Hana la Yazida. L'inferno è sulla Terra di Claudia Ryan - estratto

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CLAUDIA RYAN, scrittrice e giornalista, laureata in Architettura al Politecnico di Milano, insegna storia dell’arte in un liceo linguistico. Tra le sue pubblicazioni si ricordano L’atto del vedere. Grammatica visiva dell’opera d’arte (Zanichelli, 2001), Giro di boa (Edizioni Sì, 2010, ebook 2015) e i romanzi storici Virginia (Leone Editore, 2012), che ha ottenuto numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali, e Il fuoco nelle tenebre (Leone Editore 2014).

C L A U D I A R YA N

Hana, giovane donna yazida, infermiera in un ospedale di Duhok, il 3 agosto 2014 era a Sinjar a visitare la sua famiglia, quando sono arrivati i guerriglieri dell’ISIS. In quell’occasione, come molte altre donne della minoranza yazida, ha perso il fratello, la madre e non sa dove sia finita la sorella, che come lei è stata presa prigioniera e poi venduta come schiava. Dopo vicende assai dolorose Hana riesce a scappare e a salvarsi dal suo aguzzino. La storia narra di lei nel suo attuale presente, mentre vive a Duhok e lavora al campo profughi di Khanke, dovendo nel medesimo tempo fare i conti con le sue ferite interiori dovute alle sevizie subite da parte dei Daesh, gli uomini neri dell’ISIS, che hanno abusato più volte di lei, ma anche con la sua voglia di ritrovare uno spiraglio di normalità e felicità. Il suo raccontare, ricco di dettagli, diventa un affresco della vita e della società nel Kurdistan, permettendo al lettore di entrare nell’anima di un popolo del quale si sente parlare dai giornali e dalle televisioni per gli eventi di guerra di questi nostri martoriati giorni.

L’inferno è sulla Terra

C L A U D I A R YA N

«Sabaya è il termine arabo con cui chiamano le donne catturate dal nemico, che non hanno diritti… schiave. Io, che mi ero emancipata, che avevo studiato, che so parlare curdo, arabo e inglese, che credo nella libertà, nell’uguaglianza, nella pace. Io, Hana, ero stata catturata e non ero più padrona della mia vita»

€ 14,50

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NARR ATORI

Progetto grafico: Cristina Giubaldo / studio pym Immagine: © iStock Photo

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Claudia Ryan

HANA LA YAZIDA L’inferno è sulla Terra

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Pubblicato in accordo con Factotum Agency, Milano

© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2016 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) ISBN 978-88-215-9814-2

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Alle donne yazide e al loro dolore. Al popolo curdo e alla sua forza.

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«Il mio è uno dei popoli sfortunati del mondo. Io sono una donna yazida.» Emise un lungo respiro, poi continuò a parlare. «Mi chiamo Hana, ho 26 anni. Il dott. Farhan ha detto che per star meglio devo raccontare la mia storia, così la elaboro...» La voce divenne quasi un soffio. Hana fissava il tablet da 7 pollici che aveva davanti a sé, appoggiato sul pavimento, e che registrava la sua voce. Lo spense. Seduta a gambe incrociate su un materassino posto lungo la parete, si prese il volto tra le mani e si accovacciò. Lei voleva dimenticare, cancellare in modo definitivo dalla sua mente e dalla sua anima quello che le era successo, ciò che aveva visto. Sentì un nodo allo stomaco, un senso di nausea, che arrivava ogni volta che doveva ricordare. Ma lo psicologo era stato chiaro: per lasciar andare il passato prima lo doveva accettare, così le aveva proposto di registrare la sua storia, con i tempi che voleva lei, quando se la sentiva, e lei aveva accettato. Sapeva che il medico aveva ragione, lei era un’infermiera e capiva che per poter sognare di nuovo un futuro doveva rivivere ancora una volta l’orrore dei suoi ricordi. 7

