TEMPI E FIGURE Riprende vigore ai nostri giorni l’interesse per la biografia, legame tra passato e presente, tra individuo e società. Nella collana vengono presentate figure che hanno contribuito a un progetto religioso e cristiano in favore dell’uomo. 6. 11. 13. 17. 24. 25. 27. 29. 30. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 41. 42. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62.
Storia di san Domenico, H. Vicaire, 3a ed. Martin Buber, P. Vermes Gandhi, Vinoba De Gasperi, E. Arnoulx De Pirey, 2a ed. Obbedientissimo in Cristo... Lettere di don Primo Mazzolari al suo vescovo (1917-1959), L. Bedeschi, 2a ed. Schuster. Un monaco prestato a Milano, L. Crivelli Giorgio La Pira. L’eterno nel tempo, l’utopia del Regno per trasformare la storia, L. Piva Aurelio Ambrogio. Un magistrato vescovo a Milano, L. Crivelli Paolo VI. Il papa che baciò la terra, A. Acerbi, 2a ed. Chiara Lubich. Dialogo e profezia, J. Gallagher, 2a ed. San Giovanni Calabria, M. Gadili, 2a ed. Nuovi martiri. 393 storie cristiane nell’Italia di oggi, L. Accattoli, 2a ed. Chiara. Una donna tra silenzio e memoria, M. Bartoli, 2a ed. Il papa sconosciuto. Benedetto XV (1914-1922) e la ricerca della pace, J. F. Pollard Ero di sentinella. La lettera di Benedetta nascosta in un libro, C. Bianchi Porro San Francesco d’Assisi. Editio maior, R. Manselli Tommaso Moro. L’uomo completo del Rinascimento, É.-M. Ganne Pio XII. Diplomatico e pastore, P. Chenaux San Domenico. Contro la leggenda nera, M. Roquebert Giovanni Paolo. La prima biografia completa, L. Accattoli Pio XI. Il papa dei Patti Lateranensi e dell’opposizione ai totalitarismi, Y. Chiron Sant’Agostino. L’avventura della grazia e della carità, G. Vigini, 2a ed. Benedetto XVI. L’ultimo papa europeo, B. Lecomte Mia madre la Chiesa. Vita di san Josemaría Escrivá, M. Dolz Il profeta di Nomadelfia. Don Zeno Saltini, R. Rinaldi Paolo VI. Il coraggio della modernità, G. Adornato, 2a ed. Ho sentito battere il cuore del mondo. Conversazioni con Bernard Lecomte, R. Etchegaray San Filippo Neri. La nascita dell’Oratorio e lo sviluppo dell’arte cristiana al tempo della Riforma, F. Danieli Don Giussani. La sua esperienza dell’uomo e di Dio, M. Camisasca, 2a ed. Frère Roger. Il fondatore di Taizé, Y. Chiron Al cuore della fede. Le tappe di una vita, W. Kasper, D. Deckers Madre Teresa. Tutto iniziò nella mia terra. Con lettere inedite alla famiglia, C. Siccardi, 2a ed. Un amore scritto in Cielo. Zelia Guérin e Luigi Martin; genitori di Teresa di Lisieux, G. P. Di Nicola, A. Danese Solženicyn, L. Saraskina Arturo Paoli. «Ne valeva la pena», S. Pettiti, 2a ed. Giovanni Paolo II. La biografia, A. Riccardi, 4a ed.
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«Tu non sai badare a te stesso», mi aveva ripetuto tante volte mia madre riferendosi alle mie scarse attitudini pratiche. «Per questo ti devi sposare, hai bisogno di una donna». Invece ho scelto il sacerdozio. Sentivo mia la definizione che diede un professore di filosofia all’Università: «Arturo Paoli è un uomo cosmico». Parlava di Hegel, spiegava che ci sono persone abitate dalla storia, che abitano la storia.
