Punti di Vista
Leonardo Angelini
Il sole, la campana, l’orologio Modelli di temporalità a Locorotondo
Una ricerca sul campo fra etnologia e psicoanalisi
prefazione di Annamaria Rivera
Prima Edizione: 2013 ISBN 9788898037247 © 2013 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Maggio 2013 in Italia da Atena.net srl di Grisignano (VI) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)
Indice
Prefazione (Annamaria Rivera)
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Da lì fino a quì: dal lavoro sulle fiabe alla ricerca sui modelli di temporalità a Locorotondo
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Tempo e cultura del soggetto L’esempio di Locorotondo
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Un popolo di formiche: l’ecosistema contadino e il borgo urbano di Locorotondo nel tempo
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Orari e calendari locorotondesi
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Il sole e gli altri agenti atmosferici come regolatori del tempo contadino
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La campana come emblema delle scansioni temporali degli artigiani
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Intersecazioni e mediazioni fra tempo dell’orologio, tempo del sole e della campana nei nuovi mestieri locorotondesi
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Pluralità degli universi temporali e salute mentale a Locorotondo
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Bibliografia
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Ringraziamenti Ringrazio innanzitutto i miei trentasette informatori, molti dei quali sono ormai scomparsi: le loro parole solo parzialmente trascritte nel testo, e la loro voce, registrata su nastro, ancora ce li presentifica con tutte le loro storie: le loro gioie e i loro affanni. Ringrazio di cuore i redattori di “Locorotondo – Rivista di economia, agricoltura, cultura e documentazione” che hanno voluto ospitare nell’arco di oltre quattro anni ciascuno dei capitoli che - con qualche modifica - compongono il presente testo: senza di loro la ricerca probabilmente sarebbe rimasta a metà, fra i miei quaderni di appunti. Un pensiero riconoscente va a Deliana Bertani, che ha letto e supervisionato il testo; ad Annamaria Rivera per le belle parole con le quali ha voluto accogliere il “neonato”, e al compianto Anthony Galt: il più acuto lettore di Locorotondo, alle cui ricerche ho attinto a piene mani. E torno a ringraziare infine – come feci nel mio lavoro sulle fiabe – la mia piccola Itaca, Locorotondo, che mi ha dato il bel viaggio. Senza di lei, come dice il poeta, mai mi sarei messo in viaggio!
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Prefazione
Chi immaginasse che questa sia una delle consuete pubblicazioni sul folklore locale sarebbe fuori strada. A caratterizzare infatti il lavoro di Leonardo Angelini sono il rigore dell’analisi e la capacità di mettere a frutto gli strumenti euristici e interpretativi propri della psicologia –di cui l’autore è specialista- insieme con quelli dell’etno-antropologia. Non per caso egli cita, fra gli altri, Clifford Geertz, caposcuola di quell’antropologia interpretativa che valorizza appunto “la natura interpretativa dell’osservazione antropologica, inevitabilmente connessa con la figura e la storicità dell’autore”. In tal caso, parte rilevante della storicità dell’autore è la sua posizione di lontananza/vicinanza con il proprio campo di ricerca, essendo egli nativo di Locorotondo e avendo conservato con il suo paese una relazione sentimentale profonda. Così che, come ammette, la sua ricerca è in fondo anche una ricerca all’interno di se stesso, poiché per lui “ogni ritorno in questo luogo delle origini rappresenta […] un’attrazione che è anche un pericolo”: come per ogni emigrante, il rischio è idealizzare il luogo delle origini, imbalsamarlo nelle bende del passato e così farsi sfuggire ciò che esso è effettivamente divenuto nel corso del tempo. E’ il passatismo – la nostalgia e/o la mummificazione del “come eravamo”- che di solito caratterizza le imprese dei folkloristi dilettanti, al quale invece il nostro autore riesce sapientemente a sfuggire, sebbene il suo lavoro sia basato, oltre che sull’osservazione partecipante, sulla raccolta di interviste a testimoni tutti avanti negli anni. L’oggetto che Angelini ha scelto d’indagare –i diversi modelli di 7
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temporalità fra la popolazione di Locorotondo, comune di quella Bassa Murgia pugliese che presenta tratti così peculiari rispetto al resto della regione- non è tra i più banali né tra i più semplici da esplorare, se si vuole sfuggire a cliché e luoghi comuni. Uno fra i più insistenti è quello che vuole che il modello della ciclicità temporale sia tipico in assoluto delle società contadine, mentre quelle industriali sarebbero, altrettanto in assoluto, caratterizzate da “un modello di temporalità unilineare che ha il suo perno nella programmazione”. Ora, è vero che fin dal titolo l’autore allude a tre modelli di temporalità divergenti, simboleggiati -ma anche effettivamente scanditi- dal sole, dalla campana e dall’orologio: tre criteri distintivi di misurazione e rappresentazione del tempo che caratterizzano, rispettivamente, i contadini, gli artigiani e le “nuove generazioni […] e classi sociali emerse sulla scena cittadina negli ultimi decenni”. Ma è anche vero che egli da un lato segnala che le concezioni del tempo si diversificano non solo secondo l’asse dell’appartenenza sociale, ma anche secondo quello dell’appartenenza di genere; dall’altro, mette in luce le intersezioni, le indefinitezze e anche le sopravvivenze dei tre modelli in rapporto con i cambiamenti economici e sociali sopraggiunti a Locorotondo. Infatti, se una volta il criterio-base della giornata contadina era il “da sole a sole”, le cose si complicano allorché, a partire dal 1964, a Taranto entra in funzione il IV Centro siderurgico Italsider, che dall’hinterland assorbe forza lavoro anche d’origine contadina. Così molti contadini, anche locorotondesi, si trasmutano in quelle figure sociali ibride che Walter Tobagi -in un reportage per il “Corriere della Sera” del 15 ottobre 1979- avrebbe definito metalmezzadri: operai metalmeccanici che, pur avendo trovato lavoro nel siderurgico, continuano ad abitare nei paesi della provincia e riescono a trovare il tempo per coltivare il loro pezzo di terra. In tal modo essi, se non si allontanano del tutto dalla temporalità “del sole” in favore di quella “dell’orologio” -della fabbrica, oltre tutto-, cercano in qualche modo di conciliarle o finiscono per sovrapporre l’una 8
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all’altra in forme più o meno incoerenti, almeno in apparenza. Con la mostruosa fabbrica siderurgica tarantina e poi con il proliferare nella cittadina di piccole e piccolissime industrie delle confezioni, frutto di decentramento produttivo, muta anche lo schema “topografico” dell’area di Locorotondo, così peculiare rispetto al consueto modello pugliese, come dicevamo: quello che, dapprima dominato dal latifondo, più tardi dalla grande proprietà modernizzata e/o irizzata, vedeva la prevalenza del bracciantato, quindi la compresenza di campagne disabitate e numerosi borghi, per lo più popolosi, che fungevano in sostanza da dormitori per i braccianti e le loro famiglie. A Locorotondo non era così. V’erano, anzi, da una parte la campagna punteggiata da una miriade di piccole o piccolissime proprietà contadine, ognuna col proprio trullo, la propria cisterna, il proprio fondo; dall’altra, il paese ove “vivevano gli artigiani, i commercianti e l’esigua borghesia agraria dalla quale emergeva il ceto dei liberi professionisti e una parte consistente del clero locale”. Questo dualismo città/campagna si rifletteva anche nei modelli di temporalità: il contadino di ieri era alquanto lontano “dalla ‘campana’, cioè dalla dimensione quotidiana del tempo tipica del paese”, alla quale lo avvicinavano solo i riti della domenica e delle feste più importanti del calendario religioso. Dunque, con la rottura di questo schema, segnala l’autore, mutano, si fanno compresenti, s’ingarbugliano anche i modelli di temporalità. Ma in fondo, egli ci dice implicitamente, in tale compresenza e mescolanza non v’è alcunché di “innaturale”, se è vero che anche a livello individuale sono compresenti dimensioni temporali molteplici: “il tempo stazionario, quello ciclico e quello lineare e irreversibile […] si combinano dentro ciascun individuo […] in maniera del tutto specifica”, sicché il mélange che ne scaturisce è la nostra, singolare e peculiare, dimensione del tempo. Ancora una volta mettendo in relazione sapientemente la dimensione ontogenetica con quella filogenetica, la scala dell’individuo con quella della società, il soggettivo con il collettivo, la psicologia 9
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con l’antropologia, Leonardo Angelini ci regala un’analisi raffinata e accattivante di un frammento di quella pluralità di maniere -storicamente e culturalmente determinate- in cui gli esseri umani cercano d’imbrigliare e addomesticare il tempo che scorre, in definitiva di sublimare la loro inappellabile mortalità.
