Africa mon amour di d raybourn

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DEANNA RAYBOURN

AFRICA, MON AMOUR traduzione di Anna Martini


ISBN 978-88-6905-015-2 Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: A Spear of Summer Grass Mira Books © 2013 Deanna Raybourn Traduzione di Anna Martini Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2015 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione HM maggio 2015


Africa, mon amour



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Non date credito alle storie che avete sentito su di me. Non ho mai ucciso nessuno e non ho mai rubato il marito di un'altra. Oh, se ne incontro uno che ha l'aria di essere abbandonato a se stesso, può succedere che ne approfitti, ma non mi sono mai presa nessuno che non volesse essere preso. E non ho mai avuto intenzione di andare in Africa. Imputo tutto al clima. A Parigi era una giornataccia grigia e buia, grondante pioggia, quando fui convocata nella suite di mia madre all'Hotel de Crillon. Mi ero vestita con cura per l'occasione, non perché a Mossy importasse, stranamente mia madre non fa caso a queste cose. Tuttavia sapevo che indossare qualcosa di chic mi avrebbe aiutata ad affrontare la tempesta che si profilava all'orizzonte. Indossai un succinto, divino abito in seta scarlatta di Molyneaux con una cloche intonata, completai il tutto con una graziosa stola di cincillà, uscii dalla mia suite, entrai nell'ascensore e salii due piani. «La cameriera svedese di mia madre aprì la porta già accigliata. «Buon pomeriggio, Ingeborg. Mi auguro che stiate bene.» Il cipiglio si accentuò. «Vostra madre si preoccupa per voi» mi informò in tono gelido. «E io per vostra madre.» Ingeborg si preoccupava per mia madre fin da prima che io nascessi. Il fatto che in tale occasione mi fossi 7


presentata podalica mi aveva iscritta per sempre sulla sua lista nera. «Oh, non fate tante storie, Ingeborg. Mossy è forte come un toro. Nella sua famiglia campano tutti più di cent'anni.» Ingeborg mi diede un'altra occhiataccia e mi sospinse verso il salone. Ed ecco Mossy, naturalmente, che teneva corte in mezzo a un gruppo di gentiluomini. Niente di eccezionale. Fin dal suo debutto a New Orleans, circa trent'anni prima, le attenzioni maschili non le erano mai mancate. Era in piedi con un gomito appoggiato alla mensola di marmo del camino, in abito da cavallerizza, esalava nuvolette di fumo dalla sigaretta e parlava. «Questo è proprio impossibile, Nigel. Mi dispiace, non si può fare.» Stava discutendo con il suo ex marito, ma per rendertene conto dovevi conoscerla molto bene. Mossy non alzava mai la voce. «Cosa non si può fare? Nigel ti ha forse suggerito qualcosa di scandaloso?» chiesi io speranzosa. Gli uomini si girarono tutti insieme a guardarmi e le labbra di Mossy si incurvarono in un sorriso smagliante. «Ciao, cara. Vieni a darmi un bacio.» Feci come mi chiedeva, posandole un rapido bacio sulla guancia incipriata. Ma non abbastanza rapido. Mentre cercavo di sfuggirle lei mi pizzicò. «Sei stata cattiva, Delilah. Adesso verrai punita, mia cara.» Mi guardai intorno nella sala, sorridendo a ciascuno dei gentiluomini presenti. Nigel, il mio ex patrigno, era un inglese grassoccio con problemi di cuore, e in quel momento sembrava a un passo dalla tomba. C'era anche Quentin Hartness, notai con piacere, alzandomi in punta di piedi per dargli un bacio. Come Mossy, avevo avuto la mia parte di disavventure coniugali. Quentin rappresentava la seconda. Era stato un marito terribile, ma come ex era divino e come avvocato era persino meglio. 8


