Sazi da morire Malattie dell'abbondanza e necessità della fatica di Claudio Risé - estratto

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PSICHE E SOCIETÀ

La nostra civiltà, ricca ma non felice, è devota al culto del troppo:

SAZI DA MORIRE

CLAUDIO RISÉ, psicoterapeuta e psicoanalista, giornalista, già docente di Scienze sociali alle Università di Trieste-Gorizia, dell’Insubria (Varese) e della Bicocca (Milano), lavora da oltre trent’anni sulla psicologia del maschile e sui problemi derivanti dalla crisi della figura paterna. Su questo tema ha pubblicato, con San Paolo, Il Padre l’assente inaccettabile (2003), tradotto, come altri suoi testi, in molti paesi europei e in Brasile. Tra i suoi ultimi lavori: Il Padre. Libertà, dono (Ares 2013); Felicità è donarsi (San Paolo 2014); Il maschio selvatico/2 (San Paolo 2015); Guarda Tocca Vivi. Ritrovare i sensi per essere felici (San Paolo ebook 2015) e, con M. Paregger, Donne Selvatiche (San Paolo 2015) Il suo sito è: claudio-rise.it. Conduce per Io donna il blog: psiche-lui di Claudio Risé.

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Diretta da Claudio Risé

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troppi soldi, troppo cibo, troppi zuccheri, troppi grassi, troppe droghe… Ma è proprio quando un’intera civiltà sembra destinata alla distruzione, che può scoprire cosa, invece,

Claudio Risé

sia veramente vita.

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a civiltà occidentale di oggi è vittima di una malattia sempre più diffusa: un continuo oscillare dal delirio di onnipotenza e dalla volontà di godimento illimitato a una sostanziale impotenza e depressione. Siamo assillati da un bisogno di essere riempiti di materie adulterate e avvelenanti. Evitiamo la fatica fisica, e ci consegniamo così alla sedentarietà e all’astrazione, senza mai veramente camminare con i piedi per terra. Guardiamo invece alla vita come divertimento, gratificazione, rassicurazione permanente e adoriamo la trinità di inizio millennio: piacere-ricchezza-immagine. Siamo chiusi in un ego ipertrofico e disperato, dove non si vede più realmente l’altro. Ma mentre i media ci tempestano col mito del robot che ti porta la colazione a letto, chi ha più senso vitale torna a farsi il pane. Il valore del limite, l’oscenità dell’eccesso, la profondità educativa della necessità, del riconoscere la realtà, nella sua verità e meraviglia, possono farci innamorare di nuovo della vita, della voglia e dell’urgenza di essere, e non di consumare.

Malattie dell’abbondanza e necessità della fatica Illustrazione di Ale+Ale Progetto grafico di Angelo Zenzalari

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Š EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2016 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) ISBN 978-88-215-9761-9

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Mangeranno, ma non si sazieranno. Libro di Osea, 4,10

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INTRODUZIONE DELL’AUTORE ALLA LETTURA

Cari lettori, in questo libro vi racconto la più diffusa malattia dell’Occidente (quindi, almeno un po’, di tutti noi). Un continuo oscillare dal delirio di onnipotenza e dalla volontà di godimento illimitato a una sostanziale impotenza e depressione. Presenterò alcuni aspetti, fisici psichici e simbolici, che caratterizzano questo disagio: il gusto per l’eccesso e la perdita del senso della misura; la rimozione della funzione della fatica (anche dal punto di vista fisico e intellettuale); l’abitudine e il piacere della dipendenza, in particolare verso gli oggetti e la tecnologia ma anche verso cibo e sostanze; l’arroganza verso l’altro, il diverso che osa guardare al mondo in un altro modo. Soprattutto il riferire costantemente tutto a se stessi, con una scarsissima consapevolezza del mondo attorno e degli altri. Nel primo capitolo presento alcune caratteristiche delle malattie non trasmissibili (NCD), oggi la prima causa di morte nel mondo, particolarmente forte in Europa e America del nord, dove provocano 9 su 10 dei decessi per malattia. Queste malattie si manifestano interamente all’interno della persona (da qui il nome “non 7

