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€ 12,50
Erica Bassi
Ora sono questa Erica e faccio cose che mai avrei immaginato. Tipo scrivere. O volermi più bene di quanto non abbia fatto in passato.
Progetto grafico e llustrazione: Luca Dentale / studio pym
Un libro che dà speranza La porta gialla
Erica Bassi vive a Colico (Lecco) con il marito Davide e i tre figli Marco, Chiara e Pietro. Questo è il suo primo libro.
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Erica Bassi La porta gialla Prefazione di Costanza Miriano
A Erica viene diagnosticato un tumore: questo l’inizio del libro e di una vicenda che sarebbe come tante, se non si manifestasse sostenuta, quotidianamente, dalla fede. Fede in Dio, innanzitutto, ma anche fiducia nel proprio nucleo familiare, che si stringe attorno alla mamma e moglie e che, con lei, esprime in queste pagine un cammino di speranza e di riflessione. Lungo le pagine che Erica ci consegna, emerge un desiderio profondo e condiviso di continuare a stare nella vita con un sorriso, nonostante la fatica e il dolore, nonostante i momenti difficili. Come in un coro, accanto alla voce dell’autrice di questo piccolo e profondo “diario spirituale”, ecco dunque manifestarsi tutte le domande, i dubbi, le angosce e le speranze di lei e dei componenti della sua famiglia (il marito Davide e i tre figli) che sempre, in questi casi, sono i primi a dover condividere il dramma della malattia. La porta gialla – quell’uscio di fronte al quale Erica accoglie il referto medico – diventa allora l’immagine di una soglia che conduce a una vita mutata dal dolore; e che diventa occasione non per disperare, ma per riscoprire una nuova prospettiva personale, familiare, amicale. E, soprattutto, per meditare in modo consapevole sul senso profondo del credere in famiglia. Un piccolo dono fatto a ogni lettore.
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© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2017 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) ISBN 978-88-922-1000-4
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8 dicembre 2015 Rallegrati... Non temere... Nulla è impossibile a Dio! (Lc 1,26-37)
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Prefazione
di Costanza Miriano
Prima che cominciassi a scrivere libri ero una persona apparentemente normale. Per esempio, la mia rubrica telefonica era fatta di numeri salvati come Chiara, Marina, Giovanni. Nomi normali, insomma. Adesso sono piena di strane voci nella rubrica telefonica, tipo Cristinagenovamammadi5, o SimonaquelladelviaggiodaVicovaro, altrimenti non riuscirei mai a ricordarmi la faccia e la storia (quelle non le dimentico mai) abbinata al nome. Il numero di Erica sul mio telefono è salvato come EricareliquiaMilano. Ormai siamo amiche, davvero, ma questo è stato il primo nome che le ho messo e credo che così rimarrà, sia perché non ho nessuna intenzione di imparare a fare una cosa nuova col mio cellulare (come si cambia il nome salvato???), sia perché mi piace ricordare come è nata la nostra amicizia. Dopo un incontro a Milano in cui avevo parlato 7
