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A Tu per Tu
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Rossella Sardi
La mia vita con un «PADRE DOC» Una testimonianza e un caso per riflettere
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Prima Edizione: 2018 ISBN 9788899566203 © 2018 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di giugno 2018 in Italia da Services4media Srl - Bari (BA) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)
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INDICE
Prefazione (Dott.sa M. R. Strada, Medico Psichiatra) Prologo Capitolo 1 – Un disturbo di famiglia? Capitolo 2 – Le sue stranezze Capitolo 3 – La sua ipocondria Capitolo 4 – Il suo senso di morte imminente Capitolo 5 – La sua solitudine Capitolo 6 – Il suo rapporto con le donne Capitolo 7 – La sua disempatia Capitolo 8 – Colpevolizzata e arrabbiata Capitolo 9 – Controllata Capitolo 10 – Ipersensibile (dubbiosa e paurosa) Capitolo 11 – Denigrata e trascurata Capitolo 12 – Sfruttata Capitolo 13 – La garante di sempre cede Capitolo 14 – La decisione del ricovero Capitolo 15 – La demenza si associa al DOC Capitolo 16 – Pensieri di un finale possibile e oltre Postfazione – Alcune citazioni (spunti per riflettere)
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Ad Andrea e Michele per aver ascoltato, a Milena per aver condiviso, a Elena per aver compreso, ad Anna per aver raccontato e a tutti gli altri parenti e amici che sanno. Un grazie di cuore a Serena, Paolo e Cesare, per avermi guidato.
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PREFAZIONE
L’aumento progressivo in questi ultimi decenni di pazienti con patologie nello spettro del disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è dato sicuramente da una maggiore attenzione ed informazione al problema, nonché al miglioramento delle conoscenze dei meccanismi fisiopatologici che sottendono alla sintomatologia ossessiva. Alla base del disturbo vi è una alterazione funzionale dei circuiti cerebrali della parte più antica del cervello, il nucleo caudato e i gangli della base. Si tratta del centro che memorizza gli schemi comportamentali automatici, routinari e conservativi che possono essere attivati o estinti dalle strutture cerebrali superiori. Tali entità rappresentano la totalità dell’encefalo dei rettili, dove generano una serie di comportamenti con molte analogie con quelli umani, per cui spesso si parla di sindrome del serpente (Reptilian Complex, secondo Mac Lean). Possiamo definire le ossessioni come idee, pensieri ed immagini ricorrenti e persistenti, nonché estranee e quindi intrusive, molto resistenti alla coscienza di memoria. La sindrome ossessivo-compulsiva è data dalla perdita di
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controllo da parte delle strutture encefaliche più recenti nella scala filogenetica, come il sistema limbico e la corteccia cerebrale, a favore di quelle più antiche, rappresentative della primitiva scala evolutiva. Una delle caratteristiche del DOC è l’interattività, che non viene esaurita in nessuna condizione fisiologica; da ciò ne deriva il senso di impotenza e di adattamento, loro malgrado, di coloro che vivono accanto a persone così strutturate. Spesso il coniuge o i figli, soprattutto se in giovane età, si sentono investiti da una mancanza di potere che condiziona le proprie scelte di vita e di futuro. Il senso di frustrazione che l’Autrice di questo libro ben rappresenta, che l condizionerà per un lungo periodo la vita, nonostante il raggiungimento di tanti traguardi personali, professionali e sportivi, è dato dallo scarso empowerment, cioè lo scarso senso di potere in sé stessa. L’ossessione – si dice – è un’egodistonia, più che per i contenuti, per l’insistenza e la dominanza che essi hanno, senza motivo. Tale situazione rischia di marginalizzare dalla realtà chi ne viene a contatto, poiché spesso ne rappresenta la difesa al proprio lo. Chi vive in un ambiente DOC è portato a creare a scopo difensivo una propria realtà, che nel migliore dei casi è fatta di un allontanamento fisico (viaggi, vacanze studio, trasferte sportive), oppure di scelte di interessi diversi (nel caso dell’Autrice, studi linguistici e umanistici), come unico modo per emanciparsi da tale contesto. Il DOC è veramente una denominazione di origine controllata! Il vero controllo che condiziona tutto!
