia. Forte la reazione del padre della ragazza, che ha accusato Lo Presti, dichiarando che avrebbe voluto ucciderlo con le sue stesse mani.

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Quanto respiro serve a una persona per vivere? Certe volte me lo domando. Certe volte credo che ognuno ne abbia una quantità sua, un certo numero di colpi da sparare al giorno, chi più chi meno. E non capisco perché ci possa essere questa distinzione … forse perché qualcuno può vivere in apnea e altri no; forse perché se uno è grosso può tenersene di più dentro – come un magazzino – e andare avanti per parecchio più tempo di chi invece è più piccolino e ha maggior bisogno di aria; forse perché alcuni scelgono di non voler respirare più e si mettono in testa il sacchetto di plastica dei loro pensieri, stando attenti a sigillare bene la base del collo e non se ne importano proprio di quanto hanno consumato o potrebbero consumare. Quanto respiro serve a una persona per vivere? Non lo so e non so che me lo domando a fare. Io non so come funzionano le cose, come va il mondo o meglio, so come va il Mondo. Il mio Mondo. Quello che ho scelto. Quello che abito, spoglio, rivesto, nutro, disseto, mangio e vomito ogni giorno. Il Mondo è un po’ matto e certe volte troppo prepotente. Pensa di essere intoccabile, di essere al di sopra di tutto, anche della vita che si esprime con quel movimento del nostro petto, quel movimento che ci rende tutti uguali, tutti figli di uno stesso cielo. E Lui però smette (e fa smettere): Di essere. Di pensare. Di fare boccate. Di vivere. 129


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Comincia a morire con il sorriso di chi la sa lunga, di chi ha raggiunto uno stato superiore agli altri, dominandoli con uno sguardo carico di pretese, di ordini gridati, di ordini imposti, di ordini che una volta eseguiti richiedono altri ordini da eseguire, una catena che non si rompe. Che non si interrompe. Eppure il Mondo non muore. Non cede di un passo. Sempre presente. Semmai sono gli altri che cadono attorno a lui. Ma come fa? Allora penso che in realtà non smette di respirare, ma ti ruba il respiro in qualche modo, attraverso i pori della sua pelle che quando ti vede ubbidire, come un cane che riporta il bastoncino immediatamente dopo che lo hai pestato un po’ per fargli capire bene come si deve comportare, si dilatano, diventano buchi neri che ingoiano tutto quello che c’è attorno. Tutto quello di tuo che in quel momento vibra nell’aria. Resti malconcia, stanca, arrabbiata con te e con il Mondo che non capisce che non si può essere sempre cuori spezzati con cui giocare come un ciondolo, che ti ricordi di averlo soltanto quando lo tieni sulla pelle e il resto del tempo te lo dimentichi sul cotone delle tue posizioni. Respira quindi! È un ladro. Fa finta di morire, in realtà ti sta derubando. Mi viene da ridere. Oddio, ridere no, sorridere. Sì, mi viene da sorridere, perché tutti questi pensieri, tutte queste pippe mentali me le faccio sempre qui sulla soglia della porta. A metà tra quel “dentro” e quel “fuori” che è la mia vita. “La mia”! Quella di tutti forse, ma che ora è la “mia” perché i pensieri sono i miei, la porta è la mia, la luce che c’è fuori è la mia. Sono qua sospesa sui passi stessi che dovrei fare e quelli che ho fatto in questo tempo, da sola e non e come sempre mi ritrovo a pensare, a fare la “filosofa”. A me il respiro manca, ne ho nostalgia. Non lo so usare ancora troppo bene forse, non riesco ancora ad avere quella proprietà della mia aria: se ne va, torna, accelera, rallenta … ma senza la mia proprietà, senza che io possa scegliere come gestirlo, come farlo muovere dentro di me e con me. Oh, come vorrei farlo muo130


