Sale, non miele di Luigi Maria Epicoco (estratto)

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In copertina: © Maryline Cavin, by Siae 2017 Le monde se fait clair et inconstant, 2011 Collezione privata BI, ADAGP, Paris / Scala, Firenze Progetto grafico: studio pym

€ 16,00

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SALE, NON MIELE

La Fede non è un po’ di miele in bocca per imbonire l’ingoiare di qualche pillola amara. Delle volte è qualcosa che brucia, come il sale su una ferita. Ma proprio per questo le impedisce di “marcire”. Siamo chiamati ad essere sale, non miele.

LUI GI M A RI A E P I CO C O

LUI GI M A R IA E P ICOCO

Luigi Maria Epicoco (1980). È sacerdote della diocesi di L’Aquila, insegna Filosofia alla Pontificia Università Lateranense e all’ISSR “Fides et ratio” di L’Aquila. Si dedica alla predicazione specie per la formazione dei laici e dei religiosi, tenendo conferenze, ritiri e corsi di esercizi spirituali. Ha al suo attivo diversi volumi e articoli scientifici di carattere filosofico, teologico e spirituale. Tra le sue ultime pubblicazioni: Qualcuno accenda la luce. Conversazioni sull’Enciclica Lumen Fidei (2014); La Misericordia ha un volto. Il giubileo della Misericordia secondo papa Francesco (2015); Solo i malati guariscono (2016); La stella, il Bambino, il viandante (2016), Quello che sei per me (2017).

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140 × 216  SPINE: 22  FLAPS: 85

SALE, NON MIELE

Per una Fede che brucia

«Una cristianità non si nutre di marmellata più di quanto se ne nutra un uomo. Il buon Dio non ha scritto che noi fossimo il miele della terra, ragazzo mio, ma il sale. Ora, il nostro povero mondo rassomiglia al vecchio padre Giobbe, pieno di piaghe e di ulcere, sul suo letame. Il sale, su una pelle a vivo, è una cosa che brucia. Ma le impedisce anche di marcire» (George Bernanos, Il diario di un curato di campagna). Prendendo spunto da questa cruda ma realistica affermazione di Bernanos, don Luigi Maria Epicoco accompagna il lettore in un vero e proprio ripensamento delle potenzialità della vita cristiana, partendo dalla contestazione di una certa visione “buonista” della fede e ricordandoci che la vita del credente non dipende da nessuna legge che non sia quella della Carità di Cristo a noi donata nel Battesimo. Non a caso «i santi sono quelli a cui funziona il Battesimo», è scritto in queste pagine; e le potenzialità che il Battesimo immette in noi sono riassumibili nelle tre virtù teologali – Fede, Speranza e Carità – che sfociano in quella che è la condizione della vita secondo Cristo: un’esistenza gioiosa e libera, perché amata. Il libro di Luigi Maria Epicoco si propone, dunque, di riflettere e ripensare queste “tre virtù” a partire dalla vita stessa, illuminata da alcune storie bibliche, che divengono traccia e provocazione per l’esistenza di ognuno.


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Luigi Maria Epicoco

SALE, NON MIELE Per una Fede che brucia

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Realizzazione editoriale: studio pym / Milano Š EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2017 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) ISBN 978-88-922-1249-7

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A padre Daniele Libanori sj per tutto il “sale� e il tempo donato.

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PREMESSA

Una cristianità non si nutre di marmellata più di quanto se ne nutra un uomo. Il buon Dio non ha scritto che noi fossimo il miele della terra, ragazzo mio, ma il sale. Ora, il nostro povero mondo rassomiglia al vecchio padre Giobbe, pieno di piaghe e di ulcere, sul suo letame. Il sale, su una pelle a vivo, è una cosa che brucia. Ma le impedisce anche di marcire (Georges Bernanos, Diario di un curato di campagna).

