A un passo da noi di Azzurra Sichera

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ROMANCE


AZZURRA SICHERA

A un passo da noi


Immagine di copertina: martinwimmer / E+ / Getty Images A un passo da noi © 2022 Azzurra Sichera Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. Harmony è un marchio registrato di proprietà HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved. © 2022 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione Harmony Romance giugno 2022 HARMONY ROMANCE ISSN 1970 - 9943 Periodico mensile n. 292 del 10/06/2022 Direttore responsabile: Sabrina Annoni Registrazione Tribunale di Milano n. 72 dello 06/02/2007 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distribuzione canale Edicole Italia: m-dis Distribuzione Media S.p.A. Via Carlo Cazzaniga, 19 - 20132 Milano HarperCollins Italia S.p.A. Viale Monte Nero 84 - 20135 Milano


Prologo

Buio. Fiato sospeso. Sono l'unico che non può muoversi, eppure tutti intorno a me sono immobili. Ci sarebbe quasi da ridere se non provassi un dolore lancinante e se gli scenari che mi si accavallano nella mente non fossero contornati da un gran bel mucchio di merda. Ma io sono stato abituato a sopportare il dolore in silenzio, a non esternare nessuno stato d'animo, nessun sentimento. A essere uomo. E un uomo non urla, non piange, non prova niente. Stringo i pugni e tento di spostarmi, tuttavia il dolore si fa più acuto. Vorrei cavarmela da solo, come faccio sempre. Faccio volentieri a meno dell'aiuto degli altri, non voglio dipendere da qualcuno. Serro la mascella e provo a mettermi seduto, ma una fitta al ginocchio mi mozza il fiato e mi ributta a terra. Intorno a me si leva un brusio indistinto. Come è facile immaginare gli sguardi di chi mi ha visto stasera, prima che cadessi. Come è svilente pensarli adesso che sono inerme. Adesso che mi stanno compatendo. Adesso che sono solo un corpo vuoto, senza più armonia, senza più leggerezza. Adesso che non mi muovo più su questo palco. Una voce dentro di me dice che sarà l'ultimo, ma assomiglia così tanto a quella di mia madre che non la ascolto nemmeno. La cosa buffa è che dopo tanti anni di esperienza certe cose le percepisci subito. Avevo capito ancora prima del salto che avevo bilanciato male il peso del corpo. Sapevo che l'arrivo a terra sarebbe stato incerto e che avrei dovuto in qualche modo rimediare. È capitato così tante volte in passato. In 5


sala prove, sul palco, dietro le quinte. Ma questa conclusione non l'avevo prevista. Mi ero illuso di conoscere così bene il mio corpo da non smettere di forzare, di pretendere. Mai di domandare. Mi ero cullato nella presunzione che i miei muscoli rispondessero solo a me, solo alle mie esigenze, alle mie intemperanze. Mai a una dinamica imposta. Il mio ginocchio mi ha tradito. Quello a cui, in tutti questi anni, ho chiesto di più. Non era mai steso abbastanza, non era mai piegato fino in fondo. E allora l'ho maltrattato, l'ho deriso e lui adesso me la fa pagare. Come dargli torto? Come prendersela dopo che, in più di un'occasione, mi aveva avvertito che ne aveva avuto abbastanza di quella vita e del mio modo di fare? «Te l'avevo detto» percepisco da qualche parte, ma le voci si fanno confuse, si accavallano, sempre più vicine. Le persone intorno a me non sono più immobili. Si danno da fare, prendono delle decisioni al posto mio. Io non so più a cosa aggrapparmi per non cedere. Tento con le ultime forze che mi restano, non voglio chiudere gli occhi, non voglio lasciare l'odore del teatro, il contatto con il linoleum nero che la luce dei faretti ha riscaldato. Non voglio tornare a essere debole. Non voglio lasciarmi andare. I volti che ho davanti sono sfocati anche se distinguo alcuni membri della compagnia. Un profumo forte mi stordisce per un momento. Non lo riconosco, è di un uomo che sta gridando frasi sconnesse, ordinando di telefonare a non so chi. Chi vorrei avere vicino in questo momento? Nessuno. Né oggi né tantomeno domani. Sento una mano fredda dove fa male, qualcuno sta provando a muovermi, il corpo pesa il doppio a causa del mio abbandono. Poi un gesto rapido, un dolore straziante. E il buio.

