Padroni della nostra vita. Essere autentici per realizzare i nostri desideri

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Punti di Vista

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Gaetano Cotena

Padroni della nostra vita Essere autentici per realizzare i nostri desideri

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Ringrazio Marida, per quello che di me ho imparato. Gianni, per avermi accolto nella sua casa all’inizio di un nuovo viaggio. Daniela, per essere stata onesta compagna nei giorni della scrittura. Alessandro, per l’autentica condivisione di idee. Giulia, per la semplicità, il tempo e la presenza. Sara, per la professionalità e l’amicizia. Lina e Salvatore, per essersi incontrati e amati.

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Prima Edizione: 2013 ISBN 9788898037148 © 2013 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Maggio 2013 in Italia da Atena.net srl di Grisignano (VI) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl) Edizioni Psiconline © 2017 - Riproduzione vietata


INDICE

Premessa

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Introduzione

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Perché si sceglie l’azienda madre? I sogni che anticipano il cambiamento Le voci che scelgono dentro di noi Una decisione antica: il nostro copione personale Azienda tra libertà e adattamento. Dove mi trovo? La rabbia sana del dipendente Nella gabbia dei processi. Dov’è l’individualità?

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Qual è la tua storia? Il nostro potere più grande Simbiosi e uomo d’azienda. Dov’è il vero sé? “Mamma, sono come tu mi vuoi”: il narcisismo in azienda “Sei più bravo se fai tardi”. I messaggi doppi dell’azienda madre Licenziamenti. Ma la vita scorre forte ancora Dipendenti. Da chi? Quando diciamo sempre si. La compiacenza Il prezzo della compiacenza: la paranoia

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La scelta oltre la crisi L’azienda e il grande ricatto Aspettando il venerdì. Perché cambiare azienda non basta? Storie di chi sceglie. Restiamo svegli!

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Mai tardi Il permesso di sentirsi infelici Dov’è il me bambino? L’importanza di continuare a giocare Il nostro contributo evolutivo personale

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Il ruolo del padre necessario Una dimensione futura percorribile La presenza di uno psicologo di formazione clinica Un tempo e uno spazio per l’ascolto di sé Un bambino interno a cui dare credito

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Umanesimo in azienda Il ruolo sociale dell’azienda Un caso clinico – La signora F.

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Riflessioni personali sulla vita

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Bibliografia

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PREMESSA

Al mio padre necessario Per stare bene sul lavoro e nella vita c’è bisogno di una madre e di un padre. Di una madre che accoglie e di un padre che dà al figlio il permesso di andare. C’è quindi bisogno che quel bambino che diventa adulto porti con sé l’affettività e il senso di protezione ricevuto dalla madre, ma intesi come forza e sicurezza per andare nel mondo e non, come spesso accade, come un ostacolo al diventare individuo adulto e separato, con una sua individualità e un suo sentire, con i suoi desideri e la sua evoluzione da realizzare. Quando la madre tiene il figlio a sé, è il padre a concedere su un piano psicologico il permesso di andare nel mondo e di crescere sperimentando. E se l’azienda è madre onnipresente, con tutti i meccanismi patologici che si instaurano nella dipendenza, allora per tutti quelli che lavorano in azienda o che vivono relazioni di dipendenza ci sarà bisogno di un padre: il padre necessario che dà al figlio il permesso di sentire i suoi desideri, la sua creatività oltre il processo, che caratterizzante sempre più il mondo delle aziende e che costituisce l’essenza prima di una disumanizzazione che è di ostacolo allo slancio vitale che scorre in ognuno di noi. Chi è questa madre onnipresente (nella vita e nel lavoro) e chi è il padre necessario? Edizioni Psiconline © 2017 - Riproduzione vietata

