Lissa Morgan ALLEANZA CON LA NEMICA
Con
gratitudine per le amicizie nate lungo il cammino.
Galles, 1091
«Ci hanno teso un agguato!»
Dopo avere messo in guardia i suoi uomini, Gwennan tirò le redini per far girare Tarian, il suo stallone, e affrontare i normanni che si riversavano a frotte su di loro. Tra un’imprecazione e quella successiva, nella valle silenziosa che avevano appena attraversato risuonarono il tonfo degli zoccoli, le grida degli uomini e il clangore delle armi.
Con il cuore che le martellava nel petto, Gwennan entrò nella mischia brandendo la spada e colpì con forza lo scudo alzato di un cavaliere normanno. Dopo avere schivato l’energica parata, mentre il destriero dell’avversario si lanciava in avanti, conficcò la punta della spada in una fessura della corazza, sotto l’ascella. L’uomo cadde di sella, ma lei non lo degnò di uno sguardo mentre spingeva Tarian verso le truppe nemiche.
Mentre un altro normanno periva sotto la sua spada, la spada di Rhys, scintillante talismano della libertà gallese, Gwennan capì di avere perso la battaglia. Troppi gallesi erano morti o stavano esalando l’ultimo respiro intorno a lei. Era inutile continuare a combattere.
Gli avversari li superavano numericamente di tre a uno ed essendo stato colto di sorpresa in campo aperto, era solo una questione di tempo prima che il suo sparuto gruppetto fosse completamente sopraffatto.
Parò un altro colpo, evitando l’arma del nemico che disegnò un arco nell’aria, e con tutte le sue forze abbassò la spada sulla nuca di un normanno. Mentre lui cadeva a terra, Gwennan ordinò ai suoi di ritirarsi e di tornare all’accampamento nascosto, sui pendii dei monti Dysynni, per non morire e per poter lottare un giorno in più.
In quel momento un colpo si abbatté sulla sua nuca con la forza di un masso in caduta. Un lampo bianco la accecò, poi tutto divenne nero.
Rolant condusse il cavallo tra i corpi dei guerrieri che giacevano sul terreno.
I più erano morti, c’erano solo pochi feriti che i suoi fanti si affrettarono a uccidere.
Nessuno poteva essere risparmiato.
Lo amareggiava sapere che la vita di quei bellicosi, ma coraggiosi gallesi contasse così poco. Tuttavia mostrare pietà, salvare un nemico significava solo doverlo affrontare di nuovo. E la resistenza degli abitanti di quella regione selvaggia, montagnosa, per quanto ammirevole, da troppo tempo era una spina nel fianco del suo signore.
Un cavallo con la testa abbassata, vicino al limitare del bosco, catturò la sua attenzione. Il mantello grigio scuro scintillava come uno scudo brunito, la criniera e la coda decisamente più chiare ondeggiavano come nastri d’argento.
Un magnifico destriero, un premio inaspettato! Chi avrebbe mai pensato che un barbaro del Galles possedesse un simile animale? Senza dubbio era il cavallo normanno di un nobiluomo, vinto in battaglia o più probabilmente sottratto al legittimo proprietario durante una delle incursioni per cui i gallesi erano famosi.
Sceso di sella, Rolant legò il cavallo a un cespuglio e si avvicinò allo stallone grigio, che sollevò la testa e lo guardò con aria minacciosa, le orecchie piatte e le narici dilatate. L’estre -
mità di una delle redini strappate, che scendevano dal collo fino a terra, era nella mano di un ragazzino, disteso a faccia in giù, con il capo coperto in parte da un elmo ammaccato. Non gli occorse molto tempo per valutare la situazione. Il magnifico cavallo, il cadavere di un guerriero gallese poco lontano... Quello doveva essere il suo paggio, o forse lo scudiero, fedele al padrone fino alla morte.
Rolant osservò l’uomo morto. Gli occhi spenti per sempre fissavano il cielo, sulla gola c’era un taglio profondo. Inutile soffermarsi, quel guerriero aveva già incontrato il suo creatore. Perciò si inginocchiò vicino al ragazzo, gli tolse l’elmo e scoprì un bernoccolo grande come un uovo di allodola sotto i capelli castano ramati che ricadevano sul collo esile.
