Il palloncino verde

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A Tu per Tu

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Stefano Mosca

Il palloncino verde

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“Oltre quel buio andrò, di giorno in giorno, affrontando ogni tenebra. E non avrò più paura di precipitare nel buio, perché la speranza sarà lì giù ad attendermi e a mostrarmi la strada per la libertà.”

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Prima Edizione: 2016 ISBN 9788898037926 © 2016 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Febbraio 2016 in Italia da Universal Book srl - Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)

Immagine di copertina di Stefano Mosca

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“È da lassù che sei entrato e da lassù dovrai uscire”

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È stato un volo lunghissimo! Lento, ma molto lungo. Lo so perché avvertivo la luce, che, alle mie spalle, si allontanava lentamente. Riuscivo a vedere ogni minimo particolare, che ricordo perfettamente ancora oggi. Quando sono inciampato, ho provato un senso di allontanamento dal mondo, come se stessi perdendo qualcosa, per poi scoprire essere la mia libertà. Di fronte c’era quella voragine circolare che m’inghiottiva e l’unico colore che riuscivo a vedere era il nero. Eppure era strano, scivolare così velocemente giù e distinguere ogni cosa, come la presenza di altri esseri. Li scorgevo mentre cercavano di nascondersi tra le fessure della parete rocciosa, ma i loro occhi rossi non passavano inosservati. Man mano che precipitavo, le mura che mi circondavano, mi chiudevano in una morsa, in una sorta di trappola, costruita apposta per me, su misura per il mio corpicino esile. Ogni pezzo di pietra diventava sempre più scuro, passando attraverso le svariate tonalità di grigio, fino a raggiungere il nero. Una coltre nera, un manto, che mi avvolgeva, che mi copriva dalla testa ai piedi, facendomi avvertire una sensazione di congelamento, di tensione, di paura. I brividi percorrevano 9

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le braccia, le gambe, tutto il corpo come spilli e il vento sul viso. Durante il volo ricordo ogni insetto attaccato alle mura che mi scrutava e ai loro occhi non ero estraneo. Ragni che tessevano grandi ragnatele, enormi architetture naturali che mi ricordavano un po’ le grandi reti del circo. Se fossi caduto su una di quelle, non mi sarei fatto alcun male, anzi sarei rimbalzato di nuovo in cima e magari sbalzato fuori. C’erano scarafaggi, veloci, scattanti. Anch’essi mi fissavano e mi davano il benvenuto con le loro grandi antenne che mi ricordavano le aste su cui i trapezisti del circo fanno le loro acrobazie. Avrei potuto aggrapparmi a una di esse per scendere più lentamente, senza il rischio di cadere e rompermi una gamba. Ricordo anche uccelli neri, forse corvi o pipistrelli, era talmente buio che non li distinguevo bene. Appena mi videro, emisero un suono stridulo ma piacevole, magari era il loro benvenuto e così capii che erano pipistrelli. Avevano le ali talmente grandi che sembravano enormi letti su cui riposare una volta toccato il fondo. Mi stavo quasi convincendo che non era poi così male aver fatto quel volo. C’erano tanti amici ad aspettarmi e tutti mi avevano accolto nel loro specifico modo e, proprio come al circo, ero certo che mi sarei divertito. Ma l’impatto col suolo fu terribile, uno schianto forte e non ricordo per quanto tempo rimasi lì prima di svegliarmi. Quando aprii gli occhi era talmente buio che non capivo dove fossi finito. Un buio impenetrabile che mi rendeva difficile anche la vista delle mie stesse mani, vicine agli occhi. Mi sentivo bagnato e i miei piedi affondavano in un terriccio

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fangoso che mi procurava il vomito. Avevo battuto la testa e la pancia al suolo, ero intontito e dolorante ma sentivo che non c’era niente di rotto, riuscivo a muovere le gambe e le mani senza che scricchiolassero. Mi alzai e guardai verso l’alto. Mi sarei potuto trovare in qualsiasi posto, aperto o chiuso, grande o piccolo, in una casa, nella mia stanza o davanti a una bocca di un drago spalancata. Quel buio che mi avvolgeva, poteva nascondere ai miei occhi qualsiasi cosa. Un fitto bosco, un deserto, un burrone in cui precipitare o un muro contro cui sbattere. Quando ti trovi in una situazione del genere, non sai che fare. Nero. Era tutto ciò che riuscivo a vedere. Protesi le mani in avanti per trovare equilibrio e orientamento e decisi di incamminarmi. Avevo voglia di esplorare quel luogo, di capire dove fossi caduto, ancor prima del perché ci fossi finito. Ma, dopo alcuni passi, ecco che le mie mani toccarono una parete, un muro fatto di pietra ruvida e maleodorante. Lo sentivo sotto le dita, freddo e sporco. Iniziai così a toccarlo per capire dove finisse e se avessi potuto aggirarlo. Era tutto così difficile, come se i miei occhi fossero bendati. Mi resi conto, passo dopo passo, che quel muro non aveva una fine, ma continuava e mi sembrava di girare in tondo. Rimasi perplesso e senza risposta. Un brutto gioco a cui non avevo mai deciso di partecipare. Magari qualcuno si divertiva a guardarmi, ma io non ero per niente divertito da tutto ciò e iniziai ad avere molta paura. Ero convinto che qualcosa non andasse e che probabilmente ero finito in una trappola che mi chiudeva in modo circolare, almeno era questa la sensazione che quella parete mi dava, così ebbi un’idea. Mi tolsi la maglia e l’appoggiai a terra, come punto di partenza di un nuovo giro. Se mi fossi trovato

