SUPERTASCABILI
Tess Gerritsen
DOPPIA IDENTITÀ
traduzione di Alessandro Ossola
Immagine di copertina: iStock Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Call After Midnight Harlequin Intrigue © 1987 Terry Gerritsen Traduzione di Alessandro Ossola Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 1988 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione Harmony Intrigue ottobre 1988 Questa edizione SUPERTASCABILI gennaio 2018 SUPERTASCABILI ISSN 2532 - 7089 Periodico mensile n. 6 del 25/01/2018 Direttore responsabile: Chiara Scaglioni Registrazione Tribunale di Milano n. 221 del 10/07/2017 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Gli arretrati possono essere richiesti contattando il Servizio Arretrati al numero: 045.8884400 HarperCollins Italia S.p.A. Viale Monte Nero 84 - 20135 Milano
Prologo Berlino Occorrono venti secondi di pressione sulla carotide per mandare un uomo in stato d'incoscienza. Altri due minuti e la morte diventa inevitabile. Simon Dance non aveva bisogno di una laurea in medicina per saperlo: gli bastava l'esperienza. Sapeva anche che il laccio non deve mai allentarsi. Se non è ben teso, se permette che anche un solo prezioso fiotto di sangue raggiunga il cervello della vittima, la lotta si può prolungare. E questo rende l'intera operazione seccante, forse anche pericolosa. Non c'è niente di più vitale di un uomo che sta morendo. Acquattato nel buio, Dance avvolse il laccio intorno alle mani. Erano passate due ore da quando aveva spento la luce. Evidentemente il suo assassino era un tipo prudente e voleva essere sicuro che la preda fosse profondamente addormentata. Se era un professionista, doveva sapere che le prime due ore di sonno sono le più profonde. Quello era il momento giusto per colpire. 5
Dal corridoio giunse uno scricchiolio. Dance s'irrigidì, poi si alzò lentamente e si mise in attesa accanto alla porta. Sentì la familiare sensazione dell'adrenalina che acuiva i suoi riflessi. Tese il laccio tra le mani. Una chiave s'introdusse nella serratura. Dance sentì il suono metallico dei dentelli nell'ingranaggio. La chiave girò e la serratura scattò con un sordo cloc. La porta si aprì lentamente e la luce del corridoio si riversò nella stanza. Un'ombra varcò la soglia e si diresse verso il letto, dove giaceva qualcosa che sembrava un uomo. Tre colpi attutiti dal silenziatore si piantarono nei cuscini. Contemporaneamente al terzo colpo, Dance scattò. Il laccio si avvolse intorno alla gola dell'uomo e Dance tirò i capi verso l'esterno e verso l'alto. Il laccio affondò esattamente dove la carotide era più esposta, sotto l'articolazione della mascella. La pistola cadde sul pavimento. L'uomo si dibatté come un pesce all'amo e tentò freneticamente d'infilare le dita tra il laccio e la gola, poi portò le mani dietro la nuca tentando di afferrare la faccia di Dance. Le braccia e le gambe persero coordinazione, si contorsero e si agitarono in tutte le direzioni. Poi pian piano le gambe cedettero e le braccia si tesero un'ultima volta prima di ricadere inerti. Mentre contava i secondi, Dance sentì gli ultimi spasmi di quel corpo, l'estremo sforzo delle cellule cerebrali assetate e morenti. Tenne salda la stretta. 6
Passati tre minuti, lasciò andare il laccio e il corpo si afflosciò sul pavimento. Dance accese la luce e guardò l'uomo che aveva appena ucciso. Il viso cianotico gli era vagamente familiare. Forse lo aveva visto per la strada, o da qualche parte, su un treno, ma il nome non lo conosceva. Frugò rapidamente le tasche del morto, ma trovò solo dei soldi, le chiavi di un'auto e alcuni arnesi del mestiere: caricatori di scorta, un coltello a serramanico, un grimaldello. Un professionista senza nome, pensò. Si chiese distrattamente quanto lo avessero pagato. Trascinò il corpo sul letto e gettò per terra i tre cuscini che aveva sistemato sotto le coperte. Stimò che il morto doveva essere alto più o meno un metro e ottanta. La sua stessa altezza. Bene. Scambiò