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Michele Tarallo
Storie vere, i cui protagonisti sentono nel cuore e nella carne che la vita può essere grande, nonostante tutto.
Il regalo rotto
«L’insieme di forza, ascolto, amore e coraggio che i Tarallo hanno riversato sull’anima della piccola Chiara ha qualcosa di eccezionale, misterioso e a volte ineffabile».
Michele Tarallo
Michele Tarallo è nato a Caserta nel 1970. È attore, regista, docente teatrale ed educatore. Sposato con Monica, ha due figlie: Marina e Chiara, bambina disabile con paralisi cerebrale. Insieme a sua moglie ha fondato il Comitato Onlus IdeaChiara che svolge attività di beneficenza, formazione e assistenza a favore di famiglie con casi di disabilità. Ha inoltre ideato ChiaraMente, kermesse artistica che raccoglie esibizioni, interviste scientifiche e testimonianze di famiglie disabili.
Alessio Boni
Il regalo rotto
Il racconto, a cuore aperto, delle vicende che investono la famiglia Tarallo (papà Michele, mamma Monica e la primogenita Marina) dall’arrivo della seconda figlia, Chiara: una bambina disabile che poco può e molto chiede. Nata con encefalopatia, Chiara vede poco, non parla, si muove solo di spasmi e mai con autonomia. È a Dio che il papà di Chiara chiede perché. Da Lui non riceve risposte, quanto meno non quelle che un uomo si aspetterebbe. Non c’è un miracolo che possa avvenire: il regalo è rotto, rotto e basta. E allora? Allora resta Chiara. Con i suoi pianti, le sue contorsioni ballerine, le notti che non ti fa dormire e i giorni in cui tutto ti è impedito. Il risultato è che il regalo rotto resta rotto, ma il miracolo lo compie su di te, nelle notti in cui lei non piange. Allora a piangere sei tu e capisci che l’unica cosa che conta è fare quello che puoi fare, farlo con leggerezza e sorridere sempre.
€ 12,90 In copertina: foto di Gaetano Montebuglio
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MICHELE TARALLO
Il regalo rotto Prefazione di
Alessio Boni
Progetto editoriale di Michele Casella
© 2015 Edizioni San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) © 2015 Periodici San Paolo s.r.l. Via Giotto, 36 - 20145 Milano www.famigliacristiana.it Allegato a Famiglia Cristiana di questa settimana Direttore responsabile: Antonio Sciortino Settimanale registrato presso il Tribunale di Alba il 7/9/1949 n. 5 P.I. SPA - S.A.P. - D.L. 353/2003 L. 27/02/04 N. 46 - a.1 c.1 DCB/CN Progetto grafico: Ink Graphics Communication, Milano Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo volume potrà essere pubblicata, riprodotta, archiviata su supporto elettronico, né trasmessa con alcuna forma o alcun mezzo meccanico o elettronico, né fotocopiata o registrata, o in altro modo divulgata, senza il permesso scritto della casa editrice. ISBN 978-88-215-9459-5
Ci sono bambini che non possono parlare, correre o abbracciare chi gli vuole bene. Ma che importa? Ci sono bambini con malattie dai nomi impronunciabili, viaggiano su passeggini speciali e buttano giĂš piĂš medicine che pappe. Ma che importa? Che importa che non possano vedere se tu li puoi vedere, se tu puoi sorridergli quando non riescono a farlo, se tu puoi chiamarli per nome anche se non ti sentono. Tu fallo e a loro importerĂ .