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in un luogo circolare e chiuso, allora sarei tornato di nuovo alla maglia calpestandola, ma se non fosse stato così, allora l’avrei anche potuta perdere. Camminai, aiutandomi sempre con le mani aggrappate al muro, unico appoggio per non cadere. Desideravo tanto non arrivare alla maglia, volevo sbagliarmi, ero anche disposto a perderla in quel buio pur di non avere quella certezza, ma ecco che il mio piede sinistro finì su qualcosa. Mi fermai. Chiusi gli occhi dal presentimento. Mi abbassai e raccolsi la maglietta. Sì, mi trovavo in un luogo chiuso, circolare, dalle mura puzzolenti e umide. Mura alte, troppo alte da non riuscire a raggiungere il bordo nemmeno con un salto. Ero un bambino e quanto alto potevo saltare? Ma nonostante mi sforzassi anche solo di toccare il bordo, non ci riuscivo, perché quel bordo non esisteva. Credo di aver fatto molti giri prima di rendermi conto che non c’era via d’uscita o almeno era quella la prima convinzione. In preda al panico iniziai a gridare e a sbattere violentemente i pugni al muro. “Fatemi uscire. Fatemi uscire” gridavo con tutta la voce che avevo, ma essa si propagava verso l’alto senza portarmi risposte. Si allontanava dalla mia bocca senza che tornasse indietro nemmeno l’eco, come se sopra di me fosse scoperto. Quando ero ancora più piccolo, feci una gita con i miei genitori in montagna. Papà m’insegnò che gridando in quell’aperta voragine la voce sarebbe ritornata indietro perché batteva contro le pareti di quelle montagne in lontananza. Un muro, quindi, che respingeva la mia voce. Lì giù, la mia voce non tornò mai indietro, il che voleva dire che non c’erano ostacoli sopra la mia testa e tutto complicava ogni mia tesi di dove mi sarei potuto trovare.

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“Voglio uscire” continuavo a urlare e andavo da una parete all’altra con le braccia aperte. Caddi a terra sconvolto, continuando a piangere, sbattendo con forza le mani sulla terra fredda. Sembrava notte fonda, crollai dal sonno sperando che poi mi sarei svegliato da quel brutto sogno. Ripensando alle parole iniziali, mentre cadevo giù, non mi sarei divertito per niente, anzi stavo vivendo il peggior incubo della mia vita. La notte o quel che credo sia stata tale, passò in fretta, stranamente, forse perché ero troppo stanco oppure era passato tanto tempo e non me ne ero accorto. Quell’esperienza talmente surreale giocava brutti scherzi ed io, che non riuscivo nemmeno a vedere il mio corpo, di certo non avevo possibilità di intuire il tempo che scorreva. Ero disteso, con gli occhi ancora chiusi. Avevo dormito su quella terra bagnata, sapendo che nell’istante in cui li avrei aperti, non sarebbe cambiato nulla o mi sarei svegliato nel mio letto, con il viso di mia madre che mi fissava sorridente e che mi tranquillizzava da quel brutto sogno. Ero lì, insomma, in bilico tra il sogno e la realtà, tra l’incubo e la voglia di scappare lontano. Li aprii e il viso di mia madre non c’era. Amara sconfitta. Ma vidi una luce lontana, molto molto lontana, piccola, in alto. Sembrava una stella o forse lo era davvero. Era annebbiata, non brillava come fanno le stelle di solito. Cos’era? Quel buio intorno mi faceva venire i brividi. Non sapevo se accanto a me ci fosse un’altra persona, qualche animale! Già! Dov’erano finiti tutti quegli insetti visti durante la caduta? E i