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LA MIA VITA CON UN «PADRE DOC»
Alla cara Rossella, Autrice di questo bel libro, sicuramente catartico, dico con le parole di Schopenhauer: «Si può paragonare la vita ad un tessuto ricamato, di cui ognuno può vedere il lato esterno nella prima metà della sua esistenza, e il rovescio nella seconda: quest’ultimo non è così bello, ma più istruttivo, poiché lascia riconoscere la connessione dei fili». Con grande stima ed affetto, Dott.ssa Maria Rosa Strada (Medico Psichiatra)
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PROLOGO
Diversi studi hanno dimostrato l’enorme impatto negativo causato dal DOC sul funzionamento sociale e lavorativo dei pazienti: da uno degli studi più importanti condotti fino a oggi, il Global Burden of Disease, condotto dalla Banca Mondiale in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è emerso che il DOC rappresenta una delle dieci condizioni più disabilitanti nel mondo, con un impatto negativo sul funzionamento pari o addirittura superiore a molti disturbi psichiatrici gravi.1
Era l’una del 21 agosto 2012 e nel silenzio della notte iniziai a scrivere questa testimonianza, con la speranza che fosse liberatoria per me e utile per tutti coloro che avranno la voglia e l’interesse di leggerla. Si era conclusa una giornata d’agosto torrida e afosa, con il termometro a segnare 35 gradi all’ombra – una giornata che sicuramente rimarrà impressa nella mia memoria per sempre, in modo indelebile, come unica nella mia vita e inconfondibile 1 BOGETTO F., ALBERT U., SARACCO P., MAINA G., Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2006, pag. 32.
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con altre. Fu quella in cui, insieme a mia sorella, accompagnai il mio «padre DOC» in una casa di riposo per anziani. Un padre non a Denominazione d’Origine Controllata, ma affetto da un Disturbo Ossessivo-Compulsivo. Una sindrome davvero subdola, a stento riconosciuta e mai curata, accompagnata da una marcata ipocondria e da altri tratti del carattere piuttosto negativi, a cui, negli ultimi tempi, si era aggiunta l’altrettanto subdola demenza senile, che, passo dopo passo, aveva cominciato a farsi strada nel suo cervello già troppo assediato da pensieri disturbanti. La mia speranza di quel momento era che quella bella struttura di accoglienza immersa nel verde delle colline che guardano il Lago di Lecco da sotto il Monte Resegone riuscisse a farsi carico di quel padre così complicato – ad aiutarlo, e chissà, in estremis, anche a curarlo, visto che per me era diventato pericoloso e praticamente impossibile farlo a casa, anche con aiuti esterni. All’età ormai matura di 52 anni (dopo essere stata figlia, studente, moglie, mamma e lavoratrice), a partire dalla morte di mia madre, fui anche la sua cosiddetta garante, per due anni che mi sembrarono eterni. Mi caricai sulle spalle in prima persona quel pesante fardello che erano mio padre e la sua patologia, avendone la consapevolezza, ma ciononostante riuscendo a lenire ben poco la sofferenza che mi aveva procurato inconsapevolmente in passato e continuava implacabile a procurarmi anche nel presente, paradossalmente amplificata proprio da tale consapevolezza. Nel corso di quei due anni, mentre cercavo un modo per far fronte al mio padre impossibile e migliorare almeno un po’ la situazione familiare, chiedendomi spasmodicamente se 14 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata
LA MIA VITA CON UN «PADRE DOC»
fosse meglio combatterlo o assecondarlo, pensai tanto al mio passato di bambina e di ragazza cresciuta in una famiglia in cui un genitore era ossessivo-compulsivo e l’altro il garante. Così, riportai alla memoria tanti episodi, fatti e situazioni, sentimenti ed emozioni che per anni avevo tenuti chiusi in cassaforte o dati per scontati, mentre invece non lo erano per niente. Chiarii e spiegai molte cose, ma riuscii ad alleviare il mio disagio solo in parte. Questo disagio, che ogni tanto affiora nei momenti di particolare stress sotto forma di attacchi d’ansia, oltre alla componente genetica, credo provenga dalla mia continua tensione di bambina e ragazza ad anticipare le reazioni e adempiere alle richieste di questo «padre DOC», che era sempre altamente insoddisfatto di tutto e di tutti, pignolo, pedante e pretenzioso di una perfezione che di fatto non esiste. Una perfezione solo sua, di cui era alla continua angosciosa