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ANDREA FAZIOLI
LA BEATA ANALFABETA Teresa Manganiello, la sapienza delle erbe
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© 2016 EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) © 2016 PERIODICI SAN PAOLO s.r.l. Via Giotto, 36 - 20145 Milano www.famigliacristiana.it Allegato a Famiglia Cristiana di questa settimana Direttore responsabile: Antonio Sciortino Settimanale registrato presso il Tribunale di Alba il 7/9/1949 n. 5 P.I. SPA - S.A.P. - D.L. 353/2003 L. 27/02/04 N. 46 - a.1 c.1 DCB/CN Progetto grafico e realizzazione editoriale: studio pym / Milano Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo volume potrà essere pubblicata, riprodotta, archiviata su supporto elettronico, né trasmessa con alcuna forma o alcun mezzo meccanico o elettronico, né fotocopiata o registrata, o in altro modo divulgata, senza il permesso scritto della casa editrice. ISBN 978-88-215-9843-2
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«Tutto è intimo». Friedrich Hölderlin
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Prologo
È il primo giorno di una vita nuova. Non so quante volte me l’hanno detto. Di sicuro alle medie, quando abbiamo traslocato, e poi al liceo, quando ho dovuto ripetere il primo anno per colpa del professor Granzotto, che insegnava il latino come un sergente maggiore insegna ad assemblare un fucile. Ma la vita nuova è cominciata pure quando Laura mi ha lasciato per mettersi con il nostro vicino di casa, e quando l’università non ha rinnovato la borsa per il dottorato, e quando l’editore è fallito prima di pubblicare il mio libro, e quando il dirigente scolastico Formenti, una perla d’uomo, mi ha comunicato che avrebbero dovuto affrontare una ristrettezza. Una ristrettezza. Tradotto dall’idioma burocratico: dobbiamo lasciarti a casa. Il preside Formenti si era tolto gli occhiali e, mentre li puliva, mi fissava con i suoi occhi enormi. Naturalmente gli occhiali non avevano nessun bisogno di essere puliti: era solo un trucco per comunicarmi la notizia protetto dalla nebbia della miopia. 7
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Sapevo di essere precario ma, visto che fino a metà luglio non mi avevano detto niente, speravo di averla scampata. Invece Formenti mi raccontò una triste vicenda di pratiche ministeriali, rimpasti, punteggi, sedi scolastiche prioritarie, necessità riorganizzative. Tentai di protestare: – Ma comunque dovrete assumere un altro insegnante. Se restassi io non vi costerebbe meno? – Senz’altro ne saremmo tutti felici, – mormorò Formenti. Poi tacque, sperando che mi accontentassi di quella non risposta. – E allora? – Eh… purtroppo abbiamo le mani legate. Però lei ha lavorato bene, Matteo, e sono sicuro che può trovare di meglio. Lo veda come il primo giorno di una nuova vita: si chiude una porta… Aspettò qualche secondo, ma non gli diedi la soddisfazione di completare la frase. Così lo fece lui. – … e si apre un portone, è sempre così. Ne sono sicuro. A quel punto me ne andai, lasciandolo libero d’inforcare gli occhiali. Ed eccomi fuori. Solo, nella grande città, senza un lavoro, senza parenti nelle vicinanze, con un monolocale in periferia e qualche risparmio per tirare avanti. Le alternative erano: tornare dai miei, in Romagna, oppure cercarmi qualche altro posto in qualche altro liceo, ovunque in Italia. Gli insegnanti d’italiano sono merce in esubero, ma qual8
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che ora probabilmente avrei potuto racimolarla. Oppure… Oppure potevo finalmente mettere alla prova il Luogo Comune. La Frase Fatta sulla Vita Nuova e magari anche quella sui Portoni. Avevo pubblicato qualche anno prima una plaquette di poesie (a mie spese, causa fallimento editoriale). S’intitolava Scalinate e, benché contenesse qualche frammento degno d’interesse, era stata giudicata ancora troppo acerba. Per me, era quanto rimaneva di anni di scoperte, di vagabondaggi cittadini, di «scalinate nell’ombra della sera / che finiscono all’alba / e poi salgono, ancora, / verso palazzi di cristallo». Cosa fossero quei “palazzi di cristallo”, non lo so. Non è che un poeta debba sapere tutto. Ma credo che, nell’ansia di scoprire il nuovo, avessi trascurato ciò che stava lì da sempre: gli alberi sul viale, l’erba negli interstizi, perfino le zanzare che vivono e muoiono nell’acqua dei sottovasi, sui balconi ai piani alti dei grattacieli. Insomma, avevo ignorato la natura. Nella plaquette si trovavano molti nomi di amici e di vie cittadine, molte invettive sociali. Molto impegno. Da mesi mi ripromettevo di tentare un altro approccio, di tornare a un sentire più diretto, primigenio, considerando ciò che nella grande città sembra marginale ma in realtà precede la città stessa, e continuerà dopo la sua fine. Le lucertole, insomma, saranno sempre lì a rosolarsi al sole. Saranno sempre 9