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pipistrelli? Non chiedertelo. E se c’era davvero qualcuno alle mie spalle che mi fissava? Se c’era una porta che non riuscivo a vedere, una scala che portasse in alto... Oh, non sapevo proprio nulla! “Aiuto” Gridai. La mia voce rimbombava, come se fossi diventato piccolo e finito sul fondo di un bicchiere o in un enorme cilindro. “C’è qualcuno?” inizialmente non ebbi risposta, ma poi... “Ci siamo qui noi” Sentii all’improvviso una voce acuta provenire da quel buio. Perché li hai chiamati? “Chi c’è? Chi è che ha parlato?” chiesi con voce tremolante. Erano accanto a me? O mi fissavano dall’alto? “Non temere, siamo tuoi amici” “Non vi vedo. Venite fuori” Avanzarono verso di me, uscendo dal buio, dei pipistrelli. Nel frattempo quella piccola luce in alto era diventata più grande e laggiù tutto era un po’ più visibile e riuscii a vederli, certo non nitidamente, ma intravedevo le loro sagome. Ebbi paura. Indietreggiai e caddi a terra e subito mi misi con le spalle al muro. “Non vogliamo farti del male, ma solo giocare con te.” Non avevo mai visto dei pipistrelli parlanti. Ero impaurito nonostante mi dicessero quelle cose. Erano avvolti dalle loro ali come mantelli neri e mi parlavano lentamente facendomi tranquillizzare. Ero curioso ora e lentamente mi alzai restando sempre allo stesso posto.

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“Questa è casa vostra?” chiesi io. “Sì, ti piace?” risposero loro accennando un sorriso innaturale. “Non riesco a vedere molto, c’è ancora troppo buio.” Risposi guardandomi intorno. La luce aveva fatto grandi progressi, come se si stesse avvicinando o solo aumentando la sua forza. “Tra poco sorgerà il sole e vedrai molte cose”. “Sì sì, certo” fece un altro e si sentì un sogghigno sarcastico di altri pipistrelli che non riuscivo a vedere. “Fate silenzio voi!” tuonò il primo voltandosi alle sue spalle. Gli altri cessarono di ridere e fu subito silenzio. Capii che c’erano altri e iniziai a intimorirmi ancora di più. Quando non sai bene cosa c’è davanti ai tuoi occhi la paura ti assale, ti uccide e la prima cosa che ti viene da fare è correre, scappare via, ma come potevo farlo in quella circostanza? Ero obbligato a stare fermo, non sarei mai potuto arrivare lontano, ero in una trappola. “Stai tranquillo piccolo Luca, sono tuoi amici anche loro” aggiunse avvicinandosi a me. Ero a un palmo dal suo viso. Riuscivo a vedere i suoi occhi rossi con venature nere. Erano occhi a mandorla, molto allungati verso l’alto. La bocca si chiuse immediatamente e per fortuna non vidi i suoi denti. Si fermò in una smorfia che assomigliava a un sorriso. “Dove mi trovo?” chiesi con la voce fioca e spingendomi ancora di più al muro. “Vedi piccolo Luca, questo è il pozzo” rivelò lui. “Il pozzo?” chiesi conferma io, incredulo. “Ma certo. Vedi piccolo bambino curioso, questo non è un

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pozzo come gli altri. Questo è il pozzo dei desideri dove tutto ciò che desideri ti sarà dato” rispose lui con tono supremo. A me sembrava tanto la mamma quando mi vuole far mangiare le verdure descrivendole di una bontà rara, ma alla fine io sapevo che non era così. “Ora dimmi piccolo fanciullo, cosa desideri di più?” “Io voglio uscire da qui. Voglio tornare a casa, Aiutatemi!” risposi con un tono di voce alto. Loro avevano detto che ogni mio desiderio lì si sarebbe avverato, io volevo tornare a casa. “Ma sì, certamente. Ti aiuteremo, vero amici miei?” disse voltandosi leggermente alla sua destra. “Sì” fecero in coro gli altri sogghignando ancora. “Perché ridete! Io sono triste, voglio tornare dalla mia mamma” risposi con le lacrime che mi riempivano gli occhi e battendo i pugni contro il muro dietro di me, ai lati dei miei fianchi. “La tua mamma non c’è. È andata via, molto lontano” “Che ne sapete voi? Non la conoscete” “Oh sì che la conosciamo. È amica nostra. Ci ha detto di prenderci cura di te” risposero guardandosi tra di loro cercando approvazione reciproca. “Non vi credo” Certo, caro Luca. È così. Guarda le nostre ali come sono grandi. Ora diverranno un soffice letto per te dove potrai fare sogni tranquilli.” Toccai una delle sue ali ed effettivamente era morbida. Avevo voglia di dormire, ma non volevo farlo di nuovo a terra, benché lui avesse detto che il sole stava per sorgere. Avrei finalmente visto tutto e capito bene dove mi trovassi, ma le

