R.L. NAQUIN
Un mostro nell'armadio
Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Monster In My Closet Carina Press © 2012 R.L. Naquin Traduzione di Irene Montanelli Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2015 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione Bluenocturne gennaio 2015 Questo volume è stato stampato nel dicembre 2014 da Grafica Veneta S.p.A. - Trebaseleghe (Pd) BLUENOCTURNE ISSN 2035 - 486X Periodico mensile n. 108 del 30/01/2015 Direttore responsabile: Chiara Scaglioni Registrazione Tribunale di Milano n. 118 del 16/03/2009 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - Via Trentacoste, 7 - 20134 Milano Gli arretrati possono essere richiesti contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171 Harlequin Mondadori S.p.A. Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano
Dedica
A Kevin, che ha aggiustato quello che si era rotto.
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Di tutte le armi possibili che avrei potuto brandire, avevo scelto lo scopino del cesso. I boxer da uomo e la maglietta di Hello Kitty oversize poi, mi facevano sentire ancora più stupida. Mi feci l'appunto mentale di comprarmi una mazza da baseball. E magari qualche pigiama da adulto. Sempre se fossi riuscita a sopravvivere. Rafforzai la presa sullo scopino e mi preparai a saltare addosso all'intruso che si trovava nella mia cucina. La logica, se mai ne avessi avuta a quell'ora del mattino, avrebbe potuto suggerire che lo sconosciuto altri non fosse che la mia amica Sara, che preparava il caffè e tentava di prendermi alla sprovvista per trascinarmi in palestra. Ma riflettei su quell'eventualità solo in un secondo momento. Quando mi ero svegliata sentendo l'odore del caffè, ero giunta subito alla conclusione che qualcuno avesse fatto irruzione in casa mia. E la mia reazione era stata di afferrare lo scopino mentre mi avviavo verso il corridoio. La mattina non sono il massimo della lucidità. Allungai il collo per sbirciare in cucina nascosta dietro un angolo. La logica poteva andare a farsi benedire, perché non era Sara quella seduta al tavolo. L'intruso stava leggendo il giornale, che gli copriva la faccia e il torso, e borbottava tra sé. La tazza di caffè scomparve dietro al quotidiano, e il mormorio si interruppe mentre sorseggiava la bevanda. Poi la tazza ricomparve, e con essa il sommesso rumoreggiare. 7
Ero un po' contrariata, curiosa ma anche irritata. Immagino che avrei dovuto essere piuttosto allarmata, però chi irrompe in una cucina animato da cattive intenzioni e si ferma per prepararsi il caffè e leggere il giornale? Sotto il tavolo, un paio di scarpe da ginnastica a quadretti e alte fino alla caviglia si muovevano al ritmo del borbottio. L'ospite girò pagina e la mia gola si serrò, impedendomi di deglutire. Conoscevo quelle dita pallide e scheletriche che reggevano il San Francisco Chronicle. Scattai all'indietro e mi sorressi al muro del corridoio, ansimando. Conoscevo quelle mani. Strinsi forte a me lo scopino, come se quello avesse il potere di allontanare gli incubi. Il ricordo mi assalì con forza, proiettandosi nella mia mente vivido e pulsante. Vidi quelle mani attorno all'anta dell'armadio, che si allungavano per cavarmi gli occhi. Ero madida di sudore, preda di una paura che, per oltre venti anni, avevo represso e negato. Avevo di nuovo cinque anni e i mostri esistevano davvero. L'istinto di autoconservazione è innato nei bambini e fu quello che mi fece restare zitta e immobile, quella notte. Il minimo rumore e il mostro nell'armadio si sarebbe accorto che io sapevo che lui era lì. Giacevo rigida sotto le lenzuola e la coperta pesante, le dita che ne stringevano il tessuto al di sotto del mento. Nel tenue bagliore della mia lucina notturna degli Orsetti del Cuore, l'anta dell'armadio sembrò scostarsi, non abbastanza da esserne certa, ma quel tanto che bastava a farmi trattenere il fiato e rafforzare la presa sulla coperta. Un'asse del pavimento gemette piano. Avrei potuto tirarmi la trapunta fin sopra la testa per proteggermi, ma un movimento improvviso sarebbe equivalso a urlare «So che sei lì!» e il mostro sarebbe uscito di corsa e mi avrebbe divorato così in fretta da non lasciarmi neppure il tempo di gridare per chiedere aiuto. Inoltre, coprirmi la te8