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SILVIA PETTITI (Fossano 1965), laureata in Giurisprudenza, ha lavorato per Slow Food Editore, per il sito internet dell’“Agenzia romana per il Giubileo”, per l’associazione “Ore undici onlus” curando il periodico mensile omonimo. Dal 2001 al 2005 è stata la segretaria personale di Arturo Paoli, che ha seguito nei suoi viaggi in Brasile e in Italia, e per il quale ha curato la redazione di alcuni libri: La gioia di essere liberi (Padova, Messaggero, 2002), Prendete e mangiate (Molfetta, La Meridiana, 2005), Le beatitudini. Uno stile di vita (Assisi, Cittadella, 2007), Il difficile amore (Assisi, Cittadella, 2008). Dopo quindici anni vissuti a Roma, risiede ora a Lucca nei pressi della Casa Beato Charles de Foucauld in cui vive fratel Arturo Paoli. Collabora come giornalista con il settimanale Il nostro tempo di Torino ed è responsabile di redazione del mensile Ore undici.
Posso dire che l’incontro fondamentale nella vita di ogni uomo sia quello con l’ingiustizia. Essere veri oggi, tempo nel quale il mondo ha urgente bisogno di etica, vuol dire mantenere chiara la differenza sostanziale tra quella che la Chiesa definisce carità, e laicamente si chiama beneficenza, e la giustizia. Arturo Paoli
Silvia Pettiti S. Pettiti
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Arturo Paoli «Ne valeva la pena» Prefazione di Walter Veltroni
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Foto di copertina: Davide Dutto
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L’autrice devolve un terzo dei diritti d’autore a favore di progetti di promozione umana e sociale, rivolti ai giovani e alle donne.
Seconda edizione 2011
© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2010 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino ISBN 978-88-215-6808-4
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Agli amici di Arturo, in ogni angolo di mondo, e al suo Progetto, affidato a tutti noi.
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PREFAZIONE
Poche persone hanno l’umanità immensa di Arturo Paoli. Ben pochi hanno saputo cercare con tanta intensità Dio nell’altro. Nel povero, nell’emarginato, nel perseguitato. Una ricerca del divino nella fragilità dell’uomo che lo ha spinto a solcare gli oceani per portare soccorso alle vittime delle più grandi tragedie del secolo scorso. Dapprima a Lucca, a fianco della Resistenza dove, accanto a Giorgio Nissim, aiutò tanti ebrei a fuggire la persecuzione e lo sterminio nazifascista; nel primo dopoguerra, impegnato ai vertici dell’Azione Cattolica per difendere il confine tra politica e religione; dal 1954, per tre anni nel deserto algerino, all’alba della sanguinosa e tristissima guerra di indipendenza dalla Francia; dal 1960 in Argentina, Venezuela e Brasile, nell’occhio del ciclone autoritario di regimi fatti e disfatti al prezzo di migliaia di vittime; negli anni Duemila, infine, di ritorno in Italia, ambasciatore di una fede sussurrata, raro tesoro tra gli urlati fanatismi del presente. Un capitale insostituibile che questa bella biografia di Silvia Pettiti mette ora nero su bianco, per affidarla a giovani e meno giovani. Arturo, con la sua ricerca di Dio nel prossimo, è la testimonianza vivente di quella spiritualità cristiana che tanto ha pesato nella nascita e nello sviluppo della democrazia. Di quan7
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to la fede, concepita come risorsa universale, sia un linguaggio che unisce, che esalta la condivisione, e che non può in alcun modo dividere. Chi, poi, a novantotto anni spesi in giro per il mondo, può capire meglio di lui le lacerazioni della società globale, il prezzo pagato per uno sviluppo che produce enormi diseguaglianze? Chi meglio di lui, perciò, poteva sostenere con la benevolenza di un maestro, i progetti di rinnovamento e di comunione tra laici e cattolici in nome di un nuovo umanesimo? La nostra amicizia, ovviamente, non è nata al chiuso di qualche stanza o in un incontro ufficiale, ma per strada, in Brasile, in mezzo ai bambini di una favela di Foz do Iguaçu. In una di quelle infinite missioni dove le sue convinzioni religiose si trasformavano in miracoloso impegno sociale a soccorso dei più deboli. Con infinita umiltà di fronte all’altro, come fosse al cospetto di Dio. WALTER VELTRONI
