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WANDA PÓŁTAWSKA è nata il 2 novembre
DALL’AUTRICE DI
1921 a Lublino. Durante l’occupazione tede-
“DIARIO DI UN’AMICIZIA”
sca fu arrestata dalla Gestapo e rinchiusa nel campo di concentramento di Ravensbrück, dove fu sottoposta a crudeli esperimenti da parte dei medici nazisti. Dopo la sconfitta dei
M
tedeschi poté far ritorno in Polonia, dove sposò Andrzej Półtawski, dal quale ebbe quat-
i sembra di non riuscire a trovare le parole adeguate. Nessuno può
capirlo, se non lo ha vissuto in prima
tro figli. Medico di successo, fu amica di Karol
persona; nessuno, tranne noi.
Wojtyła dagli anni della giovinezza fino a tutto il tempo del pontificato. Di questo straordina-
Moltissime donne hanno conosciuto
rio rapporto di cui testimoniano numerose let-
il campo di concentramento di Ravens-
tere ha scritto nel volume Diario di un’amicizia,
brück, ma in modo diverso da noi, i
San Paolo 2010.
cosiddetti Versuchskaninchen, i «coniglietti».
Wanda Półtawska oggi
E HO PAURA DEI MIEI SOGNI
14:10
WANDA PÓŁTAWSKA
Il volume E ho paura dei miei sogni venne scritto nel 1945, subito dopo il ritorno dal Lager di Ravensbrück. Straordinaria testimonianza di vita nel campo di concen-
E HO PAURA DEI MIEI SOGNI
tramento, dove la giovane Półtawska venne sottoposta a disumani esperimenti medici. L’opera è indispensabile per comprendere Diario di un’amicizia, San Paolo 2010, dove l’autrice racconta della sua amicizia con Giovanni Paolo II. Insieme i due libri narrano la storia di una vita, testimoniano della capacità di resistenza della Polonia, spiegano il senso di un’amicizia più forte della morte e di ogni crudeltà.
W. PÓŁTAWSKA
14-07-2010
95A 109
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I MIEI GIORNI NEL LAGER DI RAVENSBRÜCK In copertina: Foto Michael Wilson/Getty Images
€ 16,00
In quarta di copertina: Foto Mikołaj Gospodarek/Edycja Świętego Pawła, PL
Wanda Półtawska
E HO PAURA DEI MIEI SOGNI I miei giorni nel Lager di Ravensbrück
Titolo originale: I boje sie snów… Traduzione dal polacco di Luigi Crisanti © 1962, Edizioni Czytelnik, Varsavia © 2008, Edizioni dell’Orso, Alessandria
©
EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2010 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino ISBN 978-88-215-6915-9
III
I «CONIGLIETTI»* DI Ravensbrück
Nel luglio del 1942 si diffuse un’atmosfera incredibilmente funesta. Come una tempesta di sogni e di congetture di morte. Il 27 luglio il nostro convoglio fu chiamato nach vorne: prima soltanto le giovani fino ai 25 anni, poi tutte le altre. In seguito furono aggiunte a noi anche alcune donne del convoglio del maggio 1942. Una commissione sconosciuta, composta da un civile e da un militare, osservò con ostinazione le nostre gambe. Dopo qualche ora di attesa e dopo la verifica delle liste, ci permisero di tornare al blocco per il pranzo. Per tutto il pomeriggio la fantasia delle donne lavorò intensamente... Non so se qualcuno sia mai giunto ai confini della fantasia femminile. Ne dubito. Basti dire che al termine della giornata circolava una gran quantità di notizie «di fonte certissima». Secondo una versione, diffusa spensieratamente dalle ottimiste a oltranza, poiché era in corso uno scambio di prigionieri, saremmo partite per la Svizzera con il primo convoglio. Secondo un’altra, e opposta, versione, diffusa dalle «corve» del * Si
rimanda all’omonima voce presente nel Glossario.