Il cranio era intatto, c’era poco sangue, così Rolant lo girò con cautela. Se fosse sopravvissuto, l’avrebbe risparmiato per la sua lealtà e la giovane età. Se invece era gravemente ferito, una morte rapida e indolore l’avrebbe salvato dai lupi famelici che infestavano quelle terre remote.
Era più giovane di quanto lui si aspettasse. Il viso era liscio e pallido, le labbra piene, le ciglia lunghe e folte. A parte il gonfiore sotto l’ammaccatura dell’elmo di bronzo, non c’erano segni di altre ferite. Rolant immaginò che fosse stato tramortito dal colpo di striscio di un’arma e che fosse ancora vivo.
Gli posò una mano sul cuore, cercando un segno di vita, e trovò... dei seni? Sbalordito, ritrasse la mano. Sicuramente si sbagliava. Esplorò di nuovo e, per quanto la sua mente di rifiutasse di crederlo, l’uomo che c’era in lui sapeva che non c’erano dubbi. Sotto la tunica marrone consunta, le dita sentirono e riconobbero le rotondità del seno di una fanciulla. Sotto quello sinistro, il battito forte e regolare del cuore.
Rolant posò gli occhi sul viso e, mentre lo fissava, vide le palpebre che si sollevavano. Allora fu sopraffatto da un moto di stupore, turbamento e da una fitta di lussuria. Erano due
occhi bellissimi, grandi, colore del miele. Preso alla provvista, sentì il respiro mozzarsi in gola.
Stupiti, perplessi, gli occhi lo guardarono per un istante, cercando di concentrarsi, poi le labbra si schiusero. «Tarian! Lle mae Tarian?»
Rolant non conosceva la lingua gallese. Tarian era un nome? Forse del guerriero morto? Scosse la testa, ma la fanciulla aveva di nuovo perso i sensi. Dopo essersi seduto sui talloni, maledisse la sorte. Che cosa avrebbe dovuto fare con una donna, per giunta graziosa?
«Oh, Rolant!» Giles de Fresnay era arrivato in sella al suo cavallo. «Perché state perdendo tempo? Dobbiamo inseguire quei miserabili codardi di gallesi mentre c’è ancora luce. Qui sono tutti morti.»
Quando Rolant guardò il suo compagno d’armi, notò che la lama della sua spada era sporca di rosso. Giles era il soldato più assetato di sangue che conoscesse, e non gli piaceva. Gli piacque ancora meno lo scintillio scaltro che gli accese gli occhi quando li posò sul corpo privo di sensi disteso a terra.
«Che cosa avete lì? Un ragazzino! È morto?»
«No.» In quel momento Rolant prese una decisione. Se avesse esitato, la spada di Giles avrebbe tagliato la gola della fanciulla da un orecchio all’altro aggiungendo un altro morto alle vittime dei gallesi. «È vivo, sembra solo stordito» aggiunse in tono minaccioso. «E poiché non ho un paggio né uno scudiero, intendo tenerlo per me. Insieme al cavallo» concluse, indicando con il mento lo stallone grigio.
I bottini di guerra erano molto contesi, oggetto di aspri scontri, ma Rolant, in quanto capo, aveva la precedenza. Nessuno avrebbe osato rivendicare il possesso del cavallo, nessuno avrebbe avuto un moto di compassione per la fanciulla stesa sul terreno. Una fanciulla che per i suoi uomini doveva restare un ragazzino finché non avesse deciso che cosa fare di lei.
«Uno splendido animale.» Giles socchiuse gli occhi grigi che posò sul cavallo e poi di nuovo su Rolant, mentre le labbra si incurvavano in un ghigno di invidia. «Anche se è più adatto a un re che a uno scudiero!»
A entrambi il nuovo re aveva conferito un’onorificenza dopo l’ultima ribellione, quando i figli di Guglielmo il Conquistatore avevano discusso per decidere a chi sarebbe toccata la Normandia e a chi l’Inghilterra. De Fresnay era nobile come Rolant, ma inferiore di grado, un fatto che lo infastidiva non poco e che giustificava solo in parte la rivalità che covava tra loro senza mai manifestarsi apertamente.
Era una rivalità di cui Rolant non aveva bisogno in quella spedizione in Galles. Un ordine che sulle prime aveva accettato con entusiasmo, ma che con il passare dei giorni lo metteva sempre più a disagio. Un conto era conquistare, un altro essere responsabile dell’estinzione di una razza.