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INTRODUZIONE
«Scrivere è viaggiare senza il peso delle valigie», disse Emilio Salgari. Ho viaggiato, senza il peso delle valigie, per circa dodici mesi: numerosi gli incontri con Arturo Paoli e con tanti testimoni che hanno condiviso le sue esperienze dalla sua giovinezza ad oggi. Ho cercato di tessere insieme ricordi, letture, immagini, parole, tra le migliori vergate da Arturo stesso nel corso della sua lunghissima vita. Le pagine che ne sono scaturite compongono un puzzle dal quale emerge l’intreccio delle storie con la Storia, la freschezza del pensiero, l’originalità dell’uomo e della sua fede. Il libro ha la forma del racconto a due voci: Arturo narra in prima persona ricordi ed eventi, espone le sue opinioni sulla società, sulla politica, sulla Chiesa, confida la sua ricerca spirituale e umana di uomo sempre in cammino; la voce narrante srotola il filo degli avvenimenti dentro cui si è svolta la vita di Arturo, attraverso un secolo di storia, durante il quale è cambiato più volte il mondo, e attraverso due continenti, l’Europa e l’America Latina. Le parole di Arturo provengono da fonti diverse, richiamate nelle note bibliografiche. Ho omesso il riferimento quando sono tratte dalle mie interviste o da episodi da lui raccontati in situazioni informali. Molte citazioni non sono letterali, 9
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mi sono permessa alcuni adattamenti per rendere coerente la narrazione. Man mano che il lavoro procedeva, cresceva in me la consapevolezza dell’ardua impresa di “far stare l’oceano in un bicchiere”. Allora, scusandomi sinceramente con le tante persone importanti per la vita di Arturo che non sono nominate, per i tanti luoghi da lui amati e visitati che non ho potuto ricordare, per i tanti fatti che ho dovuto omettere o raccontare con eccessiva rapidità, voglio sperare che queste pagine possano costruire ancora legami di amicizia ed essere occasione di incontro tra quanti hanno a cuore il senso del vivere.
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SANGUE INNOCENTE
Sono diventato grande nelle brevi ore di un pomeriggio d’inverno. Avevo compiuto otto anni quattordici giorni prima. In quel dicembre, quando il buio scendeva presto ad impadronirsi dei nostri giochi, mamma ci permetteva di radunarci con gli amici in piazza San Michele. Bastavano centocinquanta passi per raggiungerla dal portone di casa in via Santa Lucia numero 5. Al ritorno li feci di corsa, con le gambe tremanti e il cuore gonfio di paura. Era il 14 dicembre 1920. Alle diciassette di quel giorno era atteso un comizio del Partito socialista per protestare contro l’aumento del costo del pane stabilito dal governo Giolitti1. Lucca era frequente scenario di scontri tra i fascisti e i loro oppositori politici, popolari e socialisti. L’onorevole socialista Ventavoli avrebbe dovuto tenere il suo discorso sotto la loggia di Palazzo Pretorio, proprio a fianco di piazza San Michele. Invece vi trovò schierata una squadra di camicie nere che aveva preso possesso della loggia, indisturbata. Ventavoli non si fece intimorire e non rinunziò ad iniziare il suo discorso, ma subito i fascisti alle sue spalle cominciarono a denigrarlo e a disturbare.
1 Gli acquarelli di Vincenzo Barsotti: 1876-1963. Storia, costume, mondo del lavoro, a cura di Silvestra Bietoletti, Lucca, Archivio di Stato, 2007, pp. 22-25.