«Come sta Cornelia?» gli chiesi. «E i gemelli? Hanno cominciato a camminare?» «Dal mese scorso, in effetti. E Cornelia sta bene, grazie» rispose vago. Lo avevo chiesto solo per essere cortese e lui lo sapeva. Cornelia era stata la sua fidanzata prima che noi ci sposassimo e se lo era ripreso ancora prima che l'inchiostro sugli atti del nostro divorzio si fosse asciugato. I bambini comunque erano molto carini e io ero contenta perché lui sembrava felice. Certo, Quentin era inglese. Era sempre difficile capire che cosa provasse davvero. Mi avvicinai. «Quanto sono nei guai?» sussurrai. Lui si piegò verso di me, sfiorando con le labbra i miei capelli tagliati a caschetto. «Parecchio, direi.» Gli feci una smorfia e mi sedetti su uno dei fragili sofà sparsi per la stanza, incrociando le caviglie come avevo imparato dall'insegnante di galateo. «Davvero, Miss Drummond, non credo che comprendiate tutta la gravità della vostra situazione» cominciò a dire l'avvocato inglese di Mossy. Cercai di ricordarmi come si chiamava. Weatherby? Enderby? Endicott? Feci un gran sorriso, mettendo in mostra i risultati del considerevole investimento materno nelle mie cure odontoiatriche. «Vi assicuro di sì, Mr...» dissi, senza concludere la frase, e colsi sul volto di Quentin un fuggevole sorriso. Maledetto lui. Poi ripresi con il tono più accomodante di cui ero capace. «Intendo dire che sono convinta che le cose alla fine si aggiusteranno. Sono fermamente intenzionata a seguire i vostri eccellenti consigli.» Quel particolare tono carezzevole lo avevo imparato da Mossy. Lei lo riservava ai cavalli, ma io trovavo che funzionasse altrettanto bene con gli uomini. Persino meglio. «Non ne sono del tutto convinto» replicò Mr Weatherby. O forse Mr Endicott. «Avete compreso bene che 9


gli ultimi discendenti della famiglia del principe minacciano un'azione legale per rientrare in possesso dei gioielli Volkonsky?» Sospirai e rovistai nella borsetta in cerca di una Sobranie. Quando l'ebbi sistemata nel lungo bocchino di ebano, Quentin e Nigel erano pronti ad accenderla. Lasciai che lo facessero tutti e due – non era il momento adatto per i favoritismi – ed esalai un piccolo anello di fumo. «Oh, che grazioso» disse Mossy. «Devi insegnarmi come si fa.» «Sta tutto nella lingua» risposi. Quentin emise un piccolo suono, ma io mi girai verso Mr Enderby con gli occhi sgranati. «Misha non aveva parenti stretti» spiegai. «Sua madre e le sue sorelle avevano lasciato la Russia con lui durante la rivoluzione, mentre il padre e i fratelli erano nell'Armata Bianca. Furono uccisi in Siberia insieme a tutti gli altri esponenti maschili del casato. Misha si era salvato solo perché troppo giovane per combattere.» «C'è la contessa Borghaliev» cominciò lui, ma io liquidai l'obiezione con un gesto della mano. «Fandonie! La contessa era la governante di Misha. Può darsi che sia imparentata, ma è solo una cugina e molto alla lontana. Non ha sicuramente alcun diritto sui gioielli Volkonsky.» E anche se l'avesse avuto, io non avevo intenzione di darglieli. La collezione originaria era stata costituita durante quasi tre secoli ed era la sola proprietà che i Volkonsky avevano salvato nella fuga. La madre e le sorelle di Misha avevano trafugato i gioielli cucendoli, tranne quelli più voluminosi, nei loro indumenti. La madre di Misha si era infilata lo smeraldo Kokotchny in un posticino che non si può nominare, prima di lasciare la madre patria e, benché nessuno me l'abbia mai detto, ritengo che questa fosse la vera ragione della sua andatura goffa. Aveva presunto, e giusta10


