Paolo Borsellino. L'uomo giusto di Alessandra Turrisi (estratto)

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«Ho sempre accettato, più che il rischio, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, a un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione o financo, vorrei dire, dalla certezza che tutto questo può costarci caro». Paolo Borsellino,

ALESSANDRA TURRISI

Giugno 1992

Progetto grafico: Luca Dentale / studio pym

€ 15,00

La mafia è cosa complicata. Endemica e omertosa, radicata e violenta. La mafia è Cosa Nostra. Ma è anche la storia di chi la mafia l’ha voluta stanare e combattere, nelle piccole realtà di provincia come nei traffici internazionali di droga, armi e di immensi capitali. La storia di uomini giusti come fu Pao­ lo Borsellino. Non solo il percorso di vita fino all’attentato nel quale rimase vittima il 19 luglio 1992, ma il coro di voci inedite – Diego Cavaliero, Giovanni Paparcuri, il cardiologo Pietro Di Pasquale, Cosimo Scordato, Matteo Frasca e Francesco Ficarrotta, solo per citarne alcune – stretto intorno a una personalità sorprendente nella sua normalità che ci riconsegna un uomo eroico e fragile, ma sempre giusto.

PAOLO BORSELLINO L’UOMO GIUSTO

Alessandra Turrisi Giornalista palermitana, sposata e madre di due figli, lavora per i quotidiani Avvenire e il Giornale di Sicilia, collabora con i periodici Credere e Il Gattopardo. Dalla metà degli anni Novanta, segue le cronache siciliane, con particolare attenzione agli aspetti sociali. Ha pubblicato i volumi Il cuore in testa. 10 anni di impegno dell’associazione Apriti Cuore (Navarra editore), sull’esperienza dell’accoglienza di bambini e ragazzi abusati e allontanati dalla famiglia, e Era d’estate (Pietro Vittorietti Editore), che raccoglie giovani testimonianze al tempo delle stragi di mafia.

82L 330

150 × 221  SPINE: 15  FLAPS: 85

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Alessandra Turrisi

PAOLO BORSELLINO L’uomo giusto

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© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2017 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) ISBN 978-88-922-1079-0

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A Salvo, Paolo e Teresa e ai miei genitori, per aver sempre creduto in me. Un ringraziamento speciale a Manfredi Borsellino, che, stando sempre un passo indietro, ha permesso che tante porte del cuore non restassero chiuse per sempre.

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Il 19 luglio potevo esserci anch’io

«Ricordo ciò che mi disse Ninni Cassarà1 allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: “Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”. L’espressione di Ninni Cassarà io potrei anche ripeterla ora, ma vorrei poterla ripetere in un modo più ottimistico. Ho sempre accettato, più che il rischio, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, a un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione o financo, vorrei dire, dalla certezza che tutto questo può costarci caro». Paolo Borsellino 1   Vicecapo della Squadra mobile di Palermo, investigatore di punta del pool antimafia, assassinato il 6 agosto 1985.

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pronuncia queste parole scandendole una a una, con il suo marcato accento palermitano, con un’espressione del volto concentrata, serena ma drammatica nello stesso tempo, davanti al microfono di Lamberto Sposini, giornalista del tg5. Stanno suonando le campane della parrocchia di Santa Luisa, mentre il giudice registra l’intervista nel salotto di casa sua, in via Cilea, a Palermo, solo venti giorni prima di essere ucciso nella strage di via D’Amelio. Racconta della sua antica e profondissima amicizia con Giovanni Falcone, già vittima assieme alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti di scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, della carica di tritolo esplosa il 23 maggio 1992 sull’autostrada Mazara-Palermo, all’altezza dello svincolo di Capaci. Si sente un sopravvissuto. Guarda con estrema lucidità alla probabile sorte che lo attende, senza mai fare un passo indietro, con coraggio e soprattutto con grande fede e senso del dovere. Il 19 luglio 1992, una Fiat 126 imbottita di tritolo è posteggiata tra le tante auto in via D’Amelio. Nonostante nella via abitino alcuni familiari del giudice più scortato d’Italia, in quel momento, nessuna autorità si è preoccupata di istituire una zona rimozione; l’auto viene fatta esplodere alle 16:58. Il boato si sente a distanza di chilometri, la colonna di fumo che si leva tra i palazzoni attorno alla Fiera del Mediterraneo diventa la stella polare da seguire per chi voglia rendersi conto di cosa sia accaduto in quella sonnacchiosa e calda domenica. La bomba viene azionata con un telecomando da un giardino vicino. Secondo il collaboratore di giustizia, Fabio Tranchina, a premere il pulsante sarebbe stato il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, già condannato all’ergastolo come mandante della strage. Non c’è scampo per il giudice Borsellino e per i cinque agenti di scorta, che quel giorno sono i suoi “angeli custodi”. Vengo8