sta voleva dire dovere, prima o poi, tirarla fuori per respirare. E se non lo tenevo d'occhio, cosa gli avrebbe impedito di strisciare fino al letto e aspettare che mi affacciassi per ritrovarmi il suo muso butterato e bavoso che mi alitava sulla faccia? Rimasi immobile, come se avessi gambe e braccia legate. Valutai l'ipotesi della fuga. Avevo la camicia da notte madida di sudore. Fra il tessuto di cotone attorcigliato attorno alle gambe e i calzini, sapevo di non poter uscire dal letto e correre attraverso la stanza senza che il mostro mi sentisse: per uscire dalla mia camera sarei dovuta passare proprio di fronte all'armadio a muro e non ce l'avrei mai fatta. Avevo bisogno di aiuto. Chiamare ad alta voce qualcuno perché venisse era un grosso rischio, ma era la mia sola possibilità. Dovevo provare. «Mamma.» Quel timido sussurro si sentiva a malapena. Provai di nuovo, mettendoci più forza e voce. «Mamma.» L'anta si aprì di qualche centimetro, stavolta ne ero sicura. Sentivo il legno strusciare sul tappeto. «Mamma.» Stavolta la mia voce era ferma, tono e volume normali. Non dovevo lasciarmi prendere dal panico. I mostri lo adorano, il panico. Lo succhiano con una bizzarra cannuccia e fanno un sacco di rumore. La porta si mosse di nuovo, ormai era aperta per metà. Dita pallide e scheletriche carezzavano lo stipite e degli occhi gialli brillavano nel buio. Una faccia si mosse nella penombra: orecchie a punta racchiudevano la testa come enormi valve, ombre si addensavano ai lati del naso bitorzoluto. Il mostro sogghignava, proprio come mi ero aspettata. Aveva denti seghettati e la bava che colava dal mento aguzzo. Non ero più paralizzata. Mi tirai su seduta, appoggiando la schiena contro il muro. Riempii al massimo i polmoni e gridai con tutto il fiato che avevo in gola. «Mamma!» Nel corridoio si accese una luce. Il mostro dal ghigno ba9
voso ammiccò e rientrò nell'armadio, attento a richiudere la porta. «Zoey, piccolina mia, che hai?» La mamma era lì e io tremavo e singhiozzavo, al sicuro, tra le sue braccia. Il solito odore di mare mi pervase mentre mi carezzava i capelli, sussurrando qualcosa di inintelligibile e consolatorio. Rimanemmo così finché non smisi di tremare e fui infine capace di staccare le dita dalla sua felpa. «Mi voleva mangiare» mugolai. I miei occhi corsero all'armadio e le lacrime minacciarono di inondarmi di nuovo le guance. La mamma aggrottò la fronte. «Vediamo un po'.» Spalancò la porta e tirò il filo che fece accendere la lampadina a penzoloni. Dal letto non riuscivo a vedere l'interno, ma mamma non aveva urlato: era un buon segno. Rimase sulla soglia e guardò dentro per qualche istante, sempre con la fronte aggrottata. Si rivolse alla biancheria sporca, ai vestiti che penzolavano storti dalle grucce e ai giocattoli accatastati, nelle scatole e sui ripiani, in tono deciso e autoritario: «I mostri non sono ammessi in questo armadio. Andate via, mostri! Non siete i benvenuti qui!». Per dare enfasi, accompagnò il discorso agitando un dito e facendo una severa faccia da mamma. Ridacchiai: non avevo più paura. Sapevo che non c'erano mostri e che mamma faceva tutta quella scena per farmi stare meglio. Era stato un gioco di luci. La mia mente che inventava cose. Non c'era mai stato niente lì. Mamma sgridò e controllò scrupolosamente ogni angolo della camera finché, stremata da quel turbine di emozioni, non fui più capace di tenere gli occhi aperti. Per sicurezza, dormii per qualche giorno con la luce accesa ma il mostro non mi disturbò più. Me l'ero immaginato. Lo sanno tutti che i mostri non esistono. E ora mi ritrovavo lì, ventitré anni dopo, a fissare quelle 10