«Per quanto riguarda il ragazzo... non sarà un compito facile. Se fossi in voi, ucciderei subito questo miserabile.» Giles sputò per terra. «Sono selvaggi, incivili. Io non mi fido per niente.»
Rolant lo ignorò e si avvicinò allo stallone grigio per avvolgere le redini intorno al pomo della propria sella. Poi sollevò la fanciulla e la mise a cavalcioni sul proprio cavallo, appoggiando la testa al collo dell’animale per evitare che cadesse.
Mentre si accingeva a salire in sella dietro di lei, il luccichio di una spada attirò la sua attenzione. Era seminascosta nell’erba, come se fosse caduta da una mano che era stata colpita. Rolant andò a raccoglierla.
L’incisione sull’elsa sembrava antica e misteriosa, la lama scintillante non era stata forgiata di recente. Rolant la infilò nella cintura, pensando che non fosse il caso di sprecare un’arma così bella.
Quando si girò, vide che Giles si era avvicinato con il suo cavallo. Dopo essersi chinato, il guerriero afferrò i capelli della fanciulla e sollevò la testa.
«Un bel ragazzino, sicuramente.» Giles lasciò cadere di nuovo la testa, con un sorriso malizioso sulle labbra. «Accertatevi che scaldi solo la vostra birra e non anche il vostro letto, Rolant! Sempre che riusciate a addestrarlo.»
«Quando vorrò un consiglio, de Fresnay, ve lo chiederò.» In quel momento qualunque dubbio sull’opportunità di portare via la fanciulla svanì. Lui era un guerriero, non un assassino. Se l’avesse lasciata lì, sarebbe morta per mano dei soldati che sarebbero arrivati dopo di loro. Ne era sicuro.
«Ordinate agli uomini di seppellire i morti, normanni e gallesi» aggiunse. «Non lasceremo nessuno in pasto ai lupi.»
Mentre Giles si allontanava con un sogghigno, Rolant serrò i denti. Anche se nessuno osava dirglielo in faccia, sapeva che de Fresnay e i suoi uomini lo chiamavano vergine, monaco, cinedo per farsi beffe della sua castità.
Nessuno di quegli aggettivi gli si addiceva, tuttavia Rolant non intendeva abboccare all’amo e giustificarsi. Quella era la guarnigione più violenta che avesse mai comandato. Come avrebbero potuto quegli uomini capire la sua vergogna per avere perso il nome e l’onore? O che cosa si provava a essere privato della casa e della famiglia in un colpo solo, a sentirsi strappare il cuore e la fiducia con la stessa velocità e durezza con cui si decapitava un uomo?
La fine che sarebbe dovuta toccare alla sua testa, poiché lui era stato l’artefice della sua disgrazia, della morte del fratello e della devastazione della sua famiglia.
Rolant salì sul cavallo e tenne le redini con una mano per sorreggere la fanciulla con il braccio libero. Sembrava un passerotto addormentato nell’incavo del suo gomito. Mentre la guardava avvertì di nuovo un fremito alle viscere che si affrettò a ignorare, anche se il sapore amaro del disonore gli risalì come bile in bocca.
Non era un voto di castità o di devozione quello che aveva fatto cinque anni prima, quando avevano seppellito suo fra-
tello John. Era una lezione che non avrebbe mai dimenticato.
L’amore era come una benda sugli occhi, capace di provocare in un uomo un’afflizione di cui non si sarebbe mai liberato. Il povero disgraziato che se la metteva, come aveva fatto lui consapevolmente, che avrebbe dovuto vivere con le conseguenze della propria cecità meritava solo pietà.
Gwennan stava avendo un incubo. Da sveglia, perché sapeva che non stava dormendo. Il tormento che provava non portava con sé la pace del sonno. Le sembrava di avere la testa aperta in due, ed era in preda a una nausea mai provata prima.
Nel sogno sentiva delle mani su di sé. Mani gentili che la mettevano su un fianco e le tenevano la testa mentre rigettava, le pulivano la bocca e il naso dopo.
Udiva anche una voce che mormorava parole a lei incomprensibili, ma rendeva l’incubo meno reale, meno spaventoso. Finché la voce non si spense e tornò l’oblio, che la risucchiò nei suoi abissi bui e di beatitudine.
