Marina Ricci
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Marina Ricci G OV IN DO G OV I N D O. I L D O N O D I M A D R E T E R E S A
«Sembrava tutto risolto e non lo era. Adesso a ripensarci mi sento stupida. Come ho fatto a non accorgermi del complotto? A non rendermi conto che tutto era calcolato: tempi, emozioni e coincidenze. Come se qualcuno mi avesse preso per mano e dirigesse i miei passi verso la meta»
MADRE TERESA Premessa d i E N R I C O M E N TA N A
Presen ta z io n e d i PA D R E B R I A N KO LO D I E J C H U K
Capita di chiedersi, di fronte alla televisione, cosa succeda quando le telecamere si spengono e la comunicazione si interrompe, perché a volte è lontano dalle luci e dal clamore che si muovono le storie più belle. Così, nei giorni della malattia e della morte di Madre Teresa, a Calcutta c’era Marina Ricci, inviata di un’importante rete televisiva italiana. I suoi servizi dall’India hanno raccontato la malattia e la sofferenza, insieme alle tante opere di bene delle suore Missionarie della Carità. Ma mentre il volto e la voce di Marina entravano nelle case dei milioni di italiani, c’era qualcosa che restava nascosto, qualcosa di profondo e personale che stava cambiando la sua vita. Questo libro è la storia di quello sconvolgimento e di tutto il bene che ha portato.
Marina Ricci
Marina Ricci, pugliese di nascita e romana d’adozione, ha cominciato la professione giornalistica nel 1982 al settimanale “Il Sabato” ed è poi passata al mensile internazionale “Trenta Giorni”, occupandosi soprattutto della situazione della Chiesa nell’Est Europa. Nel 1992, al momento della fondazione del Tg5, ha assunto il ruolo di vaticanista: ha seguito il pontificato di Giovanni Paolo II e quello di Benedetto XVI. Nel 2002 è stata tra i 14 giornalisti che hanno scritto i testi per la Via Crucis del papa al Colosseo. Ha ideato e curato la mostra Lo spazio della Sapienza - Santa Sofia a Istanbul e ha realizzato la serie di documentari A spasso nel mistero, dedicata a sei storie di fede cristiana. Nel 2012 ha lasciato Mediaset. È sposata e ha cinque figli.
€ 14,50
STORIE VERE
Progetto grafico: studio pym Foto copertina: © Raghu Rai/Magnum Photos
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Marina Ricci
GOVINDO Il dono di Madre Teresa
Presentazione di padre Brian Kolodiejchuk Premessa di Enrico Mentana
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Š EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2016 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) ISBN 978-88-215-9866-1
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PRESENTAZIONE di padre Brian Kolodiejchuk
Quella di Govindo è una storia veramente commovente, la cui straordinarietà si nasconde sotto un velo di azioni ordinarie compiute da gente comune. Questo è veramente uno degli aspetti stupefacenti di questo libro. La Provvidenza ha fatto sì che io abbia conosciuto personalmente i principali attori in questione: Marina, Madre Teresa, le suore coinvolte nella vicenda e perfino Govindo, che ho incontrato molti anni fa in casa della famiglia Ricci. A eccezione di Madre Teresa, tutte le altre persone potrebbero essere considerate comuni, ma spesso Dio agisce in modi straordinari attraverso persone ed eventi ordinari. Così è accaduto nella storia raccontata in queste pagine. Non è difficile riconoscere la mano di Dio in quegli avvenimenti apparentemente insignificanti, che Marina chiama “coincidenze”, attraverso i quali Dio realizza il suo piano nelle vite di Govindo e della famiglia Ricci. Questo non stupisce coloro che conoscono o, meglio ancora, coloro che hanno sperimentato in modo diretto la vita e l’opera di Madre Teresa e delle sue suore. Ogni giorno, ovunque nel mondo, si può percepire la mano provvidenziale di Dio presente in eventi diversi, a volte in modo chiaro ed evidente, altre 5