stesse dita spaventose sfogliare il giornale del mattino. Serrai le palpebre e mi concentrai sulla respirazione. Pensai alla mia mamma. Se n'era andata quando avevo otto anni e non rammentavo molto di lei. Ma grazie allo shock di quella mattina, il suo viso mi era apparso chiaramente, in ogni dettaglio, così come il suono della sua voce che intimava al mostro di andarsene. «I mostri non sono ammessi qui» mormorai. «Via, mostri, via.» Che cavolata. Ero un'adulta e un'imprenditrice. I mostri non esistevano, ma gli intrusi sì. Mi feci coraggio e sfoderai la mia migliore faccia da madre severa. Era meglio che quella testa di cavolo che se ne stava nella mia cucina a leggere il mio giornale e a bere il mio caffè avesse una buona ragione per essersi intrufolato in casa mia a quell'ora della mattina e avermi svegliata. Gettai l'inutile scopino sul pavimento, vicino a un mucchietto di scarpe che avrei dovuto riporre giorni prima. Entrai in cucina e, con le mani sui fianchi e le gambe divaricate, fissai il giornale con aria da professoressa incavolata. Ero piuttosto convinta di incutere timore. I miei ricci color mogano erano probabilmente sparati in tutte le direzioni, conferendomi un'aria feroce. Per sicurezza, aggiunsi alla mia espressione anche uno sguardo da serial killer invasato. I miei sforzi, tuttavia, furono vani. L'ospite misterioso era ancora nascosto dietro al giornale e proseguiva a sorseggiare il caffè e, ovviamente, a borbottare. Non si era accorto di me. Pensai di schiarirmi la voce per attirare la sua attenzione ma mi sembrò banale. Cominciai a pensare una serie di esclamazioni che andavano dal minaccioso all'arrabbiato, dal vagamente curioso all'indifferente, ma nessuna mi parve adatta. Così, optai per l'ironia. «Spero bene che tu non abbia fatto le parole crociate, amico.» Mi concentrai per accentuare la psicosi nello sguardo. Il giornale si abbassò e rivelò la stessa orribile faccia ghi11
gnante dei miei ricordi infantili, solo più grande. Mantenni la posizione. Dal momento che i mostri non esistevano, quella era sicuramente un'allucinazione. E arretrare di fronte a una fantasia sarebbe stato imbarazzante. «Ti sei alzata!» esclamò l'ospite indesiderato. «Accomodati, accomodati pure! Ti ho preparato dei muffin all'arancia e fragola. Saranno pronti fra qualche minuto.» Si alzò in piedi e indicò una sedia. «Ti porto il caffè.» Si fermò per un momento e un sorriso gli si allargò sul volto mentre mi guardava. «Cavolo, Zoey, ti sei fatta proprio carina. Coraggio, siediti, accomodati.» Mi sentivo vagamente estraniata mentre attraversavo la stanza e mi accomodavo al mio tavolo. Senza dire una parola, osservai la creatura muoversi per la mia cucina, aprire e chiudere gli sportelli con entusiasmo e apparecchiare. Mi servì una tazza di caffè e mi dette una pacca sul braccio. La mano, pallida e percorsa da un intrico di vene, era calda. Che strano, l'avevo sempre immaginata fredda come la morte. Bevvi meccanicamente il caffè, che era proprio come piaceva a me: dolce, quasi stucchevole, e con una generosa dose di panna montata. La mano mi tremava, facendo traballare il liquido nella tazza, ma mi imposi di apparire calmissima. Mi concentrai sulla respirazione, aspettando che l'allucinazione scoppiasse come una bolla di sapone o si dissolvesse al suono della sveglia. «Zoey, Zoey, la mia amica Zoey!» Ballava per la cucina accompagnandosi a quella canzoncina stonata ed evidentemente improvvisata. Per essere un mostro dell'armadio la sua voce era particolarmente acuta... più simile a quella di Kermit la Rana che a quella di Cookie Monster. «Le ho fatto i muffin ma non sono come i suoi. Zoooooooey!» Si rabbuiò. «Non mi piace questa rima... Magari conosci qualcuno che si chiama Joey? Suona meglio, no?» Il timer del forno trillò e il mostro estrasse lo stampo per muffin e lo mise a raffreddare sui fornelli. Sbattei le palpe12
