Anne Stuart
writing as
Kristina Douglas
Azazel
Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Demon Pocket Books A Division of Simon & Schuster, Inc. - New York © 2011 Anne Kristine Stuart Ohlrogge Traduzione di Francesca Barbanera Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2014 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione Bluenocturne settembre 2014 Questo volume è stato stampato nell'agosto 2014 presso la Rotolito Lombarda - Milano BLUENOCTURNE ISSN 2035 - 486X Periodico mensile n. 103 del 12/09/2014 Direttore responsabile: Stefano Blaco Registrazione Tribunale di Milano n. 118 del 16/03/2009 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - Via Trentacoste, 7 - 20134 Milano Gli arretrati possono essere richiesti contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171 Harlequin Mondadori S.p.A. Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano
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Romanzo
PARTE PRIMA
IL MONDO REALE
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1 Quell'uomo mi stava seguendo di nuovo. Il mio istinto captò la sua presenza, anche se non lo avevo ancora visto. Era poco fuori dal mio raggio visivo, quel poco che bastava a impedirmi di notarlo con la coda dell'occhio. Si nascondeva tra le ombre e si muoveva furtivamente. Di certo non aveva intenzione di molestarmi. Sì, la mia memoria era compromessa da giganteschi e incolmabili vuoti, ma avevo uno specchio e non mi facevo illusioni sul potere seduttivo delle mie grazie, tutt'altro che irresistibili. Ero l'emblema della mediocrità: altezza media, peso medio, cinque chili più, cinque chili meno. Avevo i capelli corti di quel castano opaco e spento che si ottiene quando si fanno troppe tinture. Anche i miei occhi erano di un marrone insignificante e non risaltavano affatto sul mio incarnato olivastro. Il fisico, poi, non aveva nessuna caratteristica degna di nota. Non c'erano indizi su chi o cosa fossi. L'unica cosa che sapevo era il mio nome: Rachel. Il mio attuale cognome era Fitzpatrick, ma fino a poco tempo prima mi chiamavo Brown e, forse, al prossimo giro avrei scelto Montgomery. Tutti cognomi comuni di estrazione anglosassone. Non conoscevo il motivo per cui prediligevo quel genere di sonorità, ma era così. Ormai mi chiamavo Rachel Fitzpatrick da quasi due anni e l'e7
sistenza confortevole che mi ero costruita con quell'identità mi sembrava la più duratura che avessi mai condotto. Vivevo in una grande città industriale del Midwest e lavoravo per un giornale che, come molti altri del suo genere, era agli sgoccioli. Abitavo in un bellissimo appartamento all'ultimo piano di una vecchia villa vittoriana, avevo un'auto piuttosto comune ma affidabile e dei buoni amici a cui rivolgermi per le emergenze e con cui andare a divertirmi nei momenti di tranquillità. Ero perfino la madrina di battesimo della bimba di Julie, la mia collega di lavoro. E così tiravo avanti, aspettando che accadesse l'inevitabile. Era novembre e mi venne da pensare che, in fondo, non mi era mai piaciuto quel mese. Gli alberi erano spogli, il vento soffiava tagliente, il buio avvolgeva la città come un sudario. E qualcuno mi stava osservando. Non sapevo da quanto tempo lui fosse lì. Mi ci era voluto un bel po' per rendermi conto che era tornato. Non ero mai riuscita a vederlo bene perché restava sempre nascosto nell'ombra. Non era altro che una figura, una sagoma alta e slanciata che incombeva minacciosa al mio fianco. Non avevo nessuna voglia di guardarlo meglio. Mi comportavo sempre con grande prudenza. Non uscivo da sola di notte, mi tenevo alla larga dai luoghi isolati e non abbassavo la guardia. Non avevo mai parlato di lui ai miei amici, neanche a Julie. Cercavo di autoconvincermi che preferivo tacere solo per non farli preoccupare, ma non chiedevo aiuto nemmeno alla polizia, sebbene preoccuparsi fosse il loro mestiere. Cominciai a scandagliare l'enorme vuoto grigio che era la mia memoria in cerca di una possibile spiegazione. Forse quell'uomo era mio marito, un violento che mi seguiva e mi spiava; ero scappata di casa per sfuggire alle sue angherie e il trauma delle violenze subite aveva azzerato ogni ricordo. Oppure ero nel programma di protezione testimoni per aver 8