Annamaria Rivera
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‘Da lì fino a quì’: dal lavoro sulle fiabe alla ricerca sui modelli di temporalità a Locorotondo
Dal regno delle fiabe al mondo reale “Da sfurtunète, fu affurtunète ca se pegghiò a Regenèlle. ije ca scéve appirse me rialàrene cinghe lire, ca cinghe lire tanne jèrene assé! Allòre: nu sòlde ngiù dibbe a u jadde i m’annusse a cavadde ca pe venì da dde ddò...! (ca ce stève ddò!) nu sòlde alla jaddìne, i me désse a farìne! ca stò mange pène Segnòre te rengràzzìe i chir ‘olte tre lire m’arrucchìbbe, pe besògne! e questa e stata la mia fortuna!
[Da sfortunato divenne fortunato perchè sposò la reginella - io che andavo con lui ebbi in regalo cinque lire che cinque lire di allora erano tante! - Allora: un soldo lo diedi al gallo che mi portò a cavallo chè per venire da li ϐin qui..! (mica stavo qui!) - Un soldo alla gallina e mi diede in cambio la farina! che sto mangiando pane, Signore ti ringrazio! - e le altre tre lire le risparmiai in caso di bisogno, e questa e stata la mia fortuna!]
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“...Chè per venire da lì fin qui!/ mica stavo qui!! /...”: queste due locuzioni, contenute in una di quelle filastrocche con le quali sovente i buoni raccontatori usano concludere le loro storie, mi avevano già colpito mentre andavo stendendo il secondo capitolo del mio lavoro sulle fiabe di Locorotondo, quello intitolato “I luoghi e i tempi della affabulazione”. Mi era parso di cogliere, allora, in queste parole - non per caso profferite, a mo’ di chiosa, alla fine di ogni fiaba - come un invito, rivolto all’udienza, e volto a rompere l’incantesimo in base al quale tutti i presenti fino ad un momento prima avevano convenuto di trovarsi nel regno delle fiabe, per fare ritorno da quel momento in poi nel regno ben più prosaico della realtà quotidiana. E, se noi ci facciamo caso un attimo, noteremo subito che in ogni luogo del mondo, al di là della enorme varietà delle formule che contraddistinguono la fine, così come l’inizio del racconto fiabesco (“Jère ‘na vòlte i jère …” \ “C’era una volta e c’era ..” diciamo a Locorotondo) vi è sempre nelle une e nelle altre una chiara allusione al fatto che l’udienza “in situazione”, cioè l’insieme delle persone che sono lì ad ascoltare, allorché si dispongono all’ascolto di una fiaba, così come nel momento della fine del racconto, sono portate a svolgere un duplice brusco movimento che è, contemporaneamente, di tipo spaziale e temporale. Il primo di questi due movimenti è quello dell’ingresso di tutti gli astanti nella dimensione fiabesca, contraddistinto dal fatto che l’udienza deve passare contemporaneamente e rapidamente dal luogo banale e domestico della quotidianità a quello fascinoso e sconosciuto delle fiabe; dalla dimensione temporale dello studio e del lavoro a quella più gratuita e sfuggente che caratterizza il regno delle fiabe. E, una volta terminato il racconto, quella stessa udienza, se non vuole rimanere avviluppata nella trama, deve fare un’operazione opposta, e altrettanto rapidamente passare dal luogo delle fiabe a quello della realtà di tutti i giorni; dalla dimensione temporale 1
1 cfr.: L. Angelini, 1989, Le fiabe e la varietà delle culture, CLEUP, PD.
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fiabesca a quella ben più gravosa dell’impegno e dell’affanno tipici dello studio, del lavoro e della cura. Insomma “à venì da ddé ddò”: deve venire, cioè, da lì, dal luogo e dal tempo della fiaba, fino a qui, nei luoghi e nei tempi della quotidianità. Ebbene mi pare che, nell’iniziare un testo sui modelli di temporalità a Locorotondo – cioè nello stesso luogo in cui era avvenuta la mia ricerca sulle fiabe - debba anch’io compiere come un percorso a ritroso rispetto a quello intrapreso allorché mi impegnai nella mia precedente ricerca. Un percorso che mi permetta di ritornare “da lì fino a qui”: dal luogo e dal tempo delle fiabe ai luoghi e ai tempi della realtà. E sento che una tale operazione, prima che di fronte agli occhi del lettore, debba essere compiuta all’interno di me stesso, poiché - come già sa il lettore del testo sulle fiabe - Locorotondo è il mio paese natale, e perciò ogni ritorno in questo luogo delle origini rappresenta per me una attrazione che è anche un pericolo. L’attrazione è nel fascino che in questo viaggio di ritorno è implicito, il pericolo nel rischio che si finisca col vedere solo ciò che lo stato di fascinazione permette di vedere, poiché, come ci insegnano la letteratura e la scienza, chi per un qualsiasi motivo ha voluto o dovuto lasciare la propria terra d’origine (e cioè sia l’eroe cercatore che l’eroe vittima, come direbbe Propp; sia l’emigrante che l’esule, come direbbe Grinberg) è portato a immaginarsi la sua terra d’origine in termini che fatalmente, mano a mano che passano gli anni, diventano via via più distanti da ciò che essa sta effettivamente diventando nel suo divenire storico. Perciò nell’approssimarsi al mondo della realtà e del lavoro, come mi propongo di fare con questa mia seconda ricerca, occorrerebbe abbandonare la specifica dimensione spazio-temporale della fiaba per poter vedere con occhi dis\incantati, ed ascoltare con orecchi critici (e non più a bocca aperta) quanto proviene dai propri informatori fin dal momento dell’ascolto, e non solo nel momento della riflessione.
