La dislessia evolutiva e i suoi trattamenti. Manuale per insegnanti, genitori e operatori

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Sebastiano Lupo

La Dislessia Evolutiva e i suoi trattamenti Manuale per insegnanti, genitori e operatori

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Prima Edizione: 2015 ISBN 9788898037544 © 2014 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Febbraio 2015 in Italia da Universal Book srl - Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)

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INDICE

Capitolo 1 - La dislessia evolutiva.

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1.1 La Dislessia Evolutiva nelle definizioni correnti. 1.2 Epidemiologia della DE. 1.3 Le traiettorie evolutive dei bambini dislessici. 1.4 Tra geni e cultura: fattori biologici e fattori ambientali nell’eziopatogenesi della dislessia evolutiva. 1.4.1 Studi di genetica molecolare. 1.4.2 Evidenze neuroanatomiche. 1.5 Fenomenologia linguistica della dislessia.

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Capitolo 2 - Eziologia della dislessa evolutiva.

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2.1 Teoria del deficit fonologico. 2.2 Teoria del deficit al sistema magnocellulare. 2.3 Teoria cerebellare. 2.4 Teoria multifattoriale.

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Capitolo 3 - I modelli esplicativi. 3.1 L’approccio neuropsicologico e il modello a doppia via. 3.2 L’approccio neuropsicofisiologico: il balance-model di Bakker. Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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3.3 L’approccio clinico e il modello di Boder 3.4 Il modello componenziale di Struiksma. 3.5 Il modello di sviluppo stadiale di Uta Frith.

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Capitolo 4 - Tipologie di diagnosi.

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4.1 Consensus Conference. 4.2 La diagnosi clinica. 4.3 La diagnosi funzionale. 4.4 Gli strumenti della valutazione.

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Capitolo 5 - I trattamenti della dislessia evolutiva.

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5.1 La prevenzione dei deficit di letto-scrittura. 5.2 Gli interventi restitutivi. 5.2.1 Trattamento per l’automazione del riconoscimento sublessicale e lessicale. 5.2.2 Il trattamento Balance-Model di Bakker. 5.2.3 Il trattamento percettivo-motorio. 5.2.4 Altre tipologie di trattamento. 5.3 I metodi compensativi.

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Capitolo 6 - Trattamenti a confronto: misure di efficacia e di efficienza.

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6.1 Significatività clinica dei trattamenti: misure di efficacia ed efficienza. 6.2 Un esempio di confronto tra trattamenti.

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Bibliografia.

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INTRODUZIONE

In Italia il dibattito attorno alla complessa problematica della dislessia evolutiva ha ricevuto un impulso notevole con l’emanazione, da parte del Parlamento Italiano, della Legge n. 170 del 10 ottobre 2010 sul riconoscimento dei DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento Scolastico) da parte delle istituzioni scolastiche a tutti i livelli. La nuova normativa, meglio conosciuta come legge sulla dislessia, ha introdotto due principi fondamentali, che declinano il diritto allo studio per i soggetti colpiti dal disturbo di lettura: il riconoscimento formale del disturbo, che può arrecare gravi ed irreparabili conseguenze alla crescita scolastica ed umana e il diritto a un trattamento pedagogico-didattico differenziato, nell’ambito della scolarizzazione di base primaria e secondaria. La riabilitazione neurocognitiva è il convitato di pietra, l’ombra che aleggia, la parola impronunciabile e la legge non ne fa cenno, perché? Una riflessione è d’obbligo: da una parte c’è un grande dibattito attorno ai temi della diagnosi, della potestà certificatrice e delle competenze professionali per la diagnosi medesima. Gli appellativi non si sprecano: multidisciplinarietà, interdisciplinarietà. Per poter fare una diagnosi sono richieste competenze multiple di psicopatologo dell’apprendimento (?), di neuropsichiatra, di logopedista, l’esercizio pubblico di una di queste professioni e l’accreditamento presso il S.S.N., ma il “grande controllo” si ferma qui. E la riabilitazione? Perché è scomparsa dagli articoli della legge? Quale ratio (intesa nelle sue espressioni epistemoEdizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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logiche e metodologiche) ha mosso gli estensori? Perché non si è inteso affidare alle medesime strutture pubbliche del S.S.N. anche l’obbligo dei programmi di riabilitazione? Perché si è affidato, ancora una volta, alla scuola italiana un compito e una funzione che non le sono propri? Perché s’è fatta una legge a costo zero? Le risposte a queste domande vengono dai risultati del primo biennio di attuazione. I risultati, desunti dalla prima rilevazione statistica del MIUR relativa al biennio di applicazione, (20112012), ci consegnano due Italie della dislessia; il nord, ove i processi di individuazione e certificazione della disabilità vanno avanti a ritmo progressivo, il mezzogiorno e le isole (la Sicilia in particolare), ove il processo riformatore si è praticamente bloccato, con un livello di certificazione di appena un alunno dislessico su dieci. Il dibattito cui partecipiamo anche attraverso la complessa rete telematica nazionale, aveva già evidenziato alcuni nodi problematici e non tutti positivi e progressivi. Un ruolo progressivo sta svolgendo la rete telematica di facebook, all’interno della quale la comunità di tecnici (principalmente psicologi e logopedisti) sta dibattendo ed estendendo la problematica della dislessia anche ai non addetti ai lavori. Ma sta sempre di più emergendo l’altro effetto, quello regressivo ed involutivo della legge. Infatti, l’impianto pubblicistico e statalista, che riconosce (s’intende ai soli fini della certificazione pubblica) alle sole ASP la potestà certificatrice, di fatto sta bloccando il processo riformatore quale era nelle intenzioni dei promulgatori della legge, appesantendo il lavoro delle équipe multidisciplinari chiamate alla diagnosi. Anche le regioni più avanzate dal punto di vista organizzativo sanitario, cedono il passo. Oggi avere una diagnosi in una struttura pubblica, costa in termini di tempo non meno di 12-16 mesi (vedasi Circolare del MPI n. 8 prot. 561 del 6 marzo 2013). La conferma arriva da un’auterevolissima fonte, la stessa che ha patrocinato e fortemente voluto la legge, l’Associazione Italiana Dislessia, per bocca della sua Presidente. “Purtroppo il ser10

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vizio sanitario nazionale ospedaliero e territoriale, come l’AID quotidianamente constata in tutto il territorio nazionale, non è in grado di dare risposte in tempi accettabili alle esigenze dei DSA, e non solo in riferimento alla diagnosi; questa realtà, che esamineremo, rischia di pregiudicare i diritti e gli interessi degli studenti con DSA.” (cfr. Posizione dell’AID sull’iter diagnostico in www.aiditalia.org/upload/posizione_aid_iter_diagnostico.pdf, 30/12/2011). Quali le conseguenze? Se si considera che la famiglia e la scuola, nella migliore delle ipotesi, cominciano ad attenzionare il problema non prima della fine del secondo anno della primaria, si comprende come la metà della cosiddetta finestra evolutiva vada perduta. D’altra parte la stessa legge, cui per altro difettano le indicazioni di carattere operativo, limitandosi a una demagogica enunciazione di principio, non individua la prevenzione come strumento fondamentale di contenimento e/o risoluzione della problematica della dislessia evolutiva. Ma la critica più saliente che si può muovere attiene al campo squisitamente tecnico-scientifico. L’enfasi e la centralità poste sulla dimensione scolastica sono le caratteristiche dominanti della legge sulla dislessia. Sul piano metodologico viene ribadita la centralità delle Misure educative e didattiche di supporto (art. 5 - didattica individualizzata e personalizzata, misure compensative, misure dispensative). Una visione epistemologica che a dir poco discutibile, il privilegio accordato ai metodi compensativi in luogo della prevenzione e della riabilitazione. Se si accetta il costrutto della classificazione dei trattamenti dei DSA in preventivi (4-7 anni di scolarità), di restituzione o di base (8-11 anni) e compensativi (oltre 11 anni) [Chilosi, 2006], si comprende che lo strumento compensativo, il cui nucleo centrale è la riabilitazione meta-cognitiva, si situa al di là della finestra critica e in nessun modo può restituire/migliorare la facoltà andata perduta. Indicazioni perfettamente coerenti ci vengono dai costrutti fondamentali della riabilitazione neuropsicologica dei disturbi acquisiti. La superiorità dei metodi restitutivi rispetto ai metodi Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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compensativi è un dato scientifico acquisito e ampiamente condiviso. I metodi restitutivi agiscono direttamente sul deficit, consentendo un ritorno di efficacia, a vari gradi e livelli, della funzione dannaggiata. I metodi compensativi insegnano al paziente l’utilizzo di strategie diverse, compensando la funzione deficitaria con altre funzioni [Serino, 2012]. L’ascolto di un testo al computer può compensare il deficit di lettura e consentire al dislessico la comprensione del testo stesso, ma non restituisce la funzione persa. Quanto poi al grado di comprensione che è in grado di attivare non vi sono ancora studi validati. Occorre ribadire con chiarezza ciò che la legge 170 misconosce, cioè che il trattamento riabilitativo della dislessia evolutiva è il nucleo fondamentale di qualsivoglia impostazione terapeutica della dislessia e che esso è un trattamento sanitario e non una metodologia educazionale e/o psicoeducativa e, come tale, rientra tra le competenze del Servizio Sanitario Nazionale (S.S.N). I metodi compensativi adottati a scuola sono misure educative e didattiche di supporto, necessarie ed anche indispensabili, ma pur sempre di supporto al trattamento riabilitativo. Ci è sembrato utile il chiarimento metodologico nella presentazione del presente lavoro, proprio per riportare al centro del dibattito il problema della dislessia, nelle sue componenti neurobiologiche, eziologiche, diagnostiche ed esplicative, di trattamento. Anche i fautori del principio, non ancora supportato da evidenze sperimentali, che vuole i metodi compensativi di efficacia superiore di quelli restitutivi, trattandosi di deficit evolutivi di cui è impossibile modificarne la struttura neurofunzionale [Stella, 2006], riconoscono la centralità della riabilitazione neuropsicologica, evento che si situa a monte di qualsivoglia intervento didattico-pedagogico incentrato sulla compensazione. Il libro si declina in sei capitoli, che trattano della dislessia evolutiva, della sua storia, dei paradigmi interpretativi, dell’approdo a una concezione neurobiologica a partire dai modelli esplicativi della psicologia clinica che facevano riferimento agli 12