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Bastarono pochi minuti per far degenerare la situazione, in rapida sequenza vidi uomini che si spintonavano, manganelli che colpivano la folla radunata e poi improvviso il tuono di uno sparo. Gran confusione, urla, eccitazione e altri spari. Due uomini erano distesi a terra, immobili. Un attimo prima li avevo visti in piedi, vivi. Rimasi paralizzato, sconvolto dal sangue che vedevo scorrere sulla piazza fino a quel momento vergine. Poi corsi a casa, dove gli echi della morte erano già giunti. Trovai le braccia di mia madre e il suo sguardo allo stesso tempo tenero e serio. Nei giorni seguenti mia madre tornò a parlarmi di quell’episodio. Ho sempre ricordato le sue parole, il senso di quello che volle dirmi, perché mi hanno accompagnato per tutta la mia vita: grazie a lei quel sangue innocente è diventato il punto d’inizio della mia vocazione umana prima ancora che religiosa. «Quello che è successo ieri è molto grave. Delle persone hanno ucciso altre persone. E sai perché questo accade? Perché gli uomini non si vogliono bene. Non sanno vivere in pace gli uni con gli altri. Litigano, si scontrano, si picchiano e alla fine persino si uccidono. Noi dobbiamo impegnarci perché nel mondo ci sia più amore, perché le persone imparino a volersi bene». Mia madre era una donna religiosa senza essere esageratamente praticante. Soltanto negli ultimi anni della sua vita prese l’abitudine di partecipare alla messa quotidiana, quando arrivò in città don Giovanni Rossi, il futuro fondatore della Pro Civitate Christiana, che diede un grande impulso al fervore religioso. Fino ad allora si limitava alla messa domenicale, cui univa una feriale e fedele frequentazione dell’ospizio per anziani dove prestava servizi domestici di volontariato. Mi ci portò il pomeriggio della domenica in cui feci la mia Prima Comunione. Al mattino, dopo la messa, il parroco ci aveva radunati nella sala della parrocchia dove ci aveva offerto una deliziosa cioccolata calda. Un modo semplice per fare festa, per distinguere quel giorno dagli altri, per imprimere nella nostra mente, forse, la dolcezza della presenza di Gesù. «Oggi pomeriggio an12
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diamo a restituire la visita a Gesù», mi disse mia mamma mentre terminavamo il pranzo, e andammo all’ospizio. È sorprendente con quale profondità avesse capito il messaggio di Gesù e con quale semplicità riuscisse a trasmetterlo a me. Tutta la teologia fondata sull’amore pietoso verso il Crocifisso, tutte le preghiere e le ore di adorazione da rivolgere a Lui per consolarlo e compiacerlo, ma soprattutto per “salvare la nostra anima” e guadagnarci un posto in paradiso, tutta questa impalcatura di pensiero e di comportamenti lei li capovolgeva con i gesti semplici della vita, senza cercare giustificazioni teoriche, senza pensare che fosse necessaria una spiegazione. Erano insegnamenti che, a sua insaputa, ricalcavano le parole di un grande scienziato e teologo gesuita della prima metà del ventesimo secolo, Teilhard de Chardin: amorizer le monde, amorizzare il mondo. Ho raccontato tante volte l’episodio di piazza San Michele, del quale, prima di trovare conferma grazie al lavoro degli storici, qualche volta ho dubitato fosse invenzione della mia fantasia. Lo racconto soprattutto ai giovani, perché voglio rendere chiaro che la sofferenza e anche la morte sono parte della vita, ci colpiscono quando meno ce le aspettiamo, ma da lì inizia la nostra responsabilità di scegliere come “abitare il mondo”, per usare un’espressione del filosofo Salvatore Natoli 2, che sulla copertina del suo libro dedicato a questo tema ha posto due piedi nudi appoggiati sulla terra nuda. È necessario partire dai piedi, umili servitori del nostro corpo e della nostra esistenza, per farci responsabili concreti del mondo. Un mondo, il nostro, che invece ha reso astratto il cristianesimo. L’inculturazione nel pensiero greco ne ha fatto una dottrina, un sistema di idee, una filosofia privandolo della dimensione di testimonianza al progetto del Regno da attuare qui nel mondo. 2