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volte in modo più occulto e riconosciuto soltanto dopo il chiarificarsi della realtà. Marina ritorna su questa riflessione in diversi momenti della sua storia. La Provvidenza Divina è sempre all’opera, anche in momenti in cui sembrerebbe essere assente. Durante tutto il racconto, verrà più volte confermata la verità contenuta nella Lettera ai Romani, 8:28: «Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio». Nonostante i diversi accenni alla fede, alla speranza e alla carità chiaramente evidenti nei protagonisti del libro, il dramma umano non scompare e nemmeno si attenua. Questa verità è evidente anche in Marina. Durante tutto il racconto, lei è estremamente aperta e sincera nel narrarci non soltanto i suoi viaggi, ma anche il suo cammino spirituale. La storia non cade per nulla nel sentimentalismo. Marina, nel raccontarci di Govindo e del proprio atteggiamento nei suoi confronti, ci rivela le sue diverse reazioni, sia quelle positive che quelle negative. Questo ci fa rivivere la storia in prima persona e fa sì che la sua esperienza possa echeggiare in noi. È la dimostrazione di quanto molti scrittori di spiritualità ci hanno insegnato (l’esempio più recente, Henri Nouwen), che ciò che è estremamente personale è anche estremamente universale. In circostanze e in misure diverse, tutti noi abbiamo vissuto qualcosa di simile a quello che Marina e i Ricci hanno vissuto, e attraverso la nostra esperienza possiamo in qualche modo comprendere la loro. Santa Teresa di Calcutta occupa un posto centrale in questa storia. La malattia di Madre Teresa è stata l’occasione della prima visita di Marina a Calcutta e i suoi funerali, un anno dopo, l’occasione della seconda. Sono stati questi viaggi a ispirare la storia straordinaria che ora avete nelle vostre mani. L’incontro di Marina con sister Frederick 6
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nella Casa Madre e successivamente la visita alla casa dei bambini, Shishu Bhavan, sono stati gli strumenti usati da Dio per avvicinare Govindo alla famiglia Ricci e per rendere possibile tutto ciò che è accaduto negli anni successivi. I rapporti e l’influenza delle suore sono continuati a Roma, come avrete occasione di leggere. Cosa ancora più importante, nel racconto sono riportati alcuni insegnamenti essenziali che Madre Teresa soleva impartire ai suoi discepoli, religiosi e laici. Per esempio, Madre Teresa ripeteva spesso che quando offriamo il nostro servizio e il nostro amore ai bisognosi, concentrando su di loro la nostra attenzione, riceviamo più di quanto diamo. Un’altra verità importante insegnata da Madre Teresa – «che anche noi siamo poveri» – è stata formulata perfettamente da Jean Vanier, il fondatore canadese della comunità L’Arche, che vive e lavora insieme a uomini e donne con handicap mentali: «Quando viviamo giorno dopo giorno accanto a persone severamente handicappate, i nostri limiti e le nostre tenebre diventano evidenti. Ma questa esperienza mi ha aiutato a capire che non possiamo crescere nell’amore e nella compassione se non ammettiamo, in tutta sincerità, chi veramente siamo e se non accettiamo la nostra povertà totale. Il povero non è soltanto negli altri, ma è anche dentro di noi. Questa verità è alla base di ogni crescita umana e spirituale ed è il fondamento della nostra vita cristiana. “Beati i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli” (Matteo 5,3). Il povero, che rivela a noi stessi la nostra povertà, diventa, in questo modo, un sacramento». Nelle pagine che seguono scoprirete quanto vera sia questa asserzione. Madre Teresa interpretò a fondo il tempo in cui viviamo. 7
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Era consapevole che la più grande povertà nel mondo di oggi è quella di essere non amati, non voluti, negletti. La famiglia Ricci, come la stessa Marina riferisce, ha voluto fare proprio questo: comunicare a Govindo che era amato, voluto e curato fino all’eroismo. Come ha detto Tommaso, il marito di Marina, «Quella di Govindo è stata una storia avventurosa, drammatica, bellissima e misteriosa». Questa è la storia che state per leggere. Vi commuoverà, vi ispirerà e magari vi farà anche sentire in colpa e vi sfiderà. Sì, molto probabilmente noi non saremo mai chiamati a fare qualcosa che possa essere considerato così straordinario, ma come Madre Teresa ripetutamente esortava i suoi ascoltatori, tutti noi possiamo fare «cose piccole, ma con un amore grande» e «cose ordinarie con un amore straordinario». Prendete questo libro e leggetelo, lasciatevi commuovere e ispirare, e infine, trasformate come diceva Madre Teresa «il vostro amore in un’azione concreta».