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aspetti emotivo-relazionali, dentro un modello esplicativo teorico, il modello PCN o modello cognitivo-neuropsicologico, che fa della dislessia una complessa sindrome cognitiva-neuropsicologica. Il secondo capitolo descrive le principali ipotesi eziologiche: quella fonologica che rimane la più accreditata, l’ipotesi del processamento uditivo rapido, quella del doppio deficit, l’ipotesi visiva del deficit alla via magnocellulare e, per finire, quella del deficit multifattoriale. Il terzo capitolo descrive i modelli esplicativi con particolare riferimento al modello neuropsicofisiologico Balance-Model di Dirk Bakker, al modello neuropsicologico di Coltheart, a quello componenziale di Struiksma. Il quarto capitolo tratta dell’inquadramento nosografico e delle tipologie di dislessia presentate e discusse in relazione ai modelli esplicativi, della diagnosi differenziale e degli strumenti diagnostici. Il quinto capitolo presenta una dettagliata panoramica dei principali modelli di intervento riabilitativo, di tipo neuropsicologico e psicolinguistico. Il sesto capitolo illustra i criteri di significatività dei trattamenti e fa una comparazione statistica tra i trattamenti italiani più accreditati.

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CAPITOLO 1 - LA DISLESSIA EVOLUTIVA

La legge 8 ottobre 2010 n. 170 sancisce l’ingresso ufficiale dell’Italia nel novero dei paesi avanzati, che considerano la Dislessia Evolutiva un problema sociale importante e strategico per lo sviluppo del sistema scolastico italiano. Perché l’Italia è arrivata con circa un ventennio di ritardo al riconoscimento della problematica sociale e sanitaria dei DSA, almeno rispetto a molti altri paesi europei? La reductio ad unicum chiama in causa la psicologia clinica italiana come unica responsabile di questo ritardo. L’errore che si imputa ai clinici italiani di avere scambiato le cause con gli effetti, ha radici complesse. Certamente ancora oggi il paradigma di interpretazione prevalentemente di tipo psicodinamico, che spiega la DE come un disturbo di tipo emotivo e/o relazionale, è ancora abbastanza resistente anche tra gli stessi clinici [Stella, 2004]. Di volta in volta vengono evocati i sistemi relazionali del bambino e la sua risposta all’ansia che questi sistemi disfunzionali evocherebbero. Non di rado, almeno nell’opinione corrente delle scuole italiane, vengono chiamati in causa il parenting (rapporti diadici madre-figlio, rapporti poliadici, conflitti emotivo-relazionali interni alla famiglia), le relazioni a scuola e il carico eccessivo di richieste di performance apprenditive per un soggetto dislessico. Sicché le manifestazioni comportamentali (ipersensibilità, forme oppositive, irrequietezza motoria, ecc.), che tipicamente si associano alle difficoltà di lettura, sono evocate come cause e non effetti della DE. Un paradigma che è molto radicato nell’attività di molti clinici, così come Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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nel senso comune dei docenti italiani e, non di rado, pregiudica irrimediabilmente il futuro personale di molti bambini (cfr. caso clinico). La spiegazione di questo ritardo chiama in causa i rapporti della psicologia clinica italiana con la ricerca in neuroscienze, ed in particolar modo in neuropsicologia dell’età evolutiva. Forse è il caso di estendere l’assunto che è in atto una modifica culturale in seno alle neuroscienze italiane. L’impronta neurologica, che per lunghi decenni ha permeato la giovane neuropsicologia italiana, è al capolinea [D. Grossi, F. Boller, 1996] e, con essa, anche il paradigma riduzionista che ne consegue. Da qui il salto, non ancora compiuto del tutto, che ci fa ipotizzare che è in atto una transizione epistemologica, nel senso kuhniano del termine, verso un modello di spiegazione di tipo circolare e complesso che è quello cognitivo-neuropsicologico, contrapposto a quello riduzionista classico, che separa neurologia e psicologia clinica come scienze disgiunte e separate. Per cui l’incapacità iniziale della neurologia di spiegare l’eziologia della dislessia si coniuga con i risultati dell’altra scienza giustapposta la psicologia clinica, che la esplica invece in senso psicodinamico. Gli sviluppi neuroscientifici odierni, che hanno definito e affermato la matrice neurobiologica della DE, sono il risultato di questo cambio paradigmatico: da una visione riduzionistica e monodisciplinare (la neurologia con il suo carico di riduzionismo biologista e la psicologia clinica egemonizzata dal paradigma psicodinamico) a un’interpretazione transdisciplinare, circolare e complessa, in cui confluiscono i risultati e le conoscenze più recenti di un ampio spettro di discipline (neurologia, neuroanatomia, psicologia cognitiva, neuropsicologia cognitiva, neurofisiologia, neurochimica, neurofarmacologia). Ma è un confluire dinamico ed organizzazionale, cioè produttore di sé, in cui in queste interazioni i concetti e gli schemi migrano da un sapere all’altro, creando un processo ciclico che retroagisce non solo sulla disciplina singola ma anche sul ricercatore e su tutte le altre scienze. Le inter-retroazioni divengono così comunicazionali e 16

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organizzazionali, si ha una inter-grammaticazione reciproca e la fabbricazione di nuove teorie e nuovi principi [Lupo, 2006]. Il contributo più rilevante a questo sapere interdisciplinare e complesso è venuto dalla psicologia cognitiva e dalla neuropsicologia di matrice cognitivista. A queste due discipline dobbiamo lo sviluppo di una modellistica dei processi cognitivi in grado di spiegare l’architettura funzionale dei processi normali ed atipici. Ormai da decenni l’apporto neuropsicologico in psicologia clinica dello sviluppo trova un ampio impiego nello studio dei pazienti con lesioni al sistema nervoso centrale (SNC), con deficit cognitivo primario o secondario ad alterazioni genetiche, con disturbi specifici: disturbo specifico del linguaggio, disturbo specifico di apprendimento, disturbo della coordinazione motoria, ecc. [Temple, 1997; Vicari e Caselli, 2002], in soggetti con alterazioni comportamentali [Vio, 2004], in soggetti affetti da autismo [Frith, 1989; Surian, 2002]. Non è pensabile uno sviluppo in senso neuroscientifico delle conoscenze sui disturbi dell’apprendimento scolastico (DSA) senza l’apporto decisivo dei modelli esplicativi della dislessia e della discalculia: dai modelli di impianto e di matrice neuropsicologica, come il modello a due vie [Sartori, Job, 1983; Sartori, 1984], il dual-route-model [Coltheart, 1978], il modello di discalculia [McCloskey, 1985], a quelli neuropsicofisiologici: il balance model [Dirk Bakker, 1980].

