Paolo Dall'Oglio. La profezia messa a tacere di Riccardo Cristiano (estratto)

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«Voglio provare a esprimere la mia profonda gratitudine verso padre Paolo usando le sue parole così forti e attuali: “I cristiani di Siria possono vivere nel loro Paese, che è tale da più di duemila anni, in pace con i musulmani, loro fratelli e loro vicini”». Antoine Courban

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La profezia messa a tacere

«Paolo aveva visto arrivare la tempesta e la tragedia del suo popolo, ne aveva capito la complessità e le cause, ne aveva letto i segni e aveva deciso di mettersi in gioco fino in fondo in piena solidarietà con il popolo siriano, del tutto consapevole delle difficoltà e dei rischi. Rischi che erano ormai divenuti quotidianamente mortali». Federico Lombardi

Paolo Dall’Oglio

«Padre Coraggio, l’avevo chiamato una volta. E il coraggio nessuno glielo potrà mai negare. Nei giorni del mio sequestro si era speso molto, e la sua voce forte e calda è stata una delle prime che ho avuto il piacere di sentire quando sono stato liberato. “Hai visto?”, mi disse. “Ce l’abbiamo fatta”. Non so cosa darei, adesso, per poterglielo dire anch’io». Amedeo Ricucci

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L’Associazione giornalisti amici di padre Dall’Oglio difende e diffonde il messaggio di padre Paolo e la sua testimonianza contro i totalitarismi “laici” e “religiosi”. L’associazione promuove iniziative di riflessione su Paolo Dall’Oglio e su quello che nel suo nome ancora palpita in tantissimi siriani. Hanno contribuito a questo libro: Nader Akkad, Paolo Branca, Laura Silvia Battaglia, Massimo Campanini, Pierluigi Consorti, Antoine Courban, Riccardo Cristiano, Asmae Dachan, Stefano Femminis, Shady Hamadi, Marco Impagliazzo, Luciano Larivera, Federico Lombardi, Adnane Mokrani, Amedeo Ricucci, Lorenzo Trombetta.

A cura di

Riccardo Cristiano Associazione Giornalisti Amici di padre Dall’Oglio

Paolo Dall’Oglio

Da troppo tempo non possiamo ascoltare la voce di padre Paolo Dall’Oglio; la sua testimonianza si trasmette così attraverso le parole di chi lo ha conosciuto e amato, di chi vuole ridare vita a un messaggio di pace e dialogo perché riprenda il posto e la forza che aveva saputo guadagnare. In questo libro, che aiuta a scoprire e riscoprire Paolo Dall’Oglio, alle parole del gesuita rapito in Siria il 29 luglio 2013 si affiancano le riflessioni di giornalisti e importanti figure della cultura italiana e internazionale, perché non si perda il ricordo e, con questo, la speranza.

La profezia messa a tacere Foto di copertina: © KENZO TRIBOUILLARD / AFP / GettyImages

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PAOLO DALL’OGLIO La profezia messa a tacere

A cura di Riccardo Cristiano (Associazione Giornalisti Amici di padre Dall’Oglio)

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© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2017 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) ISBN 978-88-922-1128-5

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PREFAZIONE di padre Federico Lombardi

Da tre anni e mezzo non abbiamo più notizie di Paolo e la Siria continua a morire. Cos’avrebbe fatto Paolo in questo tempo se avesse potuto continuare a muoversi e a parlare? Cos’avrebbe fatto o detto di più per il popolo siriano di quanto aveva già fatto e detto fino a quel fatidico 29 luglio 2013? In una delle testimonianze di questo libro si osserva che quei giorni a Raqqa erano il momento peggiore per arrivarci, perché l’Isis stava prendendo il controllo ed eliminando gli oppositori, e «proprio perché il momento e il luogo erano pessimi, non era strano che ci fosse padre Paolo». Leggendo queste pagine mentre ogni giorno giungono notizie, voci e immagini sconvolgenti della distruzione di Aleppo, non possiamo non restare ancora una volta impressionati dalla chiarezza con cui Paolo aveva visto arrivare la tempesta e la tragedia del suo popolo, ne aveva capito la complessità e le cause, ne aveva letto i segni, aveva identificato le forze in gioco, aveva fatto appello senza possibilità di equivoci alle responsabilità degli attori del dramma... e aveva deciso di met5