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D’altro canto però, nonostante questi rischi, è mia intenzione porre su di un piano di continuità la presente ricerca con quella precedente sulle fiabe poiché sul piano dell’igiene mentale ritengo vi siano molte analogie fra questi due ambiti, fra queste due dimensioni di vita del bambino e dell’adulto: quella che attraverso le fiabe ci riconduce all’inconscio, e quella che attraverso l’impegno ed il lavoro ci permette di espandere e di affinare il nostro Io. Ed anche dentro di me, nel momento in cui mi accingo a riflettere sui modelli di temporalità tipici della Locorotondo di ieri e di oggi, sento che non c’è frattura, ma continuità fra quella prima e questa seconda ricerca, e mi pare che, pur di proseguire con coerenza su questo piano, sia opportuno esporsi a tutti i rischi che da questa vicinanza possono provenire. E’ indubbio in ogni caso che l’itinerario che dal regno delle fiabe conduce al regno della realtà implica l’abbandono della dimensione spazio-temporale tipica della fiaba e l’ingresso in un nuovo mondo che ha dentro di sé una nuova organizzazione spaziale e una nuova concezione del tempo. Il luogo dell’affabulazione, cioè il contenitore dentro al quale diventa possibile che la fascinazione prenda tutti i presenti, è definito, di volta in volta, in base ad un accordo implicito che accomuna il raccontatore in situazione e la propria udienza “attuale”: accordo che trasforma il loro “qui ed ora” in un uno spazio fatato indipendente dalla fisicità e dalla particolarità del posto in cui concretamente il racconto comincia ad essere narrato . A partire da quel luogo, che solo in base a quell’accordo diventa fatato, è possibile poi entrare in tutti gli altri luoghi evocati dalla fiaba e vivere in essi finché il patto che lega gli astanti rimanga per essi implicitamente valido. E il tempo della fiaba – al di là delle mille e mille allusioni temporali evocate dalle fiabe – com’è noto diventa per tutte esse 2
2 Che pure ha la sua importanza da un punto di vista etnografico: in Puglia era intorno al braciere d’inverno e sull’aia, d’estate. In Emilia – dove vivo da quarant’anni d’inverno il luogo dell’affabulazione - chiamato filòss – era in stalla, al caldo calore che proveniva dalle mucche che lì erano radunate per la notte.
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l’imperfetto, inteso come tempo in grado di permettere l’innesco nell’udienza di un processo di identificazione che da una parte non risulti per essa troppo rischioso, ma che dall’altra sia sufficientemente forte da permettere il mantenimento dell’ascolto “a bocca aperta” per tutto il tempo occorrente al lento e meandrico dispiegarsi del racconto. Non il presente quindi è il tempo della fiaba: perché il presente, con la sua immanenza, potrebbe dar vita a fantasmi troppo vicini all’udienza (come quelli del sogno nel momento in cui è vissuto, dicevamo con la Von Franz); non il passato remoto perché, collocando la storia in un tempo già sicuramente consumato, essa non avrebbe la forza attrattiva occorrente a tenere avvinta l’udienza fino a che quel “qui ed ora” risulti necessario in base a quel patto non scritto che tiene legati tutti i presenti sulla scena. Non resta quindi che l’imperfetto malandrino che – dicevamo – con il suo lasciare in sospeso ogni cosa, non ci dice mai se l’orco, la strega e tutti gli altri personaggi della fiaba ci sono ancora o non ci sono più, di modo che ciascun membro dell’udienza rimane sempre libero di aderire più massivamente al racconto quando ciò per lui o per lei dovesse risultare non molto rischioso, e di ritrarsi allorché le circostanze, cioè l’aumento del tasso di paura e di angoscia lo possano richiedere. Adesso però - abbandonati quei luoghi e terminato il tempo di quel racconto che pure mi aveva così tanto preso - sento che per me è necessario intraprendere un nuovo viaggio che mi permetta di entrare in una nuova dimensione spazio-temporale, in un nuovo “qui” ed in un nuovo “ora”. Un nuovo “qui” in cui prevale la dimensione del fare, dell’operare nella vita di tutti i giorni. Un nuovo “ora” che ha i ritmi e le cadenze del lavoro e della festa: e cioè da una parte della semina, del raccolto, della progettazione e della costruzione dell’opera artigianale o industriale, dall’altra i ritmi e le cadenze della festa, della devozione e della preghiera, così come della trasgressione e del riposo. 15
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Un tempo più adulto forse, che apparentemente non ha nulla in comune con il tempo della fiaba e del gioco, ma che pure, oscuramente, sentiamo come legato a quegli altri tempi da una linea sottile e sotterranea che parte dai primi legami che segnano la nostra appartenenza (la figura materna e quella paterna) per poi passare attraverso tutti i successivi modelli in cui abbiamo avuto la ventura di rifletterci (i fratelli, gli amici del gruppo di pari, i docenti, etc.). Fino a giungere a quel mondo del lavoro in cui la nostra identità finisce con il modellarsi e l’affinarsi secondo quanto previsto dagli stili e dai tempi già consolidati dell’arte, della “thécne”, cioè del mestiere che abbiamo avuto la ventura di acquisire, ma anche - al di là dei protocolli previsti dalle singole tradizioni professionali secondo quanto ci detta il nostro estro personale.