bre. Non aveva usato il guanto da forno. Presi un altro sorso di caffè. Il mostro si lasciò cadere sulla sedia di fronte alla mia, fissandomi con i suoi occhi tondi e gialli. «Allora posso restare? No, aspetta, non rispondere subito. Prima assaggia i muffin. Sono un bravo cuoco! E posso anche pulire la piscina. Davvero, non ti darei fastidio.» Sbattei di nuovo le palpebre. «Che cosa?» «Ce l'hai ancora con me, vero? Non sai quanto mi dispiace. Non volevo spaventarti, quella volta.» Era surreale persino come allucinazione. Sulla testa, la creatura aveva un ciuffetto di peli sottili, ben pettinati e tirati da una parte. Tranne uno: mi focalizzai su quell'unico pelo testardo che, forse spinto da un moto di indipendenza, gli stava ritto sulla testa. Quando il mostro parlava, quello dondolava, muovendosi avanti e indietro al ritmo dei suoi gesti entusiastici. Mi chiesi se si sarebbe offeso se gli avessi offerto un po' di gel per sistemarlo. «... e quindi, quando lei mi ha sbattuto fuori, sono venuto qui. L'unico posto dove mi sia mai sentito al sicuro.» «Eh?» Ero sicura di essermi persa qualche dettaglio fondamentale. «Devi ancora svegliarti» disse, dandomi un'altra pacca sul braccio. «Bevi il caffè, ci riproveremo dopo che avrai mangiato.» Il mio mostro dell'armadio – che aveva detto di chiamarsi Maurice – si rivelò essere un cuoco eccezionale. I muffin si scioglievano in bocca ancora prima che li potessi masticare. I sapori si amalgamavano sulla lingua come se i dolcetti fossero stati preparati con un magico frutto raccolto da un albero di aranciagola che cresceva all'ombra di due arcobaleni in un orto profumato di vaniglia e innaffiato solo con lacrime di unicorno. Erano enormi e ne divorai tre. A un certo punto, mentre mangiavo il secondo dolcetto, la 13
nebbia si dissolse e riuscii a capire cosa il mostro mi stesse dicendo. A stomaco pieno parve tutto più accettabile, quasi normale. «All'epoca anche io avevo solo otto anni» raccontò. «Non avevo un posto dove stare e la tua mamma mi accolse. Oh, Zoey, era così arrabbiata con me quella notte. Dovevo stare nel ripostiglio dell'ingresso, ma nel tuo armadio c'erano tutti quei bei giocattoli. Ero già appassionato di cucina e il tuo Dolce Forno era perfetto per sperimentare, in piccolo, le ricette di tua madre. La lampadina che c'era dentro faceva un bel calduccio, potevo persino cuocerci i biscotti.» Allungò una mano come per toccarmi di nuovo, ma poi la ritrasse, guardandosela. «Non volevo spaventarti. Credevo fosse un gioco. Non hai visto che sorridevo?» Annuii. Il ricordo di quel ghigno mi dava ancora i brividi. «Credevo mi volessi divorare.» Maurice arricciò il suo grosso naso. «Ma che schifo, Zoey! Comunque, non molto tempo dopo tua mamma mi trovò una nuova famiglia. Venivo a farle visita ogni tanto, mentre tu eri a scuola. Sono cresciuto e ho sposato una bella gargoyle... ho fatto un po' di cose.» Abbassò la testa e, per la prima volta, la sua allegria si incrinò. «Pansy mi ha sbattuto fuori. Se la fa con un troll, credo. Non lo so.» Piluccò un muffin, osservando le briciole cadere sul tavolo. «Mi dispiace tanto» risposi. La sua tristezza mi sfiorò, simile a tentacoli invisibili che mi avvilupparono il petto, stringendo piano. Allungai la mano, fermandomi un attimo prima di sfiorare la pelle venata che spuntava dalla manica della camicia a quadretti gialli e verdi. «Magari tornerete insieme. Queste cose spesso si risolvono da sole.» «Magari.» Maurice sollevò lo sguardo dal muffin che stava smembrando. «Quindi posso rimanere?» Poggiai la fronte sul polso, sospirando. Prima che fossi costretta a rispondere a quella richiesta tanto assurda, il cellulare iniziò a suonare una strozzata Marcia Nuziale. Mi fiondai a 14