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Lo vedremo insieme in queste pagine, dove ognuno potrà ritrovare tracce, pezzi, parentesi della sua storia, oppure potrà non ritrovarsi in niente e scoprirsi felice. A patto, però, di non lamentarsi più in ascensore che è ancora lunedì. Queste pagine si rivolgono al lettore dagli interessi trasversali, al dipendente d’azienda, agli investitori e agli psicologi; ma anche a chiunque senta di aver lasciato, da qualche parte o in qualche tempo della sua vita, la parte più autentica di sé. Ad ognuno cercherà di rivolgersi con un linguaggio simile, ma toccando argomentazioni e punti di vista diversi, avendo la pretesa forse poco umile di vedere nel cambiamento personale e globale auspicato una cooperazione di tutti e tre i ruoli coinvolti (dipendenti, investitori, psicologi), ognuno con una responsabilità diversa e ben precisa: - il dipendente, potrà in queste pagine fermarsi a riflettere e a scindersi per un attimo (usando un paradosso) dall’immagine di sé che corre per guardarla dall’esterno, sentirla (meglio direi) dal lato del Sé reale affinchè la crisi che si abbatte fuori di noi, non faccia perdere di vista alla persona il valore più grande: l’autenticità dei propri sentimenti e delle proprie emozioni. - l’investitore, dovrà invece sentire la sua umanità. - lo psicologo clinico, dovrà portare l’umanesimo in azienda. Mi scuso sin d’ora con chi vive con gioia e serenità il mondo dell’azienda traendone benessere e felicità vera. Se il lettore vive tra processi e procedure ed è felice del lavoro che svolge, dei suoi colleghi, delle dinamiche che caratterizzano il mondo del suo lavoro, allora può andare avanti in questa lettura solo per curiosità, perché difficilmente potrà trarre spunti da un libro che si rivolge prevalentemente a chi almeno una volta ha dubitato o addirittura sofferto della propria scelta lavorativa, in cui un dubbio si è insinuato, ma più volte è stato scacciato perché non c’erano e perché non ci sono altre alternative. A questi lettori 10

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rivolgo il mio invito a cominciare e continuare con me questo viaggio nel mio passato e nel mio presente, in quello che ho visto e in quello che con “lo stomaco” ho sentito. E a quel lettore che viaggerà con me in queste pagine non prometto di arrivare in fondo avendo compreso qual è la sua strada (anche perché le contingenze economiche non ne offrono tante altre), ma vorrei offrire la possibilità di identificarsi e prendere consapevolezza di alcuni meccanismi, che vede ogni giorno e di cui, forse, è un po’ stufo. O quantomeno vuole vederli per una volta come in un teatro, dal di fuori, senza sentirsene parte inconscia o consciamente coinvolta e fusa insieme a quel sistema in cui non ci si ritrova, ma in cui è costretto a vivere dalle parole mutuo, sostentamento, affitto, bollette, che con processo, multinazionale, profitto, report, slides di presentazione e teleconferenza c’entrano poco, ma hanno in comune un adulto che sacrifica le sue giornate con rispettosa dedizione per garantirsi non la ricchezza, ma in molti casi, nel migliore dei casi, il benessere. E cercheremo quindi di capire perché quel benessere, spesso, troppo spesso, non coincide con la felicità. E come è possibile dare voce ai nostri desideri più profondi, di evoluzione, anche nel mondo del lavoro. Ho cercato in questo testo di rispondere ad alcune domande che chi scrive ha rivolto prima di tutto a se stesso: • perché si finisce in azienda? • quanto la nostra struttura di personalità e la nostra storia personale ci pongono nella condizione di accettare lo stato di dipendente e di colludere con alcuni meccanismi psicotici presenti all’interno dell’azienda riuscendo a conviverci? • in quali di quei meccanismi ci ritroviamo, o meglio qual è il nostro copione di vita, la decisione che da piccoli ad un certo punto abbiamo preso su come la nostra vita sarebbe andata? • e come questa decisione ci ha portato dove siamo adesso? Vivere non significa lavorare, ma qualcuno dice che si lavoEdizioni Psiconline © 2017 - Riproduzione vietata