assistito a un crimine orribile e i responsabili mi stavano pedinando. Allora perché l'uomo non si era mai avvicinato a me? Per quanto cercassi di essere prudente, se qualcuno avesse voluto farmi del male o uccidermi, probabilmente non c'era modo di fermarlo, a meno che... No, non c'era modo di fermarlo, punto e basta. Ne dedussi che il mio inseguitore non mi voleva morta. Era un giovedì freddo e piovoso e io ero rimasta in ufficio fino a tardi per formattare correttamente la pagina dei necrologi. Certo, occuparmi degli annunci mortuari a sera inoltrata non era la mia attività preferita, ma dato che il Courier era alla fine dei suoi giorni tutti facevamo gli straordinari e ci occupavamo di qualunque cosa servisse senza fare storie, eccetto lo sport, dal quale mi ero autoesonerata. In teoria, io avrei dovuto essere la redattrice del settore casa e salute, ma la parola redattrice era un modo gentile per definire l'unica giornalista operativa sul campo. Comunque, di solito il mio lavoro mi piaceva. Certo, non quando dovevo occuparmi dei necrologi. La cosa peggiore erano gli annunci riguardanti i più piccoli. Bambini nati senza vita, morti in culla, aborti. Mi facevano venire una gran voglia di piangere ma, stranamente, non piangevo mai. Se ci fossi riuscita, avrei versato un fiume di lacrime, per giorni, settimane, forse anni. Non mi soffermavo mai a riflettere sull'ipotesi che anch'io avessi perso un figlio in passato. Il mio istinto mi suggeriva che non era mai accaduto nulla del genere. Inoltre, provare dolore per la morte di un bambino era una reazione logica e umana. Chi poteva rimanere insensibile di fronte alla perdita di una vita appena incominciata? Si era alzato un gran vento, che sferzava la città con il suo ululato e scuoteva le finestre del nuovo edificio acquistato scioccamente dal Courier meno di tre anni prima. Spensi il computer; 9
per quella sera avevo finito. Lanciai un'occhiata all'orologio: erano le dieci di sera passate e l'ufficio era deserto. La mia auto era nel parcheggio sotterraneo; lì doveva pur esserci qualcuno. In ogni caso, avrei tirato fuori le chiavi in anticipo e mi sarei precipitata verso la mia vecchia e affidabile Subaru per chiudermi dentro, se avessi visto incombere nell'oscurità qualcosa di minaccioso. Potevo sempre chiamare Julie e chiederle se suo marito poteva raggiungermi per scortarmi. Anche se non le avevo mai parlato del mio inseguitore, avevo spiegato loro che mi preoccupavo molto per la mia sicurezza personale e Bob era venuto a salvarmi diverse volte. Ora, però, avevano una bimba appena nata e non mi andava di disturbarli. Non mi sarebbe successo niente di male. Presi il cappotto e mi avviai verso l'ascensore, ma il telefono sulla mia scrivania iniziò a squillare. Esitai qualche istante, poi decisi di ignorarlo. Chiunque fosse, qualunque cosa volesse, ero troppo stanca per accontentarlo. Volevo soltanto tornare a casa, al riparo da quel maledetto vento, e accoccolarmi nel mio letto caldo. L'ascensore ci stava mettendo un'eternità ad arrivare, considerando che l'edificio era praticamente deserto. Il telefono fisso smise di suonare, ma subito dopo attaccò il mio cellulare. Imprecai sotto voce, infilai una mano in tasca e risposi proprio mentre le porte dell'ascensore si aprivano. Era Julie, in preda al panico. «Rachel, ho bisogno di te» disse con la voce rotta dal pianto. Capii che era successo qualcosa di terribile e un nodo mi strinse lo stomaco. «Che succede?» E, da vera idiota, entrai nell'ascensore. «La bambina. Ha...» Appena le porte si richiusero e l'ascensore iniziò la sua discesa, persi il segnale. 10