S. NATOLI, Stare al mondo. Escursioni nel tempo presente, Milano, Feltrinelli, 2002.
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Poi la vita riprese a scorrere ordinaria, al mio ritmo di bambino. Vivevamo in una casa che a me pareva molto grande, anche perché la porta d’ingresso era sempre aperta e la tavola spesso si allungava ad ospitare parenti, amici, compagni di scuola miei o dei miei fratelli. A casa nostra entravano anche i perseguitati politici. Erano gli anni del fascismo e Lucca, conservatrice per storia e per tradizione, vi aveva aderito in grande maggioranza ma, come ogni fortezza, aveva i suoi passaggi segreti, qualche dissidente che si opponeva al regime e lo faceva al rischio della propria vita. La mia famiglia non era impegnata attivamente nella vita politica, ma soprattutto mia madre era attenta al clima che si respirava, era istintivamente attratta dalla libertà e per essa si impegnava nella sua vita ordinaria di donna, madre di famiglia, padrona di casa. Ho imparato molto da lei, credo di averne ereditato il carattere e l’attitudine ad occuparmi degli altri, a considerare la casa un luogo di partenza e di apertura verso il mondo. Eravamo tre figli: Tommaso, Arturo e Anna Maria. Tommaso aveva due anni più di me, fece l’istituto industriale ed è stato uno scrittore mancato, capace di guidare la penna con abilità e garbo. Le lettere che mi scrisse durante i lunghi anni che ho vissuto in America Latina esprimevano tutto l’affetto che le parole non sapevano trasmettere quando ci incontravamo di persona. Anna Maria fece l’istituto magistrale, era una ragazza davvero bella e altrettanto intelligente. La sua morte, recente, è stata quella che vorrei per me: si è addormentata circondata dai figli, dai nipoti e dai bisnipoti, accompagnata amorevolmente dalle loro cure e dai loro sguardi sereni. Il più appassionato agli studi ero io, contagiato dall’ammirazione per mio padre che era un gran lettore dei romanzieri classici, da Tolstoj a Proust, da Dostoevskij a Manzoni. Fu il nonno paterno, un uomo di origini umili ma di indole aristocratica, a iscrivermi alla selezione per il ginnasio quando compii 14
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quattordici anni. L’ho sempre visto con la giacca nera e la cravatta, ogni sabato andavo a ritirare il suo colletto inamidato dalla stireria. Ero il suo nipote preferito e la sua scelta fu indovinata. Frequentai il liceo classico Niccolò Machiavelli e fui conquistato dalla passione per l’insegnamento. Due professori in particolare mi hanno trasmesso la vocazione per la formazione dei giovani. Uno era il professor Sequi, insegnante di greco, sardo “doc”, tanto rigoroso ed esigente in classe quanto spontaneo e amichevole al di fuori dell’orario scolastico. Era appassionato di montagna, conosceva tutti i sentieri che penetrano le Alpi Apuane e spesso la domenica ci portava, insieme ai suoi figli, a fare una gita. Con lui vivevamo il piacere di stare insieme. La seconda ottima pedagoga che ebbi fu l’insegnante di matematica, la professoressa Mencarini Fabrizi. È curioso, perché non ho mai avuto predisposizione per i numeri, al contrario: mi sembra di vedere i sorrisi ironici delle persone che hanno dovuto rimediare, nel corso della mia vita, a questo mio irreparabile difetto. Però l’arte di trasmettere il sapere è altra cosa da ciò che si insegna, viene prima, è l’humus che fa crescere le intelligenze e le competenze. In me ha fatto crescere l’interesse per la filosofia e il gusto di diffondere le idee che apprendevo, conversare con i giovani, formare le coscienze. Studiavo con profitto. Nei pomeriggi, dopo la scuola, spesso ci incontravamo tra compagni per leggere i filosofi tedeschi: Nietzsche, Hegel, Leibniz, Kant. La memoria più precisa di quegli incontri è merito della figlia di un grande amico di gioventù di Arturo Paoli, Carlo Del Bianco, morto tragicamente nel 1943 per sfuggire all’arresto dei fascisti. «Ragionavamo tra noi, nella casa di Arturo o nella sacrestia di San Frediano o nel pianterreno del decanato o in uno dei baluardi delle Mura. […] Arturo, poiché le sue parole erano caute e la profondità del suo cuore rimaneva sempre insondabile, concludeva per un ascetismo cristiano. […] Tra noi compagni, la consuetudine di lavoro, di studio e di pensiero, fa15