ricerca e che, frustratissimo, non raggiungeva mai, perché non era calata nella realtà e quindi funzionale, ma solo frutto del suo infinito bisogno di sedare l’ansia. Una tortura continua: per lui, ma anche per me. In questo racconto-testimonianza, che riprende i momenti salienti della mia vita, le mie consapevolezze e le mie perplessità che ruotano attorno a questo tema, desidero rendere note ad altri le mie esperienze, con la speranza che possano far riflettere, dare corso a provvedimenti più tempestivi di quelli che sono stata in grado di adottare io e portare buoni frutti, in modo che le mie difficoltà e sofferenze e il mio lavoro di raccolta di informazioni e pratica «sul campo» interessino a qualcuno e servano a qualcosa. Per fare questo, ho letto documenti e ho parlato con le persone che volevano ascoltarmi, sia 15 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata
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per vicinanza e affetto, che per professione. Ciò perché questo disturbo, se è nella tua casa e nella tua famiglia, prima che tu te ne accorga ti ha già invaso la vita, tanto da farti sentire inerme, senza strumenti e senza interlocutori che capiscano. Non hai grandi possibilità di raccontare ad altri la tua esperienza e, anche quando ci riesci, è facile passare per esagerata e intollerante. E quando gli altri ti considerano con sufficienza o addirittura non ti credono, la frustrazione è tanta. Così continui a reiterare gli stessi discorsi, magari con le stesse persone, per cercare di sfogarti e trovare una soluzione, senza raggiungere grandi risultati. In questo modo è facile iniziare a pensare che sei tu che sbagli e che forse è vero che sei eccessiva e intollerante come alcuni ti hanno detto, anche all’interno della tua stessa famiglia, e allora cominci a distaccarti, a lasciar perdere, poiché è più facile che combattere – e forse è l’unica via. In questo modo, per non creare conflitti («per il quieto vivere»), metti da parte le tue esigenze e i tuoi disagi, ti defili e finisci per far finta di niente, autorizzando così la persona affetta dal disturbo a fare il bello e il cattivo tempo, visto che la sua pretesa è sempre quella che le persone a lui vicine si adeguino alle sue urgenze, che sono sempre vissute come assolute. È questa la forza del disturbo ossessivo-compulsivo e una delle componenti più rilevanti della sua essenza così sfuggente. La conseguenza, soprattutto quando si è bambini, è una grande solitudine e la consapevolezza di dover sempre risolvere le cose da soli all’esterno della famiglia, mentre all’interno, di arrangiarsi in modi alternativi, perché c’è qualcuno
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che viene sempre prima di te, mettendosi ed essendo messo al centro dell’attenzione (soprattutto se egocentrico e ipocondriaco come mio padre). È allora che il familiare disturbato ti appare come un buco nero, che risucchia tutto dentro di sé e non lascia spazio a nessuno. Se sei abbastanza forte per non soccombere all’asservimento, perdendo l’autostima e il senso di adeguatezza fino ad arrivare alla depersonalizzazione, impari ad adottare metodi laterali, anticipare le sue mosse, sostenerti da sola e non chiedere mai, perché qualsiasi domanda d’aiuto scatena in lui ancora maggiori bisogni di attenzione, comprensione, accudimento e preminenza, per la paura di essere abbandonato a se stesso. …Per non parlare della ferrea volontà di vedere soddisfatte le proprie esigenze nell’immediato, che ti fanno correre e affannarti per farlo, se non altro per non sentire più la sua insistenza, la sua ansia e il suo fiato sul collo, che ti toglie il tuo. Esigenze di un padre a Denominazione d’Origine Controllata, che vuole che tutto sia fatto nel suo modo assurdo, visto che non concepisce altri modi, che pretende un ordine ferreo e una pulizia illogici e che, in sostanza, esigendo senza appello che tutti i suoi rituali siano avallati, ti impone un modo di essere e agire che puoi percepire come senza senso ma, per una forza oscura, tendi a seguire, perché puoi percorrere solo una strada, con un solo senso di marcia: come un tunnel lunghissimo, senza sbocchi laterali, in cui sia vietato fare inversione e non sia possibile imboccare una bretella di uscita per cambiare la propria strada. Un mondo a senso unico, che è solo il suo.
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CAPITOLO 1 UN DISTURBO DI FAMIGLIA?
Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) non è ereditario, ma tende a colpire più membri della stessa famiglia, spesso quando sono presenti movimenti involontari bizzarri (tic) e ciò ha portato a considerare le ossessioni come tic del pensiero. Esiste una predisposizione genetica, dato che il 30% dei parenti di primo grado di chi soffre del disturbo ha un problema simile.2
Mi sembra che la sindrome di mio padre abbia radici familiari. La sua era una famiglia numerosa, di sei figli (cinque maschi compreso lui e una femmina), tutti o quasi con fissazioni, idiosincrasie, comportamenti asociali e ipocondrie. Tutti, per così dire, delle «anime in pena», le cui manie piccole o grandi si concentravano su oggetti e temi diversi, ma avevano tutti lo stesso filo conduttore. Questo filo conduttore credo di intravvederlo anche oggi, pur in modo molto più lieve, in tutti noi eredi di questo ramo
2 http://www.silviapiredda.it/static_pages/domande-dubbi1.3.php
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familiare, sia direttamente che indirettamente. Ho l’impressione che noi figli, figlie e nipoti, almeno in parte, possediamo alcune caratteristiche analoghe o abbiamo scelto inconsciamente partner che le possiedono: ansie e alcune paure specifiche, pignolerie particolari come l’ossessione dei capelli o della casa, estrema puntigliosità, pervicacia al cambiamento, rifiuto dei nuovi mezzi tecnologici, difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro, tirchieria sproporzionata o shopping compulsivo. È come se la mia famiglia, inesorabilmente, sia destinata in qualche modo a ruotare attorno al disturbo, anche dopo i cambi generazionali. Spero solo che mio figlio ne sia esente – e con mio grande sollievo per ora mi sembra di sì. Il mio «padre DOC» fu l’ultimo dei sei fratelli del suo ramo familiare, di una famiglia abbiente dell’Italia del Nord che – fino a lui – era proprietaria di un’azienda vecchia di generazioni. Tramite i racconti degli altri parenti (ma non suoi) o la frequentazione personale, mi sono noti alcuni episodi delle storie di questi zii, ormai tutti scomparsi, tra i quali il disturbo serpeggiò più o meno sottilmente. Di loro mio padre mi raccontò molto poco, a parte qualche informazione stereotipata, impersonale e sempre uguale a se stessa, nonostante il passare degli anni. A causa della sua sindrome e del suo egocentrismo parallelo o conseguente, probabilmente era sempre stato troppo concentrato su se stesso e troppo poco empatico per riuscire a farlo. Per i suoi parenti, a tutti i livelli, mio padre dimostrò sempre molto discredito, che a volte rasentava il disprezzo. Era piuttosto misantropo e misogino e i suoi sentimenti negati-
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vi erano «elargiti» più alle persone a lui vicine, soprattutto donne, che non a quelle esterne alla famiglia. E in generale, dai racconti e dai miei ricordi frammentari, nella sua famiglia sembrava non esserci mai stato affetto e partecipazione: tutte persone fredde, controllate e sempre intente a pensare ai propri problemi personali, che convivevano e lavoravano insieme, ma a livello emotivo si regalavano davvero poco. Di sua madre mio padre ha sempre detto solo: «Non mi guardava mai», intendendo dire che non si occupava di lui. In effetti, anche come nonna non trasmise mai nulla nemmeno a me. Era una donna che soffriva di profonde depressioni (spesso assediata dagli «esaurimenti nervosi», come si diceva allora in famiglia) e che partorì mio padre in età già avanzata. Pare che non si fosse mai occupata molto dei suoi figli, soprattutto dell’ultimo, che era mio padre, anche perché in casa era sempre stata presente una governante. Il padre di mio padre doveva essere un uomo mite e bisognoso della guida e del sostegno della grande famiglia. Non lo conobbi, perché morì piuttosto giovane. Mio padre di lui disse sempre solo che era «bravo» e che «era senza un braccio» (che gli era stato amputato), senza mai accennare al motivo: era come se quel motivo non lo sapesse – o meglio non gli interessasse – e io stranamente non glielo chiesi mai, tanto ero abituata ai suoi stereotipi. Le caratteristiche di scarsa o nulla empatia e spontaneità, ipercontrollo, inibizione emotiva, cattivo umore, concentrazione su di sé, coscienziosità e timidezza riferiti dalla letteratura sulla materia erano comuni a tutti i fratelli di mio padre, soprattutto ai maschi.