«Cazzo» inveii, quasi gridando. Il mio ufficio era al ventiduesimo piano e io avevo premuto il pulsante per andare al secondo sotterraneo. Spinsi in fretta un altro pulsante più in alto, per fermare la discesa. Le porte si aprirono all'ottavo, che era completamente buio e deserto. Uscii di corsa e richiamai Julie mentre le porte dell'ascensore si richiudevano, abbandonandomi nell'oscurità totale. Un brivido mi attraversò la schiena, ma cercai di non farci caso. Avevo i nervi saldi come l'acciaio, non ero una sconsiderata e non c'era ragione di sentirsi tanto inquieta. Mi era già capitato moltissime volte di rimanere sola in quell'edificio. Tuttavia non mi ero mai sentita tanto angosciata prima di allora. Julie rispose al primo squillo. «Dove eri andata?» mi chiese in tono convulso e accusatorio. «Ho perso il segnale» mi affrettai a spiegare. «Che è successo alla bambina?» «Sono all'ospedale. Non riusciva a respirare, così ho chiamato l'ambulanza. L'hanno portata al pronto soccorso e ci hanno cacciato fuori. Ho bisogno del tuo sostegno, Rachel. Sono terrorizzata!» La sua voce era spezzata dall'ansia e dal pianto. «Dov'è Bob?» domandai, cercando di essere pratica. «È qui con me, ma sai quanto sono inutili gli uomini. Non fa altro che camminare avanti e indietro con un'aria tetra e io ho bisogno di incoraggiamento. Ho bisogno della mia migliore amica. Ho bisogno di te. Tra quanto riesci ad arrivare?» Curioso quanto la nostra amicizia fosse divenuta forte in così poco tempo. Era un legame molto intenso e profondo, non un rapporto da colleghe, quasi come se ci fossimo conosciute in un'altra vita. Tuttavia, nemmeno Julie aveva informazioni sul mio passato. «In quale ospedale sei?» «Al St. Uriel, siamo nella sala d'attesa del pronto soccorso. Vieni subito, Rachel! Ti prego!» 11
St. Uriel, pensai. Non è un errore? Uriel non è mica un santo, no? Tuttavia, cercai di rassicurarla. «Arrivo subito» risposi. E capii che era una bugia. Chiusi il cellulare, passando mentalmente in rassegna il contenuto della mia scrivania. Niente di importante: una copia della rivista di arredamento House Beautiful, l'ultimo romanzo di Laurell K. Hamilton e la Bibbia, una presenza piuttosto singolare. Non ero mai riuscita a capire perché la avessi. Chissà, forse ero stata membro di una qualche setta fondamentalista prima di scappare. Dio solo sapeva cosa mi fosse capitato. Nel profondo del cuore, però, sentivo il bisogno di avere la Bibbia sempre con me. Ne avrei trovata un'altra subito dopo essermi sistemata in un hotel. Non era necessario tornare indietro a prenderla. Io ero solita viaggiare leggera e lasciavo meno tracce possibili del mio passaggio. Nessuno sarebbe riuscito a trovare degli indizi sulla mia identità frugando nella mia scrivania. Soprattutto perché nemmeno io avevo la minima idea di chi fossi. Il mio appartamento era altrettanto anonimo. Non c'erano lettere, né segni di vita personale lì dentro. Appese alle pareti c'erano delle riproduzioni economiche di alcuni dipinti preraffaelliti e un grande poster incorniciato che rappresentava una parte della costa nordoccidentale avvolta dalla nebbia; chissà perché, quell'immagine mi era molto cara e non mi andava di separarmene, ma dovevo muovermi in fretta. Nel giro di un giorno o due dovevo sbarazzarmi dell'auto e procurarmene un'altra, prima che Julie si accorgesse della mia scomparsa. Non se ne sarebbe resa conto subito, perché al momento era troppo occupata a vegliare la piccola Amanda e a osservare ogni suo respiro affannato con occhi ansiosi. Ma Amanda non sarebbe morta. Avrebbe incominciato a stare meglio, così come tutti gli altri neonati che avrebbero affollato i reparti degli ospedali fintanto che avessi indugiato in quel luogo. 12