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PREMESSA di Enrico Mentana
Quella che leggerete in questo libro è una storia d’amore, vera e pura. Come tutte le storie d’amore è popolata attorno alla sua essenza di figure grandi e belle, ma anche di comparse apparentemente casuali che favoriscono o condizionano gli eventi. Tra queste ultime ci sono anch’io. Vi rubo solo poche righe. Marina era la vaticanista del giornale che allora dirigevo, il TG5. Quando ebbi la fortuna di farlo nascere, nel 1992, la chiamai perché mi era molto piaciuta quando avevamo lavorato insieme, quattro anni prima, in un’inchiesta sullo scisma di monsignor Lefebvre: per dirla tutta mi aveva letteralmente portato per mano su sentieri che per me erano parecchio oscuri. Con Marina il rapporto era franco e diretto: sapeva quel che volevo, sapevo quel che riusciva a fare, reggendo in pratica da sola il settore dell’informazione religiosa, soprattutto nella rappresentazione di una figura letteralmente epocale come fu papa Giovanni Paolo II. E la scintilla, in quel giorno del 1996, venne proprio da lui, e da un articolo memorabile che avevo letto dieci anni prima, sul Corriere della Sera, e che sempre avevo tenuto in mente. Era il 4 febbraio 1986. C’era una grande fotografia di Wojtyla incoronato con un enorme copricapo indiano, nel bel mezzo 9
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di un festeggiamento vicino a New Delhi, un’immagine che faceva a pugni con il titolo dell’articolo “Il Papa tra i moribondi di Calcutta”, dell’inviato del giornale, Luigi Accattoli. Spiazzante fin dall’attacco: «A furia di girare il mondo, papa Wojtyla è arrivato ieri in un posto in cui non ha potuto fare un discorso, né compiere gesti di grande significato. Un posto dove non ha potuto fare nulla: il dormitorio dei moribondi di Madre Teresa. In quel posto il Pontefice romano è entrato silenzioso e con le mani in mano: come ogni prete entra da ogni moribondo». E più avanti: «All’ingresso c’era una lavagna, con disegnati due fiori e questa scritta: 3 febbraio. Entrati due. Usciti zero. Morti quattro. Noi facciamo questo per Gesù. Il Papa non si muoveva da quella lavagna. Madre Teresa, donna pratica, l’ha preso per mano e l’ha portato dentro». E ancora: «In fondo al mondo c’è Calcutta. E in fondo a Calcutta c’è il dormitorio di Madre Teresa». Accattoli la descriveva citando, pensate, Pier Paolo Pasolini che l’aveva conosciuta venticinque anni prima: «Suor Teresa è una donna anziana, bruna di pelle, asciutta, con due mascelle quasi virili e l’occhio dolce, che dove guarda vede e ha nei tratti impressa la bontà vera. E devo dire che mai lo spirito di Cristo mi è parso così vivido e dolce. Un trapianto perfettamente riuscito». Dieci anni dopo quella visita del papa, ci giungeva la notizia che Madre Teresa stava per morire. Pensavo che sarebbe stato giusto raccontare finché era ancora possibile quella donna e quel luogo che aveva reso muto perfino Karol Wojtyla. E non poteva che farlo Marina. Anche lei, come quel papa, stava per esser presa per mano da una figura molto più piccola di lei, il dono d’amore che si chiamava Govindo.
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A Tommaso, Maria, Angela, Cristina, Luigi Usque dum vivam et ultra
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Amo mio figlio. Piccolo e scuro. Ferito nella carne e nell’anima. Amo il suo sorriso e i suoi occhioni neri. Amo i piccoli gesti che annullano la distanza fra noi. Amo il suo corpicino rilassato fra le mie braccia e la sua manina che mi cerca. Amo quest’amore che cresce dentro e invade tutto, che gonfia il cuore e disegna i piccoli tratti di un viso, il contorno di una bocca, la curva di una guancia.