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mie palpebre iniziarono a diventare pesanti, non le controllavo. Quegli occhi rossi erano penetranti. Mi stesi sulle sue ali che in quel momento rappresentavano per me un bel letto comodo e soffice. Ero in dormiveglia e sentivo i pipistrelli parlare una lingua diversa, come uno stridulo continuo. Non avevo capacità di attenzione e caddi in un sonno profondo. Quando aprii gli occhi, vidi quella luce molto vicina, mi abbagliava, mi costringeva a tenerli chiusi, non erano più abituati a vederla. Ma quanto era bella però. Sembrava potessi toccarla, sfiorarla con la mano. “Saranno stati i pipistrelli a portarmi fino al bordo del pozzo” pensai, con un sorriso sulle labbra e la voglia di tornare a casa. All’improvviso, apparvero delle sagome. Non riuscivo a capire chi fossero. Non erano i pipistrelli perché erano simili agli umani. Tentavo di prenderli, afferrarli, ma non ci riuscivo. Era tutto sfocato e contro luce. “Eccomi, sono qui. Allungate la mano, prendetemi” dissi, ma quelle sagome non si mossero di un centimetro. Stavano lì immobili, forse a fissarmi o forse dandomi le spalle e chissà se ascoltavano la mia voce. “Chiederò di nuovo aiuto ai miei amici pipistrelli” ma non feci in tempo a finire la frase che subito me li trovai vicino. “Oh certo che ti aiuteremo” risposero i pipistrelli in coro. “Prova a chiamarli e vedrai che ti risponderanno”. Ma quelli non rispondevano alle mie urla e piano piano mi allontanavo da loro, scendendo sempre di più verso il basso e in un sol colpo mi ritrovai giù, sul fondo melmoso. “No, perché l’avete fatto?” gridai dolorante.

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Non mi aspettavo una reazione simile, specie perché li credevo amici. “Capisci che sono loro a non volerti più? Ma qui con noi starai bene, vedrai” “No, fatemi tornare dalla mamma” “Ma lo sai che la tua mamma non c’è più? Non è lì ad aspettarti!” rivelarono loro. “E voi che ne sapete?” chiesi in lacrime. “Noi ti vogliamo bene e non ti lasceremo mai, invece loro, come hai potuto vedere, non ti hanno teso la mano. Non ti hanno voluto aiutare. Loro non sono tuoi amici, noi sì invece. “Siete crudeli con me” risposi singhiozzando. “Oh Luca, noi vogliamo dimostrarti che lì fuori nessuno ti vuole bene se solo provassi a capire quanto staresti bene qui giù con noi... ma sei testardo, noi ti parliamo e tu fai finta di non capire, sei ottuso, sei cattivo sei cattivo sei cattivo... Lo ripeterono infinite volte mentre la loro voce si faceva sempre più acuta perforando le mie orecchie. Misi le mani su di esse per attutire il suono, ma era troppo forte e scoppiai in un “basta” e loro smisero, si guardarono tra di loro e scomparvero nel buio. Cadde il silenzio. Luca, seduto in un posticino a terra, avvolto dalle tenebre, piangeva, sentiva quelle parole e finì per crederci. Era proprio vero che quelle persone non lo avevano aiutato e iniziò a pensare che non gli volessero bene, altrimenti gli avrebbero teso la mano. Si addormentò con le lacrime agli occhi, rannicchiato a terra sotto i terrificanti occhi rossi dei pipistrelli.

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È proprio strano osservare il cielo da qua giù. Un cerchio attraverso il quale si vede il mondo esterno. Di giorno quel cerchio si colora di azzurro e la sera di nero. Un enorme spioncino per guardare fuori. Un cannocchiale. Quando il sole è alla sua massima altezza, passa proprio per il centro. Mi abbaglia e a volte mi stordisce, in altre mi asciuga i vestiti dopo un acquazzone e spesso mi asciuga anche le lacrime. Adoro la pioggia, perché so che dopo comparirà l’arcobaleno. Ne riesco a vedere solo un pezzetto però, perché tutto non ci sta e così mi godo quei pochi colori che riesco a vedere. Mi regalano gioia e un sorriso. Vedo passare gli uccelli, a volte. Chissà dove volano beati. Vorrei essere anch’io uno di loro. Se fossi un uccello, scapperei immediatamente da qui. Mi basterebbe aprire le ali e con una bella spinta alzarmi in volo e abbandonare tutto! “Ma tu puoi spiccare il volo” “Chi è là? Chi ha parlato?” “Siamo gli scarafaggi, i tuoi nuovi amici” risposero quelli. “No, andate via. Non mi fido di nessuno qui giù! dissi arrabbiato. E non fidarti. “Oh ma noi siamo scarafaggi magici” “Magici? Perché?” “Perché abbiamo un potere che t’interesserebbe tanto”. “E quale?” “Portarti fuori da qui” Subito cambiai atteggiamento. Certo che essermi fidato dei