L'unica cosa che dovevo fare era allontanarmi di lì e i piccoli sarebbero guariti. Il mio istinto mi suggeriva che era così, anche se proprio non ne capivo il motivo. Premetti il pulsante dell'ascensore, poi iniziai a camminare ansiosamente avanti e indietro lungo il corridoio buio. Aspettai un po' ma non accadde niente, così spinsi di nuovo il pulsante e accostai l'orecchio alla porta per capire se la cabina si stesse muovendo. Niente, solo silenzio. «Cazzo» ripetei. Non avevo scelta, ero costretta a prendere le scale. Non persi tempo a ragionare sulla cosa. Era arrivato il momento di andarmene, come sempre, e rifletterci sopra non era di alcuna utilità. Non avevo idea di come facessi a sapere tutte quelle cose, né del perché dovessi svignarmela tanto alla svelta. Sapevo solo che era così. Fu solo quando la porta che conduceva alle scale si richiuse alle mie spalle che mi ricordai del mio inseguitore e per un attimo mi feci prendere dal panico. Afferrai la maniglia, ma ovviamente la porta era bloccata. Non avevo scelta. Se volevo allontanarmi dalla città in tempo dovevo sbrigarmi, così cominciai a scendere le scale di corsa. Ma in tempo per cosa? Quello proprio non lo sapevo. La piccola Amanda, però, non sarebbe riuscita a sopravvivere ancora per molto se non me ne fossi andata. Quando raggiunsi il pianerottolo, inciampai e caddi in avanti, battendo lo stinco contro il corrimano. Mi rialzai un po' a fatica e rimasi impietrita. C'era qualcun altro su quelle scale con me. Avvertivo la sua presenza, più vicina di quanto non fosse mai stata prima di allora, e non c'era niente e nessuno tra me e lui. Nessuna barriera, nessuna protezione. Il tempo stringeva. Non avevo armi con me. Ero proprio un'idiota. Nello stato in cui vivevo le leggi consentivano di portare con sé armi nascoste e 13
una piccola pistola sarebbe bastata a fare un bel buco in testa a chiunque mi stesse seguendo. Mi sarei accontentata anche di un coltello o di un oggetto appuntito. A pensarci bene, avevo sentito dire che, in caso di bisogno, si poteva tentare di difendersi con le chiavi, conficcandole negli occhi dell'aggressore... Non riuscivo a capire se lui fosse più in alto o più in basso di me, ma le uniche porte che si aprivano dall'interno lungo le scale erano quelle del parcheggio. Se fossi tornata di sopra, sarei finita in trappola. Cominciai a scendere la rampa successiva, muovendomi più in fretta che potevo e tendendo l'orecchio per sentire il suono dei passi che mi seguivano. Niente, non udii alcun rumore. Chiunque fosse il mio inseguitore era silenziosissimo. Forse quell'uomo era solo frutto della mia immaginazione paranoica. Non c'era alcuna ragione sensata per comportarmi come stavo facendo, basandomi solo sull'istinto. Forse ero una svitata totale e, nella mia pazzia, mi ero convinta di avere chissà quale potere. Perché mai la piccola, insignificante Rachel Fitzpatrick avrebbe dovuto influire tanto sul benessere di un neonato? O di molti neonati, addirittura? Perché dovevo cambiare nome e identità di continuo? Se qualcuno mi stava davvero seguendo, perché non mi aveva ancora catturato? Cosa sarebbe successo se avessi semplicemente guidato fino a casa e fossi rimasta lì? O se avessi raggiunto Julie all'ospedale? Amanda sarebbe morta. Non avevo scelta. Dovevo correre. Azazel cominciò a scendere le scale silenziosamente, quasi senza respirare, seguendo la demone passo dopo passo. Riusciva ad avvertire chiaramente il panico che cresceva in quella creatura e capì che sarebbe scappata. Stavolta gli ci era voluto più del solito a scovarla. Probabilmente stava diventando sempre più abile a trovare nuove identità. Non aveva idea di quanto tempo avrebbe 14