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di obbedienza alle circostanze, lei e il marito erano venuti a salutarmi, e lei mi aveva detto che stava combattendo contro un tumore. Tre figli piccoli, e tanto dolore al pensiero di poter essere costretta a lasciarli. Io avevo appena riavuto indietro una reliquia di san Giovanni Paolo II, che dopo un lungo giro era tornata nelle mie mani. Ci tenevo molto, ma forse in quel momento non mi era necessaria come a lei. Così gliel’ho data, prendendo in ostaggio il suo numero di telefono, nel caso avessi avuto un’emergenza, che so, un figlio malato o altre cose terribili a cui non voglio pensare. Piano piano tra noi è nata una vera amicizia, e mentre all’inizio, siccome sono una persona stupida e anche presuntuosa (spesso le due cose vanno insieme), pensavo di essere io quella che le aveva dato qualcosa – le mie riflessioni sull’obbedienza, la mia reliquia – non ci è voluto poi molto per capire che quella che stava dando era lei. Ogni volta che parlo con questa donna imparo qualcosa, e ogni volta lei centra il punto della questione. Sarà che la malattia ti aiuta a vedere più chiaro, a sfrondare rami inutili, a essere essenziale e andare al cuore, magari perché ti abitui a fare i conti con l’idea che forse potresti non avere tutto il tempo che vuoi. Ecco, non so se anche voi potrete diventare ami8
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ci, amiche personali, di questa donna straordinaria, nel senso di telefonarle e ricevere i suoi barattoli di preparato per cioccolata calda. Di certo potrete diventarle amici attraverso queste pagine, che sono una miniera d’oro. Lo definirei, questo, un libro di altissimo artigianato. Perché è un lavoro di artigianato, lungo, minuzioso, paziente, quello che Erica ha dovuto fare su se stessa, per non arrendersi alla paura, alla disperazione, alla fatica, alla solitudine a volte, alle preoccupazioni. Per non maledire la propria croce ma viverla per essere sempre più figlia di Dio. Un libro anche pieno di buonumore – contrariamente a quello che ci si aspetterebbe, grazie soprattutto a quei tre prodigi di bellezza e bontà che ha prodotto in comproprietà con il santo marito (non anticipo niente sulla sua straordinaria figura) – ma soprattutto prezioso per chi si trovasse a vivere una storia simile alla sua. E non parlo solo di tumore, ma di obbedienza in generale, perché a ognuno di noi è chiesto di tenere un posto in una trincea, di essere fedeli a qualcosa che forse non capiamo. Ognuno di noi può imparare a farlo come ha fatto lei: «Un passo alla volta, con gli occhi incollati al Crocifisso. Aggrappata al Dio del presente, senza sosta!».
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Capitolo 1
La porta gialla
Sono seduta di fronte a una porta gialla. Leggo un bel libro, mentre aspetto il mio turno. Un piccolo dolore, poco più che uno scrupolo, mi ha portata a richiedere questo esame. Mi chiamano: entro. Sono tranquilla e sorridente. «Signora, sono due tumori vicini, grandi, maligni; i linfonodi sono già stati intaccati». «Non può essere: ricontrolli, per favore. Ho tre figli piccoli... non è possibile!». Questa è stata la prima cosa che ho detto. Il 13 giugno del 2014 ho scoperto così di avere un tumore; pensavo a un’ecografia, poco più che un controllo... e improvvisamente la mia vita è cambiata. Per sempre.
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Mi chiamo Erica, ho quarantadue anni, sono sposata da dieci con Davide. Abbiamo tre figli, di nove, sette e cinque anni. Fino a quel giorno di fine primavera la nostra era stata una vita come tante altre. Davide e io ci eravamo conosciuti in Alta Valtellina: per lui, quella era la “casa”; per me, torinese, era luogo di lavoro e di quegli impegni che subito avevo cercato di prendermi per non sentirmi sola: catechismo, banda, commissione zonale giovani... E proprio grazie agli impegni con gli oratori, quando ormai stavo pensando che il mio tempo in Valtellina stesse per terminare, ecco che ci eravamo incontrati. Pensavo: “Cosa ci faccio qui, lontana da casa, con occupazioni a tempo determinato, senza radici né progetti di vita che mi trattengano?”. Pochi mesi prima che scadesse quello che supponevo sarebbe stato il mio ultimo incarico, ecco arrivare Davide. “D’accordo – mi dissi – mi fermo giusto per capire dove mi porterà questa amicizia”. Il tempo della verifica è divenuto quello del fidanzamento. Un tempo intenso, ricco e breve («Che il fidanzamento sia corto e casto!» amano consigliare i frati della Porziuncola, ad Assisi, ai giovani che incontrano durante i corsi a loro rivolti). Un anno e mezzo dopo ci siamo sposati. Altri undici mesi ed è nato Marco, il nostro primo figlio. 12