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vere con me. Sentire che quella roba oleosa che mi entra in bocca chiamata aria scivoli dentro e fuori senza ostacoli. Libera. Invece l’unica cosa che riesco a fare è interromperlo il respiro. Lo tengo zitto. Fermo. Dentro. Ancora più dentro. È stretto da una presa forte che non lo fa muovere, che non vuole che resti libero di poter fare come gli pare. Gli interrompo la vita. Mi spiace farlo ma alcune volte è necessario, si deve fare per forza. Perché il Mondo non vuole che il respiro possa essere qualcosa di autonomo, di fresco. Deve essere regolamentato, controllato e se sa di vecchio, di stantio, meglio: perché vuol dire che c’è qualcosa di “solito”, di “abituato” che oramai sa come va il Mondo. Mi parlo di aria pesante quando sono sulla soglia. È buffo, ma poi nemmeno così tanto se ci penso bene: dietro ho la bolla di vetro con la solita aria, davanti ho una bolla più grande ma che magari qualche parte rotta ce l’ha che può permettermi di fare un salto ancora più fuori. Comunque una bolla più grande. Dove passa il vento, si sentono dei profumi di erba, di gente, di “altro”. Dove ci sono loro. Che ti capiscono, non ti capiscono, ci provano o smettono di farlo. Che li abbracci, li stringi, gli batti con i pugni sul petto. Che vorresti non vederli più, sputargli in faccia ogni attimo di tristezza che hai vissuto e che li ami, da pazzi, con tutta te stessa e senza di loro saresti persa. Saresti niente. Perché per quanto si possa essere da soli, loro sono quelli che ti riconoscono ad ogni cambiamento che fai, ad ogni moda che segui, ad ogni attimo che passi a cercare di essere qualcun’altra. Loro ci sono. Sono lì fuori. Nella bolla più grande. Sempre pronti ad apparecchiare la tavola e farti tornare bambina. La loro bambina che cresce e che non smettono di volere felice, anche se spesso non sanno come fare per aiutarla in questo. Con loro il respiro si è fatto grande, per quanto si possa parlare di grandezza alla mia età, quando ti considerano troppo adulta per giocare con i capelli e troppo piccola per poter avere problemi di cui parlare, talmente gravi da dover ricevere la giusta attenzione. 131


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Alla tua età in fondo che ne sai tu che di debiti non ne hai? Che ne sai tu di che vuol dire aver lavorato per una vita senza nessun giusto apprezzamento? Che ne sai tu? Sono domande che vengono fatte. Non sempre magari, ma che prima o poi arrivano, che suonano come frasi ad effetto ma che non lo sono perché nella loro tradizione secolare (sfido chiunque in ogni parte del mondo e in qualsiasi epoca a non averle sentite rivolte a sé stesso o a qualcuno) hanno il rintocco del rimpianto, del bronzo scheggiato, del bronzo che non riesce a vibrare come vorrebbe. Non sono ad effetto perché sono prive di affetti, sono soltanto cariche di rassegnazione, di respiri barcollanti, di affanni sostenuti ogni giorno facendo “buon viso a cattivo gioco”. Indossando una maschera che succhia l’aria per essere gonfiata e galleggiare davanti al volto, per poi essere sgonfiata e riposta la sera, tra le mura di casa. Senza conservarne il prezioso contenuto che è uscito tanto faticosamente dal proprio essere per renderla “viva”. E questo immagino può fiaccare a lungo andare e allora arrivano quelle frasi afone, spreco per spreco, si butta aria per insegnare senza voler apprendere. Pur avendone pretesa. Loro sono specchi di quello che potrei essere, di quello che potrei fare: mi hanno regalato il primo vero respiro in quel giorno e lo hanno fatto con il viso vicino al mio, scambiandoci ogni alito come se fossero baci dati per la prima e l’ultima e la prima e l’ultima volta. Mi guardano sottecchi o come se fossi sotto una lente d’ingrandimento e cercano di allineare i respiri ma non è possibile, perché ognuno dovrebbe avere il suo ed essere rispettato per questo, sentirsi unico nel suo movimento e collettivo nella sua intenzione, nel suo scopo: misurare la propria vita per renderla ogni secondo più preziosa. Tutti loro. La misura di me, la misura di noi, la misura con cui provarsi o a cui appartenere. E la soglia diventa una linea di confine, un punto indistinguibile fatto di tanti punti sparati come chiodi da una sparachiodi. Una linea immaginaria, inconsistente, che è un muro di acciaio duro. Invisibile ma cattivo. Che ti sei ritrovata davanti e che 132