cercarlo, maledicendomi per averlo buttato in quel pozzo senza fondo che era la mia borsa. Non appena lo trovai, per paura di perdere la chiamata, risposi senza guardare il display. «Buongiorno bimba!» Sbuffai e considerai seriamente l'idea di tornarmene a letto: un giorno che iniziava così male, poteva solo finire peggio. La cosa giusta da fare era riaddormentarsi e aspettare che passasse. «Che vuoi, Brad?» chiesi atona, cercando di non incoraggiare il mio ex marito mostrando una qualsiasi parvenza di emozione o rabbia. «Non fare così, bimba. Ora non posso chiamarti per sentire come stai? Magari mi mancavi e basta.» Questo sì che era allarmante, peggio di quando chiamava perché voleva qualcosa. «Senti Brad, è una mattinata folle. Facciamo finta che ci siamo già salutati e scambiati i convenevoli di rito e passiamo subito al motivo per cui hai fatto il mio numero.» Dall'altro lato del tavolo, Maurice mi guardava, poi decise che le briciole sul tavolo erano molto più interessanti della mia conversazione e si mise a pulire. Dall'altra parte del telefono si levò un sospiro, profondo e melodrammatico. «Be', ecco Zoey, il fatto è che sono un po' indietro con l'affitto e mi chiedevo...» «No.» «Solo un paio di centoni, te li rendo non appena...» «No.» «Andiamo Zo, solo per questa volta. Ti prometto...» «Brad, avrei mille motivi per sbatterti il telefono in faccia. Ti ho prestato più soldi di quanti abbia voglia di contare, soldi che, so perfettamente, non rivedrò mai più. Insomma, vivi coi tuoi genitori. Non penso che ti daranno lo sfratto.» «In effetti, in un certo senso lo hanno fatto. Ho un posticino tutto mio, adesso. Saresti così fiera di me. E ho anche un 15
lavoro: scarico scatoloni in una cartiera. Guadagno piuttosto bene.» «Ma non abbastanza da pagare l'affitto.» Mi passai una mano tra i capelli e mi lasciai cadere sulla sedia. Maurice era al lavello, intento a lavare le stoviglie ma dalla posizione delle spalle sottili capii che stava ascoltando tutto. «Quasi. Mi serve solo un aiutino per arrivare fino al giorno di paga. Per favore, Zo.» «Te li sei bevuti o giocati?» Il tono di voce di Brad virò sull'offeso. «Per tua informazione, non bevo da quattro mesi.» La nota di disperazione che colsi nelle sue parole mi scivolò lungo il collo, densa e soffocante, e prese a scorrermi lungo le spalle simile a melassa, calda e appiccicosa. Eravamo stati sposati per soli sei mesi, e ne avevo impiegati altrettanti per farlo sloggiare dalla mia casa. Erano passati otto anni e ancora non ne voleva sapere di uscire per sempre dalla mia vita. «Non ti darò neanche un soldo.» «Ma...» «Stammi a sentire. Se vuoi, posso darti una mano. Vieni in ufficio alle due, e se mi farai qualche consegna ti pagherò. Abbiamo bisogno di un aiuto.» «È fantastico Zo, ma ho da fare questo pomeriggio. Non potrei venire un po' più tardi?» «Ho detto alle due. Se vuoi il mio aiuto, vieni per quell'ora. Se arrivi tardi non se ne fa niente.» Riagganciai prima che potesse ribattere, e quel gesto mi riempì di soddisfazione. Mi sentivo come una diva del cinema, che non deve mai dire grazie o arrivederci. «Se dai un dito...» interloquì Maurice senza alzare la testa dal lavello. «Oh, senti da che pulpito. Sbaglio o sei tu quello che mi ha chiesto se poteva restare qui gratis?» Maurice non rispose, apparentemente impegnato a togliere 16
una macchia dal pianale. Affondai la testa tra le braccia, cercando di dimenticare la telefonata di Brad. La mano del mostro si appoggiò, gentile, sulla mia spalla. «Non è colpa tua. È il tuo dono.» «Cosa? Collezionare bisognosi come chewing gum appiccicati alla suola?» Trasalii. «Non mi riferivo a te.» «Lo so. È il dono. Tua madre aveva lo stesso problema.» Alzai la testa, colta da un presentimento. «Perché mai mia madre aveva ospitato un mostro nel nostro ripostiglio?» «Per aiutarmi. Era questo che faceva. Aiutava la gente.» Maurice si posizionò nuovamente davanti al lavello per asciugare le stoviglie. «Proprio come fai tu.»
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