mente, che i doganieri sarebbero stati restii a cercare in quel nascondiglio, e con una bella lavata la pietra era tornata a brillare come prima in tutti i suoi ottanta carati. O perlomeno questa era la storia ufficiale dei gioielli. Io sapevo alcune cose che non erano arrivate ai giornali, cose che Misha mi aveva confidato perché ero sua moglie. Mi sarei data fuoco ai capelli piuttosto che permettere a quell'odiosa vecchia vacca della Borghaliev di scoprire la verità. «Può darsi che sia così» disse Mr Endicott, con espressione severa, «comunque la contessa sta parlando con la stampa. Rivangando le circostanze del suicidio del principe nonché la vostra attitudine disinvolta nel periodo di lutto, e il quadro che ne consegue risulta oltremodo spiacevole.» Guardai Quentin, ma lui si stava studiando le unghie, un vecchio trucco a cui ricorreva per non esprimersi finché non si sentisse pronto. Quanto al povero Nigel, sembrava avesse mal di stomaco. Solo Mossy aveva un'aria indignata, e le indirizzai un sorrisetto per indicarle che apprezzavo il suo sostegno. «Non è il caso che tu sorrida, cucciolo» disse, schiacciando il mozzicone della sigaretta e accendendone subito un'altra. «Weatherby ha ragione. È un bel pasticcio. In questo momento non mi gioverebbe che il tuo nome venisse trascinato nel fango. E inoltre la carriera di Quentin è molto ben avviata. Pensi che possa fargli piacere uno scandalo che coinvolge la sua ex moglie?» La guardai socchiudendo gli occhi. «Cosa significa, cara, che non ti giova che il mio nome venga trascinato nel fango? Che cosa bolle in pentola?» Mossy guardò Nigel, che si agitò sulla sedia, a disagio. «Mossy è stata invitata al matrimonio del Duca di York con Lady Elizabeth Bowes-Lyon questo mese.» Battei le palpebre. Il matrimonio del secondo in lista fra gli eredi al trono era l'evento sociale dell'anno, qual11


cosa che avrebbe dovuto essere completamente fuori della portata di Mossy. «La regina non riceve donne divorziate. Come diamine sei riuscita a ottenere l'invito?» Mossy strinse le labbra. «È un evento privato, non a corte» precisò. «Inoltre, sai quanto mi sono sempre prodigata per gli Strathmore. La contessa è una delle mie più care amiche. È veramente meraviglioso da parte loro invitarmi nel giorno più importante per la figlia, e davvero non vorrei metterli in imbarazzo per una chiacchiera.» Ah, le chiacchiere. Un eufemismo che avevo sentito fin dall'infanzia, il flagello di tutta la mia esistenza. Ripensai a quante volte avevamo traslocato, dall'Inghilterra alla Spagna all'Argentina a Parigi, ogni volta con lo spettro del pettegolezzo alle calcagna. Gli amori e le vicende finanziarie di Mossy erano leggendari. Riusciva a dare più scandalo lei fra il risveglio e la colazione di quanto la maggior parte delle donne ne desse in una vita intera. Era più prodiga della vita, la mia Mossy, e vivendo con tanta grandeur aveva incidentalmente schiacciato un buon numero di persone sotto i suoi piedini. Non se ne era mai accorta, e continuava a non accorgersene. Abitava nella suite di un hotel che costava per una sola notte più di quanto la maggior parte della gente guadagnasse in un anno, e per pagarla le bastavano gli spiccioli che le ballavano nelle tasche, ma non avrebbe mai considerato il fatto che, per arrivarci, aveva danneggiato altra gente. Certo, se ne accorgeva subito se ero io a fare qualcosa di strano, pensai con acrimonia. Quando era uno dei suoi matrimoni a deteriorarsi si trattava di un evento ineluttabile, ma se ero io a divorziare era perché non ce l'avevo messa tutta o perché non avevo capito cosa significasse essere una buona moglie. «Non fare il broncio, Delilah» mi ordinò. «Sei decisamente troppo cresciuta per questo.» 12