i propri indumenti con quelli del cadavere. Forse non era necessario, ma Dance era un uomo preciso. Si sfilò la fede e tentò d'infilarla sull'anulare dell'uomo, ma non riuscì a farle superare la nocca. Andò in bagno, insaponò l'anello e alla fine riuscì a raggiungere lo scopo. Poi si sedette e fumò qualche sigaretta. Si sforzò di scoprire quale dettaglio poteva aver trascurato. I tre proiettili, naturalmente. Tastando i cuscini riuscì a trovarne due. Il terzo doveva essere sepolto in qualche parte del materasso. Prima che potesse cercarlo, udì dei passi nel corridoio. Un complice? Raccolse la pistola, la puntò contro la porta e aspettò. I passi superarono la porta e svanirono in fondo al corridoio. Falso allarme. Però 7
doveva andarsene subito, era sciocco restare più a lungo. Prese dall'armadio una bottiglia di metanolo. Bruciava in fretta e non lasciava tracce. La versò sul cadavere, sul letto e sui tappeti. La stanza non aveva un dispositivo antincendio automatico: proprio per questo Dance aveva scelto quel vecchio albergo. Mise il portacenere accanto al letto, raccolse gli effetti personali dell'uomo e li mise in un sacchetto di plastica insieme alla bottiglia vuota di metanolo. Poi accese il rogo. Il fuoco divampò con un ruggito e in pochi secondi il corpo ne fu avvolto. Attese un po' per essere sicuro che non sarebbe rimasto nulla di identificabile. Portando con sé il sacchetto di plastica, uscì nel corridoio, chiuse la porta con la chiave e andò verso l'allarme antincendio. Non c'era motivo di uccidere degli innocenti. Ruppe il vetro e tirò la maniglia dell'allarme, poi scese le scale fino al piano terra. Da un vicolo rimase a guardare le fiamme che danzavano dietro la finestra della stanza. L'albergo fu evacuato e la strada si riempì di gente dagli occhi gonfi di sonno avvolta nelle coperte. In capo a tre minuti arrivarono tre camion dei pompieri. A quel punto la stanza doveva essere una fornace. Ci volle un'ora per spegnere l'incendio. Una folla di curiosi aveva raggiunto gli infreddoliti ospiti dell'albergo. Dance ne studiò le fisionomie 8
e le archiviò nella memoria. Se mai ne avesse rivisto uno, si sarebbe messo immediatamente in allarme. Poi, al di là della folla, scorse una limousine nera che strisciava lentamente lungo il marciapiede. E così c'era anche la CIA. Interessante. Aveva visto abbastanza. Era tardi, doveva rimettersi in viaggio e tornare ad Amsterdam. Tre isolati più in là gettò il sacchetto di plastica in un cestino della spazzatura. E con quell'ultimo particolare aveva finito. Quel che doveva fare a Berlino era fatto. Geoffrey Fontaine era morto. S'inoltrò nell'oscurità fischiettando. Amsterdam Il vecchio fu svegliato alle tre del mattino con la notizia: «Geoffrey Fontaine è morto». «Come?» chiese. «Un incendio in un albergo. Dicono che stava fumando a letto.» «Un incidente? Impossibile. Dov'è il corpo?» «All'obitorio di Berlino. Quasi carbonizzato.» Ovviamente, pensò lui. Come al solito, Simon Dance aveva fatto un lavoro accurato. E così lo avevano perso di nuovo. Ma il vecchio aveva ancora una carta da giocare. «Mi ha detto che aveva una moglie americana» disse. «Dove vive?» «A Washington.» «Voglio che sia sorvegliata.» 9
«E perché? Le ho appena detto che è morto.» «Lui non è morto. È vivo. Ne sono sicuro. E quella donna forse sa dov'è. Voglio che sia sorvegliata.» «Manderò i miei uomini...» «No. Manderà il mio uomo. Uno di cui mi posso fidare.» Ci fu una pausa. «Le farò avere l'indirizzo della donna.» Dopo aver riagganciato, il vecchio non riuscì a riprendere sonno. Per cinque anni lo aveva cercato. Essergli arrivato così vicino solo per vederselo sfuggire ancora! Adesso tutto dipendeva da quanto sapeva quella donna. Doveva avere pazienza e aspettare che si tradisse. Avrebbe mandato Kronen, che non lo aveva mai deluso. Kronen aveva i suoi metodi per ottenere le informazioni. Metodi a cui era difficile resistere. Era quello il suo talento: la persuasione.