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Non avevo voglia di andare a Calcutta. Ogni volta che ci penso lo ricordo bene. È sempre stato così. Quando mi dicevano di partire e poi mi guardavano trionfanti con l’aria di dire: “Be’, sei contenta, vero?”, mi veniva dentro sempre lo stesso impasto: un po’ rabbia e un po’ preoccupazione. All’inizio non ero mai contenta, casomai durante o dopo. Del resto so di essere stata una giornalista anomala. Più casalinga che inviato e perciò angosciata dai mille problemi della casa e dei figli che se la dovevano cavare da soli; dal pensiero di mio marito – giornalista anche lui – che lasciavo puntualmente nei guai. Sotto sotto arde la fiamma. Ancora adesso che sono in pensione. Questo lo so. A chi non piacerebbe fare questo mestiere? Partire e tornare e poi ripartire ancora. Conoscere luoghi e persone sempre nuovi. Esserci, invece che leggere il giornale o guardare la televisione. Ma in prima battuta la passione non usciva mai allo scoperto, sommersa dai sensi di colpa per l’ennesimo abbandono del tetto coniugale e l’ennesima abdicazione a un ruolo di madre presente e non solo mera “voce” che arrivava da una redazione o dall’altro capo del mondo attraverso il telefono. 13
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Basta: dovevo partire e pure subito. Sento ancora la voce del direttore, la fiamma del mestiere in persona, quello che mangia pane e televisione e se provi a dire che c’è qualche problema ti assale dicendo che ti lamenti sempre. «Ti va di andare a Calcutta?». E la mia risposta, conoscendolo: «Quando? Adesso?». Già mi vedevo di corsa verso l’aeroporto (non sarebbe stata la prima né l’ultima volta). E invece lui: «No, domattina». Qualche ora di respiro per tentare di organizzare marito e figli. E per farmi venire un po’ di paura. Quando vado all’estero da sola ci sono sempre due cose che mi terrorizzano: l’inglese, che non so e parlo sfacciatamente solo outside, mossa dall’istinto di sopravvivenza; e gli aeroporti, nei quali sono sempre convinta di perdermi o di non arrivare in tempo a prendere la coincidenza. Sono partita per Calcutta alla fine di novembre del 1996, buttando in valigia, oltre agli indumenti, solo un libro su Madre Teresa. Affetta da tempo da problemi cardiaci, l’anziana fondatrice dell’ordine delle Missionarie della Carità era stata ricoverata al Birla Hospital della città indiana e si temeva per la sua vita. Era questo il motivo del mio viaggio. Non ero mai stata in India e al mio attivo avevo solo la lettura della Città della gioia di Dominique Lapierre e qualche libro sull’esperienza della “suora dei poveri”. Sono partita come sempre sbuffando e sperando che la famiglia fosse in grado di cavarsela. Volo Thai fino a Bangkok, tanto per cominciare a tuffarmi in un ambiente esotico. Poi sei ore di attesa nel simpatico aeroporto thailandese. Perlustrato e analizzato il free shop nei minimi dettagli e incamerato un odio personale 14
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e immotivato per la Thailandia, tra i fumi del sonno e una forte dose di imprecazioni interiori. Da Bangkok, l’Air India. Hostess in sari e vaschetta di cibo immangiabile come primo assaggio del subcontinente. A volte ci ripenso. Alle Indie affascinanti di Salgari che infatti non c’era mai stato. O ai racconti dei miei coetanei negli anni ruggenti della contestazione studentesca: meditazione e Siddharta. Boh, chissà come gli era venuto in mente. Di tutte le Indie di cui avevo letto o sentito parlare, all’aeroporto di Calcutta non ce n’era neanche una. Per la verità non c’era neanche la troupe, operatore e tecnico del suono, presa in affitto da Roma, che sarebbe dovuta venire a prendermi. All’uscita a venirmi incontro c’era solo un ragazzo di quindici-sedici anni. Affetto da una malattia che sembrava lebbra, con una mano impegnata a manovrare la stampella alla quale si appoggiava e l’altra occupata a far saltare in un bicchiere di latta le poche rupie elemosinate fino a quel momento. Alle sue spalle c’era un branco di ragazzini pronti a circondare