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ra per poter vivere. Niente di più vero. Anzi, forse con un po’ di presunzione potremmo dire che qualcosa di più vero c’è: che gran parte della nostra vita è lavoro (affermazione ancora scontata certo), gran parte del nostro tempo lo trascorriamo a lavoro, e che per questo (novità?) una vita felice non è possibile se siamo infelici sul lavoro. Felicità è anche scegliere il lavoro che ci gratifica e ci fa gioire se non ogni giorno, spesso, e ci fa dire che stiamo portando il nostro contributo alla vita e all’evoluzione, anche per quello che chiamiamo professione. Perché se il sostenersi lavorando è la forma più evoluta del procacciarsi il cibo, vuol dire che anche se ci procuriamo da mangiare e viviamo in sicurezza senza dover attentare ad altre vite umane, non possiamo fare a meno di correre e di ridere, di accontentare la parte di noi bambina, anche quando siamo in giacca e cravatta. Dietro le parole processo, procedure e business ci si prende a volte troppo sul serio! Ci si vuole sentire grandi uomini di affari, perché il modello della società dice che questo si vede anche nei film e i film riproducono questa realtà. E questo è rispettabile, a patto che non si continui in ascensore a parlare del tempo e a patto di non dire che è ancora lunedì e che il venerdì è lontano. Se facciamo queste affermazioni il posto in cui lavoriamo non è il nostro, non è quello che può renderci felici, felici davvero, e perderemo l’opportunità di esserlo anche nell’altra metà della nostra vita. E dovremo far finta di stare bene. Certo, la crisi non ci lascia possibilità, starete pensando. E certo, non potremo forse cambiare lavoro, ma potremo essere consapevoli di quello che ci ha portato fino a qui, per essere pronti un giorno a seguire e ad ascoltare la voce di quella parte bambina che è dentro di noi che prima o poi si farà sentire e chiederà di essere ascoltata per capire dove sta andando, perché è nata e perché non si diverte più. E dovremo anche far finta che quel lavoro è quello che avremmo voluto fare, pur sapendo in qualche parte del nostro cuore che in realtà avremmo fatto altro, magari studi umanistici anziché scientifici o economici, ma i genitori o le contingenze economiche ci dissero (in modo esplicito o tacito) che in quel particolare 12

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momento gli sbocchi lavorativi erano maggiori in un settore piuttosto che in un altro. E così, a diciannove anni, quando dovemmo scegliere l’università, avevamo già detto a quella parte bambina e sognatrice di noi di lasciare da parte i suoi interessi reali, i suoi sogni che avrebbe potuto realizzare, e gli chiedemmo di diventare adulto. Già a diciannove anni. E gli anni dell’università prepararono quella parte bambina di noi a entrare in azienda, a parlar magari di business o di cambiamento, per trovarsi poi però a gestire file di calcolo e presentazioni. Perché questa è la vita d’azienda, il lavoro in azienda oggi è tanto questo, a tutti i livelli e per la maggior parte dei ruoli, soprattutto per quelli che vengono definiti di back office. Se siete arrivati fin qui ritrovandovi in alcune affermazioni, allora vi invito ad andare avanti con il desiderio di prendere per mano quel bambino che siete stati e che è ancora dentro di voi, per portarlo con noi in questa lettura, dove ci sarà lui e l’adulto che siete diventati, che sanno che la dimensione umana non può essere persa, neanche dove la necessità primaria è il profitto.

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INTRODUZIONE

Quante volte in ascensore abbiamo parlato del tempo o detto frasi del tipo: “meno male che tra poco vado in ferie”. Vogliamo davvero che la nostra vita scorra così? Che sia una continua attesa del fine settimana per iniziare a vivere e vedere dal lunedì al venerdì niente che sia uno scampolo di vita e di divertimento e gioia anche sul lavoro? Non mi rivolgo per questo a chi è felice o crede di esserlo. Ma a chi almeno una volta si è fermato a pensare davvero che vorrebbe una vita diversa, non solo lamentandosi, ma volendo davvero fare qualcosa per cambiare il suo stato, quantomeno quello emotivo e di consapevolezza. Ecco, a queste persone io non saprò indicare una strada, ma cercherò insieme a loro di prendere coscienza che quello che accade, quello che pensiamo e che ci soffermiamo a guardare a volte dall’esterno, quello che ci fa star male in quell’ufficio, quello che non sopportiamo del modo di lavorare, l’aspettare il sabato per iniziare a vivere, è reale e condiviso da molti. E dunque, possiamo avere il coraggio di desiderare che qualcosa nella nostra vita cambi. Come, sarà il lettore a deciderlo, qui non si vuole avere la presunzione di sostituirsi alle sue risorse, ma con lui si vuole fare il primo passo verso la scelta di cambiare una situazione che ci far stare male: la consapevolezza. In ascensore, avrei voluto sentire qualcosa di diverso dal: “manca poco alle ferie, è ancora lunedì, dai che è venerdì”. Qualcosa di diverso. Fosse anche solo il silenzio. Già, quello è solo reso strumento di influenza in azienda, non di rilassatezza, au-