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pipistrelli fu uno sbaglio, ma magari con gli scarafaggi sarebbe stato diverso e così... “Oh davvero? E ditemelo per favore” “Seguici allora” fecero quelli “Ma siete troppo in alto” risposi “Non riesco a salire fin lì” Improvvisamente le loro antenne divennero lunghe, talmente lunghe da arrivare fino a terra, accanto ai miei piedi e, incredulo, rimasi a bocca aperta. “Arrampicati, ora ce la puoi fare” dissero loro. Così mi aggrappai a quelle lunghe aste e riuscii finalmente a raggiungerli, anche se avevo un po’ di timore. Certo che di cose strane ne erano successe. Non avevo mai visto pipistrelli parlare e ora scarafaggi, ma non era quello il momento di pensarci. Dovevo tornare a casa e qualsiasi modo andava bene. Salito fino a loro, li vidi dentro a una piccola fessura di quell’unica parete circolare. Mi fissavano e m’invitarono a entrare. “Non potrò mai seguirvi, come faccio ad entrare in quella fessura? Avete visto come sono grande?” dissi. “Fidati di noi”, fecero quelli con un tono accomodante e convincente. Vieni, avvicinati, vedrai che riuscirai a entrare”. Non farlo! Mi bastò appoggiare solo un dito per otturare quella fessura. Come avrei fatto a passare? Così mi avvicinai con un occhio per scoprire cosa ci fosse al suo interno e magicamente essa si spalancò, permettendomi di oltrepassarla. Una bocca enorme che m’inghiottiva ed io che diventavo minuscolo. Come l’ingresso di una caverna.

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Tutto pietra e buio. Ora non dovevo fare altro che seguirli! Avanzavano come soldati, sempre dritto. Un cunicolo poco più alto di me e talmente stretto che non avrei mai potuto allargare le braccia. Il terreno su cui camminavamo era secco e non fangoso come il fondo del pozzo e le mura, benché fossero sempre le stesse, erano asciutte. “Chissà dove sono” mi chiedevo. “Amici dove siamo? “Tranquillo, seguici, ma stai in silenzio” risposero quelli non cedendo mai il passo alla stanchezza. Camminammo per un bel po’ di tempo, percorrendo quel tunnel infinito. Ero quasi stanco di camminare. Corridoi stretti e bui, si girava a destra e poi a sinistra. Si sceglieva una strada invece che un’altra. Tra di loro non parlavano. Chissà, forse avevano un loro modo di comunicare. Non si vedeva nulla, tranne le loro antenne marroni con riflessi gialli che in quel buio erano come fluorescenti. Facevano da lanterna. Erano pelose, di certo mi sarei punto nel tentativo di toccarle ora che avevano assunto la loro forma originaria. Emettevano uno strano suono, come piccole scariche elettriche. Ogni tanto si giravano per controllare se li stessi seguendo, perché l’idea di tornare indietro l’avevo avuta e forse loro se ne erano accorti dal rallentare dei miei passi. Ma dovetti abbandonare quest’idea assurda perché avrei perso sia sul piano della corsa che della visibilità nel buio. Non c’era scelta. Dovevo seguirli e poi ero certo che da lì a poco finalmente sarebbe tutto finito! Ma sarebbe finito tutto davvero?

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“Siamo quasi arrivati” dissero. Da lontano s’intravedeva una luce: l’uscita dal tunnel! Già! Era proprio quel tunnel lunghissimo che mi faceva mancare l’aria. Più camminavamo e più quella luce si faceva grande e s’ingrandiva anche la mia voglia di evadere, di tornare a casa, di scappare via. “Ecco, ci siamo” ripetevo tra me e me. “Tra poco sarò fuori dal pozzo!”. Quella luce divenne fortissima. Ero a un passo da lei. Appena fuori, dovetti chiudere gli occhi. Era impossibile tenerli aperti. Quella luce abbagliante mi stordiva. Ero rimasto per tanto, troppo tempo al buio e i miei occhi non erano più abituati all’esterno. Per un po’ di tempo restai così, con gli occhi chiusi, provando solo a immaginare cosa c’era lì fuori ad aspettarmi. Nel tentativo di aprirne uno, l’occhio veniva penetrato da un’abbagliante luce, irresistibile. Poi ci feci l’abitudine e piano piano riuscii ad aprirli, certo non a spalancarli, ma socchiusi a tal punto da sbirciare e notare la presenza di altre persone, forse bambini, che giocavano in lontananza. C’era una gran confusione, come quando vai al parco giochi e si sentono le voci dei bambini che giocano e gli ammonimenti dei genitori. “Hai visto che ti abbiamo portato fuori?” fecero pieni di sé i due scarafaggi alle mie spalle. Mi voltai e regalai loro un sorriso. I miei occhi ormai erano completamente aperti e potei finalmente godere della vista. Un sole accecante, caldo, m’illuminava interamente, era alto e non vi era la presenza di una sola ombra. Il cielo era di un azzurro talmente acceso da sembrare finto, era una pennellata