impiegato a rintracciarla se gli fosse sfuggita di nuovo. Più a lungo quell'essere vagava sulla Terra più distruzione causava intorno a sé. Era tempo di agire. Non comprendeva perché avesse esitato tanto, perché l'avesse osservata senza fare niente. L'odio che nutriva per lei era così potente che quasi lo avrebbe spaventato se fosse stato in grado di provare qualche emozione. Tuttavia, non riusciva a sentire niente oltre all'odio puro nei confronti di quel mostro. Forse era stato proprio quello a fermare la sua mano. Una volta uccisa la demone, Azazel non avrebbe sentito più nulla dentro di sé. Chissà se sarebbe stato difficile ucciderla... A vederla così sembrava una normalissima femmina umana, ma lui poteva percepire il suo enorme potere seduttivo anche a una grande distanza. Quell'essere non aveva neanche bisogno dei soliti artifici femminili per attrarlo a sé. Sul suo volto non c'era un filo di trucco e non sfoggiava abiti succinti, anzi, di solito preferiva indossare abiti scuri e abbondanti, nascondendo il suo corpo sotto T-shirt e pantaloni larghi. Non c'era niente in quella creatura che potesse suscitare pensieri erotici in un uomo, eppure ogni volta che Azazel guardava quella donna – quell'essere – veniva preso da un impeto di desiderio. Non doveva mai sottovalutare il potere di quella ragazza. Di quel mostro. Tra i poteri del demone, c'era anche quello di fargli dimenticare che si trovava di fronte a un semplice oggetto malefico e non alla donna vulnerabile di cui aveva le sembianze. Era semplice cadere in errore, pensare a esso come a una femmina umana, una persona che Azazel doveva uccidere. Forse un tempo era stata davvero tale, di certo non lo era più. Ormai era solo l'essere depositario di tutto il potere seduttivo femminile del Creato, un demone con l'aspetto di una donna fragile e mite. 15
Avrebbe potuto catturarla nel parcheggio sotterraneo, spezzarle il collo e poi spiccare il volo per gettare il suo cadavere nel sole. Oppure poteva seppellirla nelle profondità della Terra, buttandola nella bocca di un vulcano. Dentro di sé, aveva la certezza che solo il fuoco poteva eliminare completamente lei e i suoi poteri malefici. Solo con la sua morte la minaccia sarebbe scomparsa. Una minaccia orribile per tutti i neonati e per tutti gli uomini vulnerabili che sognavano il sesso e si risvegliavano posseduti da un demone. Una minaccia per Azazel stesso. Più di ogni altra cosa, la odiava perché la creatura era predestinata a stabilire un legame proprio con lui. L'unico modo per essere certo che non accadesse era distruggerla subito. Era fermo in un angolo della scalinata, al piano terra, e la osservava. Aveva avvolto le ali intorno al corpo per scomparire. Infatti, quando lei si fermò per controllare se qualcuno la stesse seguendo, non si accorse di niente e proseguì. Era l'ennesima prova del suo potere. Nessuno al mondo poteva avvertire la presenza di Azazel quando si copriva con le ali. Lei invece sì. Era evidente che entrambi percepivano la vicinanza dell'altro con la stessa intensità, e la cosa lo disturbava profondamente. Stasera, si disse. Sì, quella sera l'avrebbe uccisa. Non aveva ancora deciso se portare a Uriel le prove della morte del demone o meno. Poteva anche evitare di riferire all'arcangelo cosa aveva fatto. Magari poteva finalmente fare ritorno a Sheol e riprendere le briglie del comando da Raziel, se ce n'era bisogno. Ma così avrebbe dovuto affrontare il fatto che la compagna di Raziel aveva preso il posto di Sarah. No, non era ancora pronto. Doveva pur esserci qualcos'altro da fare prima di tornare a Sheol. La demone era scappata nel garage sotterraneo e lui la seguì, 16