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La sua casa era lì, intatta, intorno a lei, con le pareti bianche e gli oggetti che le erano cari. Un appartamento di tre locali nel quartiere KRO a Duhok. Nulla era cambiato dall’agosto precedente, nessuno era entrato nei cinque mesi in cui era stata assente, ma tutto le sembrava estraneo, ormai. Aveva perso la sua anima e la doveva ritrovare, allora poi, forse, si sarebbe di nuovo identificata con le sue cose, i suoi libri, i suoi ricordi. In una nicchia nel muro c’era la foto della sua famiglia, tutti sorridenti, ritratti quando nessuno poteva intravvedere la tragedia che li avrebbe investiti. Fuori di casa i 42 gradi di un fine giugno e i bambini che giocavano per strada. «Sono nata a Sinjar, una città nel Nord-Ovest dell’Iraq, ai piedi del monte Sinjar. Lì vivevano yazidi, musulmani e cristiani. Adesso ci sono i Daesh. Sono arrivati il 3 agosto 2014, questo non potrò mai dimenticarlo, perché quel giorno è cambiata la vita di tutti noi.» Un’altra pausa. Hana guardava un punto fisso davanti a lei. Capelli neri, corti fino appena sotto le orecchie, occhi grigi e profondi, un paio di jeans e un’ampia camicia azzurra. Si sentiva pulita e in ordine, era tornata ad essere una persona e non più una schiava. Ora doveva ripulire il lerciume che sentiva dentro di lei. «Mio padre era un uomo buono e onesto, aveva un paio di baffi bianchi, profonde rughe gli solcavano la fronte e i suoi occhi erano sereni. Aveva un negozio e con quello ci ha permesso di vivere bene. Ha fatto studiare me e mio fratello, mia sorella più piccola, Wafa, non voleva continuare gli studi, lei aveva 15 anni e ambiva diventare una moglie felice e fedele...» Qualche lacrima 8

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incominciò a bagnarle il volto e Hana le asciugò con un gesto stizzoso. «Per fortuna mio padre è morto prima di tutto questo... Mia madre era una donna paziente e saggia. Vestiva in modo tradizionale, con un foulard che a volte legava dietro la testa e una lunga gonna morbida che ci accoglieva quando eravamo bambini. Aveva gli occhi chiari, grigi, come me. Per un problema di salute aveva potuto avere solo tre figli, una rarità nella nostra cultura. Era ancora giovane, aveva 48 anni...» Chiuse gli occhi e le lacrime incominciarono a scendere copiose. «Aveva continuato a lavorare al negozio anche dopo la morte di mio padre. Era una donna forte e riusciva sempre a vedere il lato positivo delle cose.» Hana spense per un attimo il registratore, si alzò e andò a guardarsi allo specchio appeso alla parete, vicino all’ingresso. Si sentiva vecchia, negli ultimi dieci mesi della sua vita aveva perso tutta la vitalità e la voglia di sognare che l’avevano sempre contraddistinta. Si accarezzò il volto con una mano, quasi a voler lisciare quella pelle che incominciava a presentare le prime sottilissime e lievi rughe, segni di sofferenza. Poi tornò a registrare. «Mio fratello Jovan aveva 22 anni. Era bello, giovane e forte.» Un sorriso animò il suo volto a quel ricordo. «Amava sempre scherzare ed era un ragazzo dolce, affettuoso con nostra madre e noi sorelle... gli volevo molto bene. Si era diplomato in contabilità e aiutava mia mamma nella gestione del negozio. La nostra era una vita tranquilla. Io avevo trovato lavoro come infermiera qui all’ospedale di Duhok, dove abitualmente vivevo. Tra Duhok e Sinjar ci sono due ore e mezza di strada, 9

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così tornavo a casa qualche giorno quando potevo.» Un’altra pausa. Hana osservava la leggera tenda bianca mossa dalla brezza, in realtà la sua mente era persa in ricordi che sembravano lontani, ma risalivano solo a dieci mesi prima. Una mosca si intromise tra lei e i suoi pensieri. La scacciò. «Il destino gioca d’azzardo... se fossi rimasta a Duhok non avrei vissuto l’inferno, ma la mia religione dice che questa vita è una prova, tu puoi scegliere tra il bene o il male... di sicuro è stata una prova dura. Spero sarò ricompensata come l’angelo Melek Taus venne ricompensato da Dio stesso, perché c’è stato un momento quando avrei potuto uccidere, vendicarmi... ma non l’ho fatto.» Un altro sospiro, un altro silenzio. «Era già buio quando sentimmo i primi spari. Era tardi, mia madre e mia sorella erano già a letto, io leggevo, mio fratello usava il suo smartphone per giocare. Ci guardammo allarmati, sapevamo che i Daesh non erano lontani, ma nessuno credeva che potessero arrivare fino a Sinjar... I colpi di mortaio erano sempre più vicini, e poi spari di fucile, mitragliatrici. Wafa e mia madre ci raggiunsero. “Scappiamo sulla montagna!” disse Jovan. “È troppo buio ora, è pericoloso...” rispose mia madre con il volto pietrificato per la paura. “Io credo sia pericoloso anche stare qui!” ribadì Jovan scalpitante. Alla fine stabilimmo che saremmo scappati alle prime luci dell’alba. Nessuno di noi andò a dormire, gli spari sembravano sempre più vicini. Io e mia mamma preparammo quattro borse con dentro dei vestiti, acqua, una coperta, soldi e i nostri pochi gioielli. Passarono un paio d’ore e Jovan tornò all’attacco: “Madre, dobbiamo anda10