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di colore su una tela bianca. Gli uccelli, oh quegli uccelli, liberi nel cielo volavano in gruppi seguendo mete inesplorate. Si sentiva così Luca, libero, ma lui, a differenza degli uccelli, conosceva la sua meta, era la sua casa, dove avrebbe rivisto finalmente la mamma. Di certo lo stava aspettando seduta sulla solita sedia in cucina oppure gli stava preparando qualcosa di buono come avveniva nei suoi pomeriggi, una merenda, una crostata, per lui e i suoi compagni di giochi e il suo sorriso a rincuorarlo. Con gli occhi mi voltavo in tutte e direzioni, cercando di capire dove stessi, un punto familiare, una strada che riconoscessi e che sapevo portasse a casa mia, ma non riuscivo proprio a capire dove mi trovassi. Poi vidi un albero e decisi che per il momento avrei fatto una pausa per riprendermi dalla lunga camminata. Mi sentivo felice, libero ma stanco. Non so per quanto tempo avevo camminato, le ginocchia mi facevano male. Girare sempre sullo stesso punto, nel pozzo, mi aveva ridotto così male. Così mi sdraiai, con la testa appoggiata al tronco. I raggi del sole filtravano attraverso le foglie fitte, riscaldandomi. Ero ancora umido e freddo. Avevo la pelle quasi grigia, ma piano piano acquistavo colore. Era tutto così strano. Improvvisamente mi trovavo in un quadro bellissimo con colori sfumati tra di loro. Era sorprendente. Mentre riprendevo fiato, mi accorsi che a pochi passi da me era arrivata, balzando, una palla. Mi alzai e la raccolsi. Vidi in lontananza dei ragazzi che avrebbero potuto avere la mia stessa età avvicinarsi. Probabilmente volevano indietro la palla.

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“Ciao sei nuovo?” fece uno di quelli mentre un raggio di sole lo puntava in un occhio ed era costretto a tenerlo chiuso. “Sì, sono appena arrivato ma devo cercare la mia mamma” risposi lanciando la palla. “Vuoi giocare con noi?” chiese uno di quelli. Non riuscii a vedere in faccia chi avesse parlato, ma risposi ugualmente. “No, devo cercare la mia mamma” e mi guardai intorno, in cerca. “Davvero? Vedrai che sarà lei a cercarti, è sicuramente in giro” Avevo troppo voglia di rivedere mia madre ma mi avrebbe fatto anche piacere giocare con quei bambini che sembravano simpatici. Dopo tanto tempo intrappolato nel fondo di un pozzo senza correre, senza divertirmi, senza luce, una bella giocata era quello che mi avrebbe dato la giusta carica, ma non potevo, doveva trovare mia madre. “Sarebbe bello giocare con voi, ma sapete mia madre mi starà cercando. Manco da casa da troppo tempo” risposi. Da anni! “Dai, forza. Tra poco arriveranno anche i nostri genitori e verrà di certo anche tua madre” fece una bambina dai capelli neri e dal viso bianco, cadaverico. Alla fine mi convinsero. Ci dividemmo in due squadre e iniziammo a lanciarci la palla, senza regole ma solo con uno scopo, fare gol. Io correvo, mi tuffavo, prendevo la palla al volo, la passavo, ero esperto, era un gioco che facevo spesso a casa con i miei amici. Il tempo passava e quel sole era sempre alto. Il sudore scen-

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deva sul mio viso, me lo sentivo scorrere giù per la schiena. Ero sfinito e anche preoccupato perché non si era vista nemmeno l’ombra dei genitori degli altri bambini e tanto meno di mia madre. Decisi che era arrivato il momento di smettere di giocare e di seguire la strada del ritorno a casa. Mi arrivò la palla ma la feci cadere a terra, fermando così il gioco. “Che fai non vuoi più giocare con noi?” fece uno della squadra avversaria. “Mi dispiace ma si sta facendo troppo tardi, devo tornare a casa” risposi allontanandomi piano piano. Mi dispiaceva lasciar quel gruppetto nuovo di compagni ma dovevo trovare la mamma, mio unico pensiero. “Oh no, invece tu resterai a giocare ancora un po’” rispose la bambina dal viso cadaverico. Ecco lo sapevo che era perfida, aveva un viso talmente antipatico che nemmeno il rosso sulle guance vuole starci su. “Dobbiamo finire la partita” aggiunse il primo bambino, quello accecato dal sole. “E poi farne un’altra e un’altra e un’altra e un’altra...” dissero tutti in coro con una voce che divenne una cantilena strana, metallica, scandita ritmicamente dallo stridore delle loro corde vocali. Scappa! Sentii una voce dentro! Ebbi paura e istintivamente scappai via. Corsi a più non posso lungo il prato e giù per la vallata. Non potevo fermarmi, pur volendo, sarei rotolato giù per chissà quanti metri. Le gambe quasi mi toccavano la schiena e temevo in uno schianto. E schianto fu. Caddi con talmente