1.1 La Dislessia Evolutiva nelle definizioni correnti

La comunità scientifica ha raggiunto un sufficiente accordo sulla definizione del termine dislessia evolutiva. Tre istituti, tra i più rappresentativi nel panorama internazionale, il National Institute of Child Health (NICH), l’International Dyslexia Association Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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(IDA) e l’European Dyslexia Association (EDA), concordano sostanzialmente nel definire la Dislessia Evolutiva (DE) come “una disabilità specifica dell’apprendimento di origine neurobiologica. Essa è caratterizzata dalla difficoltà nell’effettuare una lettura accurata e/o fluente e da abilità scadenti nella scrittura e nella decodifica. Queste difficoltà tipicamente derivano da un deficit nella componente fonologica del linguaggio che è spesso inattesa in rapporto alle altre abilità cognitive e alla garanzia di un’adeguata istruzione scolastica. Conseguenze secondarie possono includere i problemi di comprensione nella lettura e una ridotta pratica della lettura che può impedire la crescita del vocabolario e delle conoscenze generali” [IDA, 2003]. La DE viene classificata come un Distrubo Specifico dell’Apprendimento Scolastico assieme alla Discalculia Evolutiva, alla Disortografia e alla Disgrafia o disprassia della scrittura. Specificità, comorbidità e origine neurobiologica sono tre caratteristiche che distinguono un disturbo specifico dell’apprendimento scolastico da uno aspecifico. Le difficoltà di apprendimento, e nel caso in specie di lettura, infatti, possono essere anche la conseguenza di deficit sensoriali e/o educazionali, nel qual caso si parlerà di disturbo aspecifico [DSM-5, F81.9 Disturbo dell’Apprendimento non altrimenti specificato]. Quindi per poter parlare di DE è necessario, in primis, escludere l’esistenza di deficit sensoriali, così come anche di fattori di svantaggio socio-culturale. Disturbi alle vie visive ed uditive, deprivazione affettiva, carenze di accudimento e di educazione, si associano spesso ad atipico sviluppo delle abilità di lettura e finiscono per compromettere e/o rallentare la carriera scolastica. Nel disturbo aspecifico, in genere, sono presenti problematiche in tutte le aree dell’apprendimento scolastico, dalla lettura alla comprensione del testo, dalla discalculia alla disortografia, che si accompagnano spesso anche ad anomalie sensoriali, deficit neurologici, psicopatologie, fattori di esclusione per il disturbo specifico. Il disturbo specifico [DSM-5, F81.0 Disturbo di Lettura] è 18

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tale perché riguarda un dominio settoriale ben definito e delimitato e lascia intatte e in sviluppo tipico e normale le abilità afferenti ad altri domini. Occorre fare anche una seconda distinzione, quella tra disturbo e difficoltà. Non tutte le manifestazioni di sviluppo atipico della lettura in termini di velocità e di errori sono inquadrabili come learning disabilities. La differenza fra questi due profili ha un’importante ricaduta sui trattamenti riabilitativi. La condizione di disturbo, categoria nosografica inquadrata nel DSM-5 e nell’ICD-10, è l’espressione di un’organizzazione anatomo-funzionale cerebrale presente alla nascita, ma che trova la sua espressività quando il bambino è alla prese con l’apprendimento della lettura, della scrittura e del calcolo [Tressoldi, Vio, 2008]. Una condizione innata determinerebbe lo sviluppo atipico della lettura nel dislessico, in quanto le caratteristiche neurofunzionali sono geneticamente determinate e non acquisite [Grigorienko, 2001]. La natura neurobiologica determinerebbe, anche, una resistenza al cambiamento, response o resistance to instruction o, anche, résistance didactique et thérapeutique. La modificabilità dei comportamenti di lettura, attraverso attività specifice e mirate anche in termini di durata e frequenza, deve fare i conti con i complessi fenomeni di riorganizzazione strutturale e funzionale, per cui la resistenza al cambiamento viene interpretata come espressione di disturbo specifico. Viceversa, la risposta positiva susseguente ad adattamenti pedagogici e didattici è sintomatica del ritardo o delle difficoltà, eziologicamente correlate a fattori diversi da quelli neurobiologici, più in generale fattori di tipo educazionale. In definitiva i dislessici sarebbero soggetti resistenti al trattamento e per tale motivo la resistenza all’intervento si esprimerebbe come resistenza all’automazione dei processi di decodifica. In figura 1 è rappresentato il risultato di un trattamento riabilitativo di un alunno di inizio quinta elementare, con diagnosi di ritardo nell’acquisizione delle abilità di lettura. Al soggetto, per Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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tre mesi con due sedute settimanali di un’ora ciascuno, è stato applicato un trattamento misto: la stimolazione emisfero-specifica sinistra con presentazione tachistoscopica destra e l’automazione del riconoscimento sub-lessicale e lessicale. Gli esiti del trattamento in termini di efficacia e di efficienza sono i seguenti:

Fig. 1 - Esiti del trattamento riabilitativo delle difficoltà di lettura. Fonte: Lupo, [2009].

velocità di lettura di brano pre-trattamento 2,4 sill./sec., post 3,4 sill./sec., con un vantaggio di 0,9 sill./sec in tre mesi di stimolazione. Il cambiamento nella velocità di lettura è stato superiore a quello atteso dall’evoluzione naturale pari a 0.5 sill./sec.. L’esito del trattamento conferma la diagnosi che trattasi di ritardo e non disturbo. Il criterio della specificità inteso come deficit in un dominio specifico e circoscritto, si correla all’altro criterio quello della discrepanza. Il soggetto dislessico, a differenza di quello in ritardo, conserva tipicamente le altre abilità, a cominciare dall’intelligenza. Dunque nel dislessico esiste una deviazione statisticamente significativa tra intelligenza generale (QI) e risultati scolastici patologici non correlati all’intelligenza generale. Sicché nella pratica clinica un QI<85 misurato con i normali strumenti psi20

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cometrici viene ad essere elemento di esclusione per la diagnosi di dislessia evolutiva. Diversamente, il ritardo nell’acquisizione delle abilità di lettura, ma anche di altre come la discalculia, la disortografia e la disgrafia, può essere correlato, e molto spesso lo è, a un’intelligenza atipicamente al di sotto della norma, così come è correlato a svantaggio socio-culturale, a problemi emotivo-relazionali e di comportamento, a sindromi psicopatologiche, a carenze di istruzioni, a deficit neuropsicologici quali attenzione e memoria. Altri criteri utili alla definizione dei DSA sono: il carattere evolutivo, la diversa espressione del disturbo nelle diverse fasi dell’evoluzione, la comorbidità interna ed esterna, l’impatto negativo che compromette l’adattamento scolastico e le attività quotidiane. L’evoluzione naturale nel tempo delle abilità di lettura nel lettore tipico e atipico è stata attenzionata da diversi ricercatori. In uno studio longitudinale [Stella e Biondino, 2002], realizzato su 30 alunni (23 maschi e 7 femmine) di seconda e terza primaria con diagnosi di dislessia evolutiva di grado medio-lieve per 12 soggetti (fra -2 e -3 ds) e di grado severo per i rimanenti 18 (ds > -4), è stato dimostrato che la velocità di lettura, entro l’arco della scolarità obbligatoria, progredisce naturalmente con gradiente differente: mediamente 0,5 sill./sec. all’anno per i normolettori e 0,3 sill./sec nei soggetti con sviluppo atipico. Inoltre, in terza media, quando viene raggiunto l’effetto soffitto, la distanza che separa normolettori e dislessici risulta aumentata (in seconda primaria 2,1 vs 0,33 differenza 1,57, in terza media 5,32 vs 2,27 differenza 3,05). Un altro dato significativo che emerge dallo studio di Stella e Biondino, riguarda la stabilità del profilo dei dislessici. Infatti dei 18 dislessici definiti severi, solo uno al termine della terza media transita nel sottogruppo dei dislessici medio-lievi. Un’ultima acquisizione importante dello studio longitudinale dei due studiosi italiani, ai fini diagnostici e riabilitativi, riguarda la differente evoluzione nella velocità di lettura (che si mantiene costante) e Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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nell’accuratezza che, invece, evolve naturalmente verso profili di tipicità. Ne consegue la scarsa rilevanza del parametro accuratezza come indicatore critico della severità del disturbo [Stella e Biondino, 2002].

Fig. 2 - Evoluzione delle abilità di lettura in età evolutiva. Fonte: Stella e Biondino, [2002]

In definitiva, come per la lingua tedesca, anche per l’italiano lingua ad ortografia trasparente, la velocità di lettura sembra essere il criterio fondante e cruciale per la diagnosi di dislessia evolutiva, mentre l’accuratezza evolve spontaneamente verso profili di tipicità e non sembra essere un difetto persistente nel tempo.