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campo, pessimiste incallite, ci attendeva un’esecuzione di massa. Il giorno dopo, il 28 luglio mattina, ci ordinarono di andare al Revier. Quando vi arrivammo, trovammo già altre donne. Io mi ritrovai nell’ultimo gruppetto di cinque persone. Furono chiamate le prime dieci. Ne mancava una. Non presero nessuno dal gruppetto successivo, ma spinsero me dal fondo. Pensai soltanto: «Sono sola, senza Krysia». Nel Revier non accadde nulla di particolare. Ci ordinarono di spogliarci completamente, poi la dottoressa Oberheuser e il dottor Rosenthal ci pesarono, osservarono le nostre mani e le nostre gambe come durante l’ispezione per la scabbia e conclusero la visita. Quando uscii, suonò la sirena del pranzo. Per quel giorno le «visite» si conclusero così e ci lasciarono tornare al blocco. Due giorni dopo venne da noi la Lagerläuferin, la portaordini del campo, con la lista delle dieci donne che erano state visitate. Anna, la nostra capoblocco viennese, innocua e stupida, scrollò le spalle: «Ich weiß nichts! Non so niente!». Disse soltanto che dovevamo andare al Revier. Dal nostro blocco uscimmo in tre. Dietro al vetro della finestra rimasero il faccino pallido di Krysia e la faccia diventata improvvisamente rossa di «Śledź», Stanisława Sledziejowska. Avevo lavorato tutta la notte e nonostante ciò, o forse proprio per questo, vedevo i colori in modo particolarmente nitido; le piante di salvia davanti al Revier mi sembrarono di un rosso chiassoso. Nel Revier ci imbattemmo subito nel dottor Rosenthal: «Was sind das für Leute? Che gente è?», domandò. 86
«Die bestellten! Le prenotate!», rispose Ania. Le altre sette erano già lì. Il dottore ne contò quattro che rimandò indietro al blocco. Rimanemmo in sei e dovemmo attendere in piedi abbastanza a lungo. Guardai le facce delle altre. Erano esclusivamente detenute politiche, arrestate per azioni nella Resistenza: accuse pesanti, azioni partigiane a mano armata. «Ah, – pensai – allora è proprio l’esecuzione». Talvolta, prima dell’esecuzione, facevano simili commedie: prima convocavano le condannate al Revier per una visita e facevano passare ogni esecuzione per un trasferimento: davano persino il pane per il viaggio. Dopo aver scoperto l’imbroglio, le polacche che andavano alla morte gettavano il pane ai piedi delle sentinelle del Lager. Questo pensiero mi diede un certo sollievo, ma al tempo stesso riflettevo: «L’esecuzione? La morte? Che cosa accadrà?». Non sentivo nulla, nulla di importante, nulla di solenne: ne ero persino stupita. «Come è possibile? Neanche di fronte alla morte sono in grado di sentire qualcosa?», provai disprezzo per me stessa e gettai uno sguardo di cordiale simpatia a Marysia Gnaś. Aveva un colorito grigio-verde. Colse il mio sguardo e mi chiese con un sussurro: «Che cosa ci faranno?». Alzai le spalle e dissi con durezza e indifferenza una parola imparata nella prigione di Lublino: «Demolizione». Scorsi negli occhi di quella ragazza grossa e forte una paura così tremenda che mi pentii immediatamente di quella parola. «Non è vero!», aggiunsi quasi gridando. Tornai ad alzare le spalle. 87
«Perché me lo chiedi? So quello che sai tu!». Tacemmo. Ci chiamarono a una porta – allora non conoscevo ancora la disposizione delle sale nel Revier ed entrai per prima: un bagno. Un’autentica vasca con l’acqua calda. Il primo bagno in una vasca dopo un anno e mezzo non era certo da disprezzare. Mi spogliai rapidamente e una giovane tedesca mi portò subito via il vestito; un momento dopo mi portò una camicia pulita e la parte superiore del pigiama. Le chiesi che cosa mi aspettava. Mi guardò spaventata: «È malata? Credo che vogliano operarla». «No, è assurdo. Sono sana come un pesce». Nei suoi occhi vidi uno spavento ancora maggiore. «Vigliacca – pensai – ha paura di dirmi che sto andando all’esecuzione». Schwester Frieda, l’infermiera, mi fece uscire dalla vasca e mi accompagnò, attraverso il corridoio, fino all’ultima camera dove c’erano sei letti bianchi e puliti. Mi venne un brivido. Con una certa soddisfazione per il fatto di provare ancora qualche sentimento, constatai di avere paura di quei letti. Frieda mi ordinò di coricarmi, ma io stavo in piedi e non riuscivo a scegliere il letto. Pensavo che ci avrebbero uccise con un’iniezione invece che con una pallottola. Alla fine mi coricai con determinazione sul primo letto a destra. All’istante, nonostante tutto, mi resi conto che stare in un letto pulito era un piacere inaudito e che ero molto stanca. Mi venne sonno. A una a una entrarono le altre. Si coricarono a partire da sinistra: Wanda Kulczyk, Aniela Okoniewska, Rosalia Gutek, Marysia Gnaś, Maria Zielonka. 88
Ritratti di Wanda Półtawska (a sinistra) e i Krysia Czyż (a destra) eseguiti in Lager da compagne di prigionia.