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tersi in gioco fino in fondo in prima persona in piena solidarietà con il suo popolo siriano, del tutto consapevole delle difficoltà e dei rischi. Rischi che erano ormai divenuti quotidianamente mortali. Sono pur sempre le sue parole, soprattutto le ultime – ben scelte nella parte centrale del libro – a toccarci con quella forza e quella passione che ha segnato e continuerà a segnare ogni nostro incontro con lui. Quando ci parla della speranza che lo animava: «La speranza è dell’ordine del combattimento, non delle previsioni» (luglio 2013). Quando ci parla della morte del padre Murad: «Il suo martirio è gloria per la Chiesa e pessima notizia per la rivoluzione siriana... La lotta è impari...» (ultima lettera, metà luglio 2013). I contributi della prima parte del libro permettono di ripercorrere le tappe della vita di Paolo, della sua vocazione religiosa, del suo incontro con l’Islam, con la Siria, del suo trovare nell’antico monastero di Deir Mar Musa il luogo dove vivere e condividere la straordinaria esperienza di incontro e dialogo religioso tra cristianesimo e Islam. Perché Paolo è un gesuita, un religioso, un sacerdote, un monaco che più di trent’anni fa, alla vigilia della sua ordinazione diaconale, scriveva ai suoi cari di aver capito, nel discernimento con i suoi Superiori, che la sua «missione è in tre parole: quella di essere prete nella Chiesa in dialogo». E di esserlo nella Chiesa siriana antiochiana, che risale alla predicazione degli Apostoli, che prega in siriaco come faceva anche Gesù, ma che «non rifiuta di esprimersi in arabo, di pregare in arabo, la lingua dei figli d’Ismaele, dei musulmani, con i quali il Signore l’ha 6

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PREFAZIONE

messa a contatto da tanti secoli perché, nella fedeltà e nella sofferenza, si prepari il giorno del riconoscersi di tutti i figli d’Abramo nell’unica Via, la Misericordia del Padre». A questa missione Paolo è stato fedele con costanza e con il suo straordinario coraggio umano e spirituale, percorrendo una via originale e coerente, in discernimento e dialogo, non senza difficoltà, per continuare ad essere, come aveva promesso, nella Chiesa e nella Compagnia di Gesù. La ricostruzione del monastero di Deir Mar Musa, la fondazione di una nuova comunità monastica, la preghiera e l’accoglienza, i mille incontri e i dialoghi religiosi (“religiosi”, davanti a Dio, non “interreligiosi”, tra confessioni, insiste Paolo) sotto la “tenda di Abramo”... Tutto ciò costituisce eredità preziosa e durevole. Nella linea di una mistica dell’impegno sociale (e diciamo pure “politico”) l’itinerario di Paolo giunge infine in questi anni drammatici e terribili a un intercedere, stare in mezzo, a prezzo della vita, ma questo non è l’unico esito del suo servizio e non ne è la fine. Giustamente in queste pagine fanno capolino nomi ed esperienze che Paolo conosceva bene – Massignon, Charles de Foucauld, Christian de Chergé e i monaci di Tibhirine... – che ci aiutano a comprendere che Paolo, pur nell’originalità della sua esperienza, non è solo nella Chiesa. Giustamente leggiamo testimonianze intense di amore e gratitudine dei musulmani che hanno condiviso con Paolo l’esperienza dell’incontro e della speranza «del riconoscersi di tutti i figli di Abramo nell’unica Via, la Misericordia del Padre». 7