(Tratto dallo spettacolo teatrale Il regalo rotto di A. Callipo)
Prefazione
COME UN GHERIGLIO
È stato Tommy, un tecnico delle luci che ha collaborato con me per cinque anni, a presentarmi Michele Tarallo, attore, regista e ora anche scrittore. L’ho conosciuto proprio mentre stava lavorando a Il regalo rotto. Sono stato immediatamente investito dalla sua energia propositiva, mista a gioia, rabbia, puerilità. Nell’insieme, da una forza indecifrabile. Ora, dopo aver letto il libro, la forza di Michele l’ho compresa di più. E, per quel che mi sarà possibile, proverò a raccontarla. Il regalo rotto narra, a cuore aperto, lo snocciolarsi delle vicende che investono la famiglia Tarallo (papà Michele, l’autore, mamma Monica e la primogenita Marina) dall’arrivo della seconda figlia, Chiara: una bambina disabile che poco può e molto chiede. Nata con encefalopatia, dal quarto mese insorgerà la sindrome di West, poi evolutasi in sindrome di Lennox-Gastault; Chiara vede poco, forse due decimi, non parla, si muove solo di 7
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spasmi e mai con autonomia. In queste pagine, il lettore viene preso per mano e condotto, senza retorica, dalla scoperta dell’anormalità della piccola alla conoscenza puntuale del suo stato di salute, dall’organizzazione necessaria per gestire la quotidianità alla consapevolezza che così è e così sarà. Per sempre. Immaginate, un attimo soltanto, quanto tempo ci mettete la mattina per prepararvi e uscire. Dieci, quindici minuti? Trenta al massimo. I Tarallo ne impiegano centoventi. Ovvero, due ore. Prima di varcare la soglia di casa, devono svegliare Chiara, pulirla, vestirla, somministrarle i medicinali, centrifugare il cibo perché non può masticare, ricambiarla se si sbrodola durante la colazione, farle fare gli esercizi fisici, sistemarla nel suo apposito passeggino. Ripetete questo schema almeno altre tre volte al giorno: pranzo, merenda e cena. Aggiungete eventuali crisi epilettiche che possono verificarsi in ogni istante, anche di notte. Quanta energia richiede tutto ciò? Questo è solo uno dei lati della forza di questa famiglia. Poi ce ne sono altri, ancora più rari e, se possibile, ancora più ammirevoli. La cosa straordinaria del libro, infatti, è che si concentra meno sul poco che Chiara può fare: l’attenzione è tutta su ciò che la piccola chiede, desidera, immagina, comunica. Come comunica? Una bambina non parlante, che vede poco, ma molto strillante, può comunicare? Ebbene sì. Chiara ha un mondo interiore e un modo tutto suo di farlo percepire; i genitori lo scopriranno passo passo, e lo riveleranno a noi. 8
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All’inizio, istintivi e impreparati (come sarebbero impreparati tutti coloro che si trovano a fronteggiare una condizione che non conoscono), i Tarallo cercano di crescere Chiara avvicinandola, il più possibile, al mondo canonico, al mondo dei normali. Sperano, un giorno, di poterle insegnare a dialogare, parlare, gesticolare come facciamo tutti noi. Poi mamma Monica capisce che sua figlia è disabile, punto. Non guarirà. Per interagire con Chiara, quindi, non si deve pretendere che sia lei ad avvicinarsi ai comportamenti dei normali. Al contrario: sta ai genitori tendere mani, orecchie e cuore verso il mondo – per usare una loro espressione – disabilese. A Chiara occorre un ascolto diverso, perché lei parla un linguaggio diverso, che i genitori imparano sintonizzandosi sulle sue frequenze. E, quando ci riescono, si scoperchia di fronte a loro un universo ricco e meraviglioso; solo, codificato con cifre differenti rispetto alle nostre. Ecco il secondo, e più profondo, livello di forza dei Tarallo: sono stati in grado di assimilarsi all’altro anziché assimilare l’altro a sé. Per farlo, hanno capito, vissuto, introiettato la vastità del linguaggio: colmo di miriadi di sfumature, codici, segnali, intese, che a volte si avvertono e percepiscono tramite la pelle, senza sapere esattamente come o perché. Un esempio eclatante, il dialogo dita-mano tra Chiara e l’amica del cuore, Serena: si dicono tutto, senza essersi dette una parola. Cosa tipica dei bambini, peraltro: loro riescono a comunicare con mezzi che vanno al di là (o al di qua, 9