Parlavano animatamente tra loro, ma in modo abbastanza caotico, io invece avevo un sonno tremendo. Fui destata da un grido. Aprii gli occhi: davanti a Wanda stava una infermiera vestita di nero con una lama lucente in mano. Saltai dal letto, ma l’infermiera con tono rassicurante mi disse che non le avrebbe fatto nulla, voleva solo depilarle le gambe. Tradussi ad alta la voce la frase e udii lo stupore nella mia stessa voce: «Per quale diavolo di motivo depilano le gambe prima dell’esecuzione?». Fummo depilate una dopo l’altra fino all’altezza delle ginocchia. Un momento dopo l’infermiera rientrò con una iniezione: cinque centimetri di un liquido giallo e opaco. Fece un’intramuscolo a tutte. Sapevo che le iniezioni leta89
li erano da un centimetro e che venivano praticate sottocute: perché dunque una dose così forte? Subito dopo l’iniezione fui presa da una sensazione di pesantezza e di inerzia; vedevo e sentivo, ma non potevo muovermi. Stavamo a letto l’una accanto all’altra. Paralisi muscolare? Continuavo a non capire nulla. «Che cosa ci faranno? Che cosa ci faranno?», balbettò confusamente Marysia, mentre vedevo la stessa domanda negli occhi di tutte. Dio, quanto volevo essere certa che ci stessero uccidendo, che ci stessero soltanto uccidendo. Entrò di nuovo l’infermiera. Un’altra iniezione, questa volta sottocutanea. Prima ci avevano paralizzato, e adesso? Fece il suo ingresso nella sala il lettino operatorio e mi ricordai di quello che la piccola tedesca mi aveva detto stando vicino alla vasca: «Un’operazione». Ma quale? Perché? Per quale motivo? Non riuscivo a capire assolutamente nulla. Misero Wanda sul lettino e noi rimanemmo nella stanza mute, in una terribile atmosfera di attesa. Dopo qualche tempo la riportarono indietro, stava in corridoio, sul lettino. Non sapevo nulla, non riuscivo a capire nulla. Mi addormentai... Mi risvegliai nel tardo pomeriggio con il mal di testa. Accanto al letto, su una sedia, c’era una ciotola con il cavolo verde la cui sola vista mi diede la nausea. Entrò l’infermiera con un mucchio di vestiti. Ci ordinò di vestirci immediatamente e: «Haut ab! Levatevi di torno! Al blocco». «Come? Al blocco?». Dovevo avere un’espressione così stupita che mi disse infuriata: 90
«Perché fai quegli occhi? Al blocco!». Provai a camminare, ma non ci riuscii. Le gambe non ubbidivano al comando e vacillavano. Le polacche, che lavoravano al Revier, ci accompagnarono al nostro blocco, dove fummo accolte da gioia subitanea, direi quasi dall’entusiasmo: le ragazze erano certe che fossimo già state fucilate. La «Mina» era parcheggiata davanti al Revier ed esse avevano pensato che vi fossimo salite; inoltre, come sempre dopo le esecuzioni, i nostri vestiti erano tornati alla lavanderia. Alla vista di tanti volti noti e cordiali, mi venne da piangere. Fecero capannello intorno a noi – sia le amiche sia le meno conosciute – e cominciarono a fare domande. Mi sentivo debole, ma le ragazze mi guardavano incredule e mi riempivano di domande: «Veramente non vi hanno fatto nient’altro?». «Tutto a posto?». «Non vi hanno fatto nulla nel sonno?». «Non vi sentite niente di particolare?». «Non vi fa male la testa?». Sentivo la rabbia montare dentro di me; risposi però tranquillamente a una di esse: «Eh sì, mentre dormivo mi hanno tolto qualche rotella e adesso inizio a mordere». «Lo dicevo io, che sarebbero tornate anormali», sentii sussurrare alle mie spalle con tono di trionfo. È vero, ero del tutto anormale. Non avevo solo voglia di mordere, ma anche di prendere a calci e di gridare. Per fortuna ebbi un conato di vomito. Il turno di notte uscì per andare all’appello di lavoro e la capoblocco segnalò che non ero in grado di lavorare. Rimasi a letto. Mi sentivo debole, davanti agli occhi mi ruotavano cerchi verdi e rossi. La sirena dell’appello mi fece saltare dal letto. 91