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comunicabili”), le interazioni con gli altri sono poco rilevanti e stereotipate, e il loro sviluppo è fortemente condizionato dal nostro stile di vita. Scarso movimento, sedentarietà, tensioni psicologiche, consumo come metro di valutazione di sé, rapporti con gli altri chiusi in forme precostituite, assenza di spontaneità, eccessi di cibo, grassi, zuccheri, sostanze (alcol e droghe comprese), dipendenza sempre più stretta da oggetti e processi tecnologici. Tutte le NCD – dalle ipertensioni al diabete, dai tumori alle depressioni e ai disturbi psichici – presentano questo quadro. Nel secondo capitolo mostro come, già nelle narrazioni dell’inconscio collettivo, alcune di queste sfide si siano da sempre proposte all’uomo durante il suo sviluppo, impegnandolo a riconoscere e rispettare l’altro, la propria creatività personale, l’esistenza di realtà che lo trascendono, al di là del suo ego, e le necessità proposte dalla vita e dalle circostanze. L’insieme di queste prove ha sempre segnato il passaggio dalla condizione infantile (con i suoi tipici tratti onnipotenti) a quella adulta. La cultura della tarda modernità occidentale sembra però avere rimosso questi passaggi formativi, proponendo un modello di relazione da marketing basata sull’uso dell’altro (sia esso oggetto o persona) per il proprio interesse. Contemporaneamente si sono negate necessità e fatica, ineludibili aspetti del limite umano, lasciando intravedere l’imminenza di un “paese di Bengodi” o di Cuccagna, dove ogni desiderio-bisogno sarebbe stato istantaneamente realizzato. Nel terzo capitolo vedo questo fenomeno come legato alle patologie del desiderio dell’uomo moderno, sempre più frequentemente in difficoltà nel valutare la bel8

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lezza del qui ed ora, della semplicità e dell’incontro e catturato nella competizione col divino e con la natura. Nel quarto e quinto capitolo presento come lo sviluppo tecnologico abbia impegnato sempre più l’uomo nella fabbricazione di oggetti e processi con funzioni simili a quelle da lui svolte, e quindi in grado di sostituirlo sempre più spesso. Fino alle sperimentazioni genetiche destinate a fabbricare esseri umani al di fuori della riproduzione naturale. Documento anche, però, come la fantasia di un passaggio ad una situazione postumana venga smentita dagli stessi studi sugli effetti della tecnologia, mostrandone la permanente distanza dall’intelligenza e coscienza umana, e l’indebolimento prodotto dalla tecnologia stessa nelle funzionalità fisiche e psichiche di chi ne diventa dipendente. Questo quadro è fortunatamente registrato anche dalla coscienza e dall’inconscio collettivo, che ormai sempre più spesso denunciano, in modi diversi, il vicolo cieco nel quale sembra essersi cacciato il modello di sviluppo occidentale. Assai diverso, per questi aspetti, da quello di altre parti del mondo (che naturalmente presentano altre e diverse criticità): anche questo è un aspetto sovente dimenticato, in un’anacronistica visione eurocentrica. Con la speranza che anche questo lavoro possa aiutarci a trovare la strada per guarire da questi aspetti patologici delle nostre abbondanze (e persistenti povertà), vi auguro una buona lettura.