Che cos’è il tempo? “.. Il tempo permane spaventoso. Lo sentiamo fuggire, mano a mano che si vive, ogni giorno più svelto. Come rannicchiarci nel tempo? Non possiamo costruirci un orticello, una casa dove rifugiarci, al riparo dall’infinito. Non ci si può chiudere nei limiti di una giornata. Il sole ha appena raggiunto il culmine a mezzogiorno, ed eccolo ridiscendere verso l’orizzonte. Eccolo calare imporporato, seguito dalla notte, morte del giorno. Dacché il tempo lo si consuma, ci si distrugge. Avere del tempo per sé vuol dire averne solo davanti a sé di non ancora utilizzato, di non ancora goduto. Poiché “vivere il tempo” significa morirne.” Marie Bonaparte, L’inconscio e il tempo, in: L’amore, la morte e il tempo, Guaraldi, 1973
La parola ‘tempo’ viene dal greco temno che significa ‘io taglio’. Si tratta dello stesso etimo del termine “tempio”. Laddove nel caso del termine tempio si allude ad uno spazio sacro (ri)tagliato e distinto dallo spazio profano, così come avveniva per i primi templi che non erano altro che il frutto di una recinzione di 16
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un determinato spazio, che attraverso una serie di cerimonie veniva reso sacro e perciò distinto e separato dal rimanente spazio profano. E, similmente, nel caso del termine tempo si allude ad un taglio, ad un segno, o meglio ad un insieme di segni (cioè all’arco di una vita, all’anno, alle stagioni, e poi alla settimana, ai giorni, alle ore, e via ritagliando) che hanno la funzione di attentarsi a rendere domestico, prevedibile, circoscrivibile ciò che altrimenti apparirebbe come imperscrutabile. In termini ontogenetici, cioè nella storia individuale di ognuno di noi, all’inizio non c’era alcun taglio, cioè di alcun tempo, e cioè alcun bisogno di iscrivere il nostro vissuto originario in un ambito temporale poiché la presenza di una madre assidua, e in ogni caso di un contenitore assiduo riusciva ad illudere noi neonati di trovarci in una situazione di soddisfacimento automatico dei bisogni, come se albergassimo ancora nell’utero materno. Come se fossimo perpetuamente in compresenza di un seno materno onnipresente, dice Sabbatini, uno psicoanalista italiano che si è interessato ai problemi dell’ontogenesi della temporalità: un “contenitore primario” capace di soddisfare la nostra fame con cure così sollecite da indurre inizialmente in noi la sensazione di un “tempo” vissuto come presente perpetuo. Dove per “presente perpetuo” s’intende un qualcosa che si ripresenta al neonato sotto forma di cura totipotente; di una cura cioè che si ri\presenta sempre ugualmente sollecita e capace di soddisfarlo ogni volta che ch’egli sente il bisogno di questa “madre-seno” – dice Sabbatini - cioè di un contenitore onnipresente e onnipotente originario capace di soddisfarlo quasi automaticamente così come avveniva nella vita intrauterina. Il taglio iniziale, la prima vaga sensazione di qualcosa che è già ‘tempo’ deriva da un lento passaggio del bambino da questa situazione iniziale ad una fase temporale successiva in cui il bambino esce da questo presente perpetuo in base al fatto che la madre, il contenitore originario non è mai perfetto, ma finisce sempre col 17
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generare una qualche frustrazione: cosicché il passaggio dalla fame alla sazietà non è mai automatico; la capacità della madre di riparare il neonato dai fastidi derivanti dai rumori, dal freddo, dal bagnato mai perfetta. Ciò fa si che ben presto lo stato di perfetta autosufficienza e beatitudine che c’era nella vita intrauterina non ci sia più. E’ a partire da queste piccole frustrazioni quotidiane che, come dice Sabbatini, si diramano contemporaneamente dentro al bambino un primo abbozzo della dimensione del passato, da lui vissuto come mito di una età dell’oro in cui non vi era alcuna frustrazione; e un abbozzo anche della dimensione del futuro, come aspettativa di una soddisfazione che una volta c’era e che la frustrazione presente impedisce di avere . Quindi è a partire dalla frustrazione che nasce la disillusione, intesa proprio come dis\in\lusione: cioè come uscita da un gioco simbiotico originario. Disillusione che permette l’innesco dentro di noi di una temporalità che poi si espanderà e si perfezionerà sulla base dell’esperienza sociale, e farà da asse del nostro operare nel mondo, secondo i criteri e le modalità concrete e storiche che la nostra cultura - e solo la nostra cultura! - ci suggeriranno. Per cui nell’esperienza individuale l’acquisizione del tempo coincide con il riconoscimento della separatezza fra sé e gli altri, ed il “taglio” può essere visto come una manovra transizionale messa in atto per vincere l’angoscia di separazione. Cioè come la costruzione di un apparato via via più raffinato, mano a mano che cresciamo, che ci permette di dare senso al nostro trascorrere per questo mondo scomponendo il nostro passaggio in tante scansioni che diventano le nostre ore, i nostri giorni, le nostre stagioni, i nostri anni, i nostri ricordi, i nostri progetti, le nostre riflessioni. 3
In termini filogenetici - cioè sul piano storico e sociale - l’idea del tempo nasce nell’uomo come tentativo di fare delle ipotesi, di azzar3 Poi il sociologo Kristos Pomian a partire da un simile ragionamento, e al di là dei postulati dell’economia, inquadrerà il ciclo economico come una processo capace di definire il futuro in base a un’attesa che pare fondata su basi scientifiche, ma che in effetti presenta simili contenuti “mitologici”.
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dare delle spiegazioni sui cambiamenti che avvengono nello spazio e, all’interno di una catena di avvenimenti, di fare dei collegamenti che legano alcuni avvenimenti ad altri. Anzi, come afferma Elias, il tempo può essere visto come il rapporto che un gruppo umano (“una enclave umana più o meno ampia”) fa fra due o più serie di avvenimenti, di cui una viene da esso standardizzata “come quadro di riferimento o metro di misura delle altre”. Secondo Elias l’uomo fa queste operazioni di collegamento poiché è in grado, da un punto di vista cognitivo, di ricordare e di sintetizzare. In questo modo da un punto di vista sociale ogni cultura definisce, in un momento dato del proprio divenire storico, una propria serie standard in base a ciò che da un punto di vista identitario risulta più importante e nucleare per quella determinata cultura. Cosicché, ad esempio, i greci avevano una temporalità centrata sulle olimpiadi a causa della centralità nella loro cultura del culto della corporeità, e per motivi simili i romani misuravano il trascorrere del tempo ab urbe condita, i cristiani dall’avvento di Cristo, etc. – Nel caso di Locorotondo il sole e la campana rappresentavano i due criteri in base ai quali tendevano a misurare il tempo, i contadini e gli artigiani, cioè le due classi sociali più rilevanti fino a una cinquantina di anni fa all’interno della popolazione. Mentre l’orologio allude al criterio in base al quale scandiscono il trascorrere del tempo le nuove generazioni e le nuove classi sociali emerse sulla scena cittadina negli ultimi decenni . Come il lettore che avrà la pazienza di seguirci comprenderà più approfonditamente nei prossimi capitoli, non si tratta o, meglio, non si trattava di una suddivisione manichea in base alla quale ognuno dei gruppi sociali commisurava il tempo solo all’interno del proprio modello, della propria serie standardizzata. Si trattava piuttosto di una compresenza che a volte veniva a 4