Stavo in piedi con il sostegno di Nina e di Wojtka. «Come fa buio presto», pensai e Nina mi sussurrò all’orecchio: «Ancora un momento». Subito dopo il passaggio della Aufseherin crollai sulle loro braccia e, per la prima volta in vita mia, svenni. La mattina dopo ricevetti la Bettkarte per tre giorni. Rimasi a letto nel caos di pensieri incontrollati, nel vortice delirante delle supposizioni più fantasiose. Ero certa che non fosse ancora la fine, che qualcosa di terribile pendesse su di me. Mi stringevo forte a Krysia senza poter dire una parola. Poi venne la fase del «tramonto»: mi tranquillizzai del tutto, benché nel profondo tremassi di un’angoscia totale. Che cosa sarebbe accaduto? Mi sembrava di essere morta e rinata in quel momento, di aver vissuto cent’anni in meno di tre giorni. Sabato mattina alle nove – era il 1° agosto 1942 – vennero di nuovo a prenderci per portarci al Revier. Le stesse sei ragazze, gli stessi letti, gli stessi pigiami che avevamo lasciato, la stessa iniezione... Questa volta però Wanda tornò in stato di incoscienza e con la gamba destra ingessata fino al ginocchio; sul gesso, in numero romano, c’era un I. Ci portarono via sul lettino una dopo l’altra, inerti e inermi. Nel corridoio, davanti alla sala operatoria, fummo addormentate dal dottor Schidlausky con un’iniezione endovenosa. Prima di addormentarmi mi balenò un pensiero che non feci in tempo a pronunciare: «Wir sind doch keine Versuchskaninchen! Non siamo cavie!». Pare che durante l’operazione ripetessi questa frase, che fu poi ripetuta da 92
Dziunia e da molte altre. No, non eravamo cavie, eravamo esseri umani! Ma la parola «Kaninchen» ci rimase addosso. Giocavamo con le parole. Per i tedeschi «Kaninchen» sono i conigli; per i polacchi il giro è ancora più vario: «coniglio», «coniglietto», «re». «Kròl» è il coniglio, ma anche il «re». Così ci chiamavamo a vicenda «coniglietti» e «coniglietti» ci definivamo. Così ci chiamava tutto il campo. Alla fine diventammo con orgoglio i «re». Questo nome era così azzeccato che fu adottato da tutti, compresi i medici del campo. Ma questo accadde soltanto alla fine. Se poi qualcuno diceva «die Beinoperierte, le operate alle gambe», non si sapeva ancora bene di chi si trattasse, ma «coniglietti» dissipava ogni dubbio. Mi svegliai nel tardo pomeriggio: il muro del Lager proiettava una lunga ombra che arrivava fino alla finestra della nostra stanza. Mi guardai intorno: Marysia Gnaś era seduta con la sua faccia rotonda e lentigginosa, rossa come il fuoco, Wanda gesticolava animatamente e soltanto Zielonkowa giaceva immobile nel letto accanto al mio, dormiva. Mi era venuta una sete terribile. L’infermiera mi porse una tazza bianca, la presi in mano e mi stupii che una tazza così piccola fosse così tremendamente pesante da non riuscire a tenerla in mano. La lasciai cadere e andò in pezzi. Sul pavimento erano sparsi i cocci bianchi. Cominciavo lentamente a riprendere conoscenza. Pensai alla gamba, la scoprii e vidi sul gesso la scritta III TK. Chiesi ad alta voce: «Ragazze, che cosa avete sul gesso?». Avevano: Wanda il numero I, Aniela il numero I TK, Rózia un II, Gnaś un II TK, Zielonka un III e io III TK. Cosa potevano significare? 93