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SVILUPPO, RICCHEZZA, MALATTIE

Pina colada e coca cola Non ne posso più! Ivano Fossati, Panama

Diventiamo, sembra, sempre più ricchi. Nel mondo, tra una crisi e l’altra, il reddito medio aumenta. Anche se lentamente (oggi lo si vede meglio di qualche anno fa), e malgrado le diseguaglianze (non solo economiche) aumentino ancora di più. Ancora più velocemente, però, aumentano le malattie che accompagnano le nuove abbondanze e gli usi che ne facciamo. Questi disturbi, ormai molto più diffusi e mortali dell’Aids e di tutte le altre malattie infettive messe insieme, oggi cominciano a preoccupare i diversi Istituti Nazionali di Sanità e l’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS, l’agenzia ONU per la salute). Soprattutto preoccupano, e molto, i più attenti e sofisticati Think tank del mondo occidentale, quelli che hanno nei loro computer tutti i BIG DATA, gli andamenti di tutte le tendenze più significative dei vari campi, e sanno incrociarli per capire cosa sta succedendo. Sono loro che stanno mettendo a tema l’argomento e pubblicando i primi studi importanti sulla questione, pur con 11

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la discrezione richiesta dal carattere esplosivo della materia. Dai dati raccolti risulta infatti che il nostro tipo di crescita e gli “stili di vita” ad esso connessi, cui gradualmente aderiscono parti ampie del pianeta, portino con sé una serie di malattie che si diffondono in forma epidemica, anche se non per contagio diretto, mettendo a rischio l’equilibrio sanitario, psicologico e, in prospettiva, anche economico e sociale del pianeta.

Ricchezza: istruzioni per l’uso L’incremento del reddito e l’abbondanza di oggetti in cui spenderlo, modificando profondamente la vita umana, ha evidentemente aspetti positivi e piacevoli, ma se non viene accompagnato da precise istruzioni per l’uso può distruggere la salute sia fisica sia psichica. Con un paragone oggi ab/usato per tutto (e non a caso proveniente dal magico mondo del superlusso), le nuove abbondanze possono diventare «come mettere una Ferrari nelle mani di un bambino». Prima di poterne davvero godere, senza farsi del male, occorre magari crescere ancora un po’, che ti spieghino bene come si usa, e che ti insegnino soprattutto a stare molto attento agli altri, a se stessi e alla potenza dei suoi meccanismi. Quando ci sono più soldi in tasca e più oggetti a disposizione, insomma, diventa necessaria un’attenta educazione, privata e pubblica, che sviluppi l’attenzione verso cose di cui prima non c’era né la necessità né la possibilità di occuparsi. Innanzitutto cosa comprare, a cominciare dalle cose più elementari, come il cibo, e dalle 12

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loro conseguenze più profonde sulla salute. Il contadino non aveva bisogno di pensarci: le produceva lui. L’occidentale benestante affida il suo corpo a pubblicità, distribuzione e sentito dire. Poi si deve pensare, “scegliere” cosa fare del corpo: stare fermo o muoversi, e come, dove, con chi; quale sessualità avere, se assumere sostanze, e quali. Opzioni relativamente nuove (molte forse inutili e spesso dannose). Possibilità che si schiudono quando, dal più austero mondo della necessità, si entra nel magico mondo dell’abbondanza. È allora che diventano indispensabili precise “istruzioni per l’uso” delle disponibilità che si hanno. Istruzioni che erano poi quelle fornite dall’educazione: contadina, operaia, borghese, ognuna con proprie forti tradizioni e sviluppi, diverse fra loro perché diversi erano gli ambienti, anche fisici, e le disponibilità. Tutte queste forme educative furono poi comunque sbaragliate nel ’900 dall’apparente egualitarismo della società industriale e dal suo sostanziale interesse ad omologare gli individui per controllarli meglio. È così che nacquero i totalitarismi di ieri e di oggi1. Quando però il sistema tecnoeconomico comincia a macinare i suoi profitti, i suoi capitali e i suoi prodotti, e le “istruzioni per l’uso”, le forme educative che insegnino cosa farne mancano, perché così si vende di più, più facilmente, e di tutto, gli individui si ammalano (poi, certo, anche i sistemi più miopi si accorgono che una 1 Sul rapporto tra distruzione delle culture di classe e nascita dei totalitarismi, vedi E. Lederer, Lo Stato delle masse. La minaccia della società senza classi, Bruno Mondadori, Milano 2007; H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009.

