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Carne bovina, bene i consumi, negativo il mercato: intervista a Giuliano Marchesin

Il direttore di UNICARVE traccia una panoramica a tutto campo dell’attuale situazione di un comparto con grandi potenzialità di crescita. Ancora troppo elevata, però, è la percentuale di carne importata dall’estero: il 47% del fabbisogno nazionale

di Anna Mossini

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Il comparto della carne bovina italiana è in grande sofferenza. Non tanto per i consumi, che, come afferma GIULIANO MARCHESIN, direttore di UNICARVE, Associazione Produttori Carni Bovine del Triveneto (www.unicarve.it) vanno bene. Quanto per il mercato, per la redditività degli allevatori. La recente emergenza sanitaria da Covid-19 e Giuliano Marchesin, direttore di Unicarve. la conseguente chiusura del canale HO.RE.CA. non hanno influito più di tanto, perché nel segmento della ristorazione i consumi riguardano in maggioranza carne di provenienza estera. Il quadro, però, è complesso a causa di una frammentazione della fi liera e, non ultime, di campagne mediatiche che ciclicamente attaccano gli allevamenti intensivi.

«Gli allevatori di bovini da carne italiani portano ogni anno all’estero oltre 1 miliardo di euro per acquistare i ristalli da ingrassare» ha affermato Marchesin durante la recente assemblea annuale dell’associazione. «Solo il 53% del fabbisogno nazionale di carne bovina è prodotta in Italia, ben il 47% arriva dall’estero: in pratica, 1 bistecca su 2 è straniera».

La filiera che non c’è

Direttore, come stanno andando i consumi di carne bovina in Italia?

«I consumi stanno andando bene, è il mercato del bovino da carne a segnare il passo. Purtroppo il settore sconta l’individualismo che ancora impera nei primi due anelli della fi liera: la produzione e la trasformazione.

Allevatori e macellatori pensano troppo spesso di essere un po’ i primi della classe e, anziché cercare di collaborare per migliorare le condizioni di mercato di entrambi, optano per una gara al ribasso pensando di recuperare quote che, però, da anni a questa parte anziché aumentare diminuiscono.

Attualmente importiamo il 47% del fabbisogno nazionale di carne bovina, uno 0,7% in più dell’anno scorso.

Spesso davanti a queste percentuali si preferisce parlare di fi liera, che purtroppo dal mio punto di vista non esiste perché anziché confrontare i dati delle contrattazioni in cui ognuno inevitabilmente tira l’acqua al suo mulino, si dovrebbe partire dal riconoscimento dei costi di produzione.

Oggi la remunerazione è a cascata: la Grande Distribuzione Organizzata paga in base ai listini dei prezzi di mercato che arrivano da tutta Europa e anche da Oltreoceano; questo induce i macellatori a corrispondere agli allevatori un prezzo che garantisce solo a loro, però, dei margini economici.

Se esistesse invece un’autentica fi liera le cose andrebbero diversamente: ci sarebbe una corretta remunerazione che, a sua volta, genererebbe un reddito per tutti gli anelli produttivi evitando a qualcuno di rimetterci in termini di redditività».

Quindi dobbiamo ritenere che la debolezza della fi liera sia un problema “atavico”, soprattutto per gli allevatori?

«Assolutamente sì. Ma basterebbe poco per invertire il trend. Sarebbe suffi ciente che gli allevatori utilizzassero gli strumenti che la PAC mette loro a disposizione. Ovvero, far funzionare le Organizzazioni di prodotto e le Associazioni di organizzazioni produttori per poter gestire il mercato dei bovini da carne e condizionarlo, partendo proprio dai costi di produzione».

Ad esempio?

«Il Regolamento europeo 1308/2013 di riconoscimento delle Organizzazioni di prodotto e delle loro Associazioni prevede che gli statuti possano stabilire degli obblighi da far rispettare a tutti gli aderenti. Gli allevatori che aderiscono a queste forme associative dovrebbero concordare un listino prezzi, per categorie di bovini, stabilendo un minimo sotto al quale non andare, pena una sanzione pari al doppio dei centesimi di ribasso del valore del capo.