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Il tempo è passato, con le gioie e le fatiche che accomunano tante famiglie. Volendo dare un po’ i numeri: quattro figli (uno tornato al cielo prima di nascere), tre case successive (e perciò due traslochi!), cambi di lavoro per Davide e per me e... zero soldi (tanto per condire il tutto con un po’ di sana fatica, cercando di coniugare bisogni e disponibilità!). Chi, nel tempo, ha avuto voglia di avvicinarsi a noi e conoscerci, sa che ci sono stati tanti momenti in cui abbiamo fatto i salti mortali per andare avanti, non avendo nessun aiuto a disposizione. Abbiamo dovuto inventarci soluzioni un poco spartane e parecchio creative. Due figli da andare a prendere all’asilo e uno con la febbre alta? Tanti non si devono porre nemmeno il problema: telefonata ai nonni, e la vita continua. Per me ha significato spesso caricare in macchina il piccolo malato imbacuccato, e correre a raccattare i dispersi. Il prete ci chiede disponibilità per i corsi fidanzati? D’accordo, ma arriviamo con bambini al seguito (e colla, forbici, colori, fogli...). Così, mentre tentiamo di infilare tre pensieri sulla grazia del sacramento e sulla bellezza del matrimonio, i piccoli eredi possono esibirsi in collage d’alberi di Natale provvisti di palline colorate. Non è forse anche questo un modo per far sperimentare “sul campo” 13
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alle giovani coppie la concretezza dell’accoglienza di quei “figli che Dio vorrà donarvi”? Ti tocca suonare in chiesa, alla novena di Natale, con due figli sotto i tre anni e nessuno che te li possa accudire? Non ci sono problemi: il grande di due anni e mezzo seduto a guardarti e la piccola nel passeggino (se piange, continui a suonare, mentre con il piede spingi il passeggino avanti e indietro: così sei già a posto con la ginnastica!). Stai facendo la spesa all’ipermercato, incinta di otto mesi, con una bambina di due anni nel seggiolino del carrello e uno di tre anni che ti aiuta? Di sicuro troverai un’anima buona che si intenerisce e ti chiede se ti può aiutare a caricare i sacchi di concime prima che tu stramazzi a terra! Con tutto ciò, si riusciva comunque a infilare nel quotidiano della gestione familiare sempre qualcosa di più: l’ospitalità, la cura dell’orto, i lavoretti di Natale, il tempo per un ritiro spirituale, l’organizzazione di una festa diocesana, la scuola di pastorale familiare, la preparazione dei costumi di carnevale... perché quando inizi con fantasia, niente più ti spaventa! Arrivavano, certo, anche quei momenti in cui protestavo pesantemente e non capivo a cosa potesse servire tutta quella fatica. Pregare: “Sia fatta la tua volontà”, certi giorni mi risultava parecchio 14
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indigesto! Eppure finivamo sempre per riconoscere i doni che Dio ci aveva fatto in quei primi, travagliatissimi, anni. Poi i bambini hanno iniziato a crescere e stavamo cominciando a pensare che sarebbe arrivato anche per noi un periodo di maggiore stabilità. Fu proprio allora che giunse la notizia della mia malattia a spiazzarci.