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lucertole. Anche quando sulla terra non resterà più nessuna traccia di Milano. Il giorno dopo il colloquio con Formenti mi alzai all’alba. Volevo girare per le strade fin dove i piedi mi avessero portato, e finché avessi trovato quello che cercavo. Volevo approfittare del licenziamento per riaprire il portone della poesia, e volevo farlo dando la caccia alla natura: bestie, erbacce, ragnatele, foglie marce sulle grate dei tombini. Matteo Maggi, ex precario, disoccupato, poeta. Il precario e il disoccupato, con la loro consistenza, fungevano da lasciapassare per il poeta, che si aggirava nei vicoli alla ricerca di un tarassaco. Detto anche “dente di leone”. È una pianta infestante: in forma di soffione sembra un batuffolo, ed è pronto a cogliere il primo sbuffo di vento per spargere i suoi semi. Lo puoi strappare, ma lui trova sempre la maniera di riprodursi. Anch’io come lui volevo sopravvivere, e cioè superare l’ennesima umiliazione. Matteo Maggi, ex precario, eccetera… di trentanove anni. Praticamente quaranta. Questo significava che, nella sua vita, il suddetto Matteo Maggi non aveva combinato niente, né in ambito professionale né in ambito letterario. Se non quella maledetta plaquette. Non che rinnegassi i “palazzi di cristallo”. Semplicemente, mi pareva più utile capire che cosa sia un parco, con le panchine, le altalene, i vialetti di ghiaia e i grandi alberi immobili. 10
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Il problema era che non sapevo niente. Mi ero fatto un giro su internet, ma a parte le ortiche, i tarassachi, qualche ragno e poco altro, non riuscivo a dare un nome alle cose. Inoltre, presto cominciai a sentirmi soffocato. Tutto era minuscolo, ingabbiato. Iniziai a sospettare che la natura invisibile della metropoli non fosse ciò di cui avevo bisogno. Ma che cosa potevo fare? Partire e andare in Alaska, come fanno nei film? E con quali soldi, poi? Il parco stava lì, con i bambini, le mamme al telefono, i vecchi con il gilè, i cespugli, i contenitori per l’immondizia. Tutto pareva scritto in un codice sconosciuto. Anche i tarassachi. Il senso di una fila di formiche accanto al muro mi sfuggiva completamente. Oppure non esisteva, e il mio era soltanto uno stress post traumatico, cioè post licenziamento. – Anche a me piacciono le formiche. La voce mi fece sussultare. Mi voltai e vidi un uomo sulla sessantina, seduto su una panchina al l’ombra. Fissava la strada, dietro la cancellata che chiudeva il parco, tanto che non ero sicuro che avesse parlato con me. – Mi perdoni se la disturbo, – aggiunse. Aveva tutto del vecchio saggio: occhi infossati nelle orbite, guance scure chiazzate di barba grigiastra, mani nodose strette sul pomolo di un bastone. Sembrava di origini straniere, forse mediorientali. – C’è tanto da imparare, dalle formiche. – Si grattò la barba. – Anche se fanno paura. Tutti quei corpi con un pensiero solo. 11
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L’osservazione mi colpì. Mi avvicinai al vecchio e dissi: – Un pensiero unico, e pure incomprensibile. – Per noi, – ribatté lui. – Per loro, corpo e pensiero sono una cosa. – E agiscono senza pensare? – Direi che pensano senza agire. Loro non sono veramente libere. – E noi? – chiesi con un filo di voce. Il vecchio sorrise. Era successo in fretta: prima il parco mi era estraneo, pochi secondi più tardi stavo parlando di corpo, di pensiero, di azione. Di libertà. Guardai il vecchio come se fosse una sorta di guida, un Virgilio mediorientale sbucato dal nulla nella selva oscura del parco. Gli dissi: – Forse mi può aiutare… L’uomo puntò un dito verso il suo petto: – Io? – Sì, le cose che ha detto. Sono interessanti. – Mah. È perché passo tanto tempo a guardare. – Proprio di questo avrei bisogno! – Mi stavo infervorando. – Vede, sto cercando di scrivere delle poesie, ma mi sento incapace di tradurre tutto questo, di renderlo mio e… capisce che cosa intendo? Lui scuoteva il capo. – Ho passato l’infanzia in un paese difficile, – mormorò. – Sono qui da quarant’anni, ma non sono riuscito a imparare tutto. Non capivo che cosa intendesse dire. – Vorrei solo discutere con lei. Farle magari vedere quello che scrivo. – Impossibile. – Di nuovo, scuoteva il capo. 12
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– E perché? – Perché non sono capace. – Poi, dopo una pausa: – Non so leggere e nemmeno scrivere. Era analfabeta! Subito pensai che le mie richieste potessero averlo offeso o rattristato, e balbettai qualche scusa. Ma lui m’interruppe. – Non fa niente. Anche a me dispiace, ma forse è questo che mi aiuta. – Come, l’aiuta? – Ho tempo. – Abbozzò un sorriso e fece un gesto verso il muro. – Quando lei scrive, io continuo a guardare le formiche…
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