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In questi anni cruciali della storia del mondo, quando i popoli occidentali non capiscono e non sanno che cosa significa la venuta tra loro di altre genti e in particolare di innumerevoli musulmani, si chiudono e si spaventano; quando i musulmani faticano a fare i conti con le sfide della modernità e si combattono crudelmente uccidendosi tra loro nelle loro stesse terre con la complicità odiosa di grandi poteri e grandi potenze, e scorrono fiumi di sangue... In questi anni in cui papa Francesco ci parla con lungimiranza di una “guerra mondiale a pezzi”, Paolo ci invita a riaprire le pagine antiche del libro della Genesi e rileggere la storia di Abramo, per ascoltare il grido della sete di Ismaele, il pianto di sua madre Agar – la ripudiata, la madre dei musulmani – e vedere anche noi la fonte dell’acqua che le viene indicata da Dio nel deserto. Intitolando «La sete di Ismaele» la sua rubrica regolare sul dialogo islamo-cristiano, e ricordando il grido di Gesù in croce: «Ho sete!», Paolo ci invita a «riconoscere il valore cristologico ed ecclesiologico del grido degli esclusi: un grido qualche volta scomposto o addirittura terrificante, ma un grido che la Chiesa non può non riconoscere come pertinente la storia della salvezza». Riusciremo a risalire così indietro verso le origini e a scendere così in profondità? Riusciremo a riconoscere le divisioni antiche per poterle risanare, a intuire e far nostro il desiderio di pace universale del Padre creatore di tutti e del suo Figlio che muore per riconciliare tutti i suoi figli? Ma se non ci proviamo neppure come potremo sperare di trovare luoghi spirituali solidi e veri di incontro e dialogo tra le culture e le loro dimensio8

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PREFAZIONE

ni religiose, come potremo sperare di sfuggire alle tentazioni e agli inganni continui delle divisioni e dell’odio omicida? «Ponti e non muri», dice Francesco e prega con gli occhi chiusi e il capo poggiato in silenzio sul muro che attraversa Betlemme, aspettando, sognando e sperando un mondo fraterno senza muri. Deir Mar Musa, sulla riva del deserto, rinato dal cuore di Paolo, è un ponte. La sua piccola e fragile comunità, che ho potuto accompagnare qualche mese fa da papa Francesco, continua la sua esistenza di testimonianza con la forza della speranza e della fede. La piccola icona che ha donato a Francesco – Mosè davanti al roveto ardente – è appesa nella sua stanza, sempre davanti ai suoi occhi, nel cuore della Chiesa universale. Mosè incontra il mistero di Dio: il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (non possiamo aggiungere anche: il Dio di Ismaele, che ne ha dissetato la sete?) chiama e manda il suo profeta per liberare il suo popolo, nel quale devono essere benedette tutte le genti della Terra. Il suo popolo è in ogni angolo del mondo, ma Paolo, concretamente, lo incontra nel popolo della Siria che aspira a crescere nella libertà. Nella sua lettera alla vigilia del diaconato Paolo scriveva ancora: «Il dialogo è anche il mio impegno “politico” perché porta alla pace e alla giustizia, ma allora è evidente che non deve essere un dialogo di chiacchiere ma di segni e fatti concreti. La mia esperienza mediorientale mi insegna che tutti i livelli dell’esistenza sono coinvolti nel conflitto dalla religione fino all’economia ed il dialogo si deve fare a tutti i livelli nella loro interdipendenza. Concludendo, è questo servizio [diaconia] del dialogo per la pace con 9

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PAOLO DALL’OGLIO

Dio e tra noi che vorrei fosse il senso di questa mia ordinazione diaconale; servizio sempre necessario, e parte già di quell’azione sacerdotale che è la celebrazione del mistero di Gesù nostra pace». I segni e fatti concreti per un uomo dedicato e coraggioso come Paolo arrivano fino a mettere in gioco la vita. I figli del suo popolo gliene sono grati. In queste pagine arriviamo a leggere: «Padre Paolo è il simbolo della nostra speranza nella pace, una forza di ispirazione alla quale rivolgerci nelle ore difficili. Spesso mi sono chiesto: “Cosa farebbe Paolo al mio posto?”. Oggi so solo che lo aspettiamo, attendendo di avere risposte ai nostri dubbi e consapevoli che Dall’Oglio è la Siria e noi siamo figli suoi». Grazie, Paolo, per le strade che hai aperto, i ponti che hai costruito, le speranze che hai fatto germogliare e continui ad alimentare. Tutti crediamo che l’incontro con te – quando? dove? come? lo sa Dio – sia davanti a noi.

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Prima parte

RITRATTI

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L’ESPERIENZA SIRIANA di Lorenzo Trombetta

«La tenebra non è tenebra davanti a te. La notte, come il giorno, è luce» Sal 139,121 «Sono italiano. Ma da più di vent’anni vivo in Siria. E se Iddio mi darà vita, la passerò tutta qui. In Siria»2. «La Siria è il nostro sogno comune. Lasciarla sprofondare nell’orrore rende anche noi dei barbari»3.