richiudendosi silenziosamente la porta alle spalle. Il parcheggio era illuminato a giorno, ma c'erano cinque o sei macchine in tutto. Lei era a metà strada tra l'entrata e la sua auto rosso scuro, che Azazel riconobbe subito. Sapeva già dove l'avrebbe portata: nel luogo più lontano possibile. All'altro capo del mondo, in uno dei pochi posti in cui ancora proliferava la piaga conosciuta con il nome di Nephilim. Esisteva forse meta migliore per un demone? Azazel agitò una mano in aria e il parcheggio sprofondò nel buio più totale. Avvertì con chiarezza l'ondata di panico che si impossessò della creatura e ne fu molto sorpreso. Non credeva che i demoni avessero paura del buio. Lei iniziò a correre, ma la sua auto era ancora lontana. Azazel spiegò le ali e la catturò. Lanciai un grido, ma la mia voce si perse tra le pieghe del manto che mi copriva. Non vedevo, non sentivo e quasi non potevo muovermi. Ero così disorientata e frastornata che mi venne la nausea. Sentii la terra mancarmi sotto i piedi e cominciai e precipitare giù, sempre più giù... Qualcosa mi stringeva forte, ma non ero in grado di capire cosa fosse. Mi sembrava quasi di avere le braccia bloccate da due morse di ferro che mi tenevano ferma. Il mio volto era schiacciato contro una superficie rigida che pareva coperta di stoffa. Feci un respiro profondo e, stranamente, riuscii a individuare l'odore della pelle di un uomo, un aroma maschile caldo, intenso e indefinibile. Impossibile. Avevo l'impressione di sentire anche il profumo dell'oceano, ma eravamo a migliaia di chilometri di distanza dall'acqua salata. Provai a dimenarmi, ma le morse di ferro mi strinsero ancora di più e io smisi di respirare. Con il petto premuto contro ciò che mi aveva catturato, qualunque cosa fosse, ero completamente impo17
tente, senza peso, in balia del mostro che mi teneva ferma. Riprovai a muovermi, ma venni sopraffatta da un dolore accecante. Era come se mi stessero stritolando il cuore, mi dissi, mentre perdevo i sensi e sprofondavo con sollievo nell'oscurità totale. Sentii qualcuno cantare, il che era davvero assurdo. O ero morta, oppure ero stata catturata da una creatura fantascientifica che mi aveva rinchiusa in un bozzolo o nel suo nido in attesa di mangiarmi. Avevo visto molti film di quel genere, che erano ancora bene impressi nella mia memoria, nonostante non riuscissi a ricordare nemmeno i miei genitori. Avvertivo dolore ovunque, in particolare al petto. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse infilato una mano nel torace e mi avesse stritolato il cuore. Un altro di quei film, pensai, sempre più confusa e frastornata. Però c'era una cosa che ricordavo bene e cioè che la vita vera non era come un film. Non avevo mai creduto ai fantasmi, ai demoni o ai fenomeni notturni inspiegabili. Chiunque mi avesse rapito doveva essere umano, perciò potevo ribellarmi e combattere. Aprii gli occhi con circospezione. Ero sdraiata al centro di un letto pieno di bozzi scomodi, in un ambiente che sembrava la stanza di uno squallido motel. In sottofondo, la radio mandava una musica cupa e deprimente. Accanto a me c'era un letto vuoto, ma al centro del cuscino notai un'area infossata, come se qualcuno ci avesse appoggiato la testa. Probabilmente non ero sola. Provai a muovermi e, sebbene ogni parte del mio corpo si ribellasse con dolore a quel tentativo, mi accorsi di non essere più immobilizzata. Ero distesa a pancia in giù sul materasso, come se qualcuno mi avesse scaraventata lì senza tante cerimonie. Ero quasi certa di non essere stata violentata né molestata sessualmente. Qualcuno mi aveva acciuffata e trascinata via. 18