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tenticità, possibilità di ascolto. Eppure quanto parla l’assenza di parole. Uno sguardo, un’attesa, possono comunicare ma possono anche manifestare la volontà di chi lo esprime di restare su di sé, di ascoltarsi, anche per il tempo di un viaggio in ascensore. E dunque, non sempre interrompere quel silenzio con parole già dette forse altre dieci volte dall’inizio del giorno, può rappresentare un piacere per l’interlocutore. Talvolta può infastidire. L’invito è quindi quello di non avere paura del silenzio, di non pensare necessariamente che l’altro si aspetti da noi sorrisi e parole. Ognuno di noi, in un mood che può cambiare più volte nel corso della giornata, può avere bisogno di qualcosa di diverso in diversi momenti e sta allora alla sensibilità nostra e di chi ci è di fronte, o accanto, comprendere e ascoltare quello di cui l’altro ha bisogno. Ma questo è possibile solo se ci si relaziona senza schemi precostituiti, senza frasi che devono coprire lo spaventevole silenzio per il nostro bisogno di compiacere o, peggio, per il bisogno di non ascoltar-si e di non ascoltare. Portare la vita e l’autenticità tra quelle mura d’azienda, è possibile oppure l’autenticità è bandita in nome della convivenza e del profitto economico? Questo mi propongo di comprendere in questo viaggio. E di comprendere come ognuno di noi anche tra i processi aziendali e tra le procedure può tenere vigile e creativa la parte più vera di sé che ci spinge a realizzare ciò che autenticamente siamo. Perché ognuno di noi è chiamato ogni giorno ad una scelta. Quella di poter vivere la propria vita compiacendo ad una madre, ad una compagna, ad un’azienda o in generale ad un’immagine di noi che ci portiamo dentro e che arriva però da fuori, da un desiderio che ci è stato etichettato dall’esterno e che non appartiene alla nostra verità più intima. Oppure, si potrà scegliere di vivere ciò che forse agli altri non piace, ciò in cui gli altri forse ci scoraggiano e in cui non credono, ma con la possibilità di poter dire alla fine o nel mezzo della nostra vita, che abbiamo realizzato o che stiamo realizzando il nostro compito evolutivo. Perché siamo chiamati in questa vita per evolvere e progredire, dando il no16

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stro contributo all’esistenza. Ma compiacendo e salvaguardando l’immagine questo non è possibile, perché nulla di nuovo potremo dare all’esistenza. E ognuno di noi è nella condizione di poterlo fare, di poter scegliere una vita autentica.

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PERCHÉ SI SCEGLIE L’AZIENDA MADRE?

I sogni che anticipano il cambiamento Chi nasce per passare la propria vita a gestire un file di calcolo e a riempire le slides di una presentazione? Oggi, la vita d’azienda è soprattutto questo. È soprattutto una ricerca di dati, una gestione di numeri o nel migliore dei casi una presentazione fatta di immagini e righe d’impatto preparate, viste e riviste nelle giornate precedenti all’incontro o alla presentazione. Nella maggior parte dei casi queste presentazioni sono fatte per altri, non per se stessi. Le gambe a volte si appesantiscono quando se ne deve preparare una! Perché? Perché la nostra vocazione di animale uomo è un’altra. Non è quella di stare seduti a “parlare” con una macchina, un computer, o con un telefono. La nostra vita, la nostra vocazione è la relazione con un altro essere umano, in cui l’obiettivo non deve essere quello di condividere dati ma emozioni, vita. Certo, si potrebbe pensare, per qualcuno quei dati sono emozione, vita. Ma c’è forse qualcuno tra quelli che vivono la loro giornata di fronte ad un computer o tra una riunione e l’altra che possa rispondere con un NO alla seguente domanda? Se ti proponessero di andare in pensione domani e poterti dedicare a quello che ti è sempre piaciuto fare con un guadagno pari a quello di oggi, accetteresti? Edizioni Psiconline © 2017 - Riproduzione vietata