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re! La gente fugge...” In effetti guardammo dalla finestra e molte persone correvano per strada. Si sentì bussare alla porta, era Erzan, l’amico di Jovan. “Venite, dovete venire! I Daesh sono entrati in città, la gente corre sulla montagna. È un grande esodo, già tanti sono scappati, muovetevi!” e se ne andò via di corsa.» Hana aveva gli occhi chiusi. «Fu un momento estremo, è difficile da spiegare. In un istante devi lasciare tutto. Non è un viaggio, non vai temporaneamente a visitare qualcuno, ma scappi. Capisci che pochi minuti possono fare la differenza. Mi guardai in giro, la nostra casa, il luogo dove ero nata, in pochi sguardi la feci mia, con bramosia, la fissai nel mio cuore perché sapevo che non ci sarei più tornata. Poi prendemmo le borse e ci buttammo fuori, nella ressa, con la paura che ci attanagliava, il panico lo potevamo sentire nell’aria. Correvamo, Jovan teneva per mano mia mamma, io tenevo Wafa. Correvamo verso la montagna, nelle vie strette dell’abitato. Ormai non era più buio profondo, le prime luci all’orizzonte facevano vedere meglio dove si stava andando. La città finiva là, in fondo alla via. Poi c’era la piana e poco dopo iniziavano i primi declivi che portavano alla montagna. Lì sarebbe iniziata la parte più faticosa, perché il monte è impervio.» Un sospiro. Il volto di Hana era pallido e tirato. «Ma alla fine della via c’erano i soldati dell’ISIS che ci bloccarono tutti, con i kalashnikov in pugno. Spararono in aria, intimarono di fermarsi. Ci furono urla di terrore, urla di ordini, urla... Ci facemmo stretti, tutti e quattro abbracciati, come se nell’unione potevamo essere più forti.» 11

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«La mia gente è abituata ai genocidi... c’è un ricordo orale che si tramanda: 72 volte tentarono di sterminarci. Ma per chi lo vive sulla sua pelle è diverso, non è una consolazione sapere che è già stato fatto prima, in quel momento sei solo terrorizzato e preghi di salvarti. O di morire, dipende...» La voce divenne quasi un sussurro. Il cellulare suonò interrompendo quell’atmosfera rarefatta, carica di fantasmi, facendo ritornare all’istante Hana al presente. Spense il tablet e rispose al telefono.

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Prima dell’arrivo dell’ISIS Hana lavorava all’Azadi Teaching Hospital, terzo piano, chirurgia. Un complesso bianco e grigio al cui interno si aiutava tanta gente, sempre di più, visto l’aumento spropositato di persone provenienti dalle terre occupate dall’ISIS. Amava il suo lavoro, fare l’infermiera l’aveva affascinata fin da bambina. A 5 anni era stata operata d’appendicite, ricordava ancora di aver chiesto alle signore che si prendevano cura di lei se erano dottoresse, nei loro bei camici bianchi. Loro avevano risposto ridacchiando: «Magari! Siamo solo infermiere.» Ma aveva scoperto che fare quel lavoro richiedeva comunque competenza, attenzione, senso del dovere e tanta pazienza. Dopo il suo ritorno a Duhok aveva chiesto di poter lavorare in un campo profughi, così incominciò il suo servizio in quello di Khanke, 20 chilometri fuori Duhok, mezz’ora di strada da casa sua. Hana rispose al telefono. «Chawani 1, sono Ismail. Sei pronta? Sono sotto casa.» 1

Ciao, in curdo.

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«Arrivo!» Prese la sua borsa e scese dal collega, anche lui infermiere a Khanke. Lavoravano dalle otto alle due del pomeriggio, sei ore intense in un campo di 18.000 persone. Ismail era di strada e ogni giorno le dava un passaggio. «Come va, Ismail? Non ti vedo in gran forma...» «No, infatti. L’ultimo nato ha avuto le coliche stanotte. Ci ha tenuto svegli tutti dalle due alle cinque. Stamattina non mi sarei alzato...» Ismail aveva 35 anni e lui e la moglie avevano già quattro figli. Proveniva da Sinjar, era un IDP, Internally Displaced Person, un curdo yazida che aveva perso tutto ed era stato costretto a spostarsi qui a Duhok. All’arrivo dei Daesh lui, la moglie e i tre figli con la famiglia del fratello erano stati nascosti da una coppia musulmana sunnita in un villaggio vicino a Sinjar. Quattro giorni celati alla vista di chiunque, con l’ansia di essere scoperti che li attanagliava. Poi Ismail e il fratello misero insieme i soldi che avevano con loro: 632 dollari. Li diedero a un uomo che li nascose nel suo furgone e li portò in salvo tutti. Hana sorrise benevolmente. «Per lo meno tu non dormi per un motivo che possiamo considerare bello!» Ismail la guardò serio. «Non riesci a dormire?» «Ogni mattina alle cinque sono sveglia. I ricordi si affastellano, martellano la mente. Al mattino sono lucidi e non riesco a cacciarli. Oggi ho deciso di iniziare a registrare e magari me ne libero.» «Brava, Hana. Devi ricominciare a vivere davvero, sei giovane...» Mentre parlavano la città di Duhok lasciava il posto a leggere colline, che coprivano lo spazio fino all’oriz14