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Zoe – domenica 7 maggio «Scusa, mi puoi ripetere cosa c'è in questi hamburger?» «Quinoa, cime di cavolfiore, patate, coriandolo e fiocchi di avena biologici. Sono squi-si-ti!» Da un paio di mesi mia sorella è diventata vegetariana. Come se non fosse abbastanza, ha preso a sillabare le parole che vuole rimarcare. Sarebbe divertente se avessimo nove anni, ovvero l'età di mia figlia Maya, la quale tra l'altro non sembra farsi scrupoli a prendere in giro sua zia, rimediando sotto il tavolo dei pizzicotti sulle cosce da parte mia. «Fe-no-me-na-aahi!» Maya si volta verso di me e mi trova con un enorme sorriso che significa: Se non la smetti, continuo. L'occhiata che mi riserva non ha bisogno di sottotitoli. Madison non si accorge di niente, raramente si fa colpire da quello che le capita attorno. Non per cattiveria, è semplicemente fatta così. Ha una soglia di attenzione minima che compensa con enormi entusiasmi anche per le cose più tristi. Come la quinoa. Infastidisco il mio hamburger con la forchetta, ma lui rimane indifferente alle mie rimostranze. Sembra sfidarmi con il suo concentrato di proprietà benefiche alle quali il mio stomaco sta reagendo con una chiusura totale. Provo a risvegliare il suo interesse riempiendo un angolo del mio piatto di salsa barbecue nella quale decido di affogare la cena di stasera, sotto lo sguardo deluso di mia sorella. È inutile, tanto non mi lascerò impietosire. Maya invece sembra apprezzare il mio gesto, tanto da imitarmi, anche 7


se con più parsimonia. È ancora nella fase in cui deludere le persone va bene solo a piccole dosi. Madison sta per esternarci tutta la sua frustrazione quando per fortuna squilla il mio cellulare. Il suono è ovattato, deve essere rimasto dentro la borsa. Mi alzo e mi irrigidisco quando leggo il nome di Peter sul display. Chissà perché temiamo sempre il peggio quando alcune chiamate arrivano dopo un certo orario. Chissà perché siamo convinti che sia solo il buio a portare le cattive notizie. «Pronto, Peter? Cosa è successo?» «Zoe, devi venire subito in clinica» dice tutto d'un fiato, affannato e confuso. Sentirlo così mi destabilizza: Peter è sempre stato un esempio di calma e pacatezza, doti che l'hanno reso un medico straordinario su cui l'intera comunità di Bloomfield si appoggia per trovare conforto nei momenti più delicati. Con buona pace del reverendo Thomas. «Peter... sì...» inizio, vorrei fargli un sacco di domande, ma la comunicazione è resa ancora più difficile dalle voci in sottofondo. «Arrivo subito» annuncio prima di riattaccare. Vado in camera a mettermi le scarpe e gli sguardi interrogativi di Madison e di Maya non mi mollano nemmeno per un istante. «Ragazze devo andare» le anticipo. «Peter non mi ha detto nulla al telefono, vi faccio sapere al più presto.» Bacio Maya ed esco. In auto faccio mente locale. In città ci conosciamo quasi tutti e lavorando nell'unica clinica non è difficile sapere cosa succede. Nelle ultime settimane non c'è stato nulla di significativo, solo qualche malanno di stagione legato alle allergie, niente di più. Il pensiero va inevitabilmente alle persone più anziane della comunità, ma nessuna di loro versa in condizioni tanto gravi da giustificare una tale agitazione. Percorro la strada di ogni giorno in automatico e quando arrivo nei pressi della clinica mi accorgo subito del gran numero di persone ferme davanti all'ingresso. Per la prima volta sono costretta a posteggiare all'incrocio successivo. Da non crederci, ma che diavolo è successo? A mano a mano che mi avvicino scorgo volti noti e altri sconosciuti. Tutti sono vestiti bene, non c'è nessuno come me, con i pantaloni della tuta sformati e i capelli in disordine. Nessuno sembra essere uscito da casa in fretta e furia. Mentre 8


mi faccio largo per raggiungere l'entrata in molti mi salutano, qualcuno dice: «Finalmente è arrivata», fino a quando vengo trattenuta per un braccio. Mi accorgo che a fermarmi è stato Jack. Eravamo compagni al liceo e da un paio di mesi è stato eletto sindaco. Ammetto che devo ancora abituarmici. «Zoe, è inutile che io ti dica quanto sia importante per la nostra cittadina che tu...» inizia, ma una voce familiare tra la folla lo interrompe. «Jack, per l'amor del cielo, lasciala stare. Zoe, dai, vieni dentro.» Peter mi salva, in una inedita versione infastidita, chiedendo alla gente intorno di farmi spazio e permettermi di passare. «Capo, ma si può sapere che ci fa tutta questa gente qui fuori? Hai organizzato una svendita di abbassalingua senza dirmi niente?» Il Peter che conosco io avrebbe riso, ma stasera niente. La clinica dove lavoriamo, che lui ha ereditato da suo padre, non è molto grande, ma ognuno di noi ha i suoi spazi. Ciascuno ha un piccolo ufficio e una stanza per le visite. La porta della sua è socchiusa e ha la luce accesa, Peter mi fa cenno di andare da me. Prendo le mie chiavi e apro, accendendo la luce calda sui mobili in legno. Lui richiude la porta dietro di noi, e io sbotto: «Peter, mi vuoi spiegare che succede? Non ti ho mai visto in questo stato, inizio seriamente a preoccuparmi!». Si siede e io lo imito. «Zoe, ti ricordi che in città è arrivata quella compagnia di ballo di New York, vero?» «Sì, certo. Ho portato ieri Maya a vedere il loro spettacolo...» «Questa sera c'è stato un incidente.» «A teatro?» «Sì. Uno dei ballerini si è fatto male in scena. La situazione è grave.» Istintivamente mi porto una mano alla bocca, quasi volessi impedirmi da sola di gridare. Ripenso allo spettacolo a cui ho assistito il giorno prima, una versione di Romeo e Giulietta in chiave neoclassica, con qualche rivisitazione rispetto all'opera originale. Forse alcune scelte del coreografo non sono state apprezzate dal pubblico, ma il danzatore che interpretava Romeo è valso di sicuro il prezzo del biglietto. Nel momento in cui ricordo il modo in cui calamitava tutta 9