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Ecco, tutti coloro che hanno risposto si, non hanno forse colto i loro sogni, la voce autentica che bussa da dentro sin da quando si è poco più che adolescenti. In quell’età, dentro di noi inizia a farsi strada che cosa vorremmo fare nella vita, ma non sempre riusciamo a sentire quella voce perché è offuscata da altre voci che a volte, purtroppo, gridano più forte dentro di noi. Sono le voci dei nostri genitori, il richiamo del denaro, la facilità di una strada già percorsa dal padre o dalla madre. I modelli vicini con i quali si cresce, o gli incontri che si fanno nei periodi delle scelte importanti, che finiscono per influenzarle. Sopravvivere, riprodursi, crescere, evolvere, sono le nostre pulsioni naturali, le nostre uniche e vere fonti di felicità. Sopravvivere, riprodursi, crescere, evolvere. Evolvere. Vuol dire anche poter svolgere un lavoro che non sia solo sostentamento, ma che costituisca anche crescita. Scegliere, oppure considerato il periodo storico che stiamo vivendo, avere almeno consapevolezza della possibilità di scelta, sebbene non sia sempre concretamente attuabile. In poche parole, continuare a sognare restando vigili e avere sempre presente quello che bussa da dentro, anche se quello che c’è fuori a volte sembra assorbirci di più. Nel nostro passato, nell’era in cui il computer, le catene di montaggio e i processi non esistevano, il lavoro era sempre relazione. Anche lo studioso, il poeta, le professioni che potevano apparire le più solipsistiche, si nutrivano o quantomeno nascevano da una relazione. Ci stiamo chiedendo se è ancora lunedì? Stiamo pensando che un giorno cambieremo lavoro? (intendevo non cambiare azienda, ma tipologia di lavoro!) Aspettiamo le ferie per godere delle nostre giornate e sentiamo che se usciamo alle 17, per qualcuno (il nostro capo, ma anche i nostri colleghi) stiamo usufruendo di un permesso di mezza giornata? Avvertiamo che tra una giornata e l’altra non c’è differenza, non c’è esperienza nuova? Processi, cambiamento, crescita, profitto? ...quanto ci infastidiscono queste parole ripetute e ripetute? E allora significa che dal lavoro non traiamo felicità e gioia. 20

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Significa che un pezzo grande della nostra vita non gioisce e ci sta chiedendo aiuto. Se non lo ascoltiamo, ci saremmo accontentati. E qui, mi rivolgo a chi non vuole accontentarsi. E per davvero non intende farlo. Ho sentito ragazzi di ventisei anni dire: “avrei fatto anch’io psicologia, ho fatto economia, ma ormai è troppo tardi per cambiare, anche se so che forse l’azienda non è il mio mondo” E il messaggio che mi sento di dare al ventenne che dice che è ormai troppo tardi per cambiare, è che dovrà lavorare altri trent’anni e nessun altro percorso di studi, di esperienza, di corsi, per quanto lunghi e difficili, sarà più lungo di trent’anni di lavoro. E quando dunque la percentuale di tempo da investire, per dirla in termini aziendali, sarà minima rispetto agli anni che davanti restano ancora da lavorare, allora varrà sempre la pena provare a saltare su un altro binario, se ci siamo resi conto che quello che abbiamo percorso finora non era quello autentico, non era quello nostro, ma di qualcun altro. E di chi è, di chi sarebbe, questo binario se non è il nostro?

Le voci che scelgono dentro di noi È il binario di una voce che ha origine da un altrove, non dal profondo di noi. La voce del denaro, a volte. Altre volte la voce dei genitori, che proiettano sui loro figli aspettative, che a volte sono pretese, loro sogni irrealizzati, desiderio di realizzazione. E così molto spesso il figlio diviene esattamente quello che il genitore desidera, ma sente che dentro qualcosa scalpita e gli chiede altro. E questo accade quando il volere, il desiderio dei genitori che si è instillato nel desiderio del figlio sostituendosi alla sua voce, prende il posto del nucleo autentico che è quello che spinge ogni individuo a vivere la propria vita e a identificarsi felicemente, serenamente, con lo scorrere dell’esistere.

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Scrollarsi di dosso la coltre di sovrastruttura fatta del desiderio altrui, e non del nostro, è il percorso verso la consapevolezza di chi si è e di cosa si desidera realmente. E lì la serenità è più vicina. Ebbene questa prevaricazione riconosciuta e riconoscibile, della voce esterna sul nucleo di autenticità, è molto più diffusa di quanto si pensi ed è insita in tutti i mestieri, rappresentando il minimo comun denominatore di molte infelicità. Ci soffermeremo più avanti su quali sono le voci, gli script, che ci spingono a scegliere e ad accettare di diventare “dipendente”. E quando non è la voce del denaro a spingere verso una professione, e quando non è neanche una conclamata prevaricazione del desiderio esterno su quello interno a spingere verso un lavoro, quali altri meccanismi si insinuano nell’essere umano adulto, modellando e confermando la scelta appunto di lavorare in azienda? Ci sono delle personalità dai meccanismi tipici del mondo dell’azienda? O meglio, potremmo dire, i meccanismi aziendali possono attecchire maggiormente su una tipologia di persona piuttosto che su un’altra? E quali sono i meccanismi che caratterizzano le organizzazioni rendendole talvolta organismi psicotici in cui una personalità dai tratti potremmo dire borderline si avvicina all’azienda e ci resta, restando irretita in quei meccanismi ammalandosi con essa che ha trovato in quella personalità debole terreno fertile per perpetrarsi?