Quando la carne fu cotta, Rolant ordinò di spegnere i fuochi di bivacco. Dopo avere preso la sua razione, tornò dalla fanciulla che dormiva. L’aveva tenuto sveglio per ore durante la notte, passando da uno stato di incoscienza a degli attacchi di vomito così violenti che non doveva esserci rimasto niente nel suo stomaco.
Lui aveva fatto del proprio meglio per assisterla, le aveva pulito la bocca ed era riuscito a infilare qualche goccia d’acqua tra le labbra screpolate. Quando era andato a prendere il cibo per sé, l’aveva legata a una ruota del carro per evitare che soffocasse se avesse rigettato di nuovo.
A parte quello, non c’era altro che poteva fare. Sicuramente erano le conseguenze del colpo alla testa, non abbastanza forte per ucciderla ma sufficiente per provocare una reazione
violenta del fisico. Sarebbe passato, lui sperava presto. Non poteva tenere i suoi uomini accampati nel bel mezzo del territorio nemico ancora a lungo solo per aiutare quello che loro consideravano un inutile ragazzino gallese. Tutti si stavano chiedendo, anche se nessuno osava domandare, perché si preoccupava tanto per un prigioniero, invece di mettere fine alle sue sofferenze.
Per l’ennesima volta Rolant rimpianse di avere fissato quegli affascinanti occhi color del miele. Sarebbe stato meglio lasciare la fanciulla al suo destino?
Scosse il capo, rispondendosi da solo.
L’istinto gli aveva detto di non abbandonarla come aveva fatto con suo fratello John. Forse proprio per quello non era riuscito a non occuparsi di lei. In ogni caso era troppo tardi per pentirsi del proprio gesto pietoso, il che significava che era al contempo sua prigioniera e una sua responsabilità.
Rolant trangugiò un sorso di birra e cominciò a tagliare la carne di cinghiale arrostita con il coltello che aveva sfilato dalla cintura. Nel frattempo osservò la fanciulla addormentata ponendosi alcune domande, a cui era difficile trovare una risposta. Perché indossava quegli abiti, perché portava i capelli tagliati a sfiorare le spalle? Era vestita così per necessità o per non essere riconosciuta? E qual era il suo ruolo nel piccolo gruppo di resistenza gallese che avevano incontrato il giorno prima?
Nessun uomo avrebbe preso una donna come paggio o scudiero, esponendola ai pericoli della guerra. Nemmeno in quella terra strana e selvaggia.
Gwennan provò ad aprire gli occhi, ma il dolore provocato dallo sforzo la fece desistere. Imponendosi di usare il cervello, cercò di scoprire la causa del male alle braccia e alle spalle, della rigidità delle gambe.
Anche il collo le doleva, come se la testa fosse troppo pe-
sante da reggere, e il formicolio alle dita le disse che aveva le mani legate davanti a sé. Lentamente si rese conto di essere seduta per terra, appoggiata a qualcosa di duro.
I rumori e gli odori che la circondavano, alcuni familiari, altri no, erano dei segnali di pericolo. Il fumo dei falò che si stavano spegnendo, il tonfo degli zoccoli dei cavalli, il rumore di uomini che mangiavano, il borbottio delle conversazioni in lingua normanna. E, più vicino di tutti, il suono stridente di una pietra sfregata sull’acciaio, come se qualcuno stesse affilando un’arma.
Travolta da un’ondata di paura, si mosse di scatto. Sentendo qualcosa che le affondava nel ventre, Gwennan rabbrividì quando capì di che cosa si trattava. Una corda, legata stretta intorno alla vita, che la fissava a quella che poteva essere solo la ruota di un carro.
«So che siete sveglia, potete aprire gli occhi.»
Il sangue le si ghiacciò nelle vene, il cuore cominciò a martellarle nel petto. La voce aveva parlato in inglese, con un accento normanno. Era circondata dal nemico. Sentendo il terrore salire dalla bocca dello stomaco, si impose di stringere i denti per reprimere un grido mentre si preparava alla pugnalata tra le costole che sicuramente sarebbe arrivata.
«Oppure potete fingere di dormire e stare a digiuno. Decidete voi.»
Mentre l’uomo parlava, lo stomaco di Gwennan brontolò malgrado la paura che le faceva tremare gli arti. Era passato molto tempo dall’ultima volta che aveva mangiato, anche se non ricordava quanto. Ore? Giorni?