Non sto facendo il broncio» ribattei, con la petulanza di una quattordicenne. Sospirai e mi girai verso l'avvocato. «Vedete, Mr Weatherby, la gente non capisce il mio rapporto con Misha. Il nostro matrimonio era finito da un pezzo quando lui si sparò una pallottola in testa.» Mr Weatherby sussultò visibilmente. Riprovai. «Non fu una sorpresa per lui che chiedessi il divorzio. Non fu colpa mia se si uccise subito dopo aver ricevuto i documenti relativi. L'avevo persino incontrato quella mattina per manifestargli la mia intenzione di divorziare nella maniera più civile. Sono rimasta amica di tutti i miei mariti.» «Sono l'unico sopravvissuto» intervenne Quentin, per niente d'aiuto, oserei dire. Gli feci un'altra boccaccia e tornai a Mr Weatherby. «Quanto ai gioielli, la madre e le due sorelle di Misha erano morte durante l'epidemia di febbre spagnola del '19. Lui aveva ereditato l'intera collezione e me la offrì come dono di nozze.» «Una parte doveva essere restituita, secondo gli accordi presi con il divorzio» mi fece presente Weatherby. «Il divorzio non c'è stato» dissi, interrompendolo prontamente. «Misha non aveva firmato i documenti prima di morire. Di conseguenza io sono una vedova, tecnicamente, e poiché mio marito è morto senza lasciare un testamento eredito le sue proprietà.» Mr Weatherby tirò fuori un fazzoletto e si asciugò la fronte. «Sia come sia, Miss Drummond, ma la faccenda imperversa sulla stampa sotto una pessima luce. Se solo poteste essere più discreta, magari indossando il lutto o usando il titolo e il nome a cui avete diritto.» «Io mi chiamo Delilah Drummond. Non ho mai adottato il nome o il titolo di un marito, e non lo farò mai. Francamente penso sia un po' tardi per farsi chiamare Principessa Volkonsky.» Quentin sussultò leggermente ma lo ignorai. Il vero motivo della mia scelta era che a13


vevo visto Mossy cambiare nome più volte di quante potessi contarne su una mano, e le ripercussioni sulla biancheria e l'argenteria erano state disastrose. Era molto più ragionevole utilizzare un solo monogramma. «È un'usanza stupida e antiquata» continuai. «Sono quattromila anni che ci obbligate a cambiare cognome. Perché non facciamo cambio? Per i prossimi mille potete assumere voi i nostri cognomi, così vedremo quanto vi piacerà.» «Fermatela prima che si infervori» ordinò Mossy a Nigel. Odiava sentirmi parlare dei diritti delle donne. Nigel si sporse in avanti sulla sedia, i tratti gentili del volto illuminati da un sorriso di simpatia. «Mia cara, sapete bene che avete sempre avuto un posto speciale fra i miei affetti. Rappresentate per me quanto di più prossimo a una figlia io abbia mai avuto.» Ricambiai il sorriso. Nigel è sempre stato il mio ex patrigno preferito. La sua prima moglie gli aveva dato un paio di figli piuttosto scialbi, che erano già lontani da casa per i loro studi quando lui aveva sposato Mossy ed eravamo andati a vivere nella sua tenuta in campagna. La novità di avere intorno una ragazzina gli aveva fatto piacere e non si era mai dimostrato rompiscatole come altri miei patrigni. Alcuni di loro avevano voluto impersonare seriamente il ruolo paterno, immischiandosi nei miei studi, torturando le governanti con domande sulla mia dieta e su come andava il francese. Nigel si era limitato a lasciarmi vivere, permettendomi di curiosare nella biblioteca e di fare incursioni in cucina a mio piacimento. Ovunque mi incontrasse, mi dava qualche colpetto affettuoso sulla testa chiedendomi come stavo, per poi andarsene a occuparsi delle sue orchidee. Mi aveva insegnato a sparare e ad andare a cavallo e come individuare un probabile vincitore alle gare ippiche. Mi rammaricai molto quando Mossy lo lasciò senza che lui, com'era tipico, facesse niente per fermarla. Ave14