4 Ed ecco spiegate le ragioni del titolo del presente lavoro
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stento percepita, come quando ad esempio appariva legata ad aspetti particolari del proprio lavoro: ad esempio mené u sulfe (dare lo zolfo alle viti) veniva a cadenza in determinati momenti dell’anno che solo il contadino sapeva. A volte invece si allargava fino a diventare una coincidenza all’interno della quale tutti i gruppi sociali erano ugualmente coinvolti pur mantenendo, per altri versi, i propri criteri temporali specifici, come avveniva nel caso del carnevale. A volte infine tendeva a fondersi in una sola dimensione temporalmente rilevante per tutti, come avveniva ed avviene tuttora per la festa del Santo Patrono, San Rocco. Si definiva così una intricatissima rete in cui standard temporali contadini, artigianali e - più di recente - operai e impiegatizi formavano un reticolo di date, di cadenze, di passaggi, di itinerari temporali di crescita e di maturazione, ma anche di tempi per il lavoro, per lo svago e per la festa che io mi immagino come una specie di antico astrolabio utile a marcare i punti di consonanza e di dissonanza temporale presenti nei vari gruppi e sottogruppi locali. Esiste ancora oggi questo strano astrolabio capace di distinguere in determinati momenti i locorotondesi e di aggrupparli in altri? di farli convivere rispettando l’autonomia dei vari tempi utili a ciascun gruppo e all’occorrenza riunirli e far loro assumere quella stessa identità che è riscontrabile nella lingua e in cento e cento usi locali? Io penso che, come acutamente sottolinea Galt , su questo universo locale, che per la stragrande maggioranza della popolazione fino cinque o sei decenni fa era rimasto separato e sostanzialmente escluso da ogni scambio e da ogni mercato che fosse un po’ più ampio di quello cittadino, sia piovuta addosso la modernità che ha prodotto molti cambiamenti che hanno sconvolto il profilo cittadino sotto ogni punto di vista, compreso quello della definizione dei modelli di temporalità che informano l’agire quotidiano dei locorotondesi. 5
5 Cfr. A. Galt, Town and country in Locorotondo, Hartcourt Brace Jovanovich College Publishers, 1992.Traduz. Italiana in: Rosa M. Bollettieri Bosinelli, Traduzione e commento di un testo di interesse antropologico: Town and country in Locorotondo di A. Galt, Tesi di Laurea, Bologna, 2002. Maxime il Cap. Intitolato “Il nuovo ceto medio” pp.136 - 145
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Cosicchè indubbiamente ancor oggi si tende a mantenere almeno in certi momenti del giorno, della settimana, dell’anno e delle varie stagioni della vita - uguali usi, uguali costumi, uguali scansioni temporali desunte da quel vecchio astrolabio. Altre sono andate nel dimenticatoio e solo con uno sforzo di memoria possono essere rievocate, come hanno fatto con me molti dei miei più anziani informatori. Ma in effetti è come se fossimo in un nuovo angolo di cielo, sotto nuove stelle che definiscono nuovi tempi e nuove modalità di vita che provengono dai nuovi gruppi sociali locorotondesi e dagli intricati scambi che, attraverso il mercato e i media è possibile e, sotto certi punti di vista, obbligatorio mettere in piedi con un mondo infinitamente più ampio di quello di una volta. Basta considerare l’influenza acculturante e unificante che viene dalle fruizione televisiva per rendersi conto di come il vecchio astrolabio che segnava il trascorrere del tempo a Locorotondo sia ormai sorpassato. Per non parlare delle ferie, che non sono più scandite in base alle cadenze religiose, come avveniva una volta, eccetera. E’ per questo che il materiale che ho raccolto, che in larga parte è il risultato di interviste a locorotondesi della generazione degli anziani, ha anche la valenza di una testimonianza, a futura memoria, della Locorotondo che sta scomparendo, e che - sotto certi punti di vista - è scomparsa da lunga pezza. Basta dare un’occhiata alla testimonianza di Don Orazio Scatigna sul calendario religioso locale di una volta per rendersene conto. E’ per questo che lo stile che ho cercato di dare al mio lavoro è quello di chi, conscio che il materiale accumulato ha di per sé un valore etnografico, intende lasciare ampio spazio al racconto in prima persona.
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Temporalità e appartenenza “La memoria condivisa nel tempo e nello spazio assolve funzioni di identità culturale e ne riformula continuamente le espressioni” Luisa Passerini, Postfazione a: M. Halbwachs, La memoria collettiva, Unicopli, Mi, 1987
“M’arrcòrde” - “mi ricordo”: il filo secondo il quale si dipana il racconto dei miei protagonisti è stato spesso quello del ricordo. Maurice Halbwachs, nel suo ormai classico testo sulla memoria collettiva, afferma che il ricordo ha la duplice funzione di costruire dei significati utili sia all’individuo che ricorda, sia alla collettività di cui l’individuo è figlio. È attraverso una continua opera di rielaborazione del passato, secondo le esigenze emergenti del presente e quelle che oggi proiettiamo nel futuro, che gli individui ed i gruppi sociali pongono nel passato le proprie fondamenta, e da quelle partono per operare sul presente e immaginare il proprio futuro. Ricostruire il proprio passato attraverso il ricordo perciò significa vivificarlo alla luce del presente, tornare a dargli senso in base alle esigenze dell’oggi, ribadire la propria identità rielaborando il proprio percorso di vita individuale e sociale secondo i cambiamenti intervenuti sul piano del presente. In una parola il ricordo, come ci suggerisce il Devoto, ci permette di “rimettere nel cuore” del presente il passato. E di riaccordare il vecchio col nuovo sia da un punto di vista individuale che sociale, aggiungeremmo noi. Infatti è indubbio che fra memoria individuale e substrato collettivo specifico all’interno del quale tale memoria si fonda esistono mille legami che ci riportano da una parte al terreno dell’appartenenza originaria, alla famiglia d’origine e all’ambito culturale di base sul quale la cultura familiare è fondata; dall’altra al quel precipitato fatto di mille e mille impressioni e identificazioni che provengono da tutte le altre esperienze significative che ogni individuo ha poi concretamente potuto fare lungo il proprio percorso personale 22