Quando il ricordo del colpo ricevuto sulla testa si affacciò alla sua mente, ebbe la sensazione che il cranio si frantumasse mentre lei metteva insieme i tasselli del rompicapo.
Era viva, per il momento, e prigioniera dei normanni che avevano teso loro un’imboscata. Il suo destino era segnato, ma pregò Dio che i suoi uomini si fossero messi in salvo.
Il rumore di affilatura si spense, sostituito dal suono di un metallo contro il legno. Quando il profumo di carne arrostita le arrivò alle narici, a Gwennan venne l’acquolina in bocca. Serrò le labbra per fermare il tremore che tradiva la paura, ma il rumore di denti che mordevano la carne, seguito da un soddisfatto masticare, era irresistibile.
Finalmente riuscì ad aprire gli occhi e vide, seduto davanti a lei con le gambe incrociate, un uomo gigantesco. Sull’ampio torace indossava una cotta di maglia di metallo, i capelli neri erano tagliati corti secondo l’uso normanno.
«Così va meglio.» L’uomo infilzò un pezzo di carne con la punta del coltello e glielo avvicinò alla bocca. «Mangiate.»
Gwennan avrebbe voluto rifiutare, o ancora meglio prenderlo per poi sputarglielo in faccia. Invece, suo malgrado, la bocca afferrò il boccone che fu inghiottito quasi senza essere masticato. Lui infilzò un altro pezzo di carne, che fece la fine del primo. Ne arrivarono altri, che Gwennan divorò come se stesse morendo di fame. Poi l’uomo mise la carne da una parte e le avvicinò alle labbra una coppa di birra fresca.
«Bevete.»
Gwennan obbedì, la birra scivolò nella gola riarsa come un nettare benefico.
Da sotto le ciglia abbassate, osservò attentamente il suo aguzzino. Bisognava conoscere il nemico per sconfiggerlo.
Le dita che stringevano la coppa erano lunghe e forti, una vecchia cicatrice sul dorso della mano destra era la prova che si trattava di un soldato, non di un servitore. Ma quello lo sapeva già, glielo avevano detto il corpo magnifico e la perspicacia.
«Non esagerate. Avete lo stomaco scombussolato.» Ancora qualche sorso prezioso, e la coppa fu allontanata dalle sue labbra. «La ferita alla testa non è troppo grave, anche se vi ha fatto perdere i sensi.»
Stomaco scombussolato? Gwennan si passò la lingua sulle lab-
bra, sui denti e sentì un sapore disgustoso oltre a quello della carne e della birra. Quindi non era stato un incubo. Se aveva davvero rigettato, anche le mani e la voce erano reali? E appartenevano a quell’uomo? A quel maledetto invasore normanno?
Chiuse di nuovo gli occhi e, dopo avere piegato la testa all’indietro, trasalì quando una fitta di dolore sopra la nuca confermò che aveva davvero perso i sensi. Tuttavia sentì un’energia e un piacevole calore diffondersi nel corpo. Se la stava nutrendo, se le dava da bere, ovviamente non intendeva ucciderla. Perché?
Il rumore di affilatura ricominciò a un ritmo che le straziava le orecchie. Gwennan osservò il proprio corpo alla ricerca di altre ferite, ma non c’erano. Escludendo il dolore alla testa e gli arti intorpiditi era intera, ma legata alla ruota di un carro!
«Aprite gli occhi.»
Era un ordine gentile come quello di prima, che però suggeriva sottomissione o che avrebbe patito le conseguenze di un rifiuto. Perciò Gwennan obbedì e vide un viso giovanile, anche se l’uomo sembrava più vecchio di lei. Doveva avere almeno venticinque anni.
Aveva il mento volitivo, la bocca carnosa, il naso diritto, la fronte alta sopra due occhi verdi dalle lunghe ciglia. Le spalle erano ampie, il fisico snello e forte, e i muscoli dell’avambraccio si contraevano mentre affilava la lama della spada.
Non apparteneva a lui, era sua! Era la spada di Rhys, Cleddyf Gobaith. La spada della speranza, benedetta e invincibile, destinata a sgominare i nemici e a conquistare la libertà. Ed era nelle mani di quel detestabile normanno!