Se qualcuno ci domandasse del perché convenga farsi santi, dovremmo rispondere alla maniera di Bernanos: per non marcire. La nostra vita è costantemente sull’orlo di marcire, ma questa non è una considerazione pessimistica. Al contrario, è una visione molto ottimistica. Le cose che rischiano di marcire sono le cose vive, le cose traboccanti di vita. Le cose morte, le cose secche, non rischiano di marcire, perché in loro non c’è più nessuna vita e quindi nessun rischio. Il sangue sgorga da un corpo vivo. Una malattia si sviluppa lì dove c’è vita. Una piaga fa male perché vulnera un corpo vivo. La santità è il tentativo di mantenere la vita viva, di non lasciare che vada a male, di non permettere che l’eccesso di vita diventi principio di fine. Ecco perché 7

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SALE, NON MIELE

è sbagliato pensare che la santità consista solo in un facile buonismo da quattro soldi: piuttosto, essa è una dolcezza a caro prezzo, così come solo il sale sa fare su una piaga. Io stesso ho dovuto attraversare una stagione della vita in cui la santità era mescolata a un immaginario troppo mielesco e poco aderente alla mia piccola vita. Ricordo quando, ancora bambino, raccattato assieme ai miei amici chierichetti, andavamo a vivere alcuni fine settimana a sfondo vocazionale. Quasi sempre la sera vedevamo tutti insieme le diapositive della vita di qualche santo. Il rumore non molto romantico delle immagini che scorrevano era coperto da un’audiocassetta, con musiche e voci recitanti a narrare le vicende del santo di turno. Se il mio discorso sembra voler finire con una acerba critica a questo tipo di esperienza, devo dire che, al contrario, ricordo con molta nostalgia quelle storie, perché nutrivano il mio cuore di un desiderio sempre più crescente di “prendere sul serio” la Fede in Cristo, proprio mentre vivevo immerso in un mondo “abituato” alla Fede, come ci si abitua a un canto popolare o al gesto di rito di una mano alzata quando si saluta un amico per strada. Il problema era però quell’immaginario, non il desiderio che da lì mi cresceva nel cuore. Per diverso tempo ho pensato che la santità fosse quella visione romanzata della realtà, in cui il trionfo dei buoni sentimenti e dei sorrisi nonostante tutto incarnava la vera cifra dei santi. L’eroismo di essere buoni. Ahimè, ho imparato a spese mie che la santità è una questione più scottante. È l’eroismo di restare umani nonostante la vita. E, per restare umani, delle volte bisogna essere forti, non buoni. Scaltri, non ingenui. Decisi, non remissivi. Paradossalmente, la delusione dei colori delle 8

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Premessa

diapositive mi ha avvicinato più potentemente ai santi che intendevano raccontare. Per un misterioso disegno della Provvidenza ho l’occasione di incontrare molte persone, tante comunità, tanti modi di vivere il cristianesimo. Ho avuto la grazia di attraversare i silenzi dei monasteri, ma anche di immergermi nei canti a squarciagola dei grandi raduni. Ho visto tante normalità di parrocchie situate in ogni dove e ho parlato con gente che ha avuto la vita cambiata da eventi inimmaginabili. Che cosa tiene insieme tutte queste persone? Qual è la cosa che mi sono sforzato di condividere con tutti loro? Semplicemente, che qualunque sia il modo attraverso cui ognuno vive la vita e la propria Fede, di fondo c’è quel minimo comune denominatore del Battesimo che ci ha resi figli e che ci ha donato l’interiore certezza di essere amati, di vivere immersi in un campo che ha al suo fondo un destino buono, e di sapere che l’Amore è il presupposto di ogni vita degna di questo nome. Cioè la Fede, la Speranza e la Carità. I tre potenziali ricevuti in dono nel Battesimo, che siamo chiamati a esprimere in qualunque nostra vita. La faccenda è seria, perché dalla buona riuscita della nostra avventura dipende la qualità del resto del mondo: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il mog9

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SALE, NON MIELE

gio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Mt 5,13-16).