• Ognuno di noi ha qualcosa che lo spaventa oltre misura, in maniera quasi irrazionale; per me, la paura più grande è sempre stata quella di poter essere colpita da un tumore. Mi dicevo: “Ci sono tante malattie nel mondo; non voglio dire che una possa essere più auspicabile di un’altra ma, Signore, ti prego, il tumore no!”. Si sentono così tante storie di malati di tumore: le cure sono pesanti e i risultati non sempre buoni. Quel giorno, in ospedale, da sola (perché “tanto era solo un controllo” e mi sembrava inutile impegnare qualcuno semplicemente per accompagnarmi), mi sentii di colpo impotente. Pensai che non ce l’avrei fatta a uscire da lì con le mie gambe per andare a prendere mio figlio fuori da scuola, né avrei potuto percorrere i quaranta chilometri che 15
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mi separavano da casa; tremavo troppo, non riuscivo a nascondere la paura che si era impossessata di me. Non potevo neppure chiamare mio marito Davide e dirgli, così, al telefono: “Guarda, caro, vieni a prendermi, perché mi hanno appena detto che forse morirò!”: ero quasi certa che gli sarebbe successo qualcosa per strada... Come fare? Raccogliendo tutta la forza (poca!) che avevo, lo chiamai comunque, dalla sala d’attesa (deserta!) e gli chiesi di andare a recuperare il figlio in questione, “perché in ospedale erano in gran ritardo...”. Poi presi l’ascensore, con l’intenzione di fermarmi in cappella. Pensavo: “Starò davanti al Santissimo fino a quando non sentirò un po’ di pace. Lui capirà. Magari mi insegnerà anche le parole giuste per dare a Davide la notizia. Poi tornerò a casa”. Ma ero talmente agitata che sbagliai piano e mi ritrovai nel reparto del dottor G., che mi aveva avuta in passato come paziente e che conoscevo come persona buona e disponibile. Lo incrociai nel corridoio. Mi accolse con un sorriso: «Oh, Bassi, cosa ci fai qui?». «Dottore...» gli dissi mettendogli in mano gli esami appena eseguiti, «è successo qualcosa di così 16
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grande che devo condividerlo con qualcuno, se non voglio spaccarmi in due!». Man mano che leggeva, il dottore cambiò faccia; il sorriso lasciò il posto a un’espressione molto preoccupata. Alla fine mi disse, nell’ordine, tre frasi che mi permisero di non sprofondare del tutto nel panico: «Adesso come stai?», «Vieni di là con me che ti scrivo io le prime impegnative, così poi non ci pensi più», «Ora telefoni a casa, con una scusa qualsiasi dici che arriverai tardi, poi ti metti su quella poltrona nel mio studio e mi aspetti. Fra tre ore finisco il turno e ti porto a casa io». Non sono frasi banali; sono cariche di compassione, di quel “patire-con” di cui sono capaci le persone che hanno fatto un Incontro che ha riempito la loro esistenza. Vedo il tuo dolore. Mi faccio aiuto concreto. Partecipo con la mia vita. Quelle poche parole mi hanno fatto capire che non ero sola, che c’era qualcuno che mi stava prendendo a cuore. Avrebbe potuto dirmi: «Mi dispiace. Mi tenga informato...»; invece si è fatto carico del mio dolore e della mia paura, e da quel primo istante è diventato per me annunciatore della domanda che conoscevo con le parole: «Vuoi guarire? Alzati, prendi la tua 17
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barella e cammina»1. Lui usò un altro linguaggio: «Sarà una guerra durissima. Ma penso che potrete farcela». Per me, il senso fu il medesimo. Mi stava affidando una missione: assumere la guarigione come compito e non solo come elemosina. Ha saputo proteggermi da me stessa con una delicatezza e una capacità che raramente mi è capitato di incontrare. Raccogliendomi da terra, in quel primo istante, egli è stato il mio buon samaritano; in seguito, accompagnandoci passo dopo passo, è diventato il mio angelo custode. Qualche settimana dopo, mi avrebbe detto: «Quale sarà il nostro prossimo passo?». «Dottore, come il nostro?». «Be’, insieme abbiamo cominciato e insieme andremo avanti!». Quante volte, nei mesi che sono seguiti, ho pensato a queste parole, le ho coccolate dentro di me e raccontate ad altri: c’è tanto affetto in esse, comprensione della sofferenza, condivisione... Spesso penso che la fatica più grande delle malattie lunghe sia la solitudine: a me è stata risparmiata, e di questo non posso che essere grata!