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no fatti a brandelli i corpi di Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Agostino Catalano. Solo Antonino Vullo, rimasto alla guida di un’auto di scorta, sopravvive a quell’inferno, ma si troverà a scontare il purgatorio per tutta la vita. Essere riusciti a scampare all’attentato organizzato in via D’Amelio, davanti all’abitazione della sorella Rita e della madre di Paolo Borsellino, una piccola strada alle falde di Monte Pellegrino, è la sensazione che pervade tantissime persone legate, in un modo o nell’altro, a quel luogo, a quell’avvenimento, a chi invece in quel torrido pomeriggio di domenica la vita l’ha persa. Segnato da danni fisici, ma soprattutto psicologici irreversibili, Vullo racconta quel momento: «Vengo investito da una nube caldissima all’interno dell’abitacolo, sono sballottato. Quando scendo dall’auto, mi rendo conto di quello che è successo. Non sapendo cosa fare, cerco aiuto, voglio dar aiuto. È tutto buio. Vedo il corpo di un collega a terra. Mentre un agente delle volanti mi blocca, mi rendo conto che sono sopra il piede di un collega, per poi ritrovarmi in ospedale»2. Quel pomeriggio un cazzotto nello stomaco colpisce i palermitani e non solo. Qualcuno viene svegliato da una telefonata piena di angoscia durante il riposo pomeridiano, dopo una bella mattinata al mare. Qualcun altro apprende i primi concitati particolari dell’attentato dall’edizione straordinaria dei telegiornali. Poi c’è chi ha la piena consapevolezza di essere stato miracolato, per essersi trovato lontano dall’inferno per una pura casualità. Anche Benedetto Marsala, in servizio al reparto Scorte della Questura di Palermo e oggi in pensione, non riesce ancora a darsi una risposta, «avrei potuto esserci io al posto di uno   Deposizione al processo Borsellino-quater, 8 aprile 2013.

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di quei colleghi. Anzi, dovevo esserci io. Quello sarebbe stato il mio turno, se solo non fossi stato ancora in licenza matrimoniale». «Quel pomeriggio, sto riposando, nella mia casa di campagna, a San Martino delle Scale, sulle colline di Palermo», ricorda Marsala, «arriva improvvisamente mia cugina, racconta dell’esplosione in via D’Amelio e chiede se avessimo sentito il boato. Salgo subito sulla motocicletta e mi fiondo a Palermo». L’orrore di quello che si trova davanti è ancora devastante, dopo venticinque anni. «Parlando con i colleghi e controllando i turni, mi accorgo che, se fossi stato in servizio, quel pomeriggio sarebbe toccato a me. Invece, per anzianità mi sostituisce Agostino Catalano. Non so cosa pensare. Ricordo solo che poco dopo, a casa Borsellino, la signora Agnese, rivolgendosi alla dottoressa Anna Maria Palma (oggi avvocato generale presso la Corte d’Appello di Palermo, ndr), e indicando me, dice: “Lo vedi questo ragazzo? È un miracolato”». «Anche io sono vivo per miracolo», non può non sottolineare Diego Cavaliero, collega e amico di Borsellino. «La settimana precedente, a Salerno, ci mettiamo d’accordo che io avrei raggiunto Paolo a Palermo la domenica successiva. Avendo trovato il biglietto d’aereo per l’andata, ma non per il ritorno, decido di non partire. Altrimenti avrei accompagnato Paolo dalla madre, come facevo sempre quando mi trovavo a Palermo». Quel pomeriggio del 1992, Paolo Borsellino lascia la sua villetta di Villagrazia di Carini, dove ha trascorso gli ultimi momenti della sua vita con la famiglia, per accompagnare a un controllo medico la madre, Maria Lepanto, a casa dell’amico cardiologo Pietro Di Pasquale. Le cose non sarebbero dovute andare così: solitamente è il medico a raggiungere l’abitazione di via D’Amelio, ma il giorno prima, quando avrebbe do10