l'attenzione anche quando stava fermo, alla sua presenza scenica, al modo di afferrare la sua partner, non solo di sostenerla, alla sensualità che emanava anche durante i momenti di maggiore tensione, emetto un gemito. La sua fama internazionale era giunta anche da noi, insieme a una bella dose di gossip. «Oddio, non mi dire che si è fatto male...» «Sì, proprio lui. Aleksej Sokolov.» Peter scuote la testa amareggiato. È dispiaciuto come può esserlo un padre, un nonno. Ritrovo in lui quell'empatia che lo contraddistingue, quel suo modo personale di affrontare la professione e il dolore degli altri, portandosene dietro sempre un pezzetto. Come faccia a reggerlo tutto, dopo un'intera vita con il camice addosso, non l'ho mai capito. Comprendo, però, che non è il momento di tergiversare. «Peter, l'hanno portato qui? Che possiamo fare noi? Non dovrebbe andare in ospedale? Non dovrebbe rientrare a New York?» «Viaggia sempre con loro un fisioterapista, che ipotizza si tratti di una lesione al legamento crociato posteriore.» «Mamma mia...» mi lascio scappare. Una lesione di quel tipo, se non trattata bene, potrebbe anche significare la fine di una carriera. «C'è dell'altro» mi dice, facendosi ancora più serio. «Vedi, il coreografo mi ha parlato per un bel pezzo quando sono arrivati. Mi ha detto che loro staranno in giro con lo spettacolo ancora per quattro mesi e che non sarebbe un bene per Aleksej rientrare a New York senza il supporto dello staff...» Peter si prende un momento prima di continuare, vagando con lo sguardo, come se vedesse il mio ufficio per la prima volta. «Peter» lo incalzo. Questo suo atteggiamento non preannuncia nulla di buono. «Sì, sì, scusami. Mi ha anche raccontato che Aleksej ha un temperamento, come dire... particolare. Sembra che non sia... diciamo... semplice averci a che fare, e che negli ultimi tempi lo sia ancora meno. Pare anche che il suo comportamento... fuori dagli schemi, ecco, attiri l'attenzione della stampa e il coreografo teme per il buon nome della compagnia e per i loro investitori...» Abitiamo in una cittadina molto piccola, ma anche qui c'è Internet. Spesso il nome di Aleksej è rimbalzato sui siti 10


di gossip per qualche flirt con donne dello spettacolo, alcune sposate. «E, di preciso, perché sarebbe un problema nostro?» «Vedi, Zoe, ci hanno chiesto di trovare una sistemazione per lui qui, a Bloomfield. Vorrebbero tenerlo il più possibile lontano da fotografi e giornalisti, sperano che in un contesto come il nostro le sue... intemperanze... si possano in qualche modo contenere. Poi si sono informati su di te, il loro fisioterapista a quanto pare aveva già sentito il tuo nome, ha detto che sarebbe in ottime mani, in senso letterale...» «Cosa?» sbotto alzandomi in piedi. «Stai scherzando? Come ti sei lasciato convincere a... Oh! Ma è chiaro.» In un lampo capisco chi lo ha fatto capitolare. «C'entra Jack, non è vero?» Peter abbassa lo sguardo, colpevole. Sua figlia Molly ha sposato il nostro neosindaco, quando lui è tornato in città dopo il college. «Jack si è fatto promettere che, se ci prendiamo cura di Aleksej, mantenendo il massimo riserbo sulla faccenda, la compagnia ogni anno farà tappa a Bloomfield. Sai cosa significherebbe per noi: più turismo, più gente in giro che spende soldi. E tu sai bene quanto ne abbiamo bisogno...» Mi riaccascio sulla sedia, addolcita dal tono di voce di Peter che riesce, in parte, a placare la mia rabbia. E poi so che ha ragione. La mia famiglia lo sa molto bene. «In pratica, non sarebbe il caso che lui rientrasse a New York senza nessuno a fargli da babysitter e hanno trovato un modo per incastrarci, dicendo che è la soluzione migliore, per il bene di tutti. Non è così?» Peter mi guarda con i suoi enormi occhi castani che non smettono mai di essere sinceri e non aggiunge altro. Mi prende le mani e le sue carezze sono piene di orgoglio, di quello autentico, che nasce dall'affetto prima ancora che dalla stima. «Zoe, io so solo che non potrebbe finire in mani migliori. Solo tu puoi rimetterlo in piedi e magari farlo tornare a ballare.» Le stringo, con quella gratitudine che non conosce parole. «Sai bene che il percorso si fa in due. Se lui non si fida di me o se non è qui che vuole stare, sarà difficile farlo guarire. Tu gli hai parlato? Qualcuno di loro gli ha parlato? Sembra quasi che stiano decidendo senza sapere che ne pensa, o cosa vorrebbe il diretto interessato...» «No, non era sveglio quando è arrivato e come ti dicevo 11