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ceva sì che la pur liberissima diversità delle idee si componesse in un’armonia totale, insieme spontanea e necessaria. E tuttavia ci salvavano dalla tentazione di una segregazione settaria la chiara, lucida potenza d’apostolato di Arturo e quel rude, barbaro cristianesimo che Carlo diffondeva intorno a sé»3. Giuliana Del Bianco ha ritrovato questo racconto nel libro Gli amici di Lucchesia, opera di un altro amico del liceo, Nino Russo Perez. Grazie a lei la memoria di suo padre, “il professore partigiano”, e della Resistenza antifascista viene rinnovata ogni anno dagli studenti della III B del liceo Machiavelli di Lucca, lo stesso che Carlo e Arturo avevano frequentato insieme. Partecipavamo ai circoli dell’Azione Cattolica, strettamente ispirati alle volontà ecclesiali anche se affidati alla guida di laici impegnati. Essi rappresentavano la sola alternativa al fascismo sotto il profilo dell’impegno sociale e politico. Ho perso nella memoria il nome dell’avvocato con cui studiavamo un catechismo per ragazzi e organizzavamo delle rappresentazioni teatrali nella piccola chiesa di San Matteo. Lucca era una città molto cattolica, aveva un clero influente capace di imprimere nella vita dei lucchesi la religione, la morale, la prudenza e persino la parsimonia. Non sono stato esente da alcuna di queste pratiche radicate nella tradizione di cui anch’io sono stato figlio. Alcune le ho poi abbandonate, o per meglio dire sublimate in una forma più libera, altre permangono, in toni più leggeri, come vecchie fotografie di famiglia che scolorano con il tempo. In quel mondo non avevo incontrato persone particolarmente illuminate, ma un gran numero di uomini e donne di buona volontà, di validi sacerdoti, di persone buone. Il 1° ottobre 1933, insieme ad altri compagni universitari, fon3 Il Professore Partigiano. Narrazione a più voci, a cura di Giuliana Del Bianco, Lucca, Provincia di Lucca, 2009, p. 6.
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dammo la Società di San Vincenzo de’ Paoli, un sodalizio di studenti che contemplava due attività fondamentali: visitare i poveri e pregare 4. La sede era in via del Giardino Botanico 2, nei locali dell’ex seminario vescovile. Con noi c’era anche Del Bianco. Mi impressionava che Carlino presenziasse alla messa nel più mattutino convento della città e subito dopo, talvolta non c’era ancora la luce, andasse a visitare i poveri. «Che penseranno i poveri a vederti così presto?», gli chiesi un giorno, e lui mi rispose: «Ecco della gente che ha le pulci nel letto come noi e non può dormire». Così, con un sorriso, calava sulla terra tutto quello che la retorica avrebbe potuto sollevare in cielo5. Io lo pensavo sacerdote, ma lui aveva paura dell’abito e del sublime della Chiesa. Aveva paura di isolarsi dagli uomini mentre desiderava innestare tutto se stesso nell’umanità. «Mi dicono di disinteressarmi di politica perché ho famiglia: proprio per questo me ne interesso! Ho da dare un avvenire ai miei figlioli e non solo l’avvenire del pane e della professione, ma anche quello della libertà, della pace vera», ha continuato a dirmi negli anni a seguire, nel pieno della guerra e della resistenza antifascista. Nel 1935 Carlo e Arturo diventarono rispettivamente vice Presidente e Presidente della Conferenza di San Vincenzo, come registra il verbale della riunione del 10 gennaio: «Il conte Sardi, sollecitato dai confratelli, non tenendo conto della modestia di Arturo Paoli, lo nominò, seduta stante, Presidente, al posto del dimissionario professor Pietro Pacini, e Carlo Del Bianco vice Presidente»6.