1 I versi del salmo 139 sono riportati in arabo e in francese nel volantino che dal 2014, in occasione dell’anniversario del sequestro di Paolo Dall’Oglio, viene distribuito ogni 29 luglio di fronte alla sede della casa madre della Compagnia di Gesù a Beirut, dove padre Paolo alloggiava ogni volta che veniva in Libano e dove aveva cominciato il suo percorso di gesuita in Oriente. Ringrazio Friedrich Bokern, amico di Paolo e instancabile operatore di pace, per tenere accesa a Beirut la fiammella di speranza. 2 Esperienza spirituale e lo sviluppo della società (titolo originale in arabo: al-Khibra ar-ruhiyya wa tatawwur al-mujtamaa), sessioni di dialogo tenutesi al convento di Mar Musa l’Abissino, Dar al-Khalil, Damasco, luglio 2008, p. 65. Di seguito, questo testo è citato con la prima parola del titolo: Esperienza. 3 P. Dall’Oglio, Collera e Luce. Un prete nella rivoluzione siriana, Emi, Bologna 2013, p. 12.

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PAOLO DALL’OGLIO

Lontano dal frastuono dei jet militari che fischiavano nei cieli del Libano in guerra, un uomo solitario, dalla corporatura imponente, posava il suo zaino sulla terra polverosa al confine delle terre abitate di Siria. Alle spalle c’era un sentiero impervio, quello che lo aveva accompagnato fin lassù dall’ultimo villaggio abitato. Di fronte a sé aveva il muro di pietra di quel che sembrava un antico castello. Una porta di legno era a terra. Sugli stipiti rimanevano i cardini in ferro. Dentro l’oscurità. E poi di nuovo la luce, accecante, di uno spiazzo aperto sul vuoto del deserto siriano. L’uomo arrivava così a toccare il cielo e la terra del convento di san Mosè l’Abissino (Mar Musa al-Habashi): era l’agosto del 19824. Lui, Paolo Dall’Oglio, vi giungeva di proposito e per caso. Per caso perché una vecchia guida della regione, pubblicata nel 1938, gli aveva indicato l’esistenza delle rovine di un antico monastero a est della strada che collega Damasco con Homs, nel Qalamun orientale, la zona collinare che dolcemente cede il passo alla badiya, l’ampia distesa di steppa. Di proposito perché, in quell’estate così densa di avvenimenti per tutto il Medio Oriente, si era liberato finalmente da un impegno di lavoro – come interprete dall’arabo aveva accompagnato in Siria una delegazione della Caritas – per correre 4 Mar Musa, fondata nell’undicesimo secolo, raggiunse il suo culmine nel quattordicesimo secolo. L’ultimo monaco abitò il convento fino al 1831. Poi l’abbandono, fino all’arrivo di Paolo Dall’Oglio nel 1982. Si veda, tra l’altro, Guyonne de Montjou, Mar Moussa. Un monastère, un homme, un desert, Albin Michel, Paris 2006, pp. 87-89. Per questo capitolo ho consultato la prima edizione francese (2006) del testo di Montjou. In italiano è stato pubblicato: Paolo Dall’Oglio, l’uomo del dialogo a colloquio con Guyonne de Montjou, Paoline, Milano 2014 (già apparso, sempre per Paoline, nel 2008 e nel 2010, con il titolo: Mar Musa. Un monastero, un uomo, un deserto).