Lavorando sulla qualità del bestiame e della carne prodotta, oltre che sulla tracciabilità, il settore tornerebbe in attivo, consentendo agli imprenditori di reinvestire in azienda per migliorare il benessere animale, la gestione dei refl ui e la biosicurezza a tutto vantaggio dell’ambiente, degli animali e dei consumatori».

Consorzio Sigillo Italiano è un brand nato per aiutare i consumatori a riconoscere le produzioni di qualità degli allevatori italiani. Il marchio si riconosce per una grande Q con al centro l’Italia, cerchiata dal tricolore della bandiera. Sono gli allevatori italiani ad averlo ideato e costituito un Consorzio per promuoverlo e comunicarlo ai consumatori, che riconoscono al made in Italy una marcia in più sotto il profi lo della qualità e della sicurezza alimentare.

>> Link: sigilloitaliano.it

L’importanza di un marchio

Qual è stato l’andamento del mercato durante il periodo di emergenza sanitaria Covid-19?

«All’inizio, quando la stampa ha iniziato a seminare terrorismo con le immagini degli scaffali vuoti nei supermercati che tra i consumatori più impressionabili ha innescato la corsa all’accaparramento delle merci, il nostro settore ha registrato un raddoppio delle macellazioni. Poi i consumi si sono stabilizzati, registrando comunque una tendenza positiva, poiché abbiamo ri sentito poco della chiusura dei canali H O.RE.CA. in quanto, ed è noto, quasi il 90% della ristorazione pubblica e privata consuma carni estere che da sempre sono in vendita a prezzi più competitivi rispetto alle nostre.

Diverso invece il discorso relativo agli acquisti delle famiglie, grazie alle quali, come dicevo all’inizio, i consumi sono aumentati.

A questo proposito vorrei sottolineare un aspetto per me di grande soddisfazione. Nel novembre dello scorso anno abbiamo introdotto il marchio Consorzio Sigillo Italiano su confezioni di carne bovina italiana commercializzata da una delle più importanti catene della GDO nazionale. Il trend è stato da subito molto positivo, ma, soprattutto, durante il periodo di lockdown, gli acquisti di carne a marchio Consorzio Sigillo Italiano sono aumentati del 15%».

Quanti sono gli allevamenti che hanno aderito al Consorzio Sigillo Italiano e a quanto ammonta la consistenza totale dei capi?

«I capofiliera sono in costante aumento poiché inizia a farsi strada il concetto di dare un nome alla carne per farla riconoscere ai consumatori attraverso il marchio del Consorzio Sigillo Italiano. Attualmente contiamo cinque Organizzazioni aderenti al Disciplinare di produzione del Vitellone e della Scottona allevati a cereali per un totale di oltre 600 allevamenti certifi cati e circa 230.000 bovini prodotti. Seguono poi i Disciplinari del Fassone di razza Piemontese, con oltre 150 allevamenti certifi cati pari a circa 30.000 bovini.

È in fase di ultimazione il Disciplinare di produzione del Bovino Podolico al pascolo, dell’Uovo + Qualità ai cereali e del pesce di Acquacoltura sostenibile».

Quali sono le iniziative che il Consorzio Sigillo Italiano sta mettendo in campo per promuovere la carne bovina prodotta in Italia, soprattutto in questo periodo?

«Con le OPUNICARVE e SCALIGERA abbiamo partecipato al Bando del PSR Misura 3.2 della Regione Veneto per un totale di oltre 400.000 euro da destinare alla comunicazione verso i consumatori attraverso campagne promozionali, spot televisivi e attività nei punti vendita.

Purtroppo i tempi di approvazione dei progetti, che inizialmente dovevano essere presentati a inizio anno, sono slittati a causa dell’emergenza sanitaria, quindi dobbiamo attendere il 19 agosto, termine ultimo stabilito per le graduatorie regionali al fi ne di conoscere l’esito e iniziare con le attività legate alle varie iniziative».

Strategie efficaci

In un recente webinar promosso da un’importante industria farmaceutica, lei ha affermato che nel pre-Covid le vendite di carni a marchio Consorzio Sigillo Italiano erano molto positive, mentre durante il lockdown si era registrato un calo di 10 cent./kg: com’è oggi la situazione?