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Di questi, il primo era lo Zio Gianni, un tipo mite e chiuso in se stesso, che mi infondeva tanta tenerezza e curiosità. Nato nel 1913, morì nel 1973, a 60 anni, presumibilmente a causa degli effetti nefasti dell’alcolismo, chiuso in casa da anni senza mai parlare con nessuno e in grado di fare solo alcuni gesti ripetitivi che scandivano la sua giornata. Di lui so che, dopo essersi laureato in medicina e aver praticato la professione per un breve periodo, partì per la guerra, passò del tempo in prigionia e vi tornò alcolista e incapace non solo di riprendere il suo lavoro, che per quei tempi era molto prestigioso, ma anche di inserirsi in qualche modo nella società. In famiglia si diceva che, essendo rimasto scioccato dagli eventi bellici, aveva iniziato a bere mentre era al fronte – ma probabilmente c’era qualcosa di più, che lo minava dentro. Di questo zio ho il ricordo di bambina di un uomo molto magro e minuto, dolce e gentile, anche se totalmente freddo e distaccato, sempre perso nei suoi pensieri e in certe azioni ripetute, che faceva tutti i giorni sempre alla medesima ora. Oggigiorno oserei dire che assomigliasse molto a una persona autistica. Fu mantenuto dalla famiglia per tutta la vita e visse sempre insieme alla madre (l’unione di due solitudini, se viste dall’esterno), non facendo altro che seguire i propri rituali con tranquillità e scrupolosità. Curava se stesso, le piante, un gatto e tantissimi canarini, che teneva chiusi in gabbie tutte riunite in una stanzetta apposita, al secondo piano della grande casa di famiglia. Un ricordo in particolare mi è molto presente e riguarda la cura delle sue piante, tutte ortensie, che teneva in piccoli vasi di terracotta tutti dello stesso colore, allineati accuratamente
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lungo il perimetro di una terrazza spaziosa. Nessun vaso era mai fuori posto. Molta parte dei pomeriggi della sua mezza età li dedicò all’annaffiatura di queste piante. Per questa scrupolosa operazione impiegava un tempo che a me, bambina, sembrava interminabile. Non usava un normale annaffiatoio, che gli era stato più volte proposto e regalato, ma altrettante volte categoricamente rifiutato: si sentiva come obbligato ad annaffiare le sue piante usando un vasetto molto piccolo di terracotta uguale a tutti gli altri della terrazza. Era questo vasetto che motivava il tempo interminabile che lo Zio Gianni impiegava, andando avanti e indietro dal bagno alla terrazza un incredibile numero di volte, per riempirlo d’acqua. Era il classico vaso di coccio ocra con il foro sotto, che lui tratteneva tra le dita in un modo inconfondibile e sempre uguale, tra il pollice e l’indice della mano, aperta e posizionata in modo piuttosto innaturale. Ormai aveva i muscoli e l’ossatura della mano magra incredibilmente adattati! Con l’indice chiudeva precisamente il foro sotto il vaso, in modo che l’acqua non fuoriuscisse finché non era il momento giusto, e poi posizionava il vaso con cura una spanna al di sopra della pianta da annaffiare. Quindi, spostava appena il dito indice a fianco del foro per far scendere l’acqua e controllava con sguardo estremamente attento tutta l’operazione, che ripeteva più e più volte, tutti i pomeriggi e tutti i giorni. Mi chiedo se lo facesse anche quando pioveva, ma questo purtroppo non me lo ricordo. Non usciva mai e parlava pochissimo. Non mi ricordo che mi abbia mai detto qualcosa in vita sua. Con me si esprimeva con gli sguardi e i gesti, che però, a differenza degli altri membri della famiglia, erano tutti sguardi e gesti di affetto. Mi