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ti hanno messo davanti. Che lascia imbarazzati in un’immobilità ridicola. Sono tra il “dentro” e il “fuori”. Penso tutte queste cose che non so a cosa mi serviranno mai, a chi serviranno mai. Mi ascolto. Almeno io lo faccio. Ci provo veramente. Perché il Mondo non mi ascolta mai, salvo quando vuole lui e irrigidisce i miei polmoni con i suoi, fino a quando i miei esplodono perché sono palloni che se gonfiati troppo fanno un casino enorme. Si spaccano in mille pezzi. Ma si ricompongono ogni volta, e allora mi ricordo di quel quadro che vidi una volta in cui un’aquila all’uomo gli mangiava il fegato e quando chiesi mi dissero che quell’eroe antico si ritrovava a vederselo ricrescere ogni volta, e ogni volta veniva mangiato dalla stessa aquila. Che è? Una condanna? Un modo per fare capire che cosa si deve fare nella vita, che cosa c’è bisogno di essere per andare avanti? Una specie di ruota a cui mi sono attaccata senza la possibilità di lasciarla per la paura di cadere e che però con il suo girare mi fa altrettanta paura? Perché non si può respirare e basta? Respirare per essere viva dico … non dico completamente libera, ma almeno viva con quel gesto. Per non sentire il peso di questi chiodi che formano la linea della soglia di casa; per avere in mano un martello o una tenaglia fatta di aria e prenderli questi chiodi e tirarli fuori e storcerli completamente e guardarli con gli occhi che si incrociano e buttarli via. Lontani. Sbarre senza sostanza che non fanno uscire o entrare sogni e speranze. Qua, passando il peso da una gamba all’altra, invece mi sembra di essere un compasso a cui è rimasta solo la matita. Giro zoppa cercando un cerchio. Non dico perfetto ma almeno normale. Faccio pensieri per cercarne uno che mi faccia chiarezza e mi faccia agire. Ecco. Il respiro si è interrotto. “Chi pensa troppo respira poco”, me lo devo scrivere da qualche parte, tipo un vecchio proverbio da ricordarsi di usare per fare bella figura e come promemoria 133


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IL RESTO DELLA VITA Paolo Zardi

Premessa Meredith Susanna Cara Kercher (Mez per gli amici), nasce a Southwark, Souht London, il 28 dicembre 1985, da padre inglese e madre indiana. Nell’autunno del 2007 decide di partecipare al progetto Erasmus; si sposta così in Italia, dove inizia a frequentare un corso annuale di storia moderna e storia del cinema presso l’Università di Perugia. Il primo novembre 2007, Meredith viene uccisa in un appartamento con quattro camere, a pian terreno, che divideva con altre tre ragazze, in via della Pergola 7. Una di queste ragazze è l’americana Amanda Knox, che, insieme al fidanzato Raffaele Sollecito e al proprietario di un locale nel quale lavorava saltuariamente Amanda, tale Patrick Lumumba, viene arrestata quattro giorni dopo l’omicidio. A metà novembre, finisce in prigione anche Rudy Guede, un ragazzo ventenne originario della Costa d’Avorio, che, in un processo con rito abbreviato, e a porte chiuse, viene riconosciuto colpevole e condannato, nell’ottobre del 2008, a 30 anni di prigione. Se le accuse contro Lumumba cadono nel giro di qualche settimana (viene liberato il giorno dopo l’arresto di Guene, il 20 novembre del 2007), quelle contro la Knox e Sollecito rimangono in piedi. Il movente non viene individuato con precisione: si parla di riti satanici, di un sex game finito male, di un rifiuto di Meredith a partecipare a un’orgia, di soldi che la Knox ave145