1.2 Epidemiologia delle DE Un problema di rilevanza clinica e riabilitativa è la fenomenica della dislessia, cioè quanto, quando e come si presenta nella popolazione italiana. Vi è una mancanza di consenso circa le stime della presenza della dislessia evolutiva nella popolazione italiana e le cause sono le più disparate. 22

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Innanzitutto la mancanza di un osservatorio epidemiologico nazionale. Nell’ambito dei lavori della Consensus Conference 2007 è stato costituito un gruppo inter-associativo e interdisciplinare di ricerca epidemiologica, ma ancora non se ne vedono gli effetti, almeno in termini di produzione scientifica centralizzata di dati epidemiologici su base nazionale. Dunque i dati vanno desunti ed estrapolati da ricerche di carattere locale. Giacomo Stella [2002] fornisce dati varianti tra il 2,5% e il 3,5% della popolazione generale, sostanzialmente in accordo con i lavori di Salvatore Soresi [1993] e di G. Levi [1994]. Stime più alte vengono fornite da altri autori: Curci e Ruggerini [1991] la situano al 3,65%, Mazzotta [1992], e, infine, Tressoldi tra il 5% e il 10% [2001]. L’andamento del fenomeno nella scuola dell’obbligo sembra descrivere una curva a campana (fig. 3). A partire dall’inizio della seconda classe scuola primaria si ha un considerevole incremento, che tocca l’apice nel corso della terza primaria; poi comincia a decrescere fino alla fine della scuola media superiore [Stella, 2004]. Il dato sembra essere la spiegazione causale della diversità dei dati epidemiologici esistenti sul territorio nazionale. Non è possibile, infatti, comparare dati relativi a classi di età e di scolarizzazione diversi. Una conferma delle acquisizioni di Stella è data da uno studio della Regione Veneto, effettuato all’ASP di Verona dal Centro di Riferimento Regionale per i Disturbi dell’Apprendimento (CRRDP). La popolazione dei dislessici nell’età evolutiva (fino a 18 anni) è stimata attorno al 3,5%, con un andamento variabile per classi di scolarizzazione ed età: 0-4 3,5%, 5-7 5%, 8-10 3,5%, 11-18 2,5%. Un altro limite alla ricerca epidemiologica è rappresentato dagli strumenti di diagnosi. Solo a partire dalla Consensus Conference del 2006 sono state emanate Linee Guida anche per la diagnosi, che prevedono un protocollo standardizzato e misure di cut-off per la maggior parte delle prove. Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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Fig. 3 - Andamento della dislessia nell’arco dell’età evolutiva. Fonte: Stella e Biondino, [2002]

Uno stereotipo corrente spiega anche il ritardo culturale italiano all’approccio problematico della dislessia evolutiva. La lingua italiana, per la sua caratteristica di essere lingua ad ortografia trasparente (vedi oltre), si apprende in contesti ecologici in modo facile. I bambini che non imparano a leggere, data la semplicità del sistema ortografico, sono da sempre considerati pigri e svogliati. Dunque i ritardi nella consapevolezza fonologica e nei processi di transcodifica vengono ancora oggi molto spesso sottovalutati [Stella, 2004]. Altro e rilevantissimo problema soprattutto ai fini riabilitativi, è quella delle forme cliniche assosciate alla DE. Raramente la DE si presenta nella forma pura; molto spesso essa è associata ad altri disturbi, dunque in comorbidità. La comorbidità del disturbo di lettura con altro DSA (disortografia, diascalculia, disprassia della scrittura) o con manifestazioni psicopatologiche (ansia, de24

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pressione, disturbi oppositivo-provocatori, ADHD, disturbi del comportamento, ecc.) può essere di due tipi: conseguente e cooccorrente. In misura e gradi diversi la dislessia si accompagna a disturbi della sfera emotivo-relazionale e del comportamento, sicché molto spesso questi vengono erroneamente considerati le cause della difficoltà nella decodifica della parola scritta. È un rapporto complesso quello della dislessia con i disturbi della sfera emotiva, affettiva e motivazionale che invariabilmente l’accompagnano, articolato nell’eziopatogenesi dei sintomi disfunzionali e negli effetti che può produrre a media e lunga scadenza. Ovviamente, il quadro dei profili psicologici e non necessariamente psicopatologici è estremamente variante e non riducibile ad un unicum. Soprattutto il livello qualitativo della sintomatologia dipende da numerosi fattori, tutti spiegabili alla luce di un modello interpretativo, multifattoriale, complesso e a-soglia, il modello cognitivo-neuropsicologico (vedi oltre). Diversi e complessi fattori di origine genetica e ambientale contribuiscono al determinismo della struttura di personalità del soggetto dislessico. Una struttura ancora in formazione che, quindi, può essere “aggiustata” con opportuni correttivi terapeutici. Pur nella diversità dei profili fenomenologici, alcuni processi di base si presentano comuni a tutte le forme di dislessia in diverse aree: della motivazione, della sfera emotiva, della sfera relazionale, del successo scolastico, e determinano un disagio psicologico che, non di rado, evolve in disagio sociale. L’area della motivazione è senza dubbio la prima ad essere intaccata. Il bambino dislessico è svogliato, apparentemente privo di motivazione allo studio, utilizza tecniche di coping disfunzionali quali la disattenzione, la scarsa partecipazione, l’evitamento, che ben presto si circolarizzano e divengono abitus comportamentale corrente. A scuola viene definito svogliato, privo di interessi e si rifiuta di fare i compiti, a volte compaiono anche segni apparenti di inibizione intellettiva. La sfera emotiva è contrassegnata da un vissuto di profondo Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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disagio e frustrazione, che non di rado si declina in manifestazioni di ira e di rabbia, con comportamenti oppositivi ed aggressivi. La scuola è vissuta con profonda tensione, diviene essa stessa fonte di disagio. Spesso rifiuta di andare a scuola, accusa sintomi somatici proprio al momento della separazione, mal di pancia, mal di testa, sensazioni di vomito; sembra quasi esser preso da ansia da separazione o fobia per la scuola. La sfera relazionale può contribuire a circolarizzare i comportamenti disfunzionali del bambino dislessico. I primi comportamenti aggressivi diventano fattori trigger, che innescano interazioni sociali distorte e di rifiuto. Intorno ai sintomi del bambino si crea una scuola selettiva, che rifiuta le sue difficoltà, che pretende senza dare, che emargina più che integrare. È la profezia che si autoavvera: il bambino è un disadattato, non è scolarizzabile, non è portato per la scuola, manca dei prerequisiti cognitivi e comportamentali, è meglio che resti a casa. L’eziologia di questi comportamenti disturbanti la si ricerca solo nel parenting. Il rendimento scolastico diventa esso stesso molto spesso fonte di disagio. Le ferite inferte all’autostima da richieste superiori alle capacità personali (ben oltre la zona di sviluppo prossimale del bambino), caricano di ansia tutto il vissuto scolastico e attivano un processo difensivo di disinvestimento difficilmente reversibile [Mancini, Gabrielli, 1998]. Insuccesso e bassa autostima elicitano un processo di circolarità viziosa di cui è impossibile intelligere la rampa di lancio. Un indice basso di autostima induce aspettative negative. Il soggetto tenderà a evitare l’impegno, con un atteggiamento autolesionistico (self handicapping), che però è funzionale al suo benessere psicologico. Attribuisce l’insuccesso allo scarso impegno ed evita una più compromettente causalità alla sua incapacità. Tutto ciò, ovviamente, si accompagna ad ansia e stress emotivo. Il risultato non può che essere negativo, ma l’angoscia è “vinta” da questa forma autodifensiva. Il senso di colpa autodiretto e eterodiretto subentra all’insuccesso in correlazione agli atteggiamenti ed alle aspettative dei suoi altri significativi (genitori, 26

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insegnanti e compagni). Il circolo vizioso si chiude (per riaprirsi immediatamente dopo per un nuovo processo) con un effetto dominante: l’abbassamento del senso di autoefficacia e dell’autostima globale e la nascita dell’helplessnes (impotenza appresa), una condizione di completa vulnerabilità che sopravviene alla credenza acquisita che non esista più nulla che sia in grado di proteggere il Sé, e di conseguenza il soggetto dislessico, completamente esausto, non mette più in atto alcun genere di sforzo [Seligman, 1996].

Fig. 4 - Circolo vizioso dell’helplessness.