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popolazione infiacchita e ammalata costa, ed è poco competitiva, e cominciano a pensarci).

A cosa serve la necessità Le persone si ammalano perché, nell’ansia di soddisfare la pulsione dell’istante, valore dominante nella società occidentale di massa, viene messo da parte il grande, indispensabile regolatore degli istinti, degli appetiti, delle pulsioni dell’uomo. Freud, il fondatore della psicoanalisi, l’ha chiamato (nel secolo scorso): principio di realtà, quello che corregge e modera le spinte irrefrenabili del principio del piacere. Cui l’uomo, senza “istruzioni per l’uso” (educazione), cede volentieri (e vedremo come mai), rischiando di distruggersi. Nella lunga durata però (più significativa delle “definizioni azzeccate” di breve periodo), nei secoli e millenni precedenti al ’900 e alla psicoanalisi, a partire dall’età classica, questo grande regolatore era stato chiamato necessità: necessitas dai latini, anánkē dai greci, e con concetti equivalenti nelle civiltà extraeuropee. Leonardo da Vinci nei suoi scritti scientifici parla della necessità come “misura e maestra” della vita umana. È lei, la dea greca del limite, Ananke, che i frammenti orfici dicono nata dall’unione tra la terra e l’acqua, quella che rischiamo di dimenticare più facilmente con l’aumento del benessere. Quando la necessità viene dimenticata compare il suo contrario: l’esonero, più o meno forte e pronunciato, dalla fatica fisica. Che non viene più vista come un aspetto fisiologico della vita umana, indispensabile per lo sviluppo 14

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della personalità, ma come una tremenda maledizione. Salvo poi a riscoprirne l’insostituibile funzione, ad esempio sotto forma di costosi consumi di fitness, peraltro pressoché indispensabile alla sopravvivenza in vite trascorse dietro alla scrivania (a meno di impegnarsi in almeno altrettanto impegnative e faticose attività sportive). L’emergenza di oggi si chiama dunque NCD (NonCommunicable Disease). Sono chiamate malattie non comunicabili perché appunto non si trasmettono da una persona all’altra. È un tema di cui finora non si è parlato molto, spiegandolo ancora meno, perché tocca enormi interessi (per esempio, quelli delle maggiori multinazionali alimentari, di molte aziende farmaceutiche, ma in realtà di tutto il sistema del consumo). Ma non se ne potrà tacere ancora a lungo.

Le malattie non comunicabili Delle malattie non comunicabili si comincia infatti a parlare, sia pure in ambiti parecchio selezionati. La task force (gruppo di intervento) di uno dei più autorevoli Think tank del mondo, l’americano Council of Foreign Relations, ha scritto in suo recente rapporto: «Sempre più persone si ammaleranno, soffriranno più a lungo, avranno bisogno di maggiore assistenza medica, e moriranno ancora giovani. Date le dimensioni di queste tendenze, le conseguenze sono destinate a vasta eco». La questione è resa ancora più drammatica dall’insorgenza in età sempre più precoce di queste malattie. I 15

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bambini ovunque nel mondo manifestano sempre più spesso le malattie croniche degli adulti2. La sfida è particolarmente forte nei Paesi in via di sviluppo, dove le risorse destinate alle cure sono ancora scarse e dove le “istruzioni per l’uso” delle nuove disponibilità sono particolarmente carenti. Ci si allontana volentieri dalle antiche povertà, ma le pressioni delle multinazionali dei consumi “spazzatura” non aiutano certo a trovare nuovi equilibri. Le grandi correnti di migrazioni internazionali rendono ancora più attuale la questione in ogni Paese, dove l’insieme delle malattie non trasmissibili è comunque la prima causa di morte, con una prevalenza di circa il 70% a livello globale. Le malattie «che non si possono comunicare» (così le chiama l’Organizzazione Mondiale della Sanità delle Nazioni Unite) comprendono i disturbi cardiovascolari, i tumori, il diabete, le malattie polmonari croniche, compresa l’asma, e molte altre. Caratteristiche comuni sono la sedentarietà, la bassa attività del sistema di ricambio, la tendenza alla sclerosi. Tra le malattie croniche non trasmissibili delle società ricche o in via di avanzato sviluppo vanno ricordate le malattie degenerative (Degenerative disorders). Tra essi i morbi di Alzheimer3 e di Parkinson, che colpiscono più di 45 milioni di persone 2