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dipende) del verbo. Non a caso Marina, sorella maggiore ma pur sempre di cinque anni, comprende Chiara con una tale semplicità da sembrare una forma di telepatia. Di solito, poi, arrivano gli adulti, e dai piccoli pretendono una cosa sola: che crescano, in fretta. Che si liberino della bambinitudine. Come Chiara avrebbe dovuto liberarsi della disabilità. Solo che Chiara non poteva, e Michele e Monica l’hanno capito. I bambini, invece, in qualche modo assecondano il desiderio dei genitori: sono sempre loro a tendere verso l’adultità, e quasi mai i grandi a inginocchiarsi ad altezza di bimbo. Un vero peccato: la puerile meraviglia con cui questi esseri, fatti ancora di cuore e pelle, si affacciano al mondo è quanto di più straordinario e puro ci possa essere. In un certo senso, Michele è riuscito a compiere un gesto meravigliosamente puerile: ha tessuto una trama di pensieri che dialogano con noi, con la nostra sensibilità, la nostra riluttanza, la nostra attenzione. E l’ha fatto usando cuore e pelle, più che mente e raziocinio. Io adoro un film di Wim Wenders intitolato Il cielo sopra Berlino. Protagonista, un maestoso Bruno Ganz che si dipana in quanto angelo tra i pensieri della gente. Ci fa così scoprire che il parlato è una cosa, l’immaginato tutt’altro. I pensieri viaggiano, galleggiano in modo diverso, ci fanno volare fino a toccare il favolistico. E anche in vari momenti de Il regalo rotto, l’autore ci traghetta in un mondo fluido di immaginazione: quello di Chiara e del suo pensiero. Un pensiero sognante, perché 10
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i sogni permettono di scavalcare qualsiasi ostacolo, anche l’immobilità fisica. Un pensiero leggero, attraverso cui la piccola racconta, con ironia e autoironia, ciò che vive, sente, prova per i genitori e la sorella e tutto ciò che la circonda. Il suo arrivo ha innescato una rara escalation di eventi che hanno contribuito a cambiare la visione delle cose da parte di tutti i famigliari, e non solo: leggendo Il regalo rotto, anche il mio modo di pensare ha subito un cambiamento. Pagina dopo pagina, non si può fare a meno di domandarsi: che atteggiamento adottiamo quando incontriamo un disabile? Quanto riusciamo a capirli? E quanto invece loro comprendono di noi? Questi interrogativi sono vere sospensioni, sulle quali quasi mai ci soffermiamo nella quotidianità. Ecco perché il dialogo di Chiara con la sua famiglia e con noi lettori può essere veramente importante: una sorta di terapia di gruppo arricchisce tutti, e mostra che, laddove la logica si ferma, l’empatia può andare oltre. Forse è questo l’insegnamento più grande: non c’è bisogno di capire per amare, ma se ami comprendi. Certo, ci vuole coraggio. E infatti Il regalo rotto è un libro soprattutto sul coraggio. Ce ne presenta tre tipi, quattro se includiamo la forza di sopportazione di Chiara. C’è un coraggio che definirei esterno: è quello, tipicamente maschile, dell’uomo pronto a buttarsi nel fuoco, ad affrontare qualsivoglia nemico, pur di proteggere la propria famiglia. È il coraggio di Michele che, alle pre11