Don Lorenzo Milani ed Edgar Morin, due contemporanei dai destini e dagli esiti vitali così diversi, ma accumunati dalla medesima sensibilità intellettiva, ci hanno ben spiegato la funzione insostituibile del linguaggio: l’uomo è il suo linguaggio e il linguaggio è l’uomo. Fra l’uomo e il linguaggio v’è una relazione circolare e complessa, in cui ciascun elemento della diade genera l’altro in un processo autopoietico circolare senza fine. Opportunamente scrive il Maestro di Barbiana: Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua. Questa non fa parte delle necessità professionali, ma delle necessità di vita d’ogni uomo, dal primo Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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all’ultimo che si vuol dire uomo... Ciò che manca ai miei è dunque solo questo: il dominio sulla parola. Sulla parola altrui per afferrarne l’intima essenza e i confini precisi, sulla propria perché esprima senza sforzo e senza tradimenti le infinite ricchezze che la mente racchiude [Milani, 1956]. Altrettanto esplicativo il pensiero dell’epistemologo francese Edgar Morin: L’uomo si è fatto nel linguaggio che ha fatto l’uomo. Il linguaggio è in noi e noi siamo nel linguaggio .[…]. Il linguaggio permette l’emergenza della mente umana, le è necessario per tutte le operazioni cognitive e pratiche, ed è inerente a ogni organizzazione sociale [Morin, 2002]. Se dunque il linguaggio è l’essere, nel suo venir meno svanisce l’essere stesso, che scolorisce nella variegata fenomenica della comorbilità esterna, ovvero del suo presentarsi, in modo statisticamente significativo, in compresenza con disturbi di natura psichiatrica, della cui risoluzione dipendono anche gli esiti sul piano dello sviluppo individuale e sociale. Non necessariamente, però, la compresenza di DSA e sindromi psichiatriche va intesa come diversa espressione di un unico fattore monopatogenetico [Consensus Conference, 2007]. Il disagio personale e sociale del soggetto dislessico con le sue manifestazioni nella sfera cognitiva, emotivo-relazionale e comportamentale, può evolvere verso un disturbo mentale solo in condizioni di vulnerabilità. In questo senso, più che parlare di evoluzione verso, è più corretto considerare l’emergenza di un DSA come di un evento critico, il più delle volte inaspettato, che costituisce una prova impegnativa per il bambino e i suoi genitori, perché impone loro una modifica della concezione che hanno di se stessi e una verifica nel campo della qualità protettiva e confortante della loro relazione di attaccamento che dà luogo a diverse risposte non rigidamente disgiunte e lungo un continuum di risposte collegate tra loro: di adattamento funzionale, di adattamento difensivo, di alternanza di stragegie protettive, di alternanza di strategie improduttive, di disperazione, di depressione e di helplessness [Ruggerini, Lambruschi, Trebeschi, 28

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Landini, 2004]. La mancanza in Italia di un osservatorio epidemiologico nazionale rende difficile quantificare la presenza di disturbi psichiatrici che si presentano in comorbilità con la dislessia evolutiva. In uno studio di 64 dilessici, circa il 30% presentava disturbi psichiatrici. Largamente rappresentativo era il Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) 15% in associazione spesso con il Disturbo Oppositivo Provocatorio, seguito da Disturbo dell’Umore di Tipo Depressivo per l’11%, e altri disturbi come Pavor Nocturnus, Tricotillomania, Eneuresi primaria, Encopresi primaria, Disturbo d’Ansia da Separazione, Disturbo Iperansioso dell’Infanzia presenti in casistica con la stessa frequenza con cui compaiono nella generale popolazione [Marino e Vanzin, 2000]. L’eziologia di questi disturbi appare, al momento, indipendente dal quella della dislessia, anche se la presenza contemporanea dei due disturbi (ad esempio dislessia e ADHD) si influenza reciprocamente, sì da potenziare circolarmente gli effetti negativi dell’uno e dell’altro disturbo. Da quanto detto precedentemente ne discende, come logica conseguente, il costrutto ampiamente condiviso dalla comunità scientifica della spiccata variabilità dei quadri clinici della dislessia, per cui sarebbe più corretto parlare di dislessie e non di dislessia. Ovviamente questo discorrere sulla o sulle dislessie non è un puro discordo accademico. Si comprende facilmente che la natura e le componenti del profilo clinico ed eventualmente psicopatologico, influenzano fortemente l’inquadramento diagnostico nosografico, ma soprattutto le previsioni prognostiche e il progetto riabilitativo nei diversi profili. L’inquadramento della variabilità dei quadri clinici della dislessia evolutiva fa riferimento a quattro dimensioni: [Adelman, Taylor, 1986]: i fattori eziologici, l’intensità dei sintomi, la relazione con le altre aree dello sviluppo o dell’apprendimento, la persistenza del quadro sintomatologico nel tempo. Una metafora geometrica esprime efficacemente l’eziologia Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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del disturbo. Lungo un continuum sensa soluzione (un asse geometrico) si rappresentano i fattori attivi del determinismo della dislessia. I fattori neurobiologici (estremo a sinistra) interferiscono con gli altri i fattori ambientali che possono fare da fattori di vulnerabilità e di protezione. Uno sbilanciamento a destra verso i fattori ambientali disfunzionali: estrazione socio-culturale, sistema di attaccamento-accudimento, il parenting, la rete sociale, il teaching, se da una parte può mascherare la dislessia, dall’altro rende più positiva la prognosi. Una sbilanciamento netto a favore del carettere neurobiologico rende più resistente il quadro sintomatologico neuropsicologico, dovendo fare i conti con gli effetti di un’alterazione della struttura corticale [Ruggerini, 2004]. La prognosi è legata a due specifici fattori: l’intensità del quadro neuropsicologico (lieve o severo) e la tipologia di disturbo (dislessia fonologica, superficiale o mista). In linea di principio la gravità del quadro neuropsicologico è espressione del peso dei fattori neurobiologici, così come nella dislessia fonologica. In questo caso l’evoluzione nel tempo ha una prognosi più negativa e il disturbo permane nel tempo. Ovviamente gli esiti evolutivi sono mediati dalla relazione reciproca che si instaura tra i diversi livelli: cognitivo e psicopatologico. A influenzarne gli esiti è l’esistenza di fattori protettivi (attaccamento sicuro, parenting funzionale, insegnamento efficace e personalizzato, rete sociale di supporto, ecc.). Un ruolo decisivo ha il parenting. Sul piano epidemiologico è accertato che in un terzo dei casi di dislessia sono presenti difficoltà familiari. Non di rado un bambino dislessico vive in famiglie in cui i genitori hanno problematiche psichiatriche, problemi relazionali di coppia, in famiglie adottive, o che hanno sofferto la perdita di un genitore, o in famiglie separate. Queste condizioni finiscono per svolgere un ruolo di rischio psicosociale che può elicitare esiti prognostici negativi.

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Fig. 5 - L’arco neuropsicopatologico della Dislessia evolutiva secondo il modello PCN, Lupo [2014].

1.3 Le traiettorie evolutive dei bambini dislessici Che esiti ha la dislessia evolutiva fuori dal periodo dello sviluppo, nell’età adulta? Una domanda carica di significati scientifici ma soprattutto esistenziali per il soggetto dislessico, cui nemmeno la Consensus Conference 2010 ha dato una risposta definitiva. Si è limitata a ribadire ciò che non è accertato e dimostrato scientificamente, lasciando aperte le riposte a soluzioni che solo la ricerca futura potrà dare. La prognosi va posta a tre diversi livelli nell’età adolescenziale ed adulta: a livello del disturbo, cioè dell’evoluzione a distanza dei processi di decodifica; a un secondo livello quello della prognosi psicopatologica, riferita al rischio di insorgenza di un distrurbo della condotta e, in ultimo, a livello della prognosi scolastica-lavorativa, cioè degli effetti sul curriculum scolastico e sulle possibilità di accesso al lavoro. Si è già detto nell’introduzione, che ciò che caratterizza il disturbo dal ritardo è la resistenza al trattamento. Dunque dagli studi sull’evoluzione della dislessia nel tempo ci si attende la Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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persistenza e la non variabilità. In effetti è quanto emerge allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, attraverso l’unica metanalisi effettuata su studi di lingua anglofona. Swanson e collaboratori [2009] hanno effettuato una metanalisi su 52 studi pubblicati tra il 1963 e il 2007, includendo soggetti con dislessia (1.793) e soggetti di controllo (1.893), di età compresa tra 18-44 anni, con media 24 anni e ds di 6 anni e con un Quoziente Intellettivo QI > 80. Sono state individuate variabili suddivise in classificatorie e comparative, così denominate perché rientranti nei criteri che definiscono la lettura (le prime) e non incluse nei criteri classificatori (le seconde). Per ciascuna variabile è stato calcolato l’effect size, ovvero un indice statistico che misura il grado di associazione o dimensioni dell’effetto tra la dislessia e le variabili considerate. L’effect size per la lettura e le sue variabili classificatorie o non: lettura e competenze neuropsicologiche necessarie alla lettura (consapevolezza fonologica, lettura di parole, lettura di nonparole, velocità di lettura, spelling di parole, comprensione del testo, intelligenza verbale), si situa a valori alti e tutti superiori a 0,80. Dunque in età adulta, non solo la lettura globale, ma anche alcune sue componenti neuropsicologiche continuano a mantenersi deficitarie, consentendo ancora di differenziare tra adulti normolettori e adulti dislessici. La meta-analisi di Swanson e collaboratori individua anche una dipendenza dal QI. Quanto più alta è la discrepanza tra valori di QI e delle capacità di lettura (in termini di velocità e correttezza), tanto maggiore si manifesta la distanza abilitativa che separa i dislessici adulti dai normodotati adulti. Infatti l’effect size per le due variabili QI e lettura cresce proprorzionalmente al crescere della loro discrepanza iniziale.