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L’ESPERIENZA SIRIANA

alla ricerca di un luogo da molto tempo cercato per aprire il cuore e la mente in un ritiro spirituale. Decise di rimanere a Mar Musa. E la prima notte faticò a dormire per via dei rumori causati dai topi e da altri animali che abitavano le rovine, compagni sconosciuti nella natura selvaggia che lo circondava. Il cielo stellato, come lui stesso ha raccontato, lo ha accompagnato in quella prima esaltante esperienza mistica sul selciato dissestato dove molti anni più tardi sarebbe sorta la tenda di Abramo, luogo di incontro, dialogo, riflessione, tra rappresentanti illuminati del cristianesimo e dell’Islam. Trent’anni dopo, nell’estate del 2012 Paolo Dall’Oglio rimise sulle spalle il suo zaino lasciato all’ingresso di quello che è ora il monastero restaurato e ampliato. La porta non era più a terra. Una nuova, ma sempre impolverata e cotta dal sole, aveva ritrovato gli antichi cardini di ferro. Paolo ha ripreso il cammino verso la valle abitata del Qalamun. E ha salutato – forse è stato un addio – la terra che mi ha stregato dalla prima volta che ci sono passato da turista nel 1973, quando avevo 19 anni. Ho stampato nella mia immaginazione le asperità attraenti delle sue montagne mentre studiavo l’arabo, l’Islam e il cristianesimo orientale a Damasco nel 1980. Sono le sue parole nel suo «Addio gente mia del Qalamun», pubblicato il 17 giugno 2012 su quello che allora era il suo blog. Paolo Dall’Oglio prosegue la sua lettera di addio ricordando il primo incontro con il convento: 15

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PAOLO DALL’OGLIO

È accaduto quel che doveva accadere quando il mio destino ha incrociato quello del monastero di Mar Musa al-Habashi a est di Nabek nell’estate del 1982. Nell’istante stesso in cui ho fatto quell’incontro meraviglioso, ho visto nel monastero di Mar Musa nel Qalamun il corpo adatto a realizzare il progetto di misticismo condiviso tra cristiani e musulmani, a tradurre in atto la visione dell’accoglienza di Abramo e l’interesse per l’ambiente nella lotta contro la desertificazione per uno sviluppo sostenibile, e a lavorare con pazienza alla costruzione di una società civile matura, garanzia di una democrazia non solo formale. In queste poche righe è condensata gran parte della visione umana, culturale, religiosa, sociale e politica di Paolo Dall’Oglio riguardo alla questione siriana e ai suoi sviluppi più attuali. Ed è profondo il senso di continuità che lega la prima sconvolgente esperienza notturna di Paolo tra le rovine del monastero e il suo doloroso saluto rivolto alla sua gente del Qalamun, mentre con lo zaino in spalla è uscito percorrendo a ritroso i gradini – ora sì ampi e meno tortuosi delle pietre scalate trent’anni prima – che in quel tragico 2012 lo hanno portato lontano da Mar Musa e dal suo Qalamun. Per farsi forza e trovare un punto di sutura alla lacerazione che stava vivendo, Paolo Dall’Oglio avrà forse ripensato alle sue origini, alla sua identità prima di vestire quella di “siriano del Qalamun”. Così si presentava nel 2004 rivolgendosi a un fotografo, Ivo Saglietti, che aveva passato momenti molto intensi al monastero:

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L’ESPERIENZA SIRIANA

Sono del ’54, romano, allievo dei gesuiti, scout, contestatore, sognatore, alpino, novizio della Compagnia di Gesù nel ’75, in Medio Oriente dal ’77, per servire l’impegno della Chiesa nel mondo musulmano. Nell’estate del 1982 arrivo alle rovine di Deir Mar Musa per dieci giorni di ritiro spirituale e me ne innamoro. Ci trovo il “corpo” dei miei sogni e desideri, quelli mistici, ma anche comunitari, culturali, politici: corpo a corpo con l’Altro, Allah, l’Uno della mia passione, il Misericordioso, corpo del Verbo eterno increato e creatore, per un abbraccio indicibile e un bacio che tutto esprime, e tacita; corpo che il soffio della profezia rianima, resuscita e fa apparire, mostra!5 Il legame tra Paolo Dall’Oglio e Mar Musa è dunque inscindibile. Certamente si rischierebbe di peccare di scarso senso della storia e forse anche d’ingenuità, se non addirittura di arroganza e imprudenza, se si tentasse di ridurre la forza di un luogo millenario come Mar Musa alla presenza, appena trentennale, di un prete giunto da un luogo lontano e ora ingoiato nel nulla dell’ignoto. Se la storia di Mar Musa può, in parte ma non certo del tutto, prescindere dalla vicenda personale e pubblica di Paolo Dall’Oglio, l’esperienza di questo gesuita di origini romane non può prescindere da Mar Musa, luogo fisico e simbolo dello sforzo perseguito con coraggio e perseveranza di ricerca dell’altro.

5 I. Saglietti, Sotto la tenda di Abramo. Deir Mar Musa el-Habasci, Peliti Associati, Roma 2004, p. 2.

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