Perché vedano, e venga loro voglia di alzare lo sguardo su Qualcun altro. Le parole di cui è fatto il presente libro nascono da questi incontri. Molte parole le ho ascoltate anche io, mentre le pronunciavo come suggerite dagli occhi di chi mi stava di fronte. Sarebbe lungo fare l’elenco di ogni persona, di ogni comunità, di ogni esperienza condivisa di cui queste pagine sono solo una piccola traccia. Sono a tutti personalmente grato. Luigi Maria Epicoco

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PROLOGO (Il minimo sindacale)

Prima di addentrarci nel vivo della nostra riflessione vorrei dire, forse in maniera scontata, alcune cose che reputo decisive per poter comprendere nel modo più corretto le pagine che seguono. Che cos’è la vita spirituale? La vita spirituale non è una tecnica, un insieme di regole, o qualcosa che facciamo noi. Anzi, per essere più precisi, dovremmo dire che noi non c’entriamo quasi nulla con la vita spirituale, perché essa è ciò che lo Spirito Santo fa dentro di noi. Questo è il motivo per il quale, quando uno dice che deve recuperare la vita spirituale, è come se dicesse che deve rendersi consapevole di quello che gli sta accadendo, di come lo Spirito Santo lo sta lavorando interiormente. Il nostro contributo primario è quello di “accorgerci”. Quando uno si prende del tempo per la propria vita spirituale, non deve passarlo a spremersi le meningi per cercare di tirar fuori qualche “genialata” sulla propria vita. In realtà, quello è tempo che si prende per imparare a stare in silenzio e non semplicemente a stare zitti. È tempo di ascolto. Lo stare zitti e lo stare in silenzio sono due cose radicalmente diverse: uno può star zitto, tacere, ma essere con 11

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la mente e con il cuore altrove rispetto alla realtà che ha davanti. Così come uno può, invece, stare in silenzio perché sta ascoltando pienamente ciò che ha di fronte. Questo capita quando si sta davanti a quello che si ama. Il silenzio è la piena cittadinanza del presente. Solitamente siamo disposti ad ascoltare la persona che ci sta di fronte quando ci è simpatica, quando sappiamo che ci vuole bene, quando intuiamo che ha qualcosa di interessante da dirci. Quindi, ciò che ci dispone al silenzio non è un mero “taci!”, ma il fatto che abbiamo un urgentissimo bisogno personale di metterci in ascolto di qualcosa di diverso dai nostri pensieri ed emozioni. Ma se la vita spirituale è quello che lo Spirito fa dentro di noi, dobbiamo stare attenti a non confondere la vita spirituale con la vita interiore. Quest’ultima non è altro che tutto il nostro apparato emotivo, psicologico, affettivo, razionale, il nostro “mondo dentro”. La vita interiore è la nostra capacità tutta umana di percepire la realtà nella sua profondità e non semplicemente nella sua estensione, nella sua superficialità. La vita interiore così intesa ce l’hanno tutti. Ed è una cosa che dovremo sempre ricordarci e promuovere, perché essa non è legata all’avere o al non avere Fede. La vita interiore è legata al nostro essere o non essere umani. È il minimo sindacale per dirsi umani per davvero. Il cuore del dramma della crisi che stiamo vivendo, a mio avviso, deriva dal fatto che persino le istituzioni educative come la scuola o la cultura in genere, hanno smesso di insegnarci la via della vita interiore. In molti casi sono proprio la letteratura, l’arte, la filosofia, la musica, la storia che ci 12

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PROLOGO

insegnano la via della vita interiore. Quella che noi chiamiamo la “parte umanistica”, però, sembra essere stata soppiantata da altre priorità più funzionali alle logiche di mercato. Questo non essere più avvezzi alla vita interiore ci rende così tremendamente superficiali e, per questo, tremendamente infelici e in molti casi depressi. Un cristiano non può accontentarsi però di avere una semplice vita interiore, accontentarsi di questo minimo sindacale. Deve scavare più a fondo nella propria vita interiore, per trovare invece la vena dell’acqua della vita spirituale che gli scorre dentro e accorgersi, così, di quella vita che non dipende da lui, ma che in lui è presente: la vita dello Spirito. Darsi del tempo, darsi del “silenzio”, significa affinare la nostra capacità di accorgerci dei moti psicologici dentro di noi e saperli distinguere da quelli spirituali. Bisogna anche tener presente che a volte i moti psicologici si travestono da moti spirituali. Questo accade quando Gesù Cristo ce lo inventiamo appositamente per via dei nostri bisogni: questo non è Gesù di Nazareth, non è il Figlio di Dio. È allora che il silenzio, l’attenzione, la vita di preghiera, la Parola soprattutto, sono come un vaglio che ci aiuta a capire cosa è e cosa non è spirituale. L’esempio è banale ma rende in maniera plastica l’idea che vorrei trasmettere: il principio è lo stesso di quando si compra la frutta, la si tocca così da sentire al tatto se è buona o meno. Allo stesso modo la vita spirituale è una scienza pratica, ci insegna il tatto interiore, per farci capire ciò che viene da Dio e ciò che viene invece semplicemente dalla nostra storia. Noi facciamo l’errore di continuare semplicemente a interpretarci e, così, ci ammaliamo di fatalismo («Se provo 13