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visioni tragiche dei medici circa la possibilità di Chiara di sopravvivere al trauma natale, ribatte: «Dottore, fatela vivere. Come sarà, sarà. Ma fatela vivere». Poi c’è un coraggio interno, più intimo e femminile: è l’ardire della donna che guarda la realtà in faccia; e non solo non scappa, ma ne fa un motivo d’orgoglio. Ecco che Monica, quando capisce che sua figlia non guarirà, dice: «Chiara è di-sa-bi-le, handicappata, diversamente abile, diversa. E io ne vado fiera.» E poi c’è il coraggio, tutto speciale, di Marina che a cinque anni si vede costretta a diventare adulta (ora le attenzioni saranno rivolte alla sorellina ben più bisognosa), ma allo stesso tempo deve rimanere bambina (solo lei può capire la bambinitudine di Chiara e tradurla al mondo dei grandi). L’insieme di forza, ascolto, amore e coraggio che i Tarallo hanno riversato sull’anima della piccola ha qualcosa di eccezionale, misterioso e a volte ineffabile. Io mi sento di spiegarlo così: Michele, Monica e Marina hanno costruito una sorta di gheriglio attorno a Chiara, che la tiene protetta da ciò che le può far male ma che, allo stesso tempo, rimane permeabile a tutte le esperienze che la vita le può donare. Mi piace utilizzare questo termine, perché il gheriglio è la membrana lieve che circonda la polpa della noce. Non è coriaceo e duro come il guscio, non è inespugnabile. Il gheriglio è morbido: ti avvolge come una panacea, ma contemporaneamente, se vuoi, ti lascia libero. Alessio Boni 12
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PROLOGO
Michele Il bollitore è fermo in equilibrio tra i due lavelli, lo riempio piano e solo con acqua imbottigliata, quella del rubinetto ha troppo calcare, potrebbe compromettere l’aroma raffinato: così si dice in giro! Le prassi, il così si fa, rispetto alle regole scritte, alle istruzioni dei manuali, presentano l’enorme vantaggio di provenire direttamente dalla voce del popolo e di non contemplare nessun tipo di mediazione. Così la norma praticata finisce per essere sicuramente più efficace di quella scritta. Dunque, per il mio caffè, solo acqua imbottigliata e delle migliori marche sul mercato. Con estrema delicatezza inserisco il filtro dosatore, causando l’innocuo straripamento dell’acqua. Nel riempire avevo superato la valvola di sicurezza. E anche in questo caso la prassi vince. Riverso nel lavello la parte eccedente posatasi nel filtro lasciando poggiato solo un millimetro d’acqua 15
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sul fondo bucherellato. Perché? Non lo so. Me l’ha insegnato Monica. Monica è mia moglie. Il rito della preparazione di un buon caffè glielo hanno tramandato i suoi genitori. Preparare il caffè, così come spolverare, lavare e in generale ogni incombenza di casa sono tutte cose che Monica riesce a svolgere con una cura estrema che io non ho mai visto in nessun’altra famiglia. Sarebbe molto facile considerare il suo solo un eccesso di zelo, in realtà la meticolosità di cui è capace rende ogni più piccola e banale azione casalinga un capolavoro dell’artigianato domestico. Ecco perché, per quanto mi sforzi di darle una mano, sono condannato a restare una sua pallida e scialba imitazione, al punto che lei stessa, sempre più spesso ormai, declina con ferma cortesia ogni mia proposta di aiuto. Intanto sono arrivato alla fase più importante: riempire il filtro dosatore con la polvere di caffè. Il caffè da noi, come presumo in gran parte delle case, si trova ben custodito nel barattolo trattieni aroma, in pratica una specie di forziere: vetro spesso e guarnizione anti-scasso sotto il tappo lo rendono praticamente inaccessibile. Eppure, appena riesco ad aprirlo, seppur a prezzo di abbondante sudore, un penetrante profumo aromatico si sprigiona nell’aria al punto che ti verrebbe voglia di berlo così com’è, in polvere addirittura. Lì dentro dovrebbe nascondersi il cucchiaino che serve a prendere il caffè. È un cucchiaino speciale: ha il manico lungo, utile a prelevare anche i residui adagiati sul fondo senza che 16