«Praticamente, per le ragioni che dicevo prima in merito alla gestione del mercato dei bovini da carne e all’assenza di una vera fi liera, i 10 centesimi in meno sono diventati 30: siamo infatti passati da 2,60 €/kg pagati per un bovino di razza Charolaise — cifra che copriva i costi di produzione — a 2,30 €/kg in nemmeno due mesi, con una perdita secca per capo di oltre 200 euro.

Il dramma è che nei punti vendita le bistecche non hanno subito nessun calo di prezzo in proporzione allo stesso valore e l’unica spiegazione per giustifi care questa situazione di mercato riguarda l’abbondanza di carne estera importata, con la GDO che approfi ttando della situazione a lei così favorevole, ha acquistato mezzene provenienti dalla Francia e dalla Polonia a quasi 50 cent./kg in meno rispetto a quelle italiane».

Per amore o per forza nei prossimi mesi gli Italiani si recheranno meno all’estero: è utopistico pensare che questa situazione potrà favorire un aumento dei consumi interni e, di conseguenza, ridurre, seppur gradatamente, la quota di carne importata?

«Credo che per reciprocità di condizioni, considerate le limitazioni agli spostamenti rese difficoltose da regole a volte assurde, se in Italia non arriveranno i milioni di turisti che popolavano le nostre città d’arte, le spiagge, i laghi e le montagne, il consumo di carne bovina nazionale non sarà destinato ad aumentare, considerato anche che nel periodo estivo i consumi di questa tipologia di prodotto da sempre subiscono una forte riduzione».

È concreto il rischio che alcuni allevamenti siano destinati a chiudere?

«Se questa situazione di mercato e il disinteresse delle istituzioni verso la zootecnia bovina da carne dovesse continuare sarà inevitabile la chiusura di molte stalle, con un conseguente calo delle produzioni».

Perché cita le istituzioni?

«Da tempo abbiamo chiesto una revisione del DM 4 marzo 2011 che ha istituito il Sistema Di Qualità Na zionale Zootecnia (SQNZ) ma, a tutt’oggi, non abbiamo ricevuto nemmeno un cenno di risposta. Analoga la situazione relativa alla certifi cazione sul benessere animale: il Ministero della Salute ha deciso di chiudere un ciclo di valutazione basato sul metodo del CReNBA (Centro referenza nazionale be nessere animale di Brescia) passando al Classyfarm, un progetto fi nanziato dalla Commissione. Ebbene, a distanza di quasi 3 anni dall’avvio stiamo ancora aspettando che il dicastero della Salute e delle Politiche Agricole si mettano d’accordo su come gestirlo e renderlo utilizzabile per gli allevatori.

È quindi evidente che, oltre al Covid-19, siamo costretti, da anni, a fare i conti con una burocrazia ministeriale che non ha assolutamente i tempi dell’imprenditore che ogni mattina si alza, alimenta i suoi bovini e se riesce a venderli a un buon prezzo guadagna, altrimenti rischia del suo.

Purtroppo l’amara considerazione che mi sento di fare è questa: chi ogni mese può contare su uno stipendio sicuro diffi cilmente riesce a mettersi nei panni di chi fa impresa. Questo è il male oscuro che blocca il nostro Paese, leader per la qualità delle sue produzioni ma fanalino di coda nella gestione amministrativa dello Stato».

Futuro incerto

Quali sono le grandi differenze che separano gli allevatori italiani da quelli degli altri Paesi rendendoli meno competitivi?

«Faccio un esempio banale ma concreto. Il controllo della sicurezza alimentare e della salute dei bovini in Italia è affi dato ai veterinari pubblici, mentre il Ministero delle Politiche Agricole ha altri compiti di gestione della politica agricola. In Francia, invece, i controlli vengono svolti da veterinari assunti dal Ministero dell’Agricoltura: ovvero, controllore e controllato sono praticamente la stessa persona.

Altro problema: il benessere animale nei Paesi dell’Est può essere paragonato a quello presente nei nostri allevamenti? Personalmente ho dei dubbi. Gli allevatori italiani a questo riguardo hanno fatto e continuano a fare ingenti investimenti per rispettare quanto prevedono i Disciplinari certificati da organismi terzi: possiamo dire lo stesso per altri Paesi?».