Sulla situazione italiana: M. Sorbi, Il boom dei piccini con i problemi degli adulti. Hanno patologie croniche già in tenera età, dal colesterolo all’ipertensione. In Italia il doppio dei ricoveri rispetto agli Usa, Il Giornale, 2.11.2015. 3 Le ricerche che hanno provato a collegare l’Alzheimer a fattori infettivi non sono fino ad oggi arrivate a provarli. Cfr. A. Abbott, Autopsies Reveal Signs of Alzheimer’s in Growth-Hormone Patients, Nature, 9 september 2015; G. Remuzzi, Corriere della Sera, 10 settembre 2015, p. 31.

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nel mondo, ma il cui numero complessivo è in rapidissima ascesa. A differenza della maggior parte delle malattie infettive, che si manifestano rapidamente (tranne Aids, malattie parassitarie, malaria e tubercolosi), le NCD rimangono croniche per anni o decenni, danneggiando intanto gravemente l’organismo. Esse si impadroniscono della persona poco per volta, a partire dai semplici aspetti della vita quotidiana: ciò che mangia, quanto rimane ferma invece di muoversi, quanta fatica fisica preferisce non fare, quante porcherie inala nei polmoni, e tante altre cose. Come ammettono gli studi che se ne occupano, per queste malattie non ci sono rimedi farmacologici: la battaglia si combatte sul piano della prevenzione e degli stili di vita. Oggi provocano la morte molto più frequentemente di tutte le malattie infettive (anche più gravi e diffuse) messe insieme. Per questi disturbi muoiono oggi nel mondo circa 60 milioni di persone l’anno, il 70% dei decessi per malattia. Ma la loro percentuale sta fortemente aumentando anche tra i più giovani. La questione si configura come una grande sfida per il futuro del pianeta e le sue istituzioni sanitarie. Vaccini, antibiotici o altri farmaci qui non funzionano. Per ridurre lo sviluppo delle NCD, o almeno rallentarne la diffusione, sarebbe necessario cambiare strada. Vale a dire modificare gli stili (e quindi gli obiettivi) di vita che le provocano. Occorre inoltre ridurre il livello di inquinamento complessivo, compreso quello del cibo4. Di 4

The Emerging Global Health Crisis: Noncommunicable Diseases in Low- and Middle-Income Countries, Council on Foreign Relations, dec. 2014.

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questo, però, si è finora preferito non parlare. Perché occorrerebbe modificare l’intero modello di sviluppo fin qui seguito. Mettere in discussione i valori, o l’assenza di valori, che lo hanno fino adesso ispirato.

Lo sviluppo che ammala Che le malattie non trasmissibili abbiano a che fare con il modello di sviluppo attuale, nato in Occidente, ce lo conferma l’osservazione che l’esplosione delle NCD è particolarmente drammatica proprio nei Paesi in via di sviluppo. Si tratta infatti di malattie che si manifestano imperiosamente quando migliorano i livelli di vita, ma non la sua qualità. Come l’osservazione etnologica aveva già visto nell’ultimo secolo coi popoli tradizionali, prima mai entrati in contatto coi Paesi industrializzati: è quando cominciano a commerciare coi Paesi ricchi e ne assorbono i consumi, che le malattie non comunicabili si impennano e diventano rapidamente le prime cause di morte. Popoli con scarsa o nulla circolazione di denaro, che vivono di agricoltura o di pesca, quando ottengono denaro in cambio di lavoro o risorse della terra, cominciano ad esempio a fare grande uso di sale, che prima avevano in scarsissime quantità, e di grassi, ammalandosi in fretta di ipertensione, malattie cardiache e diabete che spesso non conoscevano neppure. Il fumo di tabacco e l’inquinamento delle grandi megalopoli africane, asiatiche o del centro-sud americano (dove le persone si recano per vivere abbandonando le campagne) moltiplicano a tassi altissimi i tumori al polmone e altre forme 18