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Una decisione antica: il nostro copione personale Cercheremo di dimostrare in questo testo come la relazione tra azienda e dipendente riproduca alcune dinamiche presenti in ogni altro rapporto di dipendenza tra persone, ma anche come in particolar modo il macro legame con l’azienda vada a sposarsi e incastrarsi, in gradi più o meno diversi di profondità e consapevolezza, con la storia evolutiva di ogni dipendente e in modo specifico, con le scelte e le decisioni prese sulla vita e sulla relazione quando eravamo molto piccoli. Per poter meglio intraprendere insieme questo viaggio soffermiamoci un momento sul concetto di copione, che è definito dal fondatore dell’Analisi Transazionale Eric Berne (1972) come “un piano di vita, che si basa su una decisione presa durante l’infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata dagli eventi successivi, e che culmina in una scelta decisiva”. Rappresenta, cioè, le decisoni che abbiamo preso nella primissima infanzia con gli strumenti intuitivi, sensorali, quindi poco cognitivi, di cui disponevamo da bambini, su come sarebbero andate la nostra vita e le nostre relazioni. Una scelta, che può diventare copione attuato inconsciamente sulla base di quella antica decisione togliendoci nell’oggi la possibilità di scegliere e di essere felici, senza consciamente conoscere la motivazione che ci spinge a entrare sempre nella stessa tipologia di relazione (per esempio con persone che ci maltrattano o che alla fine ci abbandonano), sempre negli stessi meccanismi, sempre nelle stesse dinamiche, che ci portano ad uno stesso risultato: la conferma, spesso negativa, di quell’antica decisione su come andrà la nostra vita. Il termine copione, ben rappresenta il concetto della ripetizione e di qualcosa che è già deciso, già definito. E allora è possibile che ad un certo punto della vita emergano delle difficoltà e cioè che quello che vogliamo evolutivamente diventare entri in contrapposizione con le nostre decisioni di copione (per esempio, la decisione di copione potrebbe essere quella che tutti mi abbandoneranno, che cozza con il bisogno evolutiEdizioni Psiconline © 2017 - Riproduzione vietata

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vo di amore e di appartenenza). È il momento in cui, se si sceglie di fare il passaggio di crescita, di curarsi o di prendere consapevolezza, la persona che soffre di questa contrapposizione in gran parte ancora inconsapevole, entra in terapia. Immaginiamo un padre, che trasferisca al figlio il messaggio: “tu non puoi essere migliore di me”. Può succedere che un ragazzo che aveva sempre avuto buoni risultati nello studio, ad un certo punto si blocchi. E il lavoro terapeutico andrà alla ricerca di quel messaggio, di quel copione per riconoscerlo e superarlo. Ebbene alla base di molte difficoltà relazionali o disturbi psicologici c’è proprio il concetto di copione. Le decisoni prese durante l’infanzia (in questo caso: “io non potrò essere migliore di mio padre”) andranno a condizionare anche le nostre scelte lavorative. Così l’atteggiamento di una madre ansiosa che ha trasferito al figlio il terrore per il mondo, potrebbe tradursi in un copione di dipendenza del bambino per la sfiducia di individuarsi (nel senso di diventare individuo) e portare il futuro adulto a scegliere nella vita lavorativa una condizione di apparente sicurezza (in azienda per esempio) sacrificando magari la parte più autentica di sé e dei propri desideri. La stessa cosa potrà accadere ad una personalità narcisistica che non sentendo più le proprie emozioni andrà nel luogo del processo e delle procedure per antonomasia (l’azienda) per acquistare ed esercitare il potere, che per la personalità narcisistica incapace di sentire i propri sentimenti, rappresenta l’unico surrogato di forza. Ma la vera forza non è nel potere quanto nei sentimenti. E allora qual è il nostro copione? Quali sono le decisioni prese durante la nostra infanzia sul mondo e sulle relazioni che in qualche modo hanno condizionato e condizionano la nostra vita frapponendosi tra noi e ciò che desideriamo realmente in maniera troppo nascosta sotto le decisioni copionali? Le persone, abbiamo detto, si sono costruite “là ed allora” (nei primi anni di vita) la propria identità copionale che si basa su una decisione presa durante l’infanzia, rinforzata dai genitori, dagli avvenimenti successivi e che giunge ad una scelta decisiva (Berne 1972). 24