sono stato preso in disparte. Se vuoi andiamo di là insieme.» Faccio cenno di sì con la testa e ci muoviamo verso il suo ufficio. Mi presenta il coreografo, un tipo impettito che non trasmette nulla di buono, il quale ci spiega che il fisioterapista si è dovuto assentare. «Dottoressa Parker, la ringrazio per la sua disponibilità. Sono certo che Alek sarà felice di...» «Lei crede?» lo interrompo, sinceramente stupita da quelle sue parole. «Lei pensa davvero che dopo quello che gli è successo possa essere anche solo minimamente felice?» Lui mi guarda perplesso, non deve capitargli spesso di essere ripreso. Ma come può pensare che un infortunio grave possa essere abbinato alla felicità? «No, certo che no, io intendevo...» «Posso vederlo?» lo freno di nuovo. Non mi sfugge l'occhiata di rimprovero di Peter, ma faccio finta di nulla. Questo tizio mi è stato antipatico sin da subito e le sue parole non hanno fatto che confermare la sensazione che ho avuto a pelle. Con un gesto mi invita a entrare nella stanza delle visite. Non che abbia bisogno del suo permesso, dato che ci troviamo nella clinica dove lavoro, ma su questo soprassiedo. Con fare sicuro entro nella stanza, rischiarata solo da una piantana posizionata accanto al lettino. Non appena lo vedo, ogni forma di sicurezza si sgretola. Qualcuno gli ha adagiato sopra una giacca a vento e una coperta. Lo schienale del lettino è un po' rialzato, quindi ha la possibilità di guardarmi dritto negli occhi appena varco la soglia. È furioso. L'azzurro intenso del suo sguardo mi scruta con rabbia. Ha i lunghi capelli neri pettinati all'indietro e qualche riccio gli incornicia il viso, fino al collo. Le labbra sono serrate in una linea ostile. La sua energia sembra pronta a esplodere, questa stanza non la potrà contenere ancora per molto. Nonostante i lineamenti stravolti dalla sofferenza e dalla collera è semplicemente bellissimo. Il naso dritto e la mascella squadrata gli conferiscono un'aura austera e un fascino magnetico. Deglutisco in preda a una serie di emozioni contrastanti, che mi spingono ad avanzare verso di lui. Aleksej non smette di fissarmi e si irrigidisce ancora di più. «Io sono Zoe... ehm, la dottoressa Zoe Parker» gli faccio sapere. Lui non mi risponde, mi guarda con maggiore scettici12


smo. Nella stanza entra anche Peter, che si riappropria dei suoi spazi dopo che sono stati occupati da estranei. Fa un giro, come per controllare se è tutto come lo aveva lasciato, prima di prestare attenzione al nostro paziente. «Buonasera, signor Sokolov, io sono il dottor Peter Abbott. Adesso faremo alcuni accertamenti.» Gli parla come se fosse un bambino, temo che da un momento all'altro possa offrirgli delle caramelle. Aleksej rimane impassibile, sordo a ogni attenzione che gli viene rivolta. Peter controlla il ginocchio sotto la coperta, gli misura la pressione. Io non mi avvicino nemmeno, il suo sguardo, che non mi ha mai mollata, mi ha letteralmente inchiodata al pavimento, lasciandomi poca possibilità di manovra e zero ossigeno nei polmoni. Faccio un rapido e mentale ripasso del mio aspetto fisico. Indosso i pantaloni della tuta grigio chiaro, quelli completamente sformati e con qualche buco lungo la cucitura laterale. Ho la maglietta di Snoopy e una giacca a vento leggera sopra. Nessun accenno di trucco e alcune ciocche di capelli laterali raccolte in una specie di coda alta. Non oso nemmeno immaginare in che stato pietoso versi la mia frangia. Ecco in quali condizioni mi sono presentata ad Aleksej Sokolov. Un uomo che trasuda fascino e sensualità anche dopo essersi lesionato il legamento crociato posteriore. Vorrei sprofondare. Peter continua a visitarlo, gli fa delle domande, ma lui non risponde. Il mio capo non si arrende, lo tratta con dolcezza, senza perdere la pazienza. Io, invece, mi riprendo dallo stato di trance in cui ero finita: perché si sta comportando in modo così sgarbato? Ci siamo mobilitati tutti per lui e adesso se ne sta muto e risentito? Cos'è, magari pensa di essersi fatto male per colpa nostra? Forse non ha ben capito che se non collabora... aspetta, vuoi vedere che davvero non ha capito? Lascio la stanza delle visite alla ricerca del coreografo. Lo trovo fuori che parla con alcuni ballerini. «Mi scusi» richiamo la sua attenzione. «Ma Aleksej conosce l'inglese?» «Perfettamente» mi risponde, guardandomi dubbioso. E io penso che non sarà facile. Per niente. Aleksej – domenica 7 maggio Ho sete e mi gira la testa. Non capisco più quante ore siano passate da quando mi sono fatto male. Sono rimasto stor13