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zonte. L’erba era gialla, bruciata dal sole, ma si poteva ancora intuire la divisione dei campi presenti prima che l’ISIS arrivasse così vicino e molti smettessero di coltivarli. Alcuni girasoli facevano capolino qui e là in un vecchio podere. In fondo, più lontano, il luccichio del grande lago della diga di Mosul. La radio suonava una canzone pop. Qui l’ISIS sembrava così lontana... in città traffico, negozi, la vita di tutti i giorni, la convivenza pacifica tra curdi musulmani, cristiani e yazidi, le amicizie; in campagna il silenzio della natura... eppure quegli esseri senza dio e senza pietà erano solo a 40 km. Hana scacciò quel pensiero, era troppo inquietante. In fondo qui stava bene, si sentiva protetta e poteva aiutare gli altri. «I bambini sono una vera gioia, Hana! Dovresti conoscere un bravo giovane e farti una famiglia tutta tua. Sono sicuro che l’amore di un uomo e il sorriso dei tuoi figli ti farebbero dimenticare in fretta i brutti ricordi!» Hana sorrise al buon Ismail. In effetti il suo era un discorso di buonsenso, ma come spiegargli che l’idea che un uomo la toccasse la faceva impietrire? Stavano entrando nel villaggio di Khanke: a sinistra le case e a destra la grande tendopoli abusiva, cresciuta fuori dal campo organizzato per IDP. Qui non c’erano tende numerate, vie parallele e pulite quotidianamente, pali della luce posti in modo regolare. C’erano casupole costruite con mattoni crudi e pezzi di tenda, spazzatura accumulata negli angoli e qualche servizio igienico collocato dalle associazioni umanitarie. Eppure i bambini sapevano sorridere ugualmente: da una capanna scon15

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quassata fece capolino il visetto di una bimba che donò ad Hana un magnifico sorriso. L’ingresso del campo di Khanke era sempre sorvegliato da una guardia. «Chawani, Ismail, ma che faccia hai stamattina? Che occhiaie...» «Lo so, Nezar, notte insonne per il bimbo piccolo... qui come va?» «I peshmerga hanno portato altre due ragazze.» «Dove sono adesso?» «In direzione. Di sicuro poi le porteranno da voi.» «Ok. Grazie, Nezar buona giornata.» Hana guardò verso la direzione, una costruzione prefabbricata sovrastata da una tettoia a botte che doveva contribuire a mantenere freschi i locali sottostanti. In quel mentre un peshmerga stava uscendo e si guardarono attraverso il finestrino dell’auto. Hana ebbe un brivido che le percorse la schiena. «Ma quello non era il comandante peshmerga...? Non mi ricordo il nome...» «Ayman» disse Hana con un leggero sorriso. «Brava, Ayman! Un tipo proprio in gamba!» “Già, proprio in gamba...” pensò Hana.

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Hana, giovane donna yazida, infermiera in un ospedale di Duhok, il 3 agosto 2014 era a Sinjar a visitare la sua famiglia, quando sono arrivati i guerriglieri dell’ISIS. In quell’occasione, come molte altre donne della minoranza yazida, ha perso il fratello, la madre e non sa dove sia finita la sorella, che come lei è stata presa prigioniera e poi venduta come schiava. Dopo vicende assai dolorose Hana riesce a scappare e a salvarsi dal suo aguzzino. La storia narra di lei nel suo attuale presente, mentre vive a Duhok e lavora al campo profughi di Khanke, dovendo nel medesimo tempo fare i conti con le sue ferite interiori dovute alle sevizie subite da parte dei Daesh, gli uomini neri dell’ISIS, che hanno abusato più volte di lei, ma anche con la sua voglia di ritrovare uno spiraglio di normalità e felicità. Il suo raccontare, ricco di dettagli, diventa un affresco della vita e della società nel Kurdistan, permettendo al lettore di entrare nell’anima di un popolo del quale si sente parlare dai giornali e dalle televisioni per gli eventi di guerra di questi nostri martoriati giorni.

L’inferno è sulla Terra

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«Sabaya è il termine arabo con cui chiamano le donne catturate dal nemico, che non hanno diritti… schiave. Io, che mi ero emancipata, che avevo studiato, che so parlare curdo, arabo e inglese, che credo nella libertà, nell’uguaglianza, nella pace. Io, Hana, ero stata catturata e non ero più padrona della mia vita»

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