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si debba, poi, disincastrare la mano. Chissà se i nostri vicini hanno qualcosa di simile nella loro cucina? I miei occhi scrutano la polvere nero marrone, ma non vedono il cucchiaino. Non c’è. Ma com’è possibile? Il cucchiaino da caffè non può che stare nel barattolo del caffè. Panico. Dramma. Ho un moto di stizza. Sbuffo. Impreco contro il niente. L’assenza ingiustificata del cucchiaino da caffè dal suo posto mi induce ad abbandonare l’impresa. Spengo la luce della cappa della cucina. Quella dei lampioni della strada attraversa le fessure della persiana abbassata a metà e illumina sufficientemente la stanza. La finestra è spalancata. Il caldo è già insopportabile nonostante le ore notturne. Mi siedo sul divanetto e tra le mani ho un bicchiere con dell’acqua. Ho sete. Sento che la mia voce è asciutta, a tratti addirittura afona. La prima lezione di laboratorio teatrale è stata molto intensa. Mi lascio andare e ripenso a come ho cercato di spiegare agli altri in che modo l’attore riesce a comunicare. In teatro l’attore non comunica solo verbalmente, ma soprattutto con il linguaggio non verbale, il linguaggio corporeo. Attore vuol dire colui che agisce. Per agire bisogna muoversi o anche stare fermi, anche stare fermi può essere un’azione, si punta in entrambi i casi sempre al raggiungimento di un obiettivo. D’altronde nella vita siamo perennemente in azione: mi alzo dal letto per andare in bagno, faccio colazione, apro il frigo perché ho fame, guardo il pavimento perché cerco qualcosa che ho perduto. Voglio 17
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dire, non accade mai di restare fermi, in piedi, con le braccia lungo il corpo, a meno che non ce ne sia un valido motivo. Insomma tutto è azione. Nella vita, però, l’esigenza è veritiera, non ha bisogno di essere cercata, costruita. Nasce senza alcuna premeditazione. In scena invece c’è il bisogno di ricrearla. Per questo ogni attore che si rispetti non può fare a meno di una buona dose di immaginazione. È l’immaginazione l’unico modo per ricreare la vita. Potrebbe sembrare una contraddizione, ma so per esperienza che non lo è affatto. Intanto noto che uno dei cuscini del divanetto della nostra cucina ha mantenuto la forma della testa di Chiara con l’immancabile macchia dovuta alle sue bave. Sorrido a me stesso e il mio volto assonnato si riflette sullo schermo spento del televisore: ho un’espressione stanca ma, ne sono sicuro, anche stupida. Eppure sorrido, sorrido perché mi sento ancora una volta bambino. Non sono più un bambino, questo è piuttosto evidente, ma il teatro, il mio lavoro, mi ricorda che sono proprio i bambini i veri grandi maestri di quest’arte tanto apprezzata quanto poco remunerata. E davanti ai miei occhi sfilano i volti dei bambini con cui quasi ogni giorno ho a che fare, per l’appunto, grazie al teatro. «Michele, sono le tre di notte. Dai, vieni a dormire!» Monica compare d’improvviso, uscita dalla penombra dell’ingresso che conduce alla cucina, quasi si fosse materializzata. Macché materializzata! Ero io che mi trovavo in un altro mondo. Monica entra senza permesso 18