dito per un bel pezzo, e un discreto numero di persone intorno a me prende decisioni al posto mio. Odio quando succede. Mi ero ripromesso, ormai tanti anni fa, che non mi sarebbe più capitato e invece eccomi qui. Inerme a incolpare chiunque mi passi per la mente. Tranne, ovviamente, me stesso. Ma non è solo questo, c'è dell'altro. Mi sembra strano l'atteggiamento di chi mi circonda. Sono... come dire... accondiscendenti. Il più delle volte le persone mi trattano con un leggero distacco, con una formalità che spesso sfocia in gesti affettati. So che è colpa mia, non sto rimproverando nessuno, ci mancherebbe. Non mi spiego, però, tutti i riguardi che sto ricevendo nelle ultime ore. Persino Thomas, il nostro coreografo, mi è parso quasi cordiale. Deve esserci per forza qualcosa sotto, altrimenti non si spiega. E il fatto di averli visti spesso confabulare a piccoli gruppi dà forza ai miei sospetti. Che le mie condizioni fisiche siano più gravi del previsto? Che mi debba sottoporre a un'operazione? Oppure si tratta di questioni più pratiche, come il mio rientro a New York o la performance del mio sostituto che già mercoledì dovrà essere in scena al posto mio, non mi ricordo più in quale sperduta città in mezzo al nulla. Rimane il fatto che nessuno si è ancora avvicinato per chiarirmi la situazione. Mi hanno messo sul lettino di una clinica e hanno chiuso la porta. Non si sono più fatti vivi, nemmeno il medico di campagna e quella sua specie di assistente che sembrava appena sopravvissuta a una catastrofe ambientale. Poveri gli abitanti di qui, Bloom non ricordo cosa, che possono contare solo su quei due. Meno male che non dovrò rimanere qui ancora a lungo. I pensieri piano si allontanano e io scivolo in una specie di torpore che però mi conserva vigile. Dopo non so più quanto tempo la porta si apre e mi si avvicina Thomas. «Ehi» sussurra, prendendosi una sedia e sistemandosi accanto al lettino. «Come ti senti?» «Bene, ma credo di essere ancora sotto l'effetto di qualcosa. Non è che avresti dell'acqua?» Thomas mi chiede di aspettare e dopo poco torna con una bottiglietta. Ne mando giù la metà in un unico sorso. «Grazie. Allora, che sta succedendo? Non sono stupido, l'ho capito che mi state nascondendo qualcosa.» 14


«Nascondendo qualcosa? Ma che vai pensando!» Il tono di voce si è fatto quasi stridulo. Come bugiardo ha sempre fatto pena. «Si tratta del ginocchio?» I lineamenti del suo viso si modificano bruscamente. «Assolutamente no, ma che dici! Non ti mentirei mai sulle tue condizioni di salute.» «Sentiamo, allora: su cosa mi mentiresti?» Thomas rimane per un momento con la bocca aperta, a formare una O perfetta. Senza dire nulla ha appena confermato i miei sospetti. Mi rilasso pensando che se non si tratta della lesione, dunque non può essere nulla di grave. Bevo il resto dell'acqua lasciandogli il tempo per riprendersi. Poco dopo lo incito a dirmi una volta per tutte cosa sta succedendo. «Vedi, Alek, appena ti sei fatto male, ho subito chiamato il nostro direttore artistico. L'ho aggiornato via via che le tue condizioni si facevano più chiare e lui, nel frattempo, ha parlato con alcuni membri del consiglio d'amministrazione, i quali hanno discusso con un paio di manager, con il direttore marketing, con quello delle pubbliche relazioni, poi hanno voluto ascoltare anche alcuni componenti del balletto...» «Thomas, di preciso da quanto tempo mi sono fatto male? E perché se ne sta facendo un caso di Stato?» «Al momento è notte fonda, saranno passate quattro o cinque ore, onestamente sono così stanco che non lo so più. L'adrenalina mi ha tenuto sveglio, ma adesso ti confesso che se mi facessi un po' di posto su quel lettino potrei dormire come un sasso e...» «Thomas, non tergiversare.» «Sì, scusa, hai ragione.» Silenzio. Questa sua riluttanza inizia seriamente a innervosirmi. Cosa ci sarà di così tanto difficile da dirmi? «Allora?» «Alek, ascoltami bene. Non appena ti sei fatto male, io ho intravisto un'opportunità.» «Un'opportunità?» grido. «La mia carriera è in serio pericolo e a te sembra un'opportunità?» Altro che nervoso, adesso sono decisamente incazzato. «Lasciami finire, ti prego. Sai meglio di me cosa ha passato negli ultimi mesi la compagnia a causa dei tuoi sempre più 15