Gwennan serrò i denti tirando di nuovo le corde, mentre una collera fredda prendeva il posto della paura. Le corde però erano legate strette e non si sciolsero.
L’uomo sollevò leggermente il capo, catturando i primi raggi di sole che filtravano dalle chiome degli alberi. «Parlate inglese?»
Gwennan lo guardò con occhio torvo. Conosceva quella
lingua abbastanza bene e aveva bisogno di risposte. «Dov’è il mio cavallo?»
«Il vostro cavallo?»
Lei si umettò le labbra. Erano screpolate, ma la voce era forte e ferma. «Dov’è?»
Il normanno non rispose mentre posava la selce e metteva Cleddyf Gobaith sulle cosce. Lo sguardo di Gwennan saettò sull’acciaio lucido prima di tornare su di lui. E fu sopraffatta da una violenta emozione quando notò che, malgrado la luce ingannevole dell’alba, i suoi occhi verdi scintillavano come le acque del lago di Talyllyn in piena estate.
«Volete dire il cavallo del vostro signore, non è così? Sta bene, ma adesso è mio, come questa bella spada.» Rolant fece scivolare la punta di un dito sulla lama affilata. «Il vostro signore è morto, non ha più bisogno del cavallo. E nemmeno di voi.»
Il cuore di Gwennan mancò un battito. Dopo Rhys, nessun uomo l’aveva guardata come quel normanno. Con uno sguardo sincero e inquisitore, che sembrava leggere fino in fondo alla sua anima.
Nessun uomo aveva osato intromettersi nel suo amore, nella sua lealtà, nel dolore per il marito morto mentre portava avanti la battaglia per cacciare il nemico e riprendersi le terre che appartenevano al suo popolo. Come osava quel normanno, un nemico, fissarla con tanta audacia?
Gwennan distolse lo sguardo per osservare l’accampamento dietro di lui. Vide una trentina di uomini, una mezza dozzina erano cavalieri, gli altri fanti. Non era un esercito vero e proprio, piuttosto una pattuglia o forse un reparto di esploratori che apriva la strada verso il cuore delle sue terre. E notò Tarian, legato insieme agli altri cavalli in una radura al margine della foresta.
«Come vi chiamate, ragazzo?» Il normanno si chinò per prenderle il mento con una mano e farle girare la testa. «Avete un nome, immagino.»
Il suo tocco era insieme forte e stranamente gentile. Se non altro quelle parole erano la conferma che non aveva scoperto che era una donna. Gwennan indossava ancora i vestiti ma non l’elmo, che probabilmente le aveva sfilato lui. Diolch i Dduw non le aveva tolto altro!
Con i capelli che sfioravano le spalle, la tunica e le calze di lana, sapeva che l’avrebbero scambiata per il ragazzo che fingeva di essere. Purtroppo non poteva nascondere la pelle liscia delle guance, che si tinsero di rosso mentre lui aspettava la sua risposta.
«Ge... Gerallt.»
Aveva mentito. Se avesse scoperto la sua vera identità l’avrebbe uccisa subito, come era accaduto a suo marito. Oppure l’avrebbe gettata in una prigione a marcire, come i suoi genitori.
«Gerallt. E da dove venite?»
L’enfasi del tono di voce le provocò un brivido di disagio, perciò la bugia successiva risultò meno sicura della prima. «Ca... Caernarfon.»
Il cuore cominciò a martellarle nel petto. Le dita del normanno le stringevano ancora il mento con forza e delicatezza insieme, costringendola a incontrare il suo sguardo indagatore. Se avesse scoperto il suo vero sesso, anche senza conoscere la sua identità, per lei sarebbe stata la fine. Chiunque in Galles, e nell’Inghilterra sassone, sapeva quale trattamento quei diavoli di normanni riservavano alle donne.
Avrebbero abusato di lei, non solo quell’uomo, ma anche gli altri membri del gruppo. L’avrebbero sfregiata come una prostituta, se fosse stata fortunata e loro clementi, e tagliato la gola.
Sopravvivere a una simile brutalità e alla vergogna non sarebbe stata vita per nessuna donna.
«E che cosa fate da queste parti, così lontano da casa... Gerallt di Caernarfon?»
L’uomo le girò il visò da una parte e dall’altra, la esaminò attentamente come se fosse una nuova creatura appena scoperta.