Per il momento non mi faceva male nulla, ma la gamba era completamente intorpidita e insensibile, la testa terribilmente pesante. Ci portarono la cena, la solita cena del sabato nel Lager: un pezzo di formaggio puzzolente e un pezzetto di margarina da spalmare sul pane. Wanda e Marysia Gnaś mangiarono qualcosa, noi altre non toccammo nulla, del resto un momento dopo Wanda vomitò tutto. Ricordo che mi consegnarono una lettera da casa, intravidi un foglio di carta bianca e mi stupii che una lettera potesse essere così: non vi vedevo scritto nulla! Misi la lettera sotto il cuscino e la lessi soltanto qualche giorno dopo. Volevo dormire. Era l’inizio di una caldissima notte d’agosto, ma proprio in quel momento iniziò il tormento. Le ragazze non stavano più sedute; erano sdraiate nei letti prive di coscienza, ardenti per la febbre, si giravano da tutte le parti, cercavano di sistemare le loro povere gambe, nel tentativo di trovare una posizione che desse sollievo al dolore. Senza risultato: anche il minimo movimento acuiva quel dolore tremendo che sembrava insopportabile. Il sonno ci abbandonò. Wanda iniziò a gridare, Rózia gemeva in silenzio, Zielonkowa faceva sentire di tanto in tanto il suo lamento: «Oh, Gesù!». L’urlo di Wanda penetrava nelle orecchie e arrivava fino al cervello. «C’è da diventar pazzi», pensai e gridai forte: «Stai zitta!». Mi guardò con gli occhi annebbiati, continuando a gridare. «Stai zitta! – ripetei – Stai zitta o ti schiaccio come un insetto!». 94
Apparve un lampo di consapevolezza in quegli occhi lucidi. «Non posso non gridare», rispose con una voce bassa e pacata. «E allora grida». Ma non gridò più, gemeva soltanto a denti stretti. Aniela aveva conficcato i denti nell’angolo del cuscino e di quando in quando emetteva lunghi gemiti; Marysia Gnaś imprecava pesantemente, ma a bassa voce; anch’io avevo voglia di imprecare, gridare, chiedere aiuto. Ero straordinariamente lucida. Ogni tanto l’infermiera si affacciava alla porta osservandoci attentamente, per poi allontanarsi senza dire una parola. Soltanto noi, il primo gruppo, godemmo del privilegio di avere delle infermiere per il turno di notte; quelle che furono operate dopo di noi, rimasero semplicemente chiuse sotto chiave. «Aspetta che moriamo», fu questo pensiero che mi balenò alla vista dell’occhio vigile della donna delle SS. Oltre la finestra c’erano dei muri neri recintati di filo spinato che sembravano digrignare i denti; su quei fili non molto tempo prima era rimasto appeso il cadavere carbonizzato di una zingara che aveva tentato la fuga. «I fili... l’alta tensione!», dissi ad alta voce. Nacque dentro di me un’improvvisa certezza: «Basta toccare il filo una sola volta e avrò pace; non sentirò più questo dolore atroce». Cercai di alzarmi, ma non ce la feci. Ricaddi rumorosamente sul letto. Entrò immediatamente l’infermiera: «Was ist los?». Non risposi e continuai a rimuginare quel pensiero ostinato: «Basta arrivare ai fili... ai fili...». 95