frequenti scandali...» Faccio per intromettermi, ma lui mi frena con un gesto deciso della mano. «Ho detto lasciami finire. Ti sei fatto male sul palco di un teatro di una piccola cittadina, piccola ma accogliente. Lo sapevi che c'è anche un lago? E guarda caso nell'unica clinica del posto lavora una fisioterapista molto competente, a detta dei suoi colleghi...» Provo a interromperlo di nuovo, ma lui mi mette una mano sulla bocca costringendomi a divincolarmi. «Fammi finire, altrimenti me ne vado senza nemmeno una spiegazione.» Mugugno, vorrei capire cosa significa quel me ne vado, ma il suo sguardo si fa duro e io mi costringo ad ascoltare. Non appena mi calmo, Thomas toglie la mano e continua a parlare. «A quanto pare, la dottoressa Parker si è fatta un nome nella ricerca. Non conosco bene i dettagli né mi ricordo quello che mi hanno detto in proposito... troppe parole strane. Però so per certo che, acconsentendo a farti curare da lei, saresti in ottime mani. Restare qui, lontano da giornalisti, fotografi, eventi mondani, sarebbe un bene per te, per la tua ripresa fisica, ma anche per la compagnia. Inutile nascondersi dietro un dito: le tue ultime bravate non sono piaciute agli investitori. In molti hanno fatto pressioni al direttore artistico, sai meglio di me come funzionano queste cose. Ti suggeriamo di rimanere qui per un paio di mesi, il tempo della riabilitazione e di far sgonfiare alcuni scandali. Soltanto un paio di mesi, che potrebbe succedere? New York mica scappa, è lì che ti aspetta. Così come il tuo posto nella compagnia.» Vorrei urlare, ma non lo faccio. Vorrei alzarmi, prenderlo a calci in culo ma, ovviamente, non faccio neanche questo. Mi viene da sorridere pensando ai termini che ha usato durante il suo bel discorsetto: un bene per te, acconsentendo, ti suggeriamo, come se la decisione finale spettasse davvero a me. Come se mi stessero dando la possibilità di scegliere, invece di avermi piazzato in una strada senza uscita. Cosa dovrei dire a questo punto? Ma che pensiero gentile! Ma come siete premurosi!, andrebbero bene come risposte? Ingoio amaro, è l'unica cosa che mi riesce al momento. Anzi no. Sento la plastica sotto la mano sinistra, la stringo e con tutta la forza che mi ritrovo la scaravento contro la porta. La bottiglietta è troppo leggera, l'effetto non è soddisfacente, non come avrei voluto, ma sempre meglio di niente. 16


Thomas rimane impassibile. Non è la prima volta che lancio qualcosa in sua presenza. Mi guarda e fa un lungo sospiro, come a sottolineare che è proprio questo il tipo di atteggiamento di cui parlava, sul quale vorrebbe che lavorassi. Certo, la prossima volta perché non provi schioccando le dita o pronunciando una bella formula magica? Magari funziona. Che si aspettava? Che avrei fatto i salti di gioia all'idea di rimanere in questo buco, a farmi curare da una che nemmeno sa pettinarsi? Che me ne frega se ha fatto progressi nella ricerca! È nella pratica che dovrebbe essere in gamba. Anzi, non solo in gamba, ma la migliore. Io non posso permettermi di non tornare più a ballare. Non posso e basta. «Thomas, non so davvero come ringraziarvi per le vostre premure» inizio mentendo, e a lui non sfugge, ma mi lascia continuare ugualmente. «Ma io sono un po' scettico, non tanto per la sistemazione, credimi.» Dovrebbe allettarmi l'idea che ci sia un lago? «Staccare la spina potrebbe solo farmi bene...» Non lo penso nemmeno un po'. «Solo che temo seriamente per il mio ginocchio. Chi è questa tizia? Chi ha curato prima di me? Che tipo di esperienza può mai aver fatto in questa cittadina? A me serve un professionista, qualcuno che questo tipo di lesioni le abbia già guarite, qualcuno che abbia molta più esperienza.» «Alek, puoi accusarci di tante cose, ma non di non avere a cuore la salute dei nostri ballerini. La dottoressa Parker è più qualificata di quanto pensi, anche il nostro staff medico è concorde. Louis, il nostro fisioterapista, è il primo a credere che sia un'ottima soluzione. Sai che non torneremo a New York prima di quattro mesi... chi ci sarà lì per aiutarti? Per trovarti una sistemazione, per accompagnarti a fare fisioterapia, per sostenerti con le faccende di ogni giorno. Nessuno. O sbaglio?» Sa benissimo di non sbagliarsi, non c'è motivo di sottolineare la mia condizione. Sa che così facendo tocca un nervo scoperto, lo fa per ottenere quello che vuole. Lo fa sempre e io sono come lui, quindi non ho niente da recriminare. E non ho nemmeno nulla da scaraventare contro il muro. Passiamo un paio di minuti in silenzio, ognuno a rimuginare sulle ultime parole che sono rimaste sospese tra noi, come in una nuvola di accuse e incomprensioni. Sarà meglio trovare riparo prima che ci sorprenda un temporale. 17