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va rubato a Meredith per pagare droga acquistata da Guede, di uno scatto di rabbia dopo una canna, e, infine, perché viviamo in un’epoca di violenza senza motivo. In primo grado la Knox e Sollecito vengono condannati rispettivamente a 26 e a 25 anni di prigione – la pubblica accusa aveva chiesto l’ergastolo. In secondo grado entrambi vengono assolti per non aver commesso il fatto. Guede, che si è sempre proclamato innocente, e che è l’unico condannato con sentenza definitiva per l’omicidio di Meredith, uscirà di prigione nel 2016. John Kercher, il padre di Meredith, giornalista free lance, ha scritto un libro su sua figlia, i cui proventi sono stati devoluti a una fondazione intitolata a Meredith. L’Università di Perugia ha istituito una borsa di studio per onorare la memoria di Meredith.

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La perturbazione che aveva colpito la Gran Bretagna durante l’ultima settimana si era sciolta contro l’Oceano nelle prime ore del mattino, tenendo in ostaggio la sola Londra che per tutto il giorno era stata sotto il peso massiccio di uno strato di nuvole grigie, un’immensa sciacquatura di piatti; dopo pranzo, il cielo era così scuro da poterlo scambiare per un anticipo della notte. Al telegiornale del mattino avevano detto che c’era nebbia fitta sulla Manica, e gli uomini sopra i cinquant’anni non poterono non pensare a una vecchia battuta che girava tanto tempo prima, quando la Gran Bretagna poteva permettersi di essere superba. Patricia, che aveva passato la mattina girando per negozi in cerca di una giacchetta di velluto da abbinare a un paio di pantaloni rossi ricevuti in regalo, aveva pranzato da sua zia Anandita, che non vedeva da prima dell’estate, e aveva poi passato il pomeriggio con lei. Tre mesi prima, con grande sorpresa di tutti, suo marito, lo zio Ivan, l’aveva lasciata. Da principio aveva addotto, come scusa, una generica crisi dei quarant’anni (anche se, a dire il vero, ne aveva già cinquantacinque), ma torchiato da sua moglie aveva finito per confessare che nella sua vita c’era un’altra donna. Quanti anni ha questa...? gli aveva chiesto con le lacrime agli occhi, così indignata da non riuscire nemmeno a finire la frase. Trentasei, aveva risposto lo zio (mentendo: ne aveva trentuno), che ancora stava cercando di risparmiare un’umiliazione alla donna che aveva sposato tanti anni prima. Lei, allora, aveva iniziato a spaccare tutti i piatti, e poi tutti i bicchieri, compresi quelli che la nonna di Patricia, mamma di Anandita, aveva inviato dall’India per il loro matrimonio; ma nonostante quello spargimento di cocci, alla fine aveva visto la porta di casa chiudersi 147


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dietro le spalle di suo marito, e lei era rimasta dentro, da sola. Dopo tre mesi, non se ne era ancora fatta una ragione. Con il furore di tutti quelli che vengono lasciati, aveva scandagliato la storia del suo rapporto con Ivan alla ricerca di un indizio che le avrebbe consentito di capire per tempo quello che stava succedendo, o più banalmente di svelare la vera natura dell’uomo che aveva sposato. Ripensò agli ammonimenti che un’amica le aveva rivolto con tono ostile quando si era fidanzata, e che lei aveva scambiato per invidia, o gelosia, tanto che alla fine l’aveva depennata dalla lista degli invitati al matrimonio perché “non meritevole” di partecipare alla sua gioia; ripensò ai parenti che le dicevano che avrebbe dovuto scegliersi un fidanzato indiano come loro, perché le differenze prima o poi sarebbero emerse; e ripensò ai sabati sera passati a guardare la televisione con lui, in salotto, sul divano di velluto verde, con Freddie, un bassotto sempre sul punto di morire, che sospirava sul tappeto sognando chissà cosa, e il riverbero azzurrino dello schermo sui loro visi, e ripensò e alle notti in cui lui russava e lei, sveglia, guardava il soffitto della camera, chiedendosi se non fosse arrivato il momento di dargli una nuova tinteggiatura. Quelle indagini, tuttavia, non portarono a nulla, come era logico aspettarsi: il magistrato inquirente, infatti, era anche la vittima, e non c’era stato verso di sanare quell’esemplare conflitto di interessi. Tra i suoi parenti, Patricia godeva della fama, forse immeritata, di essere una persona molto brava ad ascoltare; per questo la zia Anandita, nonostante quando l’aveva invitata si fosse detta che avrebbero parlato solo dell’esperienza italiana di sua nipote – il progetto Erasmus a Pescara (o era Perugia?), e il rientro anticipato –, già a metà della shorba, la zuppa di pollo (servita su un nuovo servizio di piatti), aveva iniziato a raccontare di come avesse saputo da un’amica che il suo ex-marito non era affatto contento della sua nuova sistemazione, e che stava considerando la propria fuga come un tragico errore. “Cosa si aspettava? Non è fatto, lui, per quel tipo di vita”, disse Anandita, continuando a rinviare il momento in cui un cuc148