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Tabella 1: Evoluzione a distanza dell’efficienza del processo di lettura. Fonte: Swanson H. L. et. al. [2009].

I risultati della meta-analisi appena descritta possono considerarsi coerenti con la ricerca longitudinale di Stella e Biondino, precedentemente esposta. Sia pure limitata all’arco dell’età evolutiva, essa dimostra due elementi: l’evoluzione naturale da un deficit di grado severo a uno di grado lieve si può realizzare entro la terza media, quando viene raggiunto l’effetto soffitto, cioè quando si completa lo sviluppo delle abilità di lettura negli studenti italiani; solo una bassissima percentuale di soggetti (uno su 18) ha una evoluzione positiva della disabilità verso il grado lieve [Stella e Biondino, 2002]. In definitiva, anche se in termini assoluti si realizza un miglioramento delle abilità di lettura, con un incremento annuo di 0,3 sill./sec, le prestazioni dei soggetti dislessici rimangono molto al di sotto di quelle dei loro pari per età e scolarizzazione, sì da costituire un fattore di rischio per gli esiti scolastici e lavorativi futuri. Per cui allo stadio attuale della ricerca si può legittimamente sostenere che la Dislessia Evolutiva appare come un disturbo molto persistente in tutto l’arco della scuola dell’obbligo. Un’ultima notazione che si rileva dal lavoro dei due studiosi italiani riguarda il differente sviluppo tra velocità di lettura che è più resistente al cambiamento, rispetto all’accuratezza (numero di errori) che, invece, nel dislessico italiano evolve in senso tipico più rapidamente, a partire dalla fine della scuola primaria. Il secondo livello di analisi prognostica è quello dell’evoluzione nel campo della salute mentale e dell’adattamento sociale. Gli esiti della circolarità viziosa (vedi par. 2) che porta il Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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soggetto alla definizione dell’helplessness non necessariamente debbono sfociare in esiti psichiatrici. Una vasta letteratura, nella seconda parte del secolo ventesimo, ha sottolineato il rischio di una prognosi sfavorevole in senso psicopatologico per i bambini dislessici. L’ottica riduzionistica della scienza psichiatrica fino alla fine degli anni sessanta, ha portato a sostenere l’esistenza di un rapporto di causalità diretta e lineare tra dislessia evolutiva e grado di disadattamento sociale, fino ad ipotizzarre una causalità con le forme delinquenziali giovanili ed adulte. Il paradigma di questa riduzione è ben espresso dalla psichiatria statunitense: Il fallimento iniziale dello studente nell’apprendimento della lettura può avere enormi conseguenze in termini di adattamento emotivo, tendenza alla delinquenza [Department of Health State United, 1969]. Un decennio più tardi, alla fine degli anni ottanta, toccò a O. Spreen dimostrare la semplicazione del costrutto dislessia = psicopatologia, attraverso un suo studio accurato. L’ampiezza del campione (203 dislessici e 53 soggetti di controllo) e soprattutto la durata notevole del follow-up (dieci anni), dimostrò l’erroneità di quelle posizioni. Spreen arriva alla conclusione che non esiste un rapporto di causalità diretto tra le due variabili ed evidenzia la grande eterogeneità della prognosi psicopatologica dei soggetti dislessici in età adulta: Abbiamo trovato alcuni nostri clienti in prigione o in ospedale psichiatrico, altri in case confortevoli di loro proprietà e apparentemente in armonia con le loro comunità [Spreen O., 1979]. Il decennio degli anni ottanta vede realizzarsi una rivoluzione paradigmatica nel campo della psicopatologia. Il modello medico riduzionista della psichiatria classica scricchiola sotto le spinte innovative dei lavori di A. Beck sulla Psicoterapia cognitivista. In Italia la prospettiva cognitivista standard veniva rielaborata da Giudano e Liotti in direzione costruttivista, con l’introduzione di costrutti importanti sulla conoscenza (tacita/esplicita), sulla dinamica centrale di costruzione della realtà (esperire/spiegare). A seguire, alla fine degli anni novanta, dalla matrice cogni34

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tivista originaria si sviluppa un nuovo e più avanzato paradigma interpretativo, mediato dall’epistemologia della complessità [Morin, 1977], la Complex Cognitive Therapy. Si afferma il principio di una eziopatogenesi delle affezioni psichiche di tipo multifattoriale ed il modello bio-psico-sociale viene assunto come il paradigma interpretativo capace di spiegare l’eziopatogenesi come interazione complessa di più fattori: la vulnerabilità biologica, il genotipo e i fattori ambientali [Scrimali T. 2000]. Sicchè l’assetto emotivo, che è la condizione per l’insorgenza di un disturbo psicopatologico correlato, non è più spiegabile unidimensionalmente con una noxa patogena (il deficit di lettura), bensì con un complesso ed articolato processo di bilanciamento dei fattori di vulnerabilità, biologici e non, e di protezione (parenting funzionale, aiuti abilitativi). Uno studio effettuato tra il 1985 e il 1996 conferma queste innovative concezioni della psicopatologia di fine secolo ventesimo. Concettualizza la relazione tra DSA (e la dislessia in particolare) e l’insorgenza di un disturbo psichiatrico, come relazione possibile ma non obbligatoria. E la casistica conferma questa tesi. Nel campione studiato gli autori individuano tre diversi profili di personalità analizzati con uno studio della personalità: un 30% di soggetti dislessici presenta un profilo assolutamente normale; un ulteriore 40% un buon adattamento sociale; il rimanente 30% ha un profilo di natura psicopatologica, distribuito equamente tra disturbi tipo inward (ansia e depressione) e una psicopatologia outward (disturbo oppositivo-provocatorio, disturbo della condotta, deficit di attenzione e iperattività). Quanto basta per escludere la significatività della relazione dislessia evolutivadisturbi psicopatologici [Rourke e Furst, 1995]. Altri e più recenti studi arrivano a conclusioni più esplicite circa il rapporto tra dislessia evolutiva e probabilità di insorgenza di disturbi psichiatrici della sfera internalizzante, quali depressione ed ansia. In un campione di 94 cattivi lettori di 15 anni seguiti per 2 anni e mezzo e confrontati con un egual numero di normolettori (campione di controllo), si è dimostrata una correlaEdizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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zione significativa tra le due variabili [Arnold, 2005]. Uno studio più datato [Maughan, 1996] effettuato su un campione più vasto: 200 bambini all’età di 10 anni con un follow-up fino all’età adulta (età media 27,7), ha dimostrato una buona correlazione con il deficit di attenzione e iperattivtà (ADHD) ma non con comportamenti antisociali in adolescenza e nell’età adulta. Due altri studi introducono la tematica dei fattori confondenti presenti prima dell’insorgenza della disabilità di lettura. Un vasto campione di bambini (856 in tutto) è stato seguito dall’età di otto anni e fino a 18. Il campione è stato suddiviso in due sottogruppi: una con difficoltà di lettura o reading delayed (sotto 1 ds), e l’altro con disturbo o reading disability (oltre 1 ds). Dai 10 ai 16 anni è stata valutata la presenza di comportamenti antisociali, ma contemporeaneamente la presenza di variabili confondenti: comportamenti precoci, età, fattori socio-demografici, gruppo etnico, relazioni intra-familiari, scolarità della madre. La relazione tra dislessia e comportamenti devianti perde di significatività statistica se si considerano i fattori confondenti e, fra questi, il più specifico e correlato risulta la presenza di problemi comportamentali prima dei sei anni, cioè in periodo antecedente all’emergere del deficit di lettura [Fergusson, 1997]. In ultimo uno studio analogo [Trzesniewski, 2006] conferma il ruolo dei fattori confondenti legati al contesto familiare nell’eziopatogenesi dei disturbi della condotta in soggetti affetti da dislessia evolutiva. L’ultimo livello di analisi prognostica riguarda l’adattamento scolastico nel soggetto dislessico lungo l’arco della scolarità obbligatoria e superiore. L’ottica da cui ci poniamo è quella della psicopatologia dello sviluppo di matrice cognitivista. Descriveremo un caso clinico e i suoi esiti attuali, già parzialmente definitivi, desunti dalle narrazioni del percorso evolutivo di adattamento/disadattamento del soggetto e della caregiver al suo percorso di vita. 36