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questo, allora Dio vuole dirmi questo…», «Se mi è successo questo, allora Dio vuole fare quest’altro…»). A volte ci azzecchiamo, ma è come alzarsi la mattina, sentire l’oroscopo e pensare che abbia ragione. Tutti sappiamo l’inconsistenza di una simile credenza, perché l’oroscopo dice tutto, ma anche il contrario di tutto e, per questo, ci prende sempre. La verità è che, quando vuoi sentirti dire una cosa, la fai confermare dal tuo oroscopo, a volte anche da Dio se è necessario. Quindi bisogna recuperare una libertà da noi stessi, da quello che proviamo, dalla rabbia che sentiamo, dalle ferite che abbiamo; e renderci conto che, se pure Dio non ha bisogno di farci soffrire per dirci qualcosa, certamente sotto quella sofferenza c’è un argomento che va ascoltato, perché Dio riempie sempre di significato gli eventi. Dobbiamo imparare a intendere la vita di preghiera come partecipazione affettiva alla vita di Cristo. Partecipazione affettiva. È una svolta, perché solitamente la partecipazione che abbiamo alla vita di Cristo è informativa. Abbiamo tante informazioni, ma non sempre ci lasciamo coinvolgere al punto da sentirle o da crederle vere. Il nodo serio della Fede è che a noi interessa la vita di Cristo nella sua interezza, nel suo cuore più intimo; e vogliamo esserne coinvolti in maniera molto più profonda che con la semplice ragione, con tutto il resto delle nostre facoltà, come persone nella loro interezza. Non senza la ragione, ma con la ragione più tutto il resto. L’affezione è il coinvolgimento totale della persona. Finché non riusciamo a fare questa svolta, e ci fermiamo solo al puro livello razionale, informativo, quella di Gesù Cristo non è una vita che ci cambia. Dovremmo pensare a ciò che può capitare, ai nostri 14

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PROLOGO

tempi, a un ragazzo che si innamora di una ragazza. Immediatamente ne cerca il nome sui social. Ma si può definire relazione il semplice accontentarsi di leggere tutto quello che c’è nelle informazioni e nel profilo virtuale di questa ragazza? Può dire, lui, di essere innamoratissimo, di sapere molte cose di lei, ma la verità è che la relazione non può essere solo la conoscenza di alcuni dati: deve diventare incontro, scambio, dialogo, appunto relazione. Il nostro cristianesimo, a volte, è così: abbiamo accumulato tantissime informazioni su Cristo, ma non è detto che abbiamo messo in gioco la nostra vita in maniera veramente affettiva. La parola conseguente ad “affettiva” è “effettiva”. Quindi il passaggio dovrebbe essere: da una vita informativa a una vita affettiva. Da una vita affettiva a una vita effettiva, cioè reale. Noi abbiamo bisogno che la Fede sia reale, e non semplicemente interiore. Convertire è meglio che curare Tutte le volte che rimettiamo al centro della nostra vita la nostra “zona spirituale”, in una maniera più decisa e decisiva, lì ha più senso parlare di quella tanto fraintesa parola che è “conversione”. Molto spesso, però, quando si parla di conversione, lo si fa con un’accezione moralistica: “Uno si converte quando non commette più il male”. Non commettere il male può essere una conseguenza della conversione, ma non è la conversione in sé e per sé; perché il male più grave presente nella Bibbia non è peccare, non 15

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