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chiaio già colmo di zuppa sarebbe entrato nella sua bocca. “Che tipo di vita?” “Quella con una ragazza così giovane: potrebbe essere sua figlia! L’hai vista?” “No, non credo”. Immaginava, tuttavia, le differenze che potevano esserci tra una trentunenne e una donna che aveva superato i cinquanta. “Neanch’io. Ma Ivan ha bisogno di serenità, di pace. Lavora tutto il giorno come un somaro, e quando torna a casa, deve avere la possibilità di riposarsi. Io lo capisco, perché lo conosco da trent’anni, ma lei?” Patricia non sapeva cosa dire. Conosceva quel genere di situazioni – un uomo che, prima di diventare troppo vecchio, e perdere la possibilità di rifarsi una vita, prende al volo l’ultima occasione utile con la speranza di fermare il tempo – le conosceva, quelle storie, ed era sempre stata convinta che non ci fosse molto da fare. Succedeva. C’erano persone che finiscono sotto una macchina, altre che si impiccano, altre ancora che lasciano la moglie per una donna molto più giovane. Suo zio era un tipo simpatico, espansivo, e molto alla mano; a qualche cena di famiglia aveva conosciuto anche i suoi genitori, due tizi tracagnotti scappati dalla Polonia nei primi anni sessanta e che dopo tanto tempo non avevano ancora perso il loro accento slavo, e ricordava la loro sana irruenza così distante dalle buone maniere, che spesso diventavano una sterile affettazione, di sua zia. Era un uomo franco, schietto, ma ciò non toglieva che anche uomini così potessero cambiare idea; in casi come questi, le persone che rimangono non possono fare altro che rassegnarsi, come i fanno i malati di cancro che finiscono sempre per accettare il loro destino. E le amiche che con i loro pettegolezzi senza fondamento riaccendevano la speranza avrebbero dovuto essere condannate a una qualche forma di lavoro socialmente utile: lavare i barboni al Gift of Love, dalle parti della stazione di Lambeth North, o dare una mano nelle mense dei poveri del 999 Club, o raccogliere le cacche delle giraffe allo zoo di Londra, le cui dimensioni l’ave149