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In ogni caso, le ore successive di quel primo giorno furono durissime: tremavo e piangevo, mi sentivo dentro un incubo, come se mi avessero catapultata in una realtà davvero distante dalla mia vita abituale... E i bambini? Come glielo avrei detto? Ero tanto spaventata! Quando giungemmo a casa, il dottor G. si fece carico di un passo delicatissimo: informare Davide, aspettare in un silenzio attentissimo che mio marito assimilasse la notizia, rispondere alle sue e nostre domande. Se ne andò, salutandomi così: «Adesso non ti servo più: sei dove devi essere, con l’unica persona che in questo momento ti deve stare accanto».
• Sono a casa con Marco. Aspetto Erica che, dall’ospedale, mi ha detto di aver avuto un contrattempo. La vedo arrivare in macchina con il suo ginecologo... Strani pensieri: “È incinta? Impossibile! Ha distrutto l’auto nel parcheggio dell’ospedale? Più plausibile”. La vedo salire in casa sorridente. Ma il suo medico non lo è. Marco è già a letto. Ci sediamo in cucina e il dottore vuota il sacco. Rimango impietrito. Per cinque minuti non vola una mosca. Immediatamente il mio pensiero va a Claudia, la mia sorella maggiore, che a trentotto anni ha scoperto di avere un tumore al seno ed è salita in cielo il giorno del suo 19
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quarantesimo compleanno. Erica, i quarant’anni li farà tra un mese. Quarant’anni, un marito e tre figli piccoli. Mi tremano le gambe. Inizio a implorare Dio. E, da buon ingegnere, faccio dentro di me le mie statistiche, autoconsolanti: “Due donne in famiglia morte di tumore a quarant’anni... è MATEMATICAMENTE IMPOSSIBILE!”. Ma, in fondo, alle statistiche non ci ho mai creduto. Né Dio né il destino vivono di statistiche. Afferro la mano di Erica, la guardo e piango. Lei invece sorride, quasi in stato di trance. Il dottor G. saluta e se ne va. Restiamo soli io ed Erica, con questo macigno sulle spalle. Ci abbracciamo. Le parole non escono. Ho la bocca serrata, bloccata. La lingua secca. In questi istanti non contano le parole. Contano di più i gesti, gli sguardi, la presenza. Io ci sono. Io non mi tiro indietro. Bastardo tumore, hai preso mia sorella. Non ti porterai via mia moglie. Questa volta vinco io. Vinciamo noi. Erica e io iniziamo una nuova partita. Dura, intensa, lacerante. Una battaglia che, in un modo o nell’altro, vinceremo: «Dove due o più sono riuniti nel mio Nome, IO sono in mezzo a loro»2.
• Così è cominciata la storia della mia malattia. Una storia che, naturalmente, ha interessato tutta 2
Mt 18,20.
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la famiglia: quella “stretta” (mio marito Davide e i bambini), quella più ampia (genitori, fratelli, cognati...), quella, seppur in modo diverso, composta dagli amici. Proprio a una di loro, due giorni dopo, ho scritto questa lettera: “Cara C., ho appena finito di leggere l’ultimo libro di Costanza Miriano. Una frase mi è rimasta nel cuore: “Gli agnelli che conosco [...] mi hanno fatto vedere come si fa a porgere il collo alla vita quotidiana, [...] alla chiamata specifica, [...] a quelle circostanze [...] IN OGNI CHIAMATA SI PUÒ SCEGLIERE DI ESSERE AGNELLI”. Venerdì è arrivata la mia nuova “chiamata”: un tumore maligno al seno. Sono spaventata, chiedo al Signore di insegnarmi ad abitare la malattia e a diventare “agnello”, docile e ubbidiente. Perché Dio sa quello che fa ed io dovrò solo abbandonarmi a Lui. Voi, agnelli della Compagnia3, pregate con me e con mio marito. Ti abbraccio e ti accompagno come posso con la mia preghiera”. 3 Il termine fa riferimento al libro di Costanza Miriano Obbedire è meglio. Le regole della Compagnia dell’agnello, Sonzogno, Venezia 2014 (nde).
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