Il mio inseguitore. Mi voltai sulla schiena con cautela, temendo che lui fosse ancora lì, pronto a saltarmi addosso. Nella mia mente lo immaginavo come un pipistrello che si lanciava in picchiata su di me, battendo freneticamente le ali. Evidentemente avevo picchiato forte la testa e quelle fantasie erano frutto di una commozione cerebrale. Oppure ero stata drogata. La stanza era ancora peggio di quanto avessi supposto. Sembrava più un dormitorio che un motel. In realtà non ero mai stata in un posto del genere prima di allora – per lo meno, non lo ricordavo – ma il piccolo tavolo con due sedie, il fornello elettrico e il triste lavandino di ceramica che arredavano la stanza corrispondevano perfettamente alla mia idea di dormitorio. Mi voltai di lato e per poco non cacciai un urlo terrorizzato. L'altro letto non era più vuoto. Sul materasso era sdraiato un uomo che mi guardava di sottecchi. Aprii la bocca per dire qualcosa, ma la voce mi si spezzò in gola. Lui doveva aver notato la paura e la rabbia che si agitavano nel mio sguardo, ma non si mosse di un millimetro. In una parete della stanza c'era una finestrella lurida e, a giudicare dal colore del cielo, il sole doveva essere sorto da poco. Di colpo mi vennero in mente Amanda e gli altri e mi feci prendere dal panico. «Devo... uscire di qui» riuscii a rantolare faticosamente. Lui rimase immobile e non reagì in alcun modo. Mi chiesi se potesse sentirmi e se capisse quello che dicevo. Forse non parlava la mia lingua. Tuttavia, non potevo permettermi di perdere altro tempo. Cercai di mettermi seduta, ignorando il dolore atroce che mi attraversò il corpo appena mi mossi. «Devi ascoltarmi» dissi con la voce rotta dalla sofferenza fisica. «Non posso restare qui. Devo allontanarmi o moriranno delle persone.» 19
Lui rimase rigido. Nella luce incerta la stanza era buia e non riuscivo a distinguere bene i suoi lineamenti. Potevo vedere soltanto che era alto e magro e che, sicuramente, non era di quelle parti. Gli uomini non crescevano così bene nel Midwest. Mi tirai su e appoggiai i piedi sulla moquette sudicia. «Io me ne vado» annunciai, facendo per alzarmi dal letto. Provavo un dolore atroce in tutto il corpo, ma potevo riuscirci. Dovevo riuscirci. «No.» Anche se le sue labbra non si erano mosse, quella parola mi giunse alle orecchie chiara e forte. «Ti ho detto che...» «Mi hai detto che delle persone moriranno» mi interruppe in tono annoiato. «L'unica che morirà sei tu.» Quelle parole terribili mi avrebbero dovuto gelare il sangue nelle vene, ma avevo già capito di essere una causa persa. «Ascolta» attaccai pazientemente, «puoi fare quello che ti pare: accoltellami, strangolami, sparami... Non me ne importa niente. L'unica cosa che ti chiedo è di farlo a molte miglia di distanza da questa città.» Probabilmente avrei dovuto osservarlo meglio per cercare di individuare un punto debole, ma ero troppo angosciata dal pensiero di Amanda. Ora basta, pensai. Per l'amor di Dio, basta con i bambini. «Siamo in Australia» disse lui. Di colpo abbandonai ogni tentativo di alzarmi e mi fermai per guardarlo in faccia. «Per quanto tempo sono rimasta priva di sensi?» «Non molto.» Okay, ora sapevo per certo che quell'uomo era un pazzo patentato. Non che la cosa mi stupisse granché; nessun individuo sano di mente sarebbe piombato addosso a una donna come un pipistrello per rapirla. Riprovai ad alzarmi dal letto e stavolta ci 20
riuscii, come se ciò che prima mi teneva ferma fosse finalmente scomparso. «Affacciati alla finestra se non mi credi.» Io obbedii. Non c'erano koala o canguri che saltavano lì di fronte. Era solo una squallida zona portuale come tante altre. Tuttavia, ci volevano più di due ore a raggiungere l'oceano dall'ultimo luogo in cui ricordavo di essere stata, perciò dovevo essere rimasta incosciente molto più a lungo di quanto quell'uomo volesse farmi credere. Poco importava. L'unica cosa che contava era che Amanda e tutti gli altri neonati fossero al sicuro. «Okay» dissi, voltandomi a guardarlo. Ero stanca di scappare, stanca del terrore e del panico che minacciava costantemente di soffocarmi. «Coraggio... ammazzami.» E allargai le braccia, pronta a farmi uccidere.
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ANNE STUART writing as KRISTINA DOUGLAS
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