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Alla base delle decisioni copionali c’è il nostro bisogno di riconoscimento. Le decisioni che sono alla base del copione, infatti, hanno origine dalle richieste, esplicite e non, dei nostri genitori o delle nostre figure di riferimento. Richieste, che prendono la forma di messaggi verbali e non verbali ricevuti dal bambino durante l’infanzia: sii compiacente, sii salvatore, sii buono, oppure anche proverbi familiari sono esempi di come alcuni messaggi possano determinare e influire sulla decisione di come si deve essere per avere successo nella vita. E allora può accadere che le persone vadano a cercarsi proprio le aziende che rispecchiano il loro copione e quindi la loro idea di successo o compiacenza sperimentata durante l’infanzia. Non ci soffermeremo qui su come far emergere il proprio copione, ma ognuno potrà pensare se esiste una ripetitività nella propria vita, nelle proprie relazioni, nelle loro modalità di svolgimento o nel loro epilogo. Ognuno, potrà pensare se c’è qualcosa che pur se non volevate è arrivato, si è verificato in modo simile e ripetuto nelle vostre vite. Continuiamo ora il viaggio nella teoria, avendo come sfondo questo vostro ricordare. Verrete poi a riprenderlo alla fine del testo, quando la teoria sarà auspicabilmente il primo, primissimo passo per comprendere.

Azienda tra libertà e adattamento. Dove mi trovo? L’incubo di trovarsi in una metropolitana, con giacca e scarpe da ginnastica, un quaderno sotto il braccio, per andare a chiedere un lavoro con la sensazione di elemosinarlo. Questa è un’immagine che temiamo. Il solo pensiero di ritrovarci a perdere la condizione di dipendente, che sa di avere diritti nel mondo del lavoro, che ha la certezza ogni giorno di alzarsi e riempire la sua giornata in un posto che gli offre sicurezza, ci fa stare male, ci

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deprime, ci sconvolge l’esistenza, facendoci assaporare un senso di abbandono paragonabile a quello che può sperimentare un bambino. Darsi sicurezza, è certo uno dei nostri bisogni primari. E avere la certezza di una madre che soddisfa i nostri bisogni, risponde psicologicamente a questa primaria necessità. Ma la sicurezza, nel bambino arriva dall’esterno. Crescendo, dovremmo essere capaci di introiettare la possibilità di ricevere sicurezza da noi stessi. Ecco perché ci sentiamo smarriti nell’immaginarci un impiegato senza lavoro che l’indomani dell’ultimo giorno in ufficio si risveglia senza sicurezze, senza più certezze. Su un piano puramente psicologico, la dipendenza porta sempre a sentimenti ambivalenti perché risponde (patologicamente) a quell’illusorio senso di sicurezza ma rende schiavi da chi ce la fornisce, dall’oggetto da cui si dipende, potremmo dire. La dipendenza limita infatti la nostra libertà. Ed è proprio la situazione che si vive rispetto all’azienda o al datore di lavoro. Non si vuole qui fare alcun processo né al concetto di capitale né al concetto di lavoro ai nostri giorni. Lascio alle conoscenze e al lume degli economisti il rispettabile compito di comprendere gli equilibri tra capitale e lavoro, il loro rapporto e magari di fare previsioni future sugli andamenti di questo mondo. Qui vorrei soffermarmi sui sentimenti di rabbia, che una situazione di dipendenza può suscitare. Abbiamo detto che temiamo l’immagine di noi che una mattina si sveglia senza lavoro e con la necessità di cercarne uno, magari all’età di cinquantanni, svuotati dalla certezza di un guadagno. Ma cosa si sacrifica per questa certezza? L’azienda oggi ci chiede di conformarci a partire dall’abbigliamento, che è un dettaglio che è solo l’immagine estetica della perdita di individualità nel conformismo. Ci sentiamo uguali agli altri, perdendo già nell’aspetto la nostra individualità. Forse le donne hanno una maggiore possibilità di scelta e una varietà di eleganze rispetto alle scelte di un uomo che può cambiare il colore della camicia, della cravatta e del vestito, ma che deve dimenticare ogni altro 26