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nei miei pensieri fantastici, ma l’ho già scusata anche senza averglielo detto. Gli occhi semichiusi, la voce soffiata e la dolcezza del tono infondono una nota di calore all’intera cucina. Si siede al mio fianco, le offro il mio bicchiere d’acqua. Ne beve la metà. L’altra metà è mia. «Ancora qualche minuto, devo fare una cosa. Tanto non riesco a prendere sonno, oramai.» Una breve pausa. «Dorme?» Si volta con gli occhi appiccicati per il sonno senza proferire parola. «Già! Domanda inutile. Sei qui, è certo che dorme. Speriamo bene!» Sorride scuotendo leggermente la testa. Con un gesto della mano carezza il dorso della mia, la stessa che regge il bicchiere ora vuoto. Si alza, sistema alla meglio la parte di lenzuolo che ricopre il divano su cui era seduta, guarda la pila di piatti nel lavello, la moka del caffè pronta a metà, sospira e torna a letto. La seguo con lo sguardo finché non svolta nel corridoio. Posso solo immaginare quanto la sua giornata debba essere stata pesante: le stoviglie sporche della cena nel lavello e la moka non ancora pronta sono un segno inequivocabile. È sua abitudine prepararla la sera prima, così appena ci svegliamo dobbiamo solo metterla sul fornello a fiamma molto bassa e lasciare che tutta la casa s’impregni della fragranza arabica. Ma oggi non è andata così, quindi tocca a me caricare la macchinetta. Tendo l’orecchio in 19
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direzione della stanza delle bambine: sì, anche lì tutto è pace. Riempio di nuovo il bicchiere di acqua. Lo alzo al cielo per un brindisi. Ecco che mi ritrovo nel bel mezzo di un ristorante dove tutto, ma proprio tutto, è di colore bianco. Tanti invitati, il vociare di sottofondo è perfino gradevole, mentre una musica riempie l’atmosfera di note celestiali. Deve essere una festa. Nel bel mezzo mi alzo in piedi, tintinno sul calice colmo di spumante e propongo un brindisi. «E adesso a noi due. No, non è un regolamento di conti. Ho usato forse un’espressione troppo da gangster? No, aspetta, mi stai dicendo che ti senti minacciato da me? Ma come è possibile? Tu sei Dio!» Sì, mi rivolgo proprio a Lui, Dio. L’amministratore delegato dei cieli e della terra. Colui a cui innalziamo preghiere e accendiamo candele. «Noi siamo gli imperfetti, quelli che scompigliano il Tuo ordine maniacale.» Questa è un’ora anomala, me ne rendo conto, ma visto che sono costretto a vegliare approfitto del silenzio e Gli parlo. E Lui mi risponde. Altroché. Non ha voce come la mia, come quella di un qualunque altro essere umano intendo, ma utilizza gli oggetti che mi sono intorno. E non solo oggetti. Anche persone. Si affida al loro modo di parlare, di agire e gesticolare. Un linguaggio atipico che ho imparato a comprendere nei lunghi anni passati in parrocchia con gli scout e l’Azione Cattolica, leggendo libri delle vite di santi, beati e uomini cristiani. Non 20
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si può vedere né sentire, e allora lancia segni, segnali e celate espressioni. Se sono solo, Lui mi parla con le cose concrete che osservo. Metti che dopo una domanda o riflessione il mio sguardo cada involontariamente su una foto di mia figlia Marina, allora devo interpretare ciò che sta provando a dirmi, perché nove volte su dieci la risposta è nell’espressione di quel volto. In quell’immagine catturata dalla macchina fotografica. «Noi siamo gli imperfetti, quelli che scompigliano il tuo ordine maniacale.» L’occhio mi cade sulla foto di Mario. Anche lui era bello. La tipica bellezza di chi cresce nel mondo della disabilità. Una lieve forma di autismo lo rendeva speciale. Eternamente bambino in un fisico da adulto. Parlava poco, rideva delle cose più impensabili: un fragoroso starnuto di un passante o la comica posa delle statue dei santi. Rideva perfino di se stesso quando provavo a imitarlo. Sì, Mario era davvero speciale. Ed è per questo motivo che è diventato il nostro angelo custode. Ora però mi sembra che Mario non mi sorrida più da quella foto, anzi ho l’impressione che adesso mi stia addirittura rimproverando. È possibile che Dio ora ce l’abbia con me? Lui che ha sempre ammesso che l’uomo è stata la sua opera migliore. «Guarda sarai anche sublime, ineffabile, ma manchi soprattutto di elasticità. Scusami se te lo dico, non riesci a vedere le cose da un altro punto di vista, non hai il minimo senso pratico, sei troppo lontano dalla realtà, 21