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Il Professore, op. cit., p. 14. In memoria di Carlo Del Bianco, a cura del Comitato di Liberazione Nazionale, Lucca, Scuola Tipografica Artigianelli, 1945, p. 22 (nell’ambito del progetto Imparare a ricordare, III B Liceo Classico N. Machiavelli di Lucca, Anno scolastico 20022003). 6 Il Professore, op. cit., p. 15. 5
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Durante gli studi universitari, ho frequentato assiduamente Pisa, dove ho trovato motivi di crisi ma anche sani stimoli critici. Avevo scelto la Facoltà di Lettere e Filosofia e nel confronto con il professor Attilio Momigliano, ebreo, e con altri docenti non credenti scoprivo la presenza di quei valori umani ed etici che andavo inseguendo. Erano capaci di coniugarli con il senso della storia e l’impegno per il progredire degli uomini 7. Appartenevo alla Fuci, la federazione degli universitari cattolici, che proponeva seminari di studio sui maggiori teologi della Chiesa cattolica. Una volta mi fu affidata l’organizzazione di una lezione su san Tommaso, consigliandomi di contattare un giovane professore meridionale da poco trasferitosi a Firenze, Giorgio La Pira. Andai a Firenze e lo invitai. La conferenza fu un mezzo fiasco, perché il ragionare tomista per sillogismi che lui snocciolava era quanto mai lontano dalla nostra formazione e dalla nostra cultura. Mia madre aveva voluto ospitarlo a casa nostra. La Pira si trattenne diversi giorni, diventammo amici, dialogavamo di filosofia e di religione passeggiando lungo le mura della città. Mi abbeveravo alle sue parole ma soprattutto alla serenità del suo animo, tanto attraente per me che stavo attraversando un periodo di crisi che mi rendeva inquieto e irrisolto. Ero incuriosito da una sua abitudine mattutina, quella di alzarsi presto e trattenersi in silenzio nell’attendere il farsi del giorno. Mi diceva che era quella pausa a generare la serenità del suo animo. È stato lui ad introdurmi ad una visione mistica della religione, che mi portò a leggere la grande Teresa d’Avila. La Pira godeva dell’«aureola di uomo senza potere e oltre il potere», ha scritto Mario Vittorio Rossi, presidente della Gioventù di Azione Cattolica dopo Carlo Carretto, intimo amico 7 A. PAOLI, «Vivo sotto la tenda». Lettere ad Adele Toscano, a cura di Pier Giorgio Camaiani e Paola Paterni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006, p. 513.
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di Arturo. «La sua vita personale portava il segno dell’eremitaggio: una stanzetta di convento o d’ospedale, poco cibo, niente soldi, alcuni libri biblici o moderni rivelavano un gusto solitario dell’abbandono in cui era assente la donna, e la società veniva vista attraverso quella solitudine. […] La sua visione della fede e insieme di una società utopica-ideale prestava a ogni uomo qualche cosa che stimolava la revisione della consuetudine, trasferendo i desideri nelle possibilità future. […] era il simbolo di un andare oltre la logica per rompere la noia della borghesia e della civiltà di massa e lasciar passare l’irruenza e l’invenzione come una gioia eccitante dell’infanzia»8. La morte di mia madre arrivò improvvisa. Avevo ventidue anni e tutti i colori nitidi della giovinezza si mescolarono in un vortice oscuro di sofferenza e smarrimento. Era la prima volta che il dolore si presentava davanti a me, in una sfida personale che non avevo preparato né ero sicuro di saper accogliere. Tralascio i particolari di un evento intimo che non desidero spogliare ma che certamente ha rifratto i suoi effetti nelle mie scelte successive. «Tu non sai badare a te stesso», mi aveva ripetuto tante volte mia madre riferendosi alle mie scarse attitudini pratiche, «per questo ti devi sposare, hai bisogno di una donna». Quella che avevo incontrato era una ragazza bella, la Magnani, che nutriva un grande interesse per la politica, la religione, la fede. Forse avrebbe potuto essere lei la mia compagna di vita. Poi un giorno, senza preavviso e senza ragione, un’infezione incurabile spezzò la sua giovane esistenza. Ero travolto da questi eventi mentre il clima del nostro Paese si faceva sempre più pesante. Il fascismo aveva ormai i connotati del regime dittatoriale, si insinuava nei nostri interessi di giovani che ci stavamo preparando a diventare protagonisti del futuro. Si insinuava come un virus che voleva contagiarci ma, 8 M.V. ROSSI, I giorni dell’onnipotenza. Memoria di un’esperienza cattolica, Roma, Coines, 1975, pp. 106-107.