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teneva in braccio in modo molto rassicurante e di questo gesto ho una foto che mi è molto cara. Ma ciò successe solo quando ero molto piccola; con la mia crescita purtroppo tutto ciò si perse. Nemmeno con altri mi risulta parlasse: ascoltava soltanto. Di tanto in tanto lo si sentiva fare piccoli versi acuti tra sé e sé e, quando li sentivo, avevo l’impressione che esprimessero la sua tranquillità e soddisfazione. A volte, nel pomeriggio, quando con mia mamma andavo nella grande casa dove aveva sede anche l’azienda, a visitare la famiglia e a prendere mio padre (che lavorava poco ma era sempre lì presente, più che altro a lucidare l’auto in cortile), lo Zio Gianni a volte mi preparava un panino con la salsiccia cruda, con uno sfilatino all’olio lungo e stretto che mi sembrava perfetto, tagliato accuratamente e con la salsiccia spellata distribuita in modo regolare su tutta la sua lunghezza – ma senza fuoriuscire dai bordi, data l’incredibile accuratezza con cui lo preparava, impiegando un tempo che mi sembrava quasi interminabile. A me piaceva molto osservarlo mentre preparava quel paninetto perfetto. Dopo aver creato il piccolo capolavoro, lo prendeva in mano in modo circospetto, per non schiacciarlo e rovinarlo, e poi me lo porgeva con grazia, senza dire nulla. Mi ricordo che spesso il suo gatto era lì con noi, anche lui a seguire il lavoro e forse a mangiucchiare la pelle. Con il suo gatto aveva un rapporto bello e particolare, fatto di silenzi molto significativi. A differenza degli altri fratelli e soprattutto di mio padre, dello Zio Gianni ho decisamente un ricordo di serenità e tranquillità: non mi pareva fosse divorato dall’ansia come tutti gli altri, ma forse ero troppo piccola per avvertirlo. Del secondo fratello, nato nel 1915, so solo che morì giova-
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ne in guerra, nel 1943, mentre il terzo nacque morto nel 1917. Erano tempi difficili. Sembra sia dopo queste tragedie che mia nonna andò in crisi e non si riprese più – povera donna, senza la possibilità di fare uso dei farmaci che esistono oggi. Forse si aiutò fiutando tabacco, che conservava in una vecchia tabacchiera che, per me bambina, era molto affascinante perché tenuta un po’ segreta. Il profumo che emanava era molto dolce e nel contempo pungente. Lei l’aveva sempre addosso. La quarta figlia era femmina: la «mitica» Zia Iris, che fu molto significativa per tutti in famiglia e anche per me. Era una donna molto di polso ed emancipata per i suoi tempi. Nacque nel 1919 e fu molto sfortunata nella sua vita, anche se la sua tenacia e l’obbligo di inserirsi nella società le permisero di riscattarsi dalla visione ristretta della donna che vigeva in quei tempi. Quando era ancora giovanissima, dopo pochi anni di matrimonio e con due figli molto piccoli, la guerra le portò via il marito «aviatore». Era un uomo bellissimo, con un gran fascino – che gli veniva anche dalla divisa – e in famiglia divenne una figura davvero romanzesca. Di recente i miei cugini mi hanno regalato una foto di lui davvero splendida: a mezzo busto, mentre indossava l’alta uniforme e il bel cappello rigido dell’Aviazione. Sembra davvero un attore d’altri tempi. E come in un film, il suo piccolo aereo traballante fu bombardato, precipitò e lui restò disperso, ma la sua morte cela un segreto che pare abbiano conosciuto solo alcuni membri importanti della famiglia, mentre agli altri sarebbe stata raccontata una versione più politicamente corretta. Così la Zia Iris rimase vedova nel fiore degli anni e dovette crescere da sola i figlioletti, anche se sostenuta dalla famiglia,
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con la quale visse per molta parte della sua vita. Anche a lei non furono risparmiati periodi bui di forte depressione, ma fu l’unica dei fratelli che lavorò davvero, subentrando nell’azienda di famiglia. Per forza di cose dovette diventare una donna forte e decisa e a differenza degli altri fratelli dimostrò una grande autosufficienza e autonomia, che le donne di quella generazione non avevano. In sostanza, ebbe una capacità di vivere nel mondo e di avere rapporti umani che gli altri componenti della famiglia non ebbero mai. Forse in lei il disturbo lasciò un’impronta appena accennata rispetto agli altri fratelli maschi e forse perché fu costretta a pensare a «sbarcare il lunario». Ma anche se solo accennata, l’impronta era visibile nella precisione con cui svolgeva i compiti e nell’estremo ordine e pulizia con cui teneva la propria casa, che era piena di preziosi oggetti da collezione, disposti sui mobili in modo perfetto. Un aspetto più marcato era quello dell’abbigliamento. La Zia Iris era di gusti decisamente