vo quindici anni quando facemmo i bagagli, e l'ultima mattina, quando i bauli già chiusi erano accatastati nell'ingresso e nella casa le voci riecheggiavano con un'eco che conoscevo fin troppo bene, gli chiesi come potesse lasciarla andar via così. Lui mi rivolse il suo sorriso malinconico e mi disse che, quando le aveva fatto la sua proposta, avevano stipulato un patto. Le aveva promesso che se avesse accettato di sposarlo e in seguito avesse cambiato idea, non l'avrebbe ostacolata. L'aveva avuta per quattro anni; due più di chiunque altro. Mi auguravo che questo gli fosse di conforto. Nigel continuò. «Abbiamo discusso il problema a fondo, Delilah, e siamo tutti d'accordo che sarebbe meglio per voi non comparire in società per qualche tempo. Mi sembrate magra e pallida, mia cara. So che sono i dettami della moda attuale» aggiunse, accennando una smorfia malinconica, «eppure mi piacerebbe tanto vedere ancora un po' di colore sulle vostre guance.» Sentii con orrore che gli occhi mi si gonfiavano di lacrime. Mi chiesi se stessi per buscarmi un raffreddore. Battei le palpebre con forza e mi guardai intorno. «È molto gentile da parte vostra, Nigel.» Lo era infatti, ma questo non significava che io fossi d'accordo. Mi girai di nuovo, rafforzata nei miei propositi. «Sentite, ho letto i giornali. La Borghaliev ha già fatto tutto il male che poteva. È una persona gretta e meschina e sta divulgando gretti e meschini pettegolezzi ai quali presteranno attenzione soltanto persone grette e meschine.» «Hai appena descritto tutta la buona società di Parigi, cara» intervenne Mossy. «E di Londra. E New York.» Feci spallucce. «Non mi interessa quel che pensano gli altri di me e di quel che faccio.» Mossy alzò le mani al cielo e si accese un'altra sigaretta, ma Quentin si protese nella mia direzione e parlò in tono sommesso. «Conosco quella faccia, Delilah, quel15


l'espressione da Regina delle nevi che significa che vi sentite al disopra di tutto e niente può toccarvi. La stessa espressione che avevate quando le cronache mondane si accanivano sul nostro divorzio. Però temo che questa volta un'espressione di nobile sofferenza non basterà. Si parla di pressioni esercitate sulle autorità affinché venga avviata un'indagine ufficiale.» Restai in silenzio. Quella era tutt'altra storia. Un'indagine formale avrebbe causato complicazioni e una gran perdita di tempo e la stampa ci si sarebbe buttata come un gatto su una ciotola di latte fresco. Quentin, sentendosi in vantaggio, proseguì in tono persuasivo. Aveva sempre avuto il dono di capire quando aveva catturato il mio interesse. «Il tempo è uggioso e sapete bene quanto odiate il freddo. Perché non partite per luoghi più soleggiati lasciando che me ne occupi io? Io e i vostri avvocati francesi riusciremo certamente a convincerli a lasciar perdere, ma ci vorrà un po' di tempo. Perché non trascorrerlo in un clima migliore?» aggiunse sempre in tono mielato. La voce era il suo strumento più efficace come avvocato e anche come amante. Era grazie alla sua voce che era riuscito a convincermi a nuotare nuda nello stagno del giardino del Vescovado di Londra, la prima volta che ci eravamo incontrati. Mi indicò discretamente Mossy con uno sguardo e io vidi il sorriso tirato di mia madre, la rigidità con cui le sue dita reggevano la sigaretta. Era preoccupata, molto più di quel che voleva dare a vedere, Quentin l'aveva in qualche modo persuasa a lasciar fare a lui. Teneva gli occhi fissi sul nastro nero che portavo legato al polso. Avevo lanciato una nuova moda nel bel mondo con quel nastro. Altre donne potevano indossare pizzi o satin intonati al loro abbigliamento, ma io lo portavo solo in seta e solo nero, e Mossy non distoglieva gli occhi da quel nastro che stavo cincischiando. 16