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tanta forza a terra che finii con la faccia nel terriccio umido e pastoso. Nel frattempo quei ragazzi mi rincorrevano, urlando ed esaltandosi a vicenda per ciò che mi avrebbero fatto una volta catturato. Li sentivo sempre più vicini. Avevo paura e soprattutto non capivo perché non potevo smettere di giocare. Mi rialzai subito, mi pulii la faccia con il braccio e mi accorsi di avere le mani e tutto il braccio imbrattate di colore verde, come se fossi caduto in un secchio di pittura. “Ma cos’è questa roba?” I miei palmi contenevano cumuli di colore e i piedi erano immersi in una fanghiglia simile alle sabbie mobili, una pozza di colore verde e marrone, come se il prato si stesse sciogliendo. Diedi uno sguardo all’albero vicino e notai che le sue foglie erano nere, tutto il verde colava giù per il tronco mescolandosi al marrone per sciogliersi alle sue radici inzuppate di colore. I miei occhi non credevano a ciò che vedevano. Dal cielo, improvvisamente, iniziò a piovere, ma non era acqua quella che veniva giù, ma enormi gocce di colore azzurro. Stava venendo giù l’intero cielo o meglio il suo colore, così come quello degli alberi. Tutto colava come quando un pittore distratto versa un bicchiere d’acqua sulla sua tela, tutto si bagna, i colori si mescolano e tutto diventa di un unico colore indefinito. Vidi i bambini che mi guardavano fermi, immobili, quasi senza anima. Ora erano tutti cadaverici e non solo quella bambina. Non avevano più colori sul loro corpo, erano in bianco e nero, tutto, anche il paesaggio intorno a me era diventato una vecchia cartolina in bianco e nero e la cosa peggiore è che anche io non avevo più colori. Mi vedevo le mani grigie, così

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come i vestiti. Fu una sensazione terribile. “Presto, prendiamolo” disse uno di quelli e gli altri in coro gridarono come per affermazione. Mi diedi nuovamente alla fuga. Era difficile correre perché sembrava lo stessi facendo in mare, quando l’acqua ti arriva ai polpacci diventa difficile alzare i piedi. Più correvo e più mi sembrava tutto così assurdo, completamente assurdo e al tempo stesso terrificante. Avevo impresso gli sguardi dei bambini negli occhi, mi ricordavano quelli dei pipistrelli e degli scarafaggi. Chissà dov’erano finiti, meglio non saperlo era colpa loro se ero finito in quel posto. Continuai a correre e davanti a me si presentò il bosco, il fitto bosco. Non potevo cambiare direzione, magari il bosco mi avrebbe consentito di trovare un angolino e nascondermi. Una volta dentro, mi sembrò come essere entrato in una caverna completamente buia, non distinguevo nulla e camminavo piano, tendendo le mani in avanti per cercare di orientarmi. Non credevo fosse così buio, ma non c’era altra possibilità, ormai c’ero dentro! Ogni tanto filtrava una fioca e pallida luce dai rami che mi aiutava a evitare gli ostacoli e a trovare un nascondiglio. Li sentii entrare e mi davano la caccia! Ma cosa avevo fatto di male? Erano più veloci di me, me ne accorsi perché non si lamentavano del buio, erano a proprio agio. Si muovevano come animali in cerca della loro preda. Sentivo il rumore dei loro passi simile a quello delle bestie. “Luca. Luca” mi chiamavano dall’oscurità, allungando la lettera u fino a formare quasi un ululato. Una voce roca, quasi diabolica, bisbigliata, rimbombava nell’oscuro bosco. I veri lupi, a quel suono di voce, iniziarono a ululare per davvero.