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stile. Non sentite una certa pesantezza in quegli abiti? Non vi andrebbe di andare a lavoro in jeans e scarpe da ginnastica? Non ci sarebbe meno ansia e meno formalismo in quello che vivreste? Non sentireste di vivere riunioni e decisioni importanti con un altro spirito? Non per questo meno professionale nel risultato. Non si vuole dire con questo che un certo formalismo non debba esserci in alcune occasioni; ma il perpetrarsi di certi atteggiamenti e la perdita di individualità che simboleggiano. Non vogliamo soffermarci qui sul vestito ma prenderne spunto per parlare del concetto di apparenza che in azienda è applicabile a molte altre dinamiche e che riassume un concetto condiviso da molti nel mondo aziendale: quello che conta è il numero, non la qualità delle cose. Si lavora per il proprio capo che ha i suoi obiettivi da raggiungere, e questi obiettivi sono a sua volta suddivisi tra i suoi collaboratori. Ma come si può pensare che obiettivi calati dal di fuori possano motivare? Perché ci stanno così strette le parole riunioni, videoconferenze, procedure? Adattarsi, vuol dire dover tralasciare questo sentire rispetto a quello che ci viene chiesto di fare. Passiamo intere giornate a prepare presentazioni che serviranno solo a mostrare quanto è stato fatto in determinati ambiti o su alcuni progetti. Quindi quanto abbiamo lavorato. Un controllo. Un grande fratello che ci osserva. Ma spesso quelle presentazioni occupano più tempo rispetto a quanto dedichiamo effettivamente ad un lavoro, perché molto spesso quello che più conta non è il fare ma l’apparire, mostrare attraverso i numeri che si sta “facendo”. Ma facendo cosa? Cosa vuol dire “fare” in azienda? Vorrei ripercorrere alcune attività per capire quanto possano realmente motivare e rendere felice la parte più autentica di noi. Un file di calcolo può essere un gioco per qualcuno, e così a loro non mi rivolgo. Mi rivolgo però a tutti quelli che si sono laureati in economia o in lettere e che però poi si trovano a provare una sensazione di limitazione difronte al quotidiano fare report e archiviare numeri. Sono pochi oggi i lavori d’azienda che non richiedono questo, Edizioni Psiconline © 2017 - Riproduzione vietata

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che non richiedono una abbondante parte amministrativa. E così, un primo adattamento è costituito dalla relazione con i numeri e con un computer. È questo il primo adattamento. Non voglio per questo sminuire i lavori che richiedono una competenza informatica, ma solo accendere una spia su quanto questo lavoro, ad un livello operativo, costituisca spesso fonte di stress e di insoddisfazione. E questa colpisce soprattutto chi avrebbe voluto fare altro nella vita e non finire in una azienda tra i processi, le strategie, le procedure. Eppure ha deciso di entrare in questo essere dipendente e, a volte, di restarci. Adattamento nell’uso di strumenti che non sono quasi mai relazionali, e che richiedono un continuo controllo. Un adattamento alle procedure, che richiedono di seguire flussi, e ingabbiano. Un adattamento in un contesto che molto spesso è una lotta in cui non si collabora con il sorriso, ma più spesso senza mezzi termini ci si batte per non fare o per far fare a qualcun altro. E noi quando eravamo piccoli immaginavamo questo? Io no. E l’azienda, di qualsiasi impostazione o provenienza sia, è soprattutto questo. Perché nell’azienda di oggi si lotta per fare di meno, per non soffocare difronte alla richiesta di un mondo che è continuamente in affanno per rispondere alle richieste del mercato e ai cambiamenti. E le risorse umane vengono dimezzate perché sono quelle che costano. Adattamento è anche essere legati ad una timbratura, ad un orario che copre spesso l’intero giorno, e spesso la richiesta (e la concessione) di un’ora di permesso o di un giorno di ferie, non sono gesti scontati. C’è sempre da valutare, da organizzarsi, e non è questo essere schiavi? E non si tratta di tenere fede ad un impegno già preso, ma di un condizionamento continuo e quotidiano. Il capo ricopre il ruolo di chi deve tenere le redini, e dona con il contagocce. Un po’ come l’allenatore che non disperde carezze (intese come parole positive, attenzioni) e complimenti, per tenere alta la motivazione dei suoi giocatori. Ma questi sono giochi psicologici, non è la realtà, non è la verità!! La verità è che se fac28

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