«Ammesso che io dica di sì, quali soluzioni avete trovato per me?» Thomas è ancora rigido nelle spalle, ma la mia momentanea arrendevolezza gli svuota lo sterno, come se avesse trattenuto il respiro fino a questo momento. «Ci hanno informato che la dottoressa Parker è anche la proprietaria dell'unica locanda della città. Un'altra coincidenza fortuita, non trovi?» Se si aspetta di leggere dell'entusiasmo sul mio viso potrebbe rimanere qui anche lui a lungo. Molto a lungo. Al mio sguardo indifferente risponde con una risatina nervosa, deve essere ormai allo stremo. «Dai, non ci poteva essere soluzione migliore! La sorella della dottoressa gestisce la locanda, il SeM Inn, e mi hanno detto che c'è già una camera pronta che ti aspetta. La locanda è compresa di cucina, tre comodi pasti al giorno senza nemmeno dover uscire, e la dottoressa Parker verrebbe direttamente lì a farti la terapia, senza che tu debba muoverti o fare sforzi. I primi giorni è consigliato il riposo assoluto, ti hanno già trovato delle stampelle...» Mentre parla le indica e io mi accorgo solo adesso che sono appoggiate ai piedi del lettino. Vederle è un bel pugno allo stomaco. Ho le gambe ancora coperte, non ho guardato nemmeno il tutore, anche se me lo sento addosso. Chiaro, fare finta che il problema non esista non lo elimina. Lo so bene, quando ero bambino non ha mai funzionato. È giunto il momento di affrontarlo, come ho sempre fatto con ogni cosa mi abbia ostacolato la strada in tutti questi anni. «Thomas, mi sembra evidente che abbiate già deciso ogni cosa. Inutile continuare a parlarne né mi va di sforzarmi di controbattere. Voglio impiegare le energie solo nel mio recupero e nell'andarmene via di qui il prima possibile.» Non aggiungo che se ospitandomi le persone di qui pensano di aver vinto alla lotteria, si sbagliano di grosso. E non tarderanno a rendersene conto. Lui si batte i palmi delle mani sulle cosce e si alza con un sorriso tirato che non riesce a camuffare il suo sollievo. «Bene, allora. Hai bisogno di una mano per alzarti?» «No, grazie, faccio da solo.» «Ti aspetto qui fuori, ti accompagno in auto.» Rimasto solo mi concedo un momento. Chiudo gli occhi e mi focalizzo sul mio respiro. Mi concentro sul mio corpo, sulle parti che toccano il lettino, sul ginocchio, sulle estremità. 18


Percepisco l'energia che mi scorre dentro, cerco di canalizzarla, di concentrarmi sulla fonte di dolore e di distenderla. Un danzatore impara a comunicare con il proprio corpo in modo naturale, spontaneo. Negli anni, diversi maestri mi hanno insegnato a respirare, a concentrarmi così tanto da sentire le giunture, le articolazioni, il sangue. Mi prendo del tempo prima di muovermi per capire dove fa più male, che libertà mi concede il tutore. Poche a quanto pare. Scosto la coperta e scopro che qualcuno mi ha messo dei pantaloncini e delle scarpe da ginnastica. Chissà dov'è finito il mio costume di scena. Chissà chi si è preso la briga di togliermi la calzamaglia. Non ricordo niente ed è triste pensare che non sia a causa di una bella sbronza. Ho solo i postumi, senza il divertimento. Mi metto seduto e prendo le stampelle, con le quali mi toccherà familiarizzare quanto prima. Muovo i primi passi, incerti. Me ne bastano un altro paio per capire come bilanciare il peso del corpo e quanta forza mettere nelle braccia. Non sono nemmeno così lento come temevo. Sulla porta della clinica incontro il medico di prima, non ricordo come si chiama. «Eccola, signor Sokolov.» Mi saluta cordiale, come se non fosse piena notte, come se per lui fosse normale trovarsi in clinica invece che nel suo letto. Il suo sorriso è di quelli genuini, di quelli rari mi verrebbe da dire. Con una mano mi tiene la porta aperta e mormora un «arrivederci» quando lo supero. Io non gli dico niente, arrivo direttamente all'auto dove Thomas mi aspetta con il motore acceso e una strana euforia. «Che meraviglia, non devo nemmeno impostare il navigatore. Sai di chi è questa macchina? Del dottor Abbott.» Ah, ecco come si chiama. «Me l'ha prestata senza battere ciglio. Mi ha dato le indicazioni per la locanda, è solo un paio di traverse più avanti, sulla sinistra. Lui è così gentile che si è pure offerto di accompagnarmi fino in hotel, a Hartford, quando ti sarai sistemato. Saremmo potuti anche andare a piedi, ma ovviamente nelle tue condizioni non è il caso. Ti rendi conto, andare a piedi da un posto all'altro?» Vorrei dirgli che se proprio vuole facciamo cambio e ci re19