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Caso clinico: la storia paradigmatica di Filippo Filippo (nome di fantasia) ha oggi 15 anni frequenta la prima superiore all’istituto tecnico industriale e, apprendiamo mentre scriviamo, che il suo consiglio di classe lo ha “bocciato” perché ritenuto immaturo ed inadatto alla seconda classe. Dai dati già a nostra disposizione si sa con certezza che la scuola ha palesemente violato i dettami della legge 170/2010 in quanto ha omesso di redigere il PDP. Mamma Teresa è una signora laboriosa, energica, combattiva, amorevolmente osservatrice, “cocciuta” nella sua perseverante “ostinazione” di voler dare aiuto al figlio Filippo, per quelle che ella considera, già all’apparire, chiare difficoltà di apprendimento della lettura. Filippo inizia la scuola primaria nell’anno scolastico 2004/05 all’istituto comprensivo di un paese della provincia. Già dai primi giorni di scuola emergono le prime criticità. La mamma inizia un insistente dialogo con le maestre, segnala da subito le difficoltà e i ritardi del proprio bambino nell’apprendere le strategie di lettura. Inizia così un triennale calvario fatto di incomprensioni e solitudine e la famiglia si ritrova ben presto sola con il suo “bambino-problema”. Più passa il tempo e più il giudizio della scuola diventa di tipo etico-morale: il bambino è svogliato, non si impegna, è disinteressato e disattento, si rifiuta di lavorare a casa come a scuola, si comporta male, si oppone alle maestre e ai compagni, non è scolarizzabile, è inadatto a frequentare la scuola, è in buona sostanza un “caratteriale”. A volte il disagio scolastico del bambino si manifesta con comportamenti interiorizzanti, in questo caso Filippo viene tranquillamente lasciato a “riposare” sul suo banco, tanto non intralcia il regolare svolgimento delle lezioni; quando invece i comportamenti si presentano nelle forme esteriorizzanti, viene allontanato dall’aula, in corridoio, costretto a vagabondare, per non disturbare il clima relazionale ed educativo della classe. E intanto le difficoltà di Filippo si circolarizzano, diventanEdizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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do ritardi e poi disturbo. Il bambino non sviluppa i prerequisiti della letto-scrittura. Rimane lento nel riconoscimento grafemico, nel lavoro seriale sinistra-destra; non riesce in compiti basilari di analisi fonemica delle parole, stenta nella fusione sillabica ma non riesce in quella fonemica; i compiti di ricerca visiva diventano quasi insormontabili, la globalità visiva ne risente fortemente; in conseguenza l’accesso alla parola si fa lentissimo ed impreciso. Le difficoltà di lettura compromettono le possibilità di apprendimento nelle diverse aree scolastiche: in italiano come in matematica, in storia come in scienze; eppure il bambino non dimostra segni di ritardo mentale, né di disabilità alcuna. Il tempo è inesorabile, passa con grande rapidità. Il bambino cresce, dalla prima va alla seconda e poi alla terza elementare. Con la sua crescita cronologica crescono anche le evidenze dei disapprendimenti; ma per la scuola non esiste problema. Di volta in volta cambiano le congetture esplicative: prima lo stile dell’accudimento, poi i problemi emotivo-affettivi che il bambino vivrebbe in famiglia, in seguito inesistenti problemi sociorelazionali con i compagni, quindi la sua personalità disturbata, in ultimo perfino il disturbo emotivo della mamma, che comprometterebbe, a detta delle insegnanti, l’equilibrio affettivo ed emotivo del figlio, dando origine al rifiuto della scuola da parte di Filippo. Mamma Teresa non cede, comprende che le spiegazioni insensate non sono altro che un tentativo della scuola di scaricare le sue responsabilità sulla famiglia, acquista sempre più la consapevolezza di esser sola, che la scuola non è in grado di fornire l’aiuto ch’ella richiede, e decide di cambiare scuola e maestre. Siamo già al 2007, Filippo inizia la quarta elementare in un altro istituto comprensivo del paese. Per tutto il primo quadrimestre il clima attorno al fanciullo cambia, si fa più accogliente. E l’umore del bambino ne risente positivamente, ma dura poco. Sei mesi dopo l’inizio delle lezioni scatta però la scintilla nelle menti dei nuovi insegnanti. Perché non portare Filippo ad un 38

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controllo specialistico presso l’ASP competente? Mamma Teresa finalmente sospira contenta: “vuoi vedere che finalmente imbrocchiamo la strada giusta?” pensa tra sé e sé. Accetta di buon grado e porta Filippo al controllo specialistico, prima presso uno Studio di Pedagogia Clinica (marzo 2008), quindi all’esame presso l’ASP competente (aprile 2008). Arriva così la conferma dei timori di mamma Teresa: per i pedagogisti Filippo soffre realmente di Dislessia (senz’altra qualificazione e specificazione), per l’Équipe Multidisciplinare di “Disturbi evolutivi specifici delle abilità scolastiche (cod. F81 dell’ICD-10)”. Il cerchio finalmente si chiude, dopo tre lunghi anni di peregrinazioni Filippo finalmente riceve la giusta diagnosi e può iniziare un trattamento riabilitativo per la riduzione del deficit. Giova ricordare che si è nel bel mezzo, forse quasi alla fine della cosiddetta finestra evolutiva, il periodo cioè critico, in cui una diagnosi ben fatta, i profili neuropsicologico e cognitivo ben accertati e un trattamento specialistico riabilitativo ben calibrato e finalizzato all’automazione dei processi di decodifica, potrebbero contenere il deficit e migliorare l’approccio alla lettura, garantendo al bambino, non la risoluzione totale del suo problema ma l’autonomia nello studio e nell’apprendimento. In realtà questa ultima opportunità non viene colta appieno, e inizia un secondo lungo calvario di Filippo e di mamma Teresa. Per spiegare questo secondo peregrinare, occorre partire dalle due diagnosi che si limitano a fotografare ciò che già si sapeva: l’esistenza di un ritardo nell’acquisizione della capacità di lettura. Entrambe mancano di un passaggio essenziale e fondamentale: la stesura del profilo di sviluppo neuropsicologico, di quello cognitivo generale, del profilo di sviluppo dei prerequisiti della lettoscrittura e del conseguente profilo di sviluppo degli apprendimenti scolastici. I profili anzidetti costituiscono il supporto imprescindibile per la scuola ai fini della stesura del Piano Didattico Personalizzato (PDP). La redazione del PDP è, infatti, “atto dovuto per le scuole Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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in presenza di un alunno con segnalazione specialistica di DSA (Disturbo dell’Apprendimento Scolastico)” (cfr. Circolari esplicative precedenti la Legge 170/2010 e le Linee Guida del Ministero della Ricerca e dell’Istruzione). Nel caso in specie, sia il servizio pubblico sia quello privato, hanno palesemente omesso la redazione di un atto che la normativa scolastica richiede come dovuto e imprescindibile. Conseguentemente nemmeno la scuola è stata in grado di redigere il suo PDP. Mamma Teresa accompagna Filippo, per lunghi periodi nel biennio 2008-2009, al centro privato specialistico per il trattamento della dislessia. Del lungo trattamento riabilitativo si conoscono solo due scarne relazioni. Quella di dimissione nel marzo del 2010 è esattamente uguale a quella di prima valutazione nel marzo del 2008: non specifica la tipologia di trattamento utilizzata, omette l’indicazione dei protocolli di valutazione utilizzati ex-ante ed ex-post, misconosce le Linee Guida della Consensus Conferenze sulla Dislessia del 2007 e, a coronamento, manca anche la sottoscrizione del professionista che ha curato la diagnosi e il trattamento riabilitativo. Dall’altra parte la scuola, che non redice il PDP, si trova nell’incapacità di attuare le direttive ministeriali (cfr. Nota prot. 4099/A4 del 5 ottobre 2004 e seguenti), che le impongono l’adozione di strumenti compensativi e dispensativi, vuoi per l’assenza dei profili anzidetti, vuoi per la scarsa conoscenza dei profili giuridico-normativi del Ministero della Pubblica Istruzione in materia di DSA. Le conseguenze su Filippo sono a dir poco devastanti. Il ragazzo acuisce il proprio distacco emotivo-affettivo dalla scuola, accresce un disinvestimento affettivo-motivazionale che lo porta al totale disimpegno, approfondisce il gap apprenditivo e culturale. Nel frattempo passa alla scuola media. A marzo del 2010, le ripetute sollecitazioni dei nuovi insegnanti spingono mamma Teresa verso una valutazione della condizione che a loro sembra di “evidente handicap cognitivo”, che giustifichi l’adozione di 40