Feci un lungo tiro dalla sigaretta e Mossy finì per perdere la pazienza. «Smettila di giocherellare, Delilah.» La voce era così pungente che se ne accorse persino lei. Moderò il tono, rivolgendosi a me come se fossi un cavallo nervoso da tranquillizzare. «Cara, non avrei voluto dovertelo dire, ma temo che tu non abbia scelta. Ho ricevuto un telegramma da tuo nonno questa mattina. Sembra che i pettegolezzi della contessa Borghaliev si siano propagati un po' oltre i caffè parigini. Hanno raggiunto il The Picayune. Adesso è arrabbiato con te.» Potevo ben immaginarlo. Mio nonno, il colonnello Beauregard L'Hommedieu del IX Cavalleggeri Confederati della Louisiana, era il più chiaro esemplare di creolo scatenato che si fosse visto a New Orleans, però si aspettava che le donne della famiglia si comportassero in maniera impeccabile. Siccome con Mossy e con me non aveva avuto molta fortuna, non si faceva scrupolo a stringere i cordoni della sua borsa pur di tenerci a freno. «Quanto arrabbiato?» «Dice che se non vai via senza scalpore, non ti verserà più la tua rendita.» Scrollai la sigaretta, cospargendo di cenere il tappeto bianco. «Questo è un ricatto.» «Il denaro è suo, cara. Può farne ciò che vuole. Qualsiasi rendita tu riceva da lui è a sua discrezione e in questo momento gli piacerebbe poter contare su un po' di discrezione da parte tua.» Aveva ragione lei. Il colonnello aveva già redatto da tempo il suo testamento escludendo me e Mossy. Disponeva di un ragguardevole patrimonio immobiliare, due case nel quartiere francese, esercizi commerciali lungo il Mississippi, ranch e campi di cotone, e, gioiello della sua corona, Reveille, la piantagione di canna da zucchero appena fuori New Orleans. E tutto, fino all'ultimo acro e bove e balla di cotone era destina17


to a suo nipote. La cattiva fama aveva un prezzo e io e mia madre l'avremmo sicuramente pagato, alla morte del colonnello. Nel frattempo, lui era abbastanza generoso, ma non mancava di chiedere qualcosa in cambio. Più ci comportavamo bene, più ricevevamo. L'anno in cui divorziai da Quentin non ricevetti un centesimo, comunque da allora era andata piuttosto bene. Tuttavia sentirsi il laccio al collo a quasi cinquemila chilometri di distanza era irritante. Sentii che tornava il cattivo umore. «I soldi del colonnello non sono tutto.» «Ma quasi» mormorò Quentin. Aveva impiegato un anno intero a sbrogliare il pasticcio di eredità, rendite e alimenti di cui era composto il mio portfolio, e quasi un altr'anno a spiegarmi con esattezza in che modo le mie uscite erano superiori alle entrate. Con il suo aiuto e alcuni validi investimenti, ero più o meno tornata in pari. La maggior parte delle mie entrate, tuttavia, serviva ancora a pagare gli ultimi creditori e sarebbero passati anni prima che potessi contare su rendite libere da gravami. Le somme elargite dal colonnello pagavano i lussi parigini e le vacanze a St. Tropez. Senza, avrei dovuto fare economia, cosa che, sospettavo, non mi sarebbe piaciuta granché. Mi girai a guardare la pioggia che batteva sui vetri delle finestre formando larghi rivoli. Era un clima tetro, come quello inglese. Gli ultimi mesi del 1922 erano stati orrendi e il 1923 non cominciava meglio. Ovunque andassi trovavo grigiore e desolazione. Proprio mentre guardavo, la pioggia si trasformò in nevischio che picchiava contro i vetri con un suono sibilante. Dio, pensai con un senso di infelicità, perché mi stavo intestardendo a voler restare qui? «D'accordo. Andrò via» dissi. Mossy sospirò di sollievo e persino Weatherby sembrò relativamente più contento. Li avevo sbarazzati del pri18