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sei troppo pieno di Te. Come dire sei… sei... troppo Dio, ecco!» Ora il volto di Mario pare voglia dirmi altro. Prendo la foto e lascio scivolare le mie dita sul vetro. Neanche un filo di polvere. Monica ne ha una gran cura. Lo fisso con intensità negli occhi neri e profondi. Il mio viso si specchia e si confonde nel suo. Cerco di capire cosa stesse pensando al momento dello scatto. Mi sembra di sentirne addirittura la voce. Un’ultima carezza con le labbra sul vetro. Lo ripongo sulla mensola dove resta e resterà sempre in bella vista. Di fianco allo stipite della porta c’è invece un calendario. I numeri delle date scorrono veloci, quasi si fossero animati da soli. Inspiegabilmente riaffiora la Sua presenza e con voce di rabbia soffocata, in unico respiro riprendo il discorso. «Il fatto è che tu sei abituato a misurarti con l’eternità. Noi, qui, invece, abbiamo a che fare con gli anni che passano. E a volte il problema non sono nemmeno gli anni, ma i mesi… i giorni… le ore…» Sulla panca a muro sotto il calendario fisso la foto della carta d’identità di Chiara. Aperta con la data di nascita bene in evidenza, è in testa a un cumulo di ricette mediche e carte dell’Asl. Il disordine è evidente. Vorrei riuscire a trovare il tempo per separare quelle necessarie da quelle conservate con l’idea che possano tornare utili, ma chissà se lo saranno realmente. A ben vedere c’è però un ordine preciso. Anche qui c’è lo zampino di Monica. 22
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«…a volte il problema sono gli attimi… gli attimi. Tu hai un concetto tutto tuo del tempo. Tu sei quello dei secoli dei secoli, perché dovresti rinunciare alla stabilità rassicurante del tuo ordine? Il problema è che il tuo ordine visto da qui non è sempre facile da comprendere, voglio dire…» Mi accorgo di muovermi. È un’abitudine che mi viene dalla pratica teatrale. Per fissare le battute e ricordarle devo sempre associarle a dei movimenti nello spazio. In questo modo riesco a mandare a memoria interi copioni, chissà se altri colleghi fanno lo stesso, ma a volte mi scivolano via le cose più banali. Per esempio cos’è che mi ha detto Monica stasera? Ah, sì, bisogna trovare il modo di riparare il cordless. Già, il cordless, proprio questo che abbiamo in cucina. Funziona male, non sempre si sente, ci deve essere un difetto nella comunicazione. «Ma no, ascolta non sto dicendo che hai una difficoltà di comunicazione. Certo, potresti provare ad affidarti a mezzi più semplici, questo sì. Perché, scusa Dio, come fa uno a crederti vedendo un rovo che brucia? È che Mosè doveva essere un tipo intelligente, uno sveglio, insomma. Ma non è così che funziona.» E qui perdo la presa del cordless. Cade a terra, le batterie rotolano sotto il tavolo. Respiro profondamente cercando di calmarmi. In fondo sto discutendo, alle tre del mattino, con la notte e una serie di oggetti che pare vogliano essere la voce di Dio. Ma no, deve essere tutto frutto della mia immaginazione. Con estrema cal23