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grazie a Dio, eravamo attrezzati abbastanza per riconoscerlo e respingerlo fermamente. Vivevamo la storia del nostro tempo come storia di libertà, secondo l’insegnamento di Hegel, e la libertà che cercavamo era il senso del nostro vivere. Nelle vocazioni c’è molto mistero, qualcosa che istintivamente porta lì. Un convergere di forze, di eventi, di passioni verso un centro comune. Avevo maturato il desiderio di partecipare alla vita politica del mio tempo non come un concorrente ma come animatore e formatore. Pensavo che la politica avesse bisogno di un supplemento di gratuità e di spiritualità per liberarsi dai lacci del potere e del fanatismo che la stavano soffocando. Aspiravo ad immettere la linfa vitale della criticità in un mondo che mi pareva imbrigliato nello spirito dell’adolescente che, contestando la realtà, si rifiuta di crescere. Avevo sofferto enormemente per la perdita di mia madre, di cui serbavo profondo l’esempio di generosità e dedizione che avevo appreso in famiglia soprattutto grazie a lei. Insegnavo greco al liceo classico Machiavelli, lo stesso dove ero stato studente, svolgevo un ruolo di guida verso i miei alunni, non molto più giovani di me. A casa era arrivato il tempo di mostrare al nonno divenuto disabile la mia gratitudine per quanto mi aveva donato. Per la prima volta gli vidi i piedi nudi quando ammalato dovette affidarsi alle mie cure, lui così aristocratico e riservato. Anche mia sorella Anna Maria, sei anni più giovane di me, aveva bisogno di attenzioni e di essere seguita negli studi, che non amava affatto. Cercai di fare la mia parte anche verso di lei, non sicuro di esserci riuscito nel migliore dei modi. Mio fratello Tommaso aveva preso parte alla campagna militare in Etiopia, che lo trattenne lontano da casa per otto anni; era là quando nostra madre morì. Mio padre lavorava duro per mantenere la casa e la famiglia, con il cuore amareggiato e sconfortato dalla scomparsa della compagna della sua vita, madre dei suoi figli. 20
001_240_ARTURO PAOLI
30-06-2011
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Questo insieme di cose sono soltanto indizi per intendere come decisi di entrare in Seminario. Era il 1937, avevo venticinque anni e mi ero da poco laureato discutendo una tesi su “Medioevo e romanticismo nella poesia di Giosuè Carducci”. Non era stato il Carducci poeta ad affascinarmi particolarmente, quanto la sua vasta e poliedrica cultura che penetrava nella letteratura di tutta Europa, con particolare attenzione a quella francese e tedesca. C’era nella sua produzione poetica una vena romantica che mi era parsa molto chiara e che avevo voluto dimostrare nella mia tesi. Grazie al Carducci anch’io ho compiuto un lungo excursus nelle principali letterature europee e nei loro più autorevoli esponenti. Poi, la scelta del sacerdozio. La certifica il verbale del 2 dicembre di quell’anno relativo ad una riunione della Società di San Vincenzo: «Con visibile emozione, il confratello Sesti annunziava: il nostro beneamato presidente A. Paoli nei prossimi giorni lascerà ogni sua attività per entrare in Seminario e per prepararsi al Sacerdozio, ma continuerà a seguire le conferenze con la preghiera, le offerte e l’affettuosa amicizia»9.
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Il Professore, op. cit., p. 15.
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