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di vita. È questa la strada attraverso la quale l’ambito individuale dell’appartenenza ha potuto modificarsi, allargarsi, modellarsi negli anni attraverso un percorso che parte dalla famiglia, passa al gruppo di vicinato, al quartiere ed al paese, alla scuola, al lavoro, e a tutti gli ambiti sociali e culturali con i quali poi in concreto ogni individuo entra in contatto. In questo modo si determina un terreno dell’appartenenza mai chiuso in un che di immutabile, anche nelle società più tradizionaliste, e pure sempre riconoscibile e circoscrivibile; mai iterato in termini identici fra individuo ed individuo, e pure sempre fondato su un una matrice che poi permette a tutti i suoi figli di riconoscersi come simili. In questo modo, infine, la comunità si struttura nel tempo come un entità interpretante (Fish) capace di dare senso a ciò che accade e di costruire quel comun sentire che si concreziona poi in una tradizione. Tale tradizione però, nel tentativo di ricondurre ogni novità all’interno del quadro interpretativo tradizionale, è esposta a tutte le modificazioni derivanti dal fatto che non sempre il nuovo si lascia incapsulare nel vecchio e che, anzi, come l’approccio sistemico ci ha insegnato, tradizione ed innovazione sono in un continuo rapporto di scambio che nel tempo - lentamente o in maniera repentina, subdolamente o alla luce del sole - opera in modo che ogni tradizione, anche la più radicata, risulta sottoposta ad un’opera di trasformazione e di erosione ad opera del nuovo; ed ogni novità, anche la più sconvolgente, non può non poggiare sulla tradizione, se non altro per assumerla come modello negativo. Come il lettore avrà già intuito, la dimensione temporale ha un posto di rilievo all’interno di questi processi in base ai quali una comunità si istituisce come entità interpretante e poi modifica questo o quell’aspetto del proprio modo di vedere il mondo. Ed anzi si può dire che, se è vero che è lo spazio che ci aiuta a circoscrivere una comunità in un momento dato, noi non comprenderemmo nulla 23
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di questa comunità, delle sue tradizioni, del perché delle invarianze e delle modificazioni presenti nei suoi modelli interpretativi, se non partissimo dal lavoro di lungo respiro che in essi avviene ad opera della memoria, dal continuo lavorio cui, attraverso il ricordo, viene sottoposto il suo passato ad opera delle esigenze del presente. Ebbene alla base di questo testo vi è l’ipotesi che il ragionamento che fin qui abbiamo fatto per comprendere ove poggino le fondamenta dell’appartenenza vale anche per le stesse concezioni del tempo che sono presenti in ogni comunità. Anche i modelli di temporalità introiettati da parte di un gruppo sociale infatti sono costruiti e si modificano nel tempo sul filo della memoria, sulla base del ricordo, in modo da poter conciliare il passato col presente e, sulla base di questa sintesi, proiettarsi nel futuro. Anche per i modelli di temporalità vale il modello, proprio della gruppoanalisi, in base al quale in ogni gruppo sociale è riscontrabile la presenza di una matrice culturale di base (Foulkes) compresente in tutti i suoi membri, che rappresenta la tradizione, sulla quale poggiano le varie matrici familiari che rappresentano, a loro volta, le singole tradizioni familiari in continuo rapporto dialettico con il Sé individuale di tutti i loro membri, che in questo modo per un po’ affondano le loro radici nel passato familiare e sociale (Idem), per un altro po’ emergono nella loro individualità e singolarità (Autos) . Nel nostro caso ogni locorotondese ha indubbiamente una propria personale visione della temporalità, ma ciò è vero solo fino un certo punto. Infatti, al di là o, più propriamente, al di sotto di questa visione individuale ciascun locorotondese si trova in una situazione di risonanza (Foulkes) con un sentimento comune della temporalità, con un “noi” temporale che è il precipitato della sua propria matrice familiare e della nostra comune matrice di locorotondesi. 6
6 Per un approfondimento dei concetti di Idem e di Autos vedi: D. Napolitani, 1987.
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I miei modelli di temporalità “..tutte le etnografie sono fabbricate, per dire così, a casa propria, poiché sono descrizioni di chi descrive e non di chi è descritto.” Geertz, Opere e vite. L’antropologo come autore, Il Mulino, Bologna, 1990
Nel mio precedente lavoro sulle fiabe locorotondesi avevo già cercato di affrontare il problema del rapporto fra osservazione e partecipazione, mettendo sull’avviso il lettore a proposito della mia posizione interpretativa nei confronti del materiale che andavo raccogliendo . Una ulteriore riflessione sui perché di questo secondo viaggio di ritorno nella mia terra natale - ed ovviamente sui perché del primo - mi ha spinto ad un approfondimento sia dell’analisi in astratto dei concetti di osservazione e di partecipazione, sia delle concrete e materiali istanze che mi spingono, in quanto autore, nella direzione del ritorno. Ebbene, se nel lavoro sulle fiabe la mia preoccupazione era stata quella di porre in evidenza che in ogni caso l’autore compie un opera di interpretazione nei confronti del materiale osservato, ora - sotto la spinta emotiva del secondo ritorno - penso che, prima di iniziare la narrazione di ciò che in questo secondo viaggio mi ha colpito, sia opportuno cercare di esplicitare quali siano le motivazioni e i sentimenti che mi hanno spinto a compiere questo viaggio e, soprattutto, quale sia il paio di lenti con le quali io osservo e quale il mio particolare punto di osservazione. Sono d’accordo infatti con l’impostazione antiscientista che Geertz tende a dare alla ricerca antropologica, con le sue considerazioni sulla centralità dell’autore del testo antropologico e sulla natura interpretativa della osservazione antropologica, inevitabilmente connessa con la figura e la storicità dell’autore. 7
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7 Cfr. Angelini L., 1989, op. cit., pagg. 87-90. 8 Cfr. Geertz, Opere e vite. L’antropologo come autore, Il Mulino, Bologna, 1990