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vuto visitare la signora Maria, gli si guasta l’auto lungo la salita che da Mondello conduce in città e Borsellino, a causa di un impegno, non può occuparsene quel giorno. Così Borsellino decide di andare a prendere la madre per accompagnarla da Di Pasquale la domenica pomeriggio. «Di solito succedeva che Paolo mi passasse a prendere con la sua auto blindata per andare a visitare la madre a casa», confida il cardiologo, ancora profondamente turbato al pensiero. «Come mai questa volta decide di portarla a casa mia? Ripensando alla sequenza di eventi, in questi anni non ho fatto altro che domandarmi: perché tutto questo sta succedendo a me? Qual è il disegno? Perché mi sono salvato? Signore, cosa mi chiederai in cambio di ciò?» Sorride Fabrizio, con la freschezza della sua giovane età, lui che quel 19 luglio di venticinque anni fa non c’era ancora, «anzi c’ero, ma avrei potuto non esserci mai» come lui stesso ama dire. Fabrizio Lanza oggi ha ventiquattro anni e quella domenica del 1992 è nel grembo capriccioso di sua madre da circa quattro mesi. La luce ancora fioca della speranza di maternità, sognata, coltivata e troppe volte delusa di Rosaria Casarubea. Rosaria vive a letto da quattro mesi, alzandosi solo per andare in bagno, custode di quella vita che vuole preservare a tutti i costi, spazzando via le perplessità dei medici. Così, mentre le amiche si tuffano in mare o vanno per negozi, Rosaria resta a letto, accanto a quella finestra al terzo piano di via D’Amelio 42. Ogni giorno e ogni notte, fino alla mattina di quel soffocante 19 luglio, quando con il marito Roberto Lanza, decide di ritagliarsi una giornata diversa, all’aria aperta, nella casa di campagna dei genitori a Carini. A un certo punto cominciano ad arrivare telefonate preoccupate, «ci cercano dappertutto, a casa, a Palermo, ma non risponde nessuno». La notizia della bomba in via D’Amelio fa il giro del mondo 11

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e tutti immaginano quella giovane coppia ferita come la strada devastata dalle schegge. Invece, Rosaria e Roberto sono lontani, miracolosamente salvi, con quel bambino “a rischio” al sicuro. Quando tornano in via D’Amelio, trovano davanti a loro una scena apocalittica. Tutto è distrutto, non esistono più né porte né finestre, le impronte di sangue fino al quarto piano, sembra un teatro di guerra. «E poi il vero miracolo», entra nel vivo del racconto Fabrizio, come se avesse vissuto davvero quei momenti, attraverso gli scatti che il papà, furtivamente, è riuscito a immortalare con la sua macchina fotografica. «Un intero pezzo d’infisso, con i frammenti di vetro ancora attaccati, si schianta sul letto dei miei genitori, proprio nel punto in cui mia madre, e io dentro di lei, stava coricata tutto il giorno, ma non quel giorno». «Nelle nostre preghiere, i nomi delle vittime ci sono sempre, ci affidiamo a loro», dicono tra le lacrime mamma e figlio. «Questa strage ci ha portato a riconsiderare le priorità della nostra vita. Non ci importa di avere cose, gioielli o proprietà. Che senso hanno se prima non vengono le persone»3.

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Turrisi A., Giornale di Sicilia, 19 luglio 2011.

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