Qual è la sua prospettiva sul futuro del comparto?

«Se allevatori e macellatori decideranno di saldare i primi due anelli della fi liera, con i primi impegnati a utilizzare gli strumenti che la Pac mette loro a disposizione, il futuro potrà essere positivo e faciliterà la creazione di una vera fi liera italiana della carne bovina. Questo potrebbe favorire la nascita di nuove aziende e l’ammodernamento tecnologico di quelle esistenti per un percorso virtuoso verso la sostenibilità totale del nostro sistema di allevamento protetto».

Anna Mossini

Stefano Paganini

ANABIC, l’impegno di un’associazione per valorizzare la biodiversità

Chianina, Romagnola, Marchigiana, Ma remmana e Podolica:

sono cinque le razze che afferiscono all’ANABIC (Associazione nazionale allevatori bovini da carne, www.anabic. it) e tre di loro, la Chianina, la Romagnola e la Marchigiana, fanno parte del Consorzio del Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale Igp. Razze autoctone, legate al territorio di origine, di qualità e, soprattutto per la Chianina, di grande richiamo, ma spesso confi nate a produzioni non suffi cientemente valorizzate e per questo meno apprezzate da un punto di vista commerciale. «Il lungo periodo di lockdown, con la chiusura del canale HO.RE.CA., ha penalizzato anche il consumo delle carni bovine prodotte dalle cinque razze che rappresentiamo» spiega TEFANO PIGNANI, direttore di ANABIC (in foto) — con una domanda che, ad eccezione della Chianina che ne ha risentito meno, si è ridotta del 5% e una contrazione dei prezzi che in generale non è stata inferiore al 10%, percentuale che invece, ancora per la Chianina, non è andata oltre il –3-4%.

Con la riapertura dei ristoranti e degli agriturismi, dove spesso sono presenti piccoli allevamenti di queste razze, la situazione si è un po’ risollevata, ma la pesantezza del mercato che già registravamo nel periodo pre-Covid, accentuatasi con l’epidemia, oggi fa ancora sentire i suoi effetti e per molti allevatori, soprattutto quelli che producono bovini di razza Romagnola e Marchigiana, andare avanti a volte è complicato. Per invertire questa tendenza, che con l’andare del tempo potrebbe pregiudicare la sopravvivenza di un patrimonio zootecnico che è un po’ l’emblema della biodiversità, stiamo lavorando per individuare le strategie più efficaci per promuovere e far conoscere le caratteristiche di queste razze partendo dal loro legame al territorio e alla storia che caratterizza la loro produzione».

Dal legame col territorio al miglioramento genetico tutto si tiene

Promozione, comunicazione, valorizzazione, miglioramento genetico. Sono questi i pilastri su cui fondare il rilancio di queste razze secondo il direttore di ANABIC. «Oltre il 70% dei capi allevati vive allo stato brado o semibrado» aff erma ancora Pignani. «Per noi questo aspetto è un valore che va comunicato, enfatizzato, attraverso il quale è possibile raccontare cosa rappresentano queste razze per i territori dove vengono allevate. Ma la biodiversità può trova re un valido alleato anche e soprattutto nella ricerca scientifi ca fi nalizzata al miglioramento genetico delle razze, nell’individuazione di razioni alimentari in grado di migliorare l’accrescimento del bestiame, ridurre le emissioni, favorire un miglior benessere animale che a sua volta produce una condizione sanitaria soddisfacente e tale da limitare l’utilizzo dei farmaci, in primis gli antibiotici. In pratica, stiamo lavorando ad un progetto virtuoso che vogliamo ci conduca al riconoscimento dell’Indice genetico di sostenibilità di queste razze.

Le potenzialità per conquistare le ampie fasce di mercato nazionale oggi appannaggio di produzioni importate ci sono tutte, occorre saperle sfruttare mescolando la tradizione con l’innovazione. Un percorso magari complesso e non sempre facile, nel quale però crediamo e per il quale stiamo sfruttando tutte le migliori condizioni operative per raggiungere gli obiettivi fissati».

A.Mo.

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