difficili e aveva il suo colore preferito, che era il marrone, da cui poche volte derogava. Se trovava un capo che le piaceva, ne comperava più esemplari uguali. Il problema però era che le confezioni, che provava e riprovava con cura, non le andavano mai bene e andavano sempre ritoccate da qualche parte. Un orlo un po’ troppo lungo, una sciancratura troppo poco pronunciata, un collo troppo largo. Aveva sempre l’esigenza di far fare qualche piccola modifica dalla sua sarta, con una pignoleria che chiunque avrebbe percepito come eccessiva. Anche il suo carattere (come quello di mio padre) era piuttosto ombroso, portato alla lamentela più che al buonumore e a una certa ipocondria, ma a differenza degli altri fratelli era una
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persona empatica e in grado di trasmettere sentimenti. Per me bambina, dal punto di vista educativo, è stata una figura di riferimento molto autorevole: un esempio di donna di successo, non sottomessa come tutte le altre che conoscevo, che si dimostrò in grado di affrontare e superare le avversità, quando gli altri zii e soprattutto mio padre non lo erano stati affatto. La ammiravo molto, come tante altre persone sia di famiglia che esterne. Il quinto figlio, lo Zio Giorgio, nato nel 1925, come gli altri non riuscì a crearsi una posizione lavorativa autonoma e visse di rendita, più o meno mantenuto dalla famiglia, per tutta la vita. Si era iscritto alla facoltà di farmacia, che a un certo punto lasciò, anche se restò sempre un grande «appassionato» di medicine, che accumulava in un armadio della sua camera e ingurgitava in grande quantità, affetto, secondo lui, da una vastissima gamma di disturbi da curare. Ricordo l’odore di farmaci che aleggiava costantemente nella sua stanza della grande casa. Di lui mio padre disse sempre e solo che era un grande disordinato e che «gli rubava sempre le mutande dai cassetti, per poi rimettergliele dentro sporche». Chissà che sofferenza, per un maniaco dell’ordine come lui! Dopo un fidanzamento lungo tanti anni fu convinto dalla famiglia a sposare la sua eterna fidanzata (pare dalla Zia Iris, che teneva le redini di tutto). Sposò questa donna molto bella, che lavorava in un atelier di moda nel centro di Milano, ma ben presto lei lo lasciò. Mi sono sempre domandata se la ragione fosse una convivenza con il DOC impossibile da sopportare. Così lo Zio Giorgio visse da solo fino alla fine dei
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suoi giorni, in conflitto con il resto della famiglia per questioni finanziarie relative all’eredità. Che io sappia, dopo di ciò non ebbe mai rapporti amorosi stabili, né figli, e alla fine della sua vita rimase davvero solo e abbandonato. Dopo il conflitto per motivi finanziari, né mio padre né la Zia Iris gli parlarono più per molti anni, ma alla fine l’unica che andò in suo soccorso quando era malato e vicino alla fine fu lei, che ancora una volta dimostrò di essere più forte di tutti e anche capace di perdonare. Mio padre non lo volle rivedere neanche in quel momento e fu solo contento di ereditare una parte della sua casa. Ma c’era un aspetto molto significativo che differenziava lo Zio Giorgio dagli altri fratelli, che erano scontrosi e asociali: lui era estroverso, inserito in vari circoli della comunità locale, assessore e anche narratore e poeta. Pubblicò dei racconti brevi e un libro di poesie dialettali che parlano della sua infanzia e giovinezza nella cittadina alle porte di Milano dove la famiglia ha sempre vissuto. Qui da anziano era considerato un personaggio in vista, tanto che gli è stata dedicata una via. Frequentava gli ambienti dello sport, del volontariato e della politica con ottimi riscontri, ma alla fine ebbe solo un amico che lo aiutò come poteva, ma nessun parente. Forse era egocentrico come mio padre. Il sesto figlio, nato quando mia nonna era già avanti con gli anni e in preda a una depressione ormai cronica, è mio padre. Mi rendo conto solo ora di non sapere quasi niente della sua infanzia, perché, come ho detto, non raccontava di sé se non elementi negativi e stereotipati. I suoi pochi ricordi ruotano
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