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Afferma Geertz che l’autore della ricerca antropologica, con il suo essere in un determinato “là”, che non può essere da lui osservato che con le lenti che gli sono cresciute addosso per la sua stessa appartenenza ad un altrettanto determinato “qui”, allorché riflette sulla cultura con la quale è venuto in contatto non può non mettersi in causa, non può non fare una interpretazione di ciò che osserva in base ai propri modelli interpretativi, e cioè in base alla propria appartenenza sociale e alle proprie ascendenze scientifiche. Nel mio caso quest’opera di vera e propria “interpretazione di interpretazioni” che è l’osservazione in ambito etnologico all’apparenza presenta una complicazione in meno, che deriverebbe dal fatto che l’universo da me attualmente osservato è quello della mia infanzia e della mia adolescenza. “Apparentemente in meno”: perché, almeno a prima vista, nel mio caso sembrerebbe esserci un quadro interpretativo comune fra osservatore e realtà sociale osservata; sembrerebbe, cioè, che il “qui” e il “là” coincidano. E invece, dopo un più attento esame della situazione, sono arrivato alla conclusione che le cose non stanno affatto così: nella mia esperienza concreta infatti vi è stato nel frattempo (e son passati intanto più di quarant’anni) un viaggio di allontanamento da quei luoghi che erano i miei luoghi, da quella gente che era la mia gente, da quella parlata che era la mia parlata. Un viaggio di emigrazione che ha sedimentato dentro di me – e, nei miei confronti, in tutti coloro che “non sono partiti” - tutta una serie di emozioni e di sentimenti ambivalenti, e spesso non felicemente integrati, che rendono ora molto problematico ogni ritorno e alquanto sdrucciolevole ogni ricomparsa. E ciò non solo per me, ma per tutti coloro che a Locorotondo entrano o rientrano in rapporto con me, e quindi anche per i miei informatori, che sicuramente hanno percepito le caratteristiche di questa mia appartenenza ormai piena di incrostazioni derivanti da altre, più recenti, ma non per questo meno importanti appartenenze. 9
9 Cfr. L. Grinberg, Psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio, Armando, Roma,
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Ed ecco allora che nel mio caso il gioco degli specchi in base al quale l’interpretazione avviene rischia di diventare addirittura più complesso e sottile di quello che solitamente avviene nel rapporto fra l’etnologo ed i suoi “oggetti di studio”. E sento l’emergere in me del rischio di un duplice disturbo della memoria: da una parte quello di allontanare da me elementi di Locorotondo che invece sono dentro di me, magari mai perfettamente integrati; dall’altra quello consistente nel ricondurre nell’ambito del già visto, del già conosciuto e del già interpretato ciò che invece risulterebbe nuovo ad un occhio più esterno. Allora ho immaginato che, per permettere al lettore di comprendere la specificità del mio punto di vista e per fare in modo che le cose che dirò siano da lui tarate indipendentemente dall’influenza specifica che su di me continuano ad avere le mie matrici familiari e sociali, l’unica cosa è esplicitare ciò che sul piano della temporalità mi viene spontaneo di dire riattraversando col ricordo il luogo delle mie origini, delle mia infanzia, della mia adolescenza, il luogo in cui ritorno ogni estate, come un bambino, ancora incerto nella sua opera di esplorazione dello spazio non propriamente contiguo al corpo materno, che per un po’ di tempo si avventuri nell’esplorazione lontano da esso, ma ogni tanto senta il bisogno di riavvicinarsi alla mamma per riprendere lena e coraggio. Il tempo per me inizialmente è legato e, direi, come incapsulato all’interno di due proverbi, che io penso siano gli architravi su cui si fondano i miei personali modelli di temporalità: - “chi ha tempo non aspetti tempo” che spessissimo ho continuato ad ascoltare da mio padre, specialmente in relazione al mio impegno scolastico. E “U mùnne sèmpe a ‘na manère è stéte i sèmpe a ‘na manère à jèsse” (letteralmente: “Il mondo sempre in un modo è stato e sempre in un modo sarà”, detto ‘alla martinese’) che era la maniera materna di porsi nei confronti delle cose, e soprattutto degli eventi imprevisti del nostro piccolo mondo familiare, così come delle cose dell’universo mondo. 27
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Nella prima allocuzione ritrovo un invito ad uscire dal mondo dell’infanzia e del gioco per entrare nel mondo dello studio e dell’impegno che, come avrei appreso più tardi, prelude alla tirannia dell’agenda, cioè alle scansioni attuali secondo le quali si declina il mio tempo per il lavoro. E, poiché per me il mondo del gioco è stato anche il mondo delle fiabe, impersonificato da mio nonno paterno [Mèste Narde (Maestro Leonardo), Narduzze ‘u Luzzetidde (Leonardo il Merluzzetto), di cui porto il nome .. e il soprannome], questo proverbio paterno oggi lo vivo come una esortazione a passare dal regno delle fiabe a quello della realtà, dal gioco al lavoro. In questo modo la figura paterna sul piano della definizione dei miei introietti temporali, dei miei modelli di temporalità appare come una figura di mediazione fra gioco e lavoro: mediazione che io vivo tuttora a volte come un suo irato stato d’ansia nei confronti del mio cincischiare eccessivo nel gioco, a volte come impaziente sguardo nei confronti del mio procedere secondo ritmi operativi non sintonici con i suoi e che, per questo, potevano portarlo a sbottare in un impeto di fastidio (Mo’! lì da nànte! Su! levati di trono!) o in una sfuriata che, come un fuoco di paglia, subito si spegneva (ma intanto bruciava). Nella fissità materna sento gli echi di un mondo contadino che procede sempre uguale a se stesso, sempre ingiusto e imprevedibile, sempre ingrato nei confronti dei suoi figli, e dal ricordo emerge come un invito a volgersi con occhi critici, e forse angosciati, di fronte a qualsiasi eventualità di cambiamento, come se in lei non ci fosse spazio per alcuna storia, per alcuno sviluppo, per alcun telos nelle cose del mondo. E, a ripensarci un momento, mi pare che in questo atteggiamento materno ci fosse come un invito a operare, ma con disincanto; cioè ad operare, ma nello stesso tempo a prendere le distanze dall’operatività non per rifugiarsi nella dimensione ludica e mitica dell’infanzia, bensì per assumere un atteggiamento di distacco, di rinuncia, 28
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di negazione nei confronti dell’inesorabile trascorrere del tempo. Una rinuncia a considerare in termini ottimistici la possibilità stessa che dal cambiamento si potesse ingenerare sviluppo; che dall’operatività potesse originarsi una qualche fortuna personale o familiare, che da lei (che proveniva da una famiglia andata in rovina con la crisi del ‘29) era vista solo come frutto del capriccio e del caso. Su questi due architravi penso poi sia stato costruito tutto il resto del mio personale astrolabio in base al quale io mi dispongo nei confronti della temporalità. Su questi architravi e sicuramente su mille altre microazioni quotidiane, intrise di modelli temporali specifici, che ho vissuto insieme ai miei cari e ai miei concittadini, di cui spesso non ho memoria, ma che sento albergare dentro di me come un insieme di presenze importantissime che mi aiutano ad affrontare quotidianamente uno dei più difficili dilemmi di fronte al quale ci troviamo in quanto uomini: il trascorrere inesorabile del tempo e la nostra caducità. Ecco: i racconti in tema di temporalità dei miei informatori hanno avuto su di me l’effetto di permettere una riscoperta, e – sotto certi punti di vista – di accedere a nuove scoperte su aspetti importanti dei modelli di temporalità locorotondesi, sulla importantissima funzione difensiva che tali modelli hanno avuto e, sotto certi aspetti continuano ad avere ancor oggi, sui suoi figli, e su di me in particolare.