come un nugolo di mosche i nuovi arrivati e una fila di taxi antidiluviani, gialli e neri, tutti ammaccati, parcheggiati in uno spiazzo sterrato e polveroso. La scena era desolante e io non sapevo veramente a che santo votarmi. A spingermi sui sedili di pelle rovinati di un taxi è stato un altro ragazzotto. Una specie di procacciatore di clienti che con destrezza mi ha sottratto ai numerosi pretendenti taxisti e che io ho seguito come una mucca condotta al macello. Convinta che quella volta non c’erano più speranze e che mi avrebbero ritrovato dopo qualche giorno, in avanzato stato di decomposizione, dentro qualche fosso indiano. Invece ho attraversato indenne per la prima volta quel gigantesco au15
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toscontro che è il traffico di Calcutta e sono approdata al Taj Bengal, uno dei più lussuosi alberghi della città. Ma ho avuto paura per l’intero viaggio. Innanzitutto di andare a sbattere. A Calcutta, città in cui le frecce che segnalano gli spostamenti dei veicoli sono sconosciute nel loro uso, il traffico è una danza perfida e traballante, una gara dove ci si sfiora in continuazione e la salvezza viaggia in coda a pochi millimetri di distanza tra un’auto e l’altra. Se sei un ignaro e incauto viaggiatore non puoi che morire di paura, schiacciato su un sedile di norma sporco, racchiuso in un abitacolo puzzolente. Se poi a questo aggiungi che non sai dove ti stanno portando, il quadro della disperazione è completo. Almeno quanto basta per capire che l’incontro nella hall dell’albergo con l’operatore indiano che sarebbe dovuto venire a prendermi all’aeroporto e che, arrivando da New Delhi, se ne era andato invece a farsi una bella doccia in hotel, fu dominato dal mio tentativo di porre freno all’istinto omicida nei suoi confronti. Alla fine però ero arrivata e questo contava. Nel lusso del Taj Bengal potevo scordare l’avventura dell’arrivo e prepararmi al domani. Oltre alle informazioni quotidiane sulla salute di Madre Teresa, il direttore voleva dei servizi sull’attività delle Missionarie della Carità. Dalla sua memoria leggendaria aveva ripescato un articolo del 1986 sulla visita di Giovanni Paolo II alla Nirmal Hriday, la casa dei moribondi di Calcutta. Dieci anni dopo, il mio capo ricordava perfettamente testata e autore del resoconto e anche d’aver letto che in quel luogo, dove le suore ricoveravano i disgraziati in fin di vita raccolti nelle strade, perfino il papa era rimasto in silenzio. Insieme ai dati essenziali la memoria del direttore aveva incamerato anche la sua cu16
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riosità umana per il mistero racchiuso nella Nirmal Hriday e adesso, dopo tanti anni, toccava a me soddisfarla. Il problema non appariva però di facile soluzione. Era noto che le Missionarie della Carità non rilasciavano facilmente il permesso di girare immagini nelle loro case. L’unica possibilità era andare l’indomani alla messa delle sei di mattina, celebrata nella casa madre delle suore nella Bose Road e sperare nella fortuna e nella bontà delle sisters. Così mi era stato suggerito di fare e così feci. Alle cinque e mezzo del mattino successivo al mio arrivo, già traballavamo in macchina. Al gruppo – l’operatore di cui non ricordo il nome, il fonico del quale non l’ho mai saputo, l’autista idem – si era aggiunto Shakil, il mio producer locale. Ricordo bene Shakil soprattutto per il suo curioso ruolo di “interprete” e perché l’ho poi rivisto un anno dopo di nuovo a Calcutta per i funerali di Madre Teresa. Io parlavo inglese male e capivo ancora meno. Quando ero in difficoltà (spesso) rivolgevo uno sguardo interrogativo a Shakil che, con molto sussiego, ripeteva esattamente le stesse incomprensibili frasi inglesi, con lo stesso terrificante accento indiano dei miei interlocutori (piuttosto “gracchiante”), ma io – miracolo! – capivo. Probabilmente il sussiego di Shakil aveva come effetto quello di rallentare la pronuncia delle parole, facilitandone, grazie a Dio, la comprensione.
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