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ma, continuando a respirare, mi assicuro che il rumore del telefono non abbia svegliato nessuno e lentamente rimetto tutto in ordine. Toh, guarda, sotto una delle batterie c’è l’immagine di san Francesco. «Cosa? Uno dovrebbe crederti perché ci sono i santi? Quelli che parlano per tuo conto? Ma Tu credi veramente che ci si possa fidare di uno che discute con gli uccelli e che si spoglia nudo sulla pubblica piazza del suo paese? Sì, sì proprio lui, questo qui… Francesco d’Assisi.» Raccolgo batterie e santo. Ricolloco le batterie nel cordless e il santo nella Bibbia tascabile, aperta a metà con le pagine del vangelo a faccia in giù sul marmo del piano americano. Stamattina non c’è stato neanche il tempo di chiuderla e sistemarla al suo posto. Ogni mattina, mentre facciamo colazione, preghiamo e lasciamo che qualche frase del vangelo ci accompagni durante la giornata. Un tentativo come tanti per metterla in pratica, la parola di Dio. Ma non ricordo il passo che abbiamo letto questa mattina. Metto gli occhiali per leggere, la mia vista comincia ad assottigliarsi come la memoria, e m’imbatto in una delle parabole di Gesù. «Aspetta, mi stai dicendo che ci hai donato le parabole? Beato chi ci capisce. Il regno dei cieli è simile ad un uomo che aveva seminato buon seme nel suo campo, il regno dei cieli è simile ad un re che volle fare i conti con i suoi servi, è simile a dieci vergini, ad un padrone di casa che sul fare del giorno. Ma lo capisci che noi abbiamo bisogno di certezze, noi dobbiamo sapere che 24
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cosa ci aspetta? Trovare nel regno dei cieli un padrone di casa non è proprio il massimo, è una vita che vivo in affitto! Sarei più tranquillo se potessi sperare nelle dieci vergini. E poi come la mettiamo con tutte quelle interpretazioni rischiose di chi crede di riconoscere la tua parola sempre e comunque?» Passa un’auto a tutta velocità. Il rombo del motore, una brusca frenata e si perde in lontananza. Un brivido di spavento mi scuote e nuovamente mi rendo conto che quella di ascoltare la sua voce non può che essere un’illusione. Forse sono anch’io uno dei tanti interpreti della sua parola. Mi consola il fatto che non andrò a spifferare ai quattro venti questo mio dialogo notturno, anche perché mi darebbero del pazzo. Mi volto verso i fornelli e guardo di nuovo la moka, non ho più voglia di prepararla. Una bici passa sotto casa, cosa vorrà dire questo cigolio? Ripasso con gli occhi tutti gli oggetti che mi hanno parlato con la sua voce. La foto di Mario, il calendario, il cordless, il santo, la Bibbia, li guardo e tra le labbra serrate ne pronuncio il nome. Cerco un nesso, un collegamento. Ma ci sarà mai un collegamento? E poi che senso avrebbe trovarlo? Giro, prendo a saltellare come un bambino da una parte all’altra della cucina, indicando gli oggetti parlanti. Mi lascio andare a una danza spasmodica che non prevede alcuna coreografia, salto sulle sedie, sul divano, cado a terra. Non faccio il minimo rumore e sto attento a non rompere nulla. Mi lancio in un nuovo gioco. Un gioco inventato per divertire 25
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me stesso, per sfogare tensioni nascoste. Che turbinio di domande, risposte, parole e gesti affolla la cucina! Ho come l’impressione di moltiplicare me stesso. Sì, tanti Michele clonati che alla velocità della luce riflettono, urlano, dialogano, sussurrano, dubitano. Sempre più veloce, sempre più veloce, sempre… mi fermo. Ritto in mezzo alla cucina, madido di sudore sparo a raffica. «Un terremoto, l’aids, un aereo che precipita che significano? Dimmi, Dio, veramente migliaia di vittime innocenti sotto le macerie o consumate in un letto di ospedale sono la tua volontà? O il potere dispotico e assassino, i sentimenti ipocriti, la falsa testimonianza, la leucemia, le bombe di Capaci e via D’Amelio, l’assedio di Sarajevo, la striscia di Gaza, la solitudine, i tumori… che significano?» «E Chiara? Lei, che significa? Perché mi hai fatto un regalo rotto?»
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