«Sono qui per combattere voi normanni, quale altro motivo dovrebbe esserci?» replicò lei in tono irato.
Lui incurvò la bocca in un sorriso pigro. «Parole coraggiose da parte di un ragazzino...»
«Non sono un ragazzino! Liberatemi le mani e restituitemi la mia spada, ve lo dimostrerò.»
Invece di limitarsi a sorridere, il normanno scoppiò a ridere. Una risata che non aveva niente di crudele, ma che respinse la sua provocazione come se fosse un insetto noioso che gli ronzava intorno.
«Non oggi, mio focoso giovane gallese.»
Detto ciò, l’uomo prese in mano la corda che la teneva legata alla ruota del carro. Gwennan rabbrividì quando sentì le nocche premere sulla vita e si preparò al colpo mortale che sarebbe sicuramente arrivato. Invece lui, dopo avere tagliato la corda con un colpo deciso, si alzò in piedi con grazia e infilò Cleddyf Gobaith nella cintura.
«Ho bisogno di un paggio e, poiché il vostro signore è morto, sarete voi a servirmi.»
Gwennan lo fissò con la bocca spalancata mentre gli uomini dietro di lui cominciavano a smontare l’accampamento. Servire quel cythrawl di normanno? Sentì sulla punta della lingua parole di disprezzo e rifiuto, ma non ebbe l’opportunità di pronunciarle perché lui si piegò e la aiutò ad alzarsi.
Le tremavano le gambe mentre il sangue riprendeva a circolare. Se non l’avesse sorretta, sarebbe caduta. Quando un’ondata di nausea l’assalì, si aggrappò alle spalle dell’uomo per mantenere l’equilibrio.
La forza del normanno, che la sovrastava, era incredibile. Era più alto di quanto le fosse sembrato quando era seduto
per terra. Con somma vergogna, Gwennan sentì le guance coprirsi di rossore.
«State per perdere i sensi di nuovo?» le chiese lui corrugando la fronte.
Lei scosse il capo. «No, ma non potete pretendere che io salti come una lepre uscita dal suo nascondiglio dopo essere stata legata alla ruota di un carro per ore!»
Quando abbassò lo sguardo su di lei per un istante, sembrava combattuto tra il fastidio e la preoccupazione. Dopo avere borbottato qualcosa nella sua lingua, la prese in braccio come se fosse un sacco di grano.
Un coro di risate si alzò intorno a loro quando la gettò sul carro, in mezzo ai viveri. Poi, in un ultimo affronto, le scompigliò i capelli.
«Anche se mi dispiace avervi legato, sono costretto a farlo ancora nel caso provaste a fuggire. Sospetto che lo fareste alla prima occasione.»
La guardava con quegli incredibili occhi verdi penetranti. Poi ebbe l’ardore, il coraggio di sorriderle! «Perché qualcosa mi dice che l’idea di essere il mio paggio non vi alletta. Non è così, Gerallt di Caernarfon?»
Furibonda, Gwennan lo seguì con lo sguardo. Il normanno si allontanò a grandi passi, si infilò l’elmo e i guanti, con Cleddyf Gobaith che scintillava sul fianco, e dopo avere raggiunto un uomo che teneva stretto Tarian, legò lo scudo alla sella e salì sullo stallone.
Tarian si impennò, inarcò il collo scalpitando. Un cavallerizzo meno esperto sarebbe stato disarcionato subito invece l’uomo, evidentemente il capo del gruppo, si chinò in avanti con un equilibrio perfetto e con una parola e un colpo di tallone riuscì a calmarlo.
Ridendo gli diede una pacca sul collo, non per punirlo ma in segno di apprezzamento.
Era l’atteggiamento di chi conosceva e rispettava un ani-
male di razza e coraggioso, e sapeva dominarlo.
I normanni partirono al seguito del capo, lasciandosi alle spalle il sole che sorgeva per addentrarsi nelle terre di Dysynni. Le sue terre. Gwennan sobbalzava sul carro, digrignando i denti per quel trattamento indegno. Era la figlia di Cynddylan Fawr, una principessa gallese! L’ultima della casa reale di Dysynni, custode della spada della speranza!
Quando fosse stata di nuovo libera, e la spada avesse scintillato nelle sue mani, quel normanno arrogante con gli occhi verdi, di cui ignorava il nome, sarebbe stato il primo a morire sotto i suoi colpi.