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di cancro. La maggiore sedentarietà, il cibo industriale di bassa qualità dei fast food e delle grandi catene alimentari fanno il resto. «Quando cominciai a lavorare tra i guineani, nel 1964, mi sorprendevano per la loro forma fisica: tutti asciutti, muscolosi ed estremamente attivi. Mai un obeso, o anche semplicemente grasso. Al pronto soccorso della capitale non risultava nessun caso di coronopatia, e solo quattro di ipertensione» ma in persone non autoctone. Ma pochi anni dopo, con l’occidentalizzazione, si incontrano già guineani obesi o sovrappeso, e «uno dei maggiori tassi di prevalenza mondiale del diabete (ben il 37%) è proprio fra i wanigela, la prima popolazione della Guinea ad avere subito un processo di occidentalizzazione». E nelle zone urbane colpisce l’infarto5. Con le grandi migrazioni internazionali in atto poi, questo stesso processo si riproduce all’interno dei Paesi più industrializzati e nelle loro grandi megalopoli industriali e di raccolta della mano d’opera, dove si riversano i migranti. I servizi sanitari di queste città, già in difficoltà ad affrontare le esigenze delle NCD nella popolazione locale, rischiano di essere del tutto impari di fronte alla sfida. Anche perché non si tratta solo di un’emergenza sanitaria, ma culturale. Come ogni intervento di prevenzione essa soprattutto richiede il mutamento del modello di cultura e di sviluppo, anche spirituale, e coinvolge i valori e i principi che quei modelli ispirano. Il World Economic Forum prevede che lo sviluppo

5 J. Diamond, Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?, Einaudi, Torino 2013.

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epidemico delle NCD produrrà nei prossimi vent’anni, per i soli Paesi in via di sviluppo (oltre alla perdita di vite umane) una perdita economica di oltre 21.3 trilioni di dollari: un costo equivalente al prodotto lordo globale realizzato da tutti questi Paesi assieme nel 20136. Una fetta importante dell’intera ricchezza del mondo.

Patologie psichiatriche e affluenza economica Nell’impennata delle malattie non trasmissibili ha una grande rilevanza anche la maggior presenza dei disturbi psichiatrici, per i quali ogni anno muoiono nel mondo 8 milioni di persone, ma molte di più si trovano in condizioni di grande sofferenza. Oggi, una persona su due ha nel corso della vita un episodio psichiatrico. Negli USA, ancora oggi il pesce pilota delle tendenze del mondo occidentale in ogni campo, malattie comprese, nel 2014 uno ogni 5 adulti ha avuto un episodio psichiatrico già nell’anno precedente (2013)7. Sempre negli USA, le persone psichicamente sofferenti assistite dalle assicurazioni governative per disabilità psichica sono aumentate due volte e mezza in vent’anni, e la percentuale continua a crescere8. Eppure anche il reddito 6 The Emerging Global Health Crisis: Noncommunicable Diseases in Low- and Middle-Income Countries, cit. 7 Nearly One in Five Adult Americans Experienced Mental Illness in 2013. Press release, U.S. government’s Substance Abuse and Mental Health Services Administration (SAMHSA), 20 november 2014. 8 M. Angell, The Epidemic of Mental Illness: Why?, The New York Review of Books, 23 june 2011.

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