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Tempo e cultura del soggetto L’esempio di Locorotondo
Il gioco del tempo “La cultura non nasce dal gioco come frutto vivo che si svincoli dal corpo materno, ma si sviluppa nel gioco e come gioco” Huizinga, pag.204
Partiamo da questa immagine di Eraclito: “L’eternità è un fanciullo che gioca muovendo i pezzi sulla scacchiera: di un fanciullo è il regno”. Immagine ripresa poi da Nietzsche che dice: “Il mondo è un divenire: Il divenire è divenire nel tempo, è temporalità. Il tempo, il divenire hanno la figura di un fanciullo che gioca. Il gioco è leggero, mentre la legge è pesante: C’è in riva al mare un fanciullo che gioca spostando qua e là i pezzi del suo gioco. Immagine di leggerezza, di innocenza, di casualità felice: questa immagine così quotidiana ha qualcosa di “divino”. Il fanciullo che “gioca” il mondo mostra un aspetto oltreumano”. Ed in ambito psicoanalitico ecco come Waelder vede il rapporto fra gioco del bambino e tempo: “il gioco è un metodo per assimilare poco per volta un’esperienza troppo grande per essere assimilata tutta d’un colpo” . 10
10 Waelder, cit. in: Lili Peller,1954, Fasi libidiche, sviluppo dell’Io e gioco
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Il gioco cioè permette di elaborare nel tempo le angosce immanenti in ogni esperienza nuova ‘troppo grande’; angosce che minaccerebbero l’integrità del Sé del bambino lungo tutto l’asse della crescita qualora non ci fosse sempre un ‘gioco’, una attività capace di avvincerlo, di farlo diventare ‘re’ e di mantenerlo il più a lungo possibile in questa condizione regale che risulta tale proprio perché capace di distrarlo dalla consapevolezza che lo spazio non è stato e non sarà mai del tutto addomesticato, che il tempo scorre e continuerà sempre a scorrere inesorabile. Ora, se c’è un elemento che unisce tutta la filosofia occidentale ed ogni sofia più o meno a noi esoterica, questo è nella centralità che all’interno di ogni speculazione umana assumono i temi dell’infinità dello spazio e dell’inesorabilità del tempo che passa. Ma, pur condividendo con tutti gli esseri pensanti i sentimenti panici che provengono da una riflessione sul tempo e sullo spazio, e pur preso, come tutti, dalla curiosità che porta ognuno di noi a tentare di costruirsi una cosmogonia fatta in casa - desunta dal proprio personale rapporto con la religione e la scienza - che ci tuteli dai rischi derivanti dal deficit di senso che altrimenti per ognuno di noi in ogni momento rischierebbero di avere il tempo e lo spazio, con questo lavoro non mi propongo di aggiungere alcunché di nuovo su quanto fin qui detto su questi enormi argomenti, né tantomeno di proporre al lettore le mie personali e approssimative ipotesi cosmogoniche. L’ambito della mia attenzione sulle questioni del tempo è più circoscritto. In certo qual modo coincide con una parte, direi, nucleare delle mie ascendenze scientifiche e culturali di psicologo e di ricercatore: parte dalla pregnanza delle riflessioni eraclitee , cui accennavo all’inizio del presente paragrafo, e soprattutto dalle sue considerazioni protocliniche circa la natura difensiva che il gioco assume per l’uomo in quanto capace di vincere l’ansia e l’ango11
11 Il frammento di Eraclito giunge a noi da un tempo lontanissimo, eppure risulta a noi vicinissimo non solo per la forza evocativa della metafora, ma per le assonanze molteplici che, nonostante le cento e cento generazioni che ci separano dalla sua, continuiamo a sentire in noi, quasi il filosofo greco fosse un nostro prossimo antenato.
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scia che sia il bambino che l’adulto provano di fronte all’immensità dello spazio e all’eternità del tempo; considerazioni poi riprese da Nietzsche e da Rovatti. Ma comprende anche un insieme di considerazioni che, lungo tutto il ‘900, ci sono state in vari ambiti scientifici e filosofici sulla natura dello spazio e del tempo. Infatti, a partire da queste intuizioni di Eraclito sul rapporto fra gioco e tempo, la linea secondo la quale poi, in una parte almeno del pensiero del ‘900, si dipana il discorso sulle funzioni che il gioco assume nella psicologia individuale e sociale (e non solo in quella infantile) è quella che, specialmente allorché si parla di spazialità e di temporalità, per dirla con Huizinga mira a ritrovare le origini e le fondamenta dell’homo faber all’interno dell’homo ludens. Su questo importante elemento di continuità fra gioco e lavoro, che invece il sentire comune tende a vedere come contrapposti, il rapporto fra dimensione ludica e dimensione operativa tende ad essere visto sotto una luce nuova. Non nei termini di una gerarchia in base alla quale la parte ludens che è in noi possa essere ridotta, come solitamente siamo portati a pensare, ad un qualcosa di infantile antecedente e subordinato alla dimensione faber. Ma in un ambito di complementarità in base al quale gioco e lavoro appaiono come due facce della stessa medaglia, due aspetti di una stessa entità che, all’interno del processo maturativo individuale, così come nella dinamica sociale, possono trovare modo di espandersi e di influenzarsi a vicenda in modo dinamico e peculiare. Si sono definiti così nel pensiero storico, in quello psicoanalitico e in quello sociologico tracce di una riflessione sul rapporto dell’uomo e della cultura con la spazialità e la temporalità da una parte, e con il gioco e l’operatività dall’altra, che partono da riflessioni che a prima vista sembrano distanti, ma che invece tendono a convergere verso un punto comune secondo un percorso, e cioè una linea di ragionamento che alla fine risulta straordinariamente simile. Di modo che sia la riflessione sociologica, sia quella storica, sia quella psicoanalitica non solo testimoniano l’esistenza di ampie parentele fra gioco e lavoro, ma risultano anche attraversate dallo 33
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stesso ragionamento, direi eracliteo, sulla natura difensiva, ‘clinica’, curativa del gioco di fronte all’angoscia derivante dalla coscienza del tempo che passa. Funzione terapeutica di qualsiasi gioco: sia esso il gioco propriamente detto, sia quelle forme adulte e specializzate di gioco, che chiamiamo lavoro e impegno, da una parte, e svago, loisir, divertimento, dall’altra. In ambito storico uno dei punti di massima riflessione su questo tema è, appunto, il pensiero di Huizinga che, nell’Homo ludens volge la sua attenzione al ludus adulto, cioè al significato culturale del gioco adulto e, attraverso l’utilizzo di strumenti interpretativi mutuati dalla ricerca storico-antropologica, intravede in ogni cultura la presenza di un gioco, che traspare da svariate manifestazioni dell’agire adulto. Gioco da lui interpretato dal punto di vista funzionale, cioè nel suo significato più profondo, come una costante che svolge in ogni cultura le medesime funzioni di tipo difensivo contro l’angoscia che deriva dal trascorrere del tempo, e dal punto di vista epifenomenico, cioè così come esso appare, come un qualcosa che varia da cultura a cultura in base a tutta una serie di elementi cultural - specifici. Più in particolare Huizinga sostiene che il perdersi degli individui delle varie società in questi giochi viene sempre vissuto come una impellente necessità sociale e culturale poiché i giochi servono alla elaborazione ed alla esorcizzazione delle loro più tipiche angosce di base; e si propone di dimostrare da una parte l’esistenza di una disposizione degli uomini di qualsiasi società a giocare, e cioè la presenza del profilo dell’homo ludens in ogni homo faber; dall’altra la natura difensiva che il ludus, il gioco, assume in ogni epoca e in ogni cultura di fronte alle angosce più tipiche di ogni cultura nel suo divenire storico. Qualcosa insomma che ci riporta molto da vicino al discorso eracliteo sulla temporalità e che io tendo anzi a vedere come una estensione sul piano culturale e sociale di quelle funzioni terapeutiche implicite nel gioco che Eraclito aveva immaginato nell’azione 34
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