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misure di sostegno ma non quelle compensative e dispensative chieste dalla famiglia alla scuola con formale istanza in base alla diagnosi prodotta. Il centro, che ha formalmente ancora in trattamento il ragazzo, riformula la stessa relazione del 2008 (di cui s’è già detto). Il servizio sanitario riformula la stessa medesima diagnosi di Disturbi evolutivi specifici delle abilità scolastiche, e il circolo vizioso ed inerte della burocrazia scolastica e sanitaria si richiude senza alcun reale contributo alla salute di Filippo. Intanto sono passati sei lunghi anni, il BAMBINO DISLESSICO è diventato un RAGAZZO DISLESSICO. In seguito alla valutazione specialistica cui si è liberamente sottoposto gli è stata fatta la diagnosi di DISLESSIA EVOLUTIVA PROFONDA DI GRADO SEVERO. Cosa vuol dire? Che il ragazzo ha un grave deficit che riguarda sia l’accesso indiretto o fonologico, che l’accesso diretto o lessicale, che tutte e due le vie di lettura sono gravemente compromesse. Entrambi gli indici sono fortemente deficitari: legge il brano a una velocità di 0,81 sill./sec. (4 deviazioni standard dalla media), mentre la lettura di parole e nonparole si situa ben oltre le sette deviazioni standard; gli errori di lettura lo collocano sotto il 5° percentile. Sul piano neuropsicologico presenta problemi di diverso tipo: di working memory, specificatamente di memoria di lavoro fonologica; di attenzione, di capacità di astrazione e di problem solving. Lo sviluppo dei pre-requisiti della letto-scrittura non è adeguato alla sua età cronologica. Viene da chiedersi: perché di tutto questo? I disturbi delle abilità scolastiche sono imputabili unicamente alla cause endogene di natura neurobiologica? Non vi sono cause esogene che hanno contribuito al rafforzarsi del deficit iniziale? Un trattamento precoce ed appropriato poteva attenuare il deficit e rendergli una certa autonomia d’apprendimento? Un’azione didattica personalizzata da parte della scuola, con l’utilizzo degli strumenti compensativi e dispensativi previsti dalle normative ministeriali, Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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avrebbe potuto migliorare il rendimento scolastico ed assicurare a Filippo un futuro scolastico migliore? Le risposte non possono essere che parziali e temporanee, data l’estrema variabilità dei profili con cui si presenta la dislessia (bisognerebbe dunque parlare di dislessie). Non si può escludere che un trattamento precoce avrebbe potuto restituire autonomia di studio e di apprendimento a Filippo, e con essa, un futuro scolastico e di cittadinanza migliore. D’altra parte è certo ed acclarato che le istituzioni preposte, non hanno svolto correttamente il proprio compito, contravvenendo alle elementari norme in materia. Come è evidente, fuor di ogni ragionevole dubbio, che le carenze ambientali, didatticoeducative, relazionali, di sostegno e guida della scuola hanno finito per peggiorare la situazione di Filippo, che oggi non ha davanti a sé certamente un futuro di studente e di cittadino di normali prospettive. Nell’ottica della psicopatologia dello sviluppo cognitivista e complessa, possiamo cogliere il nucleo centrale della storia evolutiva di Filippo. Il vissuto personale carico di tensione e disagio, l’adattamento disfunzionale all’ambiente scolastico non possono essere visti ed interpretati come gli effetti lineari e causali del deficit di lettura. La sua storia è contraddistinta da oscillazioni molto ampie nella percezione del suo adattamento, oscillazioni che sono in relazione con l’equilibrio/disequilibrio che si è venuto a realizzare tra fattori protettivi e fattori di rischio. L’esistenza del grave deficit di lettura, con la sua componente genetica (il padre del bambino presentava la medesima problematica evolutiva che lo aveva portato ad interrompere precocemente gli studi), costituisce un forte fattore di rischio, così come i comportamenti delle istituzioni, dalla scuola ai centri specialistici di salute mentale. La scuola che non è stata in grado di cogliere, per un lungo quinquennio, la vera natura dei disturbi di Filippo e poi, ha messo in atto una strategia di autodifesa, quella del rifiuto; i centri di salute (dal centro di pedagogia clinica alle ASP, che pure avevano inquadrato il problema), si sono limita42

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ti a dare una diagnosi nosografica di dubbia utilità, omettendo di redigere e dirigere un piano di riabilitazione scientificamente fondato, ivi compreso un trattamento psicologico strutturato. Unico ma importante fattore di protezione il parenting rappresentanto da un attaccamento di Filippo con le figure genitoriali, se non perfettamente sicuro, sicuramente positivo e stabile, nonché dalla sensibilità e livello di competenza della madre (diplomata alla scuola media superiore) che, fin dall’inizio non si è rassegnata alle previsioni di destino scolastico del figlio. L’equlibrio inizialmente precario ed in divenire tra questi fattori è evidenziato dal grafico di figura 6. Il grafico, sostanzialmente diviso in due parti cronologicamente distinte (scuola primaria e scuola media), ci informa dell’andamento della percezione dell’adattamento scolastico da parte di Filippo e della madre Teresa. Un primo dato di assuluto rilievo è la sintonia delle relazioni affettive tra Filippo e la madre e il carattere protettivo della loro relazione di attaccamento-accudimento. Le due curve sono, infatti, concordanti e sintoniche. Dato che viene confermato anche dai risultati del Parentel Bonding Instrument R. B. I. (trad. di T.

Fig. 6 - Percezione dell’adattamento scolastico di Filippo e della madre.

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Scrimali), da cui emergono relazioni positive di Filippo con tutte e due le figure di riferimento: la madre Teresa è percepita come dotata di grande calore emotivo (p. 29) ma un pò controllante (p. 20), mentre il padre è percepito come meno attento al controllo (p. 17) e più distaccato (p. 20). L’esperienza della scuola primaria è connotata da una chiara oscillazione tra autopercezioni positive e altre di valore negativo. Alle prime negative legate agli inizi della scolarizzazione, subentrano altre positive correlate al tentativo di affrontare il problema e di inquadramento diagnostico. L’inversione di tendenza si ha, dunque, al primo evento significativo (nel caso di Filippo un pò tardi, a metà della quarta primaria), il momento in cui la rete decide di affrontare il suo problema del suo “disadattamento scolastico”. Evidentemente, la modificazione dell’attribuzione causale [Ruggerini et al., 2004] (Filippo non più disadattato ma bambino problematico per via del deficit di lettura), anche da parte della rete esterna di sostegno, ha liberato atteggiamenti positivi della madre ma anche della scuola, che sono stati percepiti positivamente da Filippo in direzione della percezione di un maggiore protezione. Mancheranno ancora, almeno fino alla metà del primo anno della scuola media, gli aiuti abilitativi (secondo evento fondamentale) necessari alla sua condizione, tuttavia da quel momento iniziale scatta una tensione motivazionale che porterà Filippo a declinare con le indispensabili oscillazioni, uno sforzo di integrazione scolastica, certamente carico di tensioni, fino a raggiungere il diploma di terza media. Quello di Filippo è uno dei tanti, possibili percorsi evolutivi, correlati al processo di bilanciamento dei fattori di rischio e di protezione. Un interessante studio [Ruggerini et al., 2004], riporta una casistica di sette casi, in cui i tre eventi significativi, la formulazione della diagnosi, la messa in campo di aiuti abilitativi e gli eventi personali o familiari indipendenti dal DSA (in specie la tipologia relazione conflittuale/integrante della scuola in dire44

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zione del rifiuto/aiuto di aiuto), agiscono in maniera funzionale/disfunzionale e capaci di promuovere o non l’indispensabile processo di modifica della concezione del Sé indispensabile per attivare sinergie e processi motivazionali funzionali. In figura 7 è riportato il caso di un soggetto dislessico in cui l’evento della formulazione della diagnosi (in quarta elementare) ha elicitato un periodo di peggioramento dell’adattamento congruente con la percezione del processo da parte della stessa ma-

Fig. 7 - Percezione dell’adattamento scolastico di un alunno dislessico e della madre

dre. Nelle figure 8 e 9 sono riportati, invece, i casi di due soggetti dislessici, in cui le linee di sviluppo mostrano una chiara discordanza percettiva del bambino e del genitore. In questo caso le relazioni dei bambini con i propri significativi appaiono di scarsa sintonia e il parenting appare disfunzionale, lasciando prevedere itinerari di sviluppo personale caratterizzati da difficoltà nella concettualizzazione ed integrazione dei dati dell’esperienza di dislessia [Ruggerini et al., 2004]. Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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Fig. 8 - Percezione dell’adattamento e autopercezione indipendente.

Fig. 9 - Percezione dell’adattamento e autopercezione indipendente.

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