mo e più difficile ostacolo; erano riusciti a farmi accettare la partenza. Adesso si trattava solo di capire dove mi avrebbero mandata. «America?» propose Quentin. Gli lanciai un'occhiataccia. «Dannatamente improbabile, caro.» Con il proibizionismo e la Sullivan Ordinance a New York non avrei potuto né bere né fumare in pubblico. Divertirsi stava diventando sempre più difficile per una ragazza. «Protesto contro l'ingerenza del governo federale nei diritti dell'individuo.» «O piuttosto contro la mancanza di buoni cocktail?» mormorò Quentin. «Ha ragione» puntualizzò Mossy. «Non potrebbe neppure viaggiare con il suo passaporto americano, solo con quello inglese.» Quentin lanciò un'occhiata a Nigel. «Penso, Sir Nigel, che si potrebbe riprendere in considerazione l'Africa, come da voi suggerito inizialmente.» Ecco di cosa stavano parlando quando ero entrata: Africa. Solo a sentirne il nome, Mossy ricominciò a protestare e Nigel a controbattere cortesemente. Mossy odiava l'Africa. Nigel ce l'aveva portata in luna di miele e lei era stata molto vicina a divorziare subito. Aveva a che fare con dei serpenti dentro il letto. Nigel era andato in Africa in gioventù, nei lontani giorni in cui era un protettorato, la British East Africa, poco più che una promessa di quello che sarebbe diventata in seguito. A quei tempi era una terra giovane e selvaggia, e opportunità di ogni genere abbondavano. Lui aveva acquistato un bell'appezzamento di terreno e costruito una casa sulle rive del lago Wanyama. L'aveva chiamata Fairlight per via dei rosei riflessi che il tramonto accendeva sulle acque del lago, e aveva programmato di stabilirvisi per il resto dei suoi giorni, allevando bestiame e dedicandosi alla pittura. Ma il suo cuore era troppo debole per quel clima, e seguendo il 19


consiglio del medico aveva lasciato Fairlight tornando in patria con un progetto distrutto, il suo diario e poco più. Non lo apriva mai perché gli faceva venire nostalgia di casa, diceva; un'affermazione strana da parte di un inglese. Io a volte andavo nella sua biblioteca e lo prendevo dallo scaffale, maneggiandolo con la reverenza che un religioso userebbe per mostrare il Santo Graal. Era un oggetto mistico, quel diario, rilegato con la pelle di un coccodrillo che Nigel aveva ucciso durante il suo primo safari. Era scritto con un delicato inchiostro marrone scuro e pieno di schizzi, e dentro c'erano pezzetti di ossa e semi e piume e frammenti di gusci d'uovo... una viva testimonianza del tempo trascorso in Africa e di un sogno di ampio respiro purtroppo spentosi presto. Il diario non si chiudeva bene, come se le copertine non fossero abbastanza grandi per racchiudere tutto il Continente, e io stavo seduta per ore a leggere, facendo scorrere un dito lungo le sinuose linee blu dei fiumi, premendo il mignolo nell'azzurro di zaffiro del lago Wanyama per poi farlo risalire su per gli alti pendii verdeggianti del monte Kenya. C'erano persino piccoli disegni di animali, alcuni ritratti in pose tranquille e buffe. C'erano scimmie sgambettanti in diverse pagine, e in un disegno squisito un leopardo si inchinava a un elefante che portava una corona. C'erano minuscoli schizzi ad acquerello di fiori così rigogliosi e colorati che mi sembrava di sentirne la fragranza. O forse il profumo veniva dai delicati petali, ormai grinzosi e scuri, che Nigel aveva conservato in mezzo alle pagine. Mi sembrava fosse per me che aveva racchiuso l'Africa in quel volume. La vedevo con tanta chiarezza con gli occhi della mente. All'epoca desideravo che lui ci portasse là e segretamente speravo che Mossy cambiasse idea e se ne innamorasse, così avrei potuto vedere con i miei occhi se davvero il leopardo si inchinava davanti all'elefante. 20


Lei non cambiò mai idea e poco tempo dopo impacchettò le nostre cose e lasciò Nigel, gli anni passarono e io dimenticai l'Africa e i miei sogni. Fino a quella mattina d'aprile a Parigi sotto il nevischio, quando mi resi conto di averne avuto abbastanza di giornali, scandali e malelingue, e volevo solo andarmene via da tutto. Africa. Il nome stesso mi stregava, e prendendo un profondo tiro dalla sigaretta mi sorprese scoprire il lieve tremito nelle mie mani. «D'accordo» dissi sillabando lentamente le parole. «Andrò in Africa.»

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Questo volume è stato stampato nell'aprile 2015 presso la Rotolito Lombarda - Milano


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