sta lui qui mentre io me ne torno a New York, ma anche questa volta preferisco rimanere in silenzio. Il viaggio è davvero breve e nel giro di pochi minuti arriviamo alla locanda. La struttura ha un ampio spiazzo davanti al portico, dove c'è anche una fontana circolare. Thomas mi fa scendere lateralmente all'ingresso, dove si trova una rampa. Una piccola luce illumina il portico, assi bianche di legno e due sedie a dondolo rivolte verso la ringhiera. Mentre mi avvicino all'ingresso qualcuno apre la porta dall'interno. «Eccovi finalmente! Stavo per addormentarmi sul divano! I nostri divani sono i più comodi del Connecticut, signor Sokolov, venga, venga a provarli!» L'entusiasmo dell'ospite scema bruscamente non appena mi avvicino alla luce e può notare che non c'è l'ombra di un sorriso sulle mie labbra. «Ma che dico, sicuramente è il caso che per stasera lei vada dritto a letto, non è vero? Ma certo, ci mancherebbe. Prego, si accomodi.» Dietro di me arriva Thomas ed entriamo entrambi. Ogni cosa è calda e accogliente e i due divani posizionati davanti a un camino sembrano davvero molto comodi. In questo momento sono così stanco che anche il pavimento andrebbe bene. «Che maleducato che sono, non mi sono nemmeno presentato! Io sono Vincent, lo zio di Madison e Zoe.» Thomas gli stringe la mano, presentandosi a sua volta, mentre io rimango ben ancorato alle mie stampelle. Vincent capisce l'antifona e ritira subito il braccio. Ci fa cenno di seguirlo lungo un piccolo corridoio. «Dunque, per il signor Sokolov abbiamo preparato una camera qui al pianterreno, ovviamente. Dietro il soggiorno c'è la sala per i pasti, ma per i primi giorni vedremo di organizzarci... magari glieli facciamo servire in camera. Ecco.» Si ferma alla fine di uno stretto corridoio indicando la camera numero uno. «È la stanza più lontana dalle attività, dovrebbe trovare il massimo riposo in questa sistemazione. Qui ci sono le chiavi, io abito al piano di sopra, stanza 10, può comporre il numero con il telefono e io sarò subito da lei. La lascio riposare, a domani.» Si congeda da Thomas dicendogli che quando andrà via po20


trà semplicemente tirarsi la porta d'ingresso dietro le spalle, da loro non chiudono mai a chiave. «Non si può sapere, chiunque potrebbe aver bisogno», è stata la risposta di Vincent all'incredulità di Thomas. Prima la storia del poter andare a piedi da qualsiasi parte e ora anche questa totale mancanza di pericolo: fra poco sarà il coreografo a chiedermi di prendere il mio posto. Anche la camera è molto accogliente. Travi in legno al soffitto spiovente, un letto a due piazze con la struttura in ferro battuto, un armadio, un cassettone, di fronte un piccolo scrittoio e a fianco un bagno con doccia. Alle pareti una carta da parati con fiori di lavanda non troppo opprimente e al pavimento un parquet vissuto. «Bene, Alek, la camera mi sembra perfetta, così come la locanda. Io adesso vado, non voglio abusare troppo della pazienza del dottor Abbott.» Io non so cosa dire. Mi guardo intorno, so dove mi trovo, ma non come mi sento. Thomas sembra in imbarazzo, quindi taglia corto. «Allora io vado. Per qualsiasi cosa, chiamami, va bene? Ci rivediamo presto, stai tranquillo.» Esce dalla stanza e io rimango solo, ancora una volta. Solo in una città dove non conosco nessuno, ancora una volta. Dovrei essere allenato e invece a questa morsa nel petto non ci si abitua mai.

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Dal 25 agosto


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