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vano impressionata quando da piccola suo papà l’aveva portata a fare un giro da quelle parti. “Ma se torna... Intanto non è detto che io lo riprenda. Non può pensare che io faccia finta che non sia successo nulla. Non lo accoglierei a braccia aperte, questo è sicuro. Ma poi, se decidessi di perdonarlo, che non è così scontato, dovrebbero cambiare molte cose. Inizieremo a fare sport insieme. A qualche isolato da qua hanno aperto una nuova palestra, con i tapis roulant e le cyclette per lo spinning. Andremo là, e ci rimetteremo in forma. E poi voglio sapere dove va, che gente frequenta. Dove l’ha conosciuta, questa?” - continuò a parlare così fino alla fine della zuppa, e per tutto il secondo (un korma di pollo un po’ troppo speziato), concedendosi una piccola pausa durante il dolce (due gulab jamun che non aveva preparato lei), quando chiese a sua nipote se in Italia era andato tutto bene (“hai messo su qualche chilo, o sbaglio? Là hanno il vizio di esagerare con l’olio di oliva”), e riprendendo il discorso mentre sorseggiava, con eccessiva nonchalance, qualche bicchierino di sherry; Patricia la ascoltò con pazienza, chiedendosi se sua zia fosse davvero convinta che lui sarebbe tornato, e che se fosse tornato lei avrebbe avuto la forza di chiedere una qualche forma di risarcimento per la sofferenza che aveva dovuto patire: le sembrava più verosimile che non appena lui avesse aperto la porta di casa, lei si sarebbe gettata ai suoi piedi, senza lasciargli il tempo di fare nemmeno un metro, e avrebbe pianto, implorandolo di non lasciarla mai più; poi, come tutte le donne di una certa età ormai prossime alla menopausa che hanno corso il rischio di perdere il marito, avrebbe iniziato a scoparlo in modo sistematico, mettendo in scena, ogni sera, la parodia di uno spettacolino erotico. In fondo, per sua zia sarebbe stato molto meglio se qualcuno l’avesse convinta che non sarebbe mai più tornato. Intorno alle sei, entrambe esauste, anche se per motivi diversi (una da una parte, una dall’altra di quella montagna di dolore), chiamarono la mamma di Patricia per sapere se le avrebbe raggiunte da loro, o se le avrebbe aspettate direttamente davanti al 150


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Garrik Theatre, in Charing Cross Road. Un mese prima il papà di Patricia, nonostante non fosse tipo da andare a teatro, aveva comprato tre biglietti per una rappresentazione de “Il gabbiano” di Cechov, al solo scopo di tirare fuori di casa la zia Anandita, per il quale era seriamente preoccupato (aveva anche avuto modo di parlare con suo marito, il quale gli aveva confessato che anche se la storia tra lui e la sua nuova donna fosse finita, lui non sarebbe mai tornato a casa: per quanto gli dispiacesse far soffrire Anandita, non la amava da almeno vent’anni, e ora che aveva trovato il coraggio di andarsene, non avrebbe ricominciato con la vita di prima). Poi Patricia era tornata a Londra, inaspettatamente, e lui aveva ceduto volentieri il proprio biglietto a sua figlia, organizzando, in parallelo, una serata al pub: l’aveva fatto perché preferiva incontrare i suoi vecchi amici che assistere a una commedia russa dell’ottocento, e anche perché pensava che tre donne potessero parlare molto più liberamente di quanto farebbero due donne in presenza di un marito annoiato; ma soprattutto perché aveva intravisto, nello sguardo di sua figlia, un’ombra che non aveva mai visto prima, e sperava che quella serata con la madre e la zia l’avrebbe aiutata a cancellarla. Patricia gli somigliava da sempre: entusiasta, generosa, appassionata, allegra. Fino a quattordici anni era un po’ un maschiaccio – voleva giocare a calcio con lui, e fare la lotta con i compagni di classe; poi, a quattordici anni, di colpo, si era appassionata ai trucchi, e ai vestiti, e ai ragazzi. Era diventata una signorina, ma non aveva mai perso l’ironia irriverente di suo padre. Quando aveva iniziato a organizzarsi per andare in Italia con il progetto Erasmus, aveva coinvolto nei preparativi tutta la famiglia: si era fatta aiutare dai fratelli per le mappe, gli indirizzi, le guide, e dalla sorella per la valigia e per i vestiti da infilarci dentro. Ognuno aveva avuto un ruolo: sembrava che sarebbero partiti tutti per Perugia. Il giorno della partenza, l’avevano accompagnata a Stansted, con due macchine, perché anche i suoi amici volevano salutarla; e mentre aspettavano che venisse annunciato il gate, tutti la abbracciavano, commossi, e sorridenti. Anche gli occhi di lei brillavano, e lui sapeva che 151


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