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Divenne quasi più fastidioso ascoltare i bambini che i lupi stessi. Ogni tanto tra il fogliame si muoveva qualcosa di non identificato, saltava da un ramo all’altro oppure si nascondeva dietro una siepe o doveva essere qualcosa che assomigliasse a una siepe. La ragazza diabolica mi raggiunse. Era davanti a me, disposta su quattro zampe e mi ringhiava come un cane posseduto. Il suo viso era sempre bianco ma mi ero abituato, non mi faceva più terrore ma la cosa più inquietante era la sua bocca rossa. Non so cosa fosse, se sangue o il colore naturale della sua lingua. Fece un salto in avanti, verso di me ma non su di me. Mi volle volontariamente evitare. Si aggrappò sull’albero dietro, sul quale restò ferma, immobile, su di un lato, senza cadere. La guardavo di traverso, i miei piedi non si erano mossi, ma solo gli occhi per fissarla. Aveva le movenze di un ragno ora e dalla bocca le colavano dei filamenti come ragnatela e rideva in una smorfia terrificante. E quella bocca sempre più rossa. Improvvisamente si ritirò in un bozzolo nascosto da un ramo lasciandomi sorpreso. Credevo volesse aggredirmi, invece scomparve. Ebbi l’impressione che qualcuno o qualcosa l’avesse messa in fuga. Mi voltai ed effettivamente vidi una figura, una donna, china su dei cespugli con in mano una cesta. Non riuscii a vederla bene in viso perché indossava un mantello lungo, bianco che le copriva il capo. Aveva delle mani orribili, lunghe con artigli al posto delle unghie. Stava raccogliendo qualcosa. Non provai nemmeno a chiederle aiuto, perché quelle mani mi facevano paura. Me ne stetti zitto zitto per non attirare la sua attenzione. Non si accorse di me e se ne andò, camminando in

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modo strano, facendo dei piccoli passetti, uno dietro l’altro e mugolando in modo lamentoso, come se intonasse una cantilena, ma sotto voce, inquietante che al sol ricordo mi vengono i brividi. Aspettai lì, fermo, dietro l’albero, che si allontanasse per poi correre nel verso opposto. Affannato e sudato iniziai a correre, ma avevo un gran fiatone e dovetti fermarmi di nuovo, vicino a un altro albero. Con una mano mi appoggiai al tronco e con l’altra mi facevo leva sulla gamba, rivolto in avanti come se stessi per vomitare. Mi accasciai a terra, con la faccia sull’erba a pensare a ciò che poteva accadermi. Non mi ero arreso, ma ero stanco, deluso e impaurito da quel posto. Un bosco tutto grigio scuro, senza colori, tranne che per quella bocca rossa che ancora è nella mia mente e che mi metteva i brividi. Speravo tanto di sparire. All’improvviso, con la testa girata su un lato, vidi, dietro a un cespuglio, una sorta di luccichio, un bagliore color verde. Mi alzai piano e mi affacciai in direzione di quella luce. Non riuscivo a capire cosa fosse. Qualcosa che fluttuava nell’aria. Mi misi in piedi e mi avvicinai con molta cautela. Non volevo fosse un’altra stregoneria. In quel luogo avevo imparato a non fidarmi di nulla, anche se la sensazione che provavo era di gran lunga lontana dal timore. Mi sentivo sereno nel fissare quella luce, non mi accecava, anche se era davvero forte. Mi avvicinai. Era un palloncino verde legato un filo, ed era lì, sospeso, davanti a me. Lo fissavo meravigliato, incantato. Mi avvicinai ancora di più per guardarlo da vicino. Era stupendo, un colore smeraldo che non avevo mai visto prima. Tentai di afferrarlo, ma era trasparente e quindi non poteva essere toccato, preso, rubato. Era quella la sensazione che sentivo den-

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tro, di rubarlo. Prendilo, ti salverà. Ma non potevo perché era come un ologramma davanti ai miei occhi. Credici e prendilo! Mi concentrai, socchiusi gli occhi e provai di nuovo ad afferrarlo. Lo toccai e nel punto di contatto si aprì una luce devastante che spazzò via ogni cosa. Il bosco e quei bambini non esistevano più. Come se si fosse aperta una porta nello spazio e crebbi di volare verso casa in questo spazio virtuale. Ad un tratto il palloncino mi lasciò cadere dolcemente su una distesa di terra, simile al deserto ma non era sabbia, era terriccio. Mi misi a guardare intorno e non riuscivo a capire perché mi avesse lasciato lì volandosene via. Improvvisamente la terra sotto i miei piedi iniziò a muoversi, come una pedana mobile nella mia direzione e per non cadere dovevo correre. Più correvo e più non mi spostavo dallo stesso punto perché il terreno sotto slittava velocissimo e non tenevo bene il ritmo. Affannato, non riuscivo a muovermi da lì e alle mie spalle si aprì una voragine. Un grosso buco che inghiottiva tutto. Non potevo guardare e corsi con tutta la forza che mi restava e nella mia mente l’unica cosa che mi chiedevo era perché? Non ce la feci a tenere il ritmo e caddi, finendo giù al burrone. Vedevo, mentre cadevo giù, il cielo azzurro allontanarsi da me. Emisi un solo grido a squarciagola che quasi le corde vocali mi uscirono dalla bocca. Mi ritrovai di nuovo nel pozzo! C’eri vicino! La sua voce o meglio il suo grido di dolore generatosi nel fondo, esplose verso l’alto, rimbombando in tutto il pozzo, in quella torre conficcata nel terreno dalla quale sembrava impossibile uscire. Batteva i pugni a terra Luca, tornato al buio.

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