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1 Washington Era passata mezzanotte quando squillò il telefono. Sarah lo sentì attraverso una densa cortina di sonno. Tentò di svegliarsi, ma restò intrappolata in un limbo tra il sonno e la veglia. Però doveva rispondere: doveva essere Geoffrey. Per tutta la sera aveva atteso di sentire la sua voce. Era mercoledì e, durante il suo viaggio mensile a Londra, Geoffrey chiamava sempre di mercoledì. Quella sera, però, era andata a letto presto tossendo e tirando su col naso, vittima dell'influenza che aveva colpito mezza Washington. Aveva leggiucchiato per un'oretta, ma alla fine l'effetto combinato dell'aspirina e dell'ultimo numero del Giornale di Microbiologia era stato più potente di un sonnifero. Si svegliò trovandosi gli occhiali di traverso sul naso e la rivista sul petto. Guardò l'ora. Mezzanotte e mezzo. Il telefono era silenzioso. Aveva sognato? L'apparecchio squillò di nuovo facendola sob11
balzare. Afferrò ansiosamente la cornetta. «La signora Sarah Fontaine?» chiese una voce maschile. Non era Geoffrey. Un improvviso senso d'angoscia la svegliò completamente. «Sì, in persona» rispose. «Signora Fontaine, sono Nicholas O'Hara, del Dipartimento di Stato. Sono spiacente di disturbarla a quest'ora, ma...» Fece una pausa che la terrorizzò: troppo voluta, troppo studiata, come una procedura. «Temo di avere delle brutte notizie» terminò. Sarah sentì una stretta alla gola. «Si tratta di suo marito. C'è stato un incidente.» Non è vero, pensò lei chiudendo gli occhi. Se fosse vero lo saprei, lo avrei sentito... «È accaduto circa tre ore fa» continuò l'uomo. «C'è stato un incendio nell'albergo in cui alloggiava.» Un'altra pausa. «Signora Fontaine, è ancora lì?» chiese poi. «Sì. Vada avanti, la prego.» L'uomo si schiarì la voce. «Sono desolato, signora. Suo marito... non ce l'ha fatta.» In uno stupido, irrazionale gesto di orgoglio, Sarah si premette una mano sulla bocca per soffocare un singhiozzo. «Signora Fontaine?» chiese gentilmente l'uomo. «Si sente bene?» Finalmente le riuscì di respirare a fondo. «Sì» sospirò. «Non deve preoccuparsi per il... per le questio12
ni pratiche. Organizzerò tutto con il nostro consolato di Berlino. Ho paura che ci vorrà un po' di tempo, naturalmente, ma una volta che le autorità tedesche avranno autorizzato il rilascio del corpo non dovrebbero esserci...» «Berlino?» interruppe lei. «Sì, è nella loro giurisdizione. Avremo un rapporto completo non appena la polizia di Berlino...» «Ma questo è impossibile!» O'Hara si costrinse a essere paziente. «Mi dispiace, signora Fontaine, la sua identità è stata confermata.» «Geoffrey era a Londra» gridò lei. Ci fu un lungo silenzio. «Signora Fontaine» disse alla fine O'Hara in tono esasperatamente calmo, «l'incidente è avvenuto a Berlino.» «Allora ci dev'essere un errore! Geoffrey era a Londra. Non poteva essere in Germania!» Nuova pausa. Ora si capiva che O'Hara era perplesso. Sarah si rese conto che stava strizzando il ricevitore con tutta la sua forza e la mano cominciava a farle male. Ci doveva essere un errore. Qualche pazzesco, stupido equivoco. Geoffrey era senz'altro vivo. Avrebbe riso sentendo la notizia della propria morte, ne avrebbero riso insieme. «Signora Fontaine» disse alla fine O'Hara. «In quale albergo pernottava a Londra?» «Al... al Savoy. Dovrei avere il numero da qualche parte... mi lasci guardare...» 13
«Non importa, lo troverò io. Mi faccia fare qualche ricerca. Forse possiamo vederci domani mattina.» Erano parole caute e misurate, pronunciate col tono piatto e incolore del burocrate che ha imparato a non lasciar trasparire nulla. «Potrebbe venire qui nel mio ufficio?» «Come... come ci arrivo?» «Viene in macchina?» «No, non ho la macchina.» «Allora la mando a prendere.» «È uno sbaglio, vero? Cioè... vi capita di fare degli sbagli, no?» Un briciolo di speranza. Un filo a cui aggrapparsi. Ma tutto ciò che ottenne fu: «Ci vediamo domani mattina, signora. Verso le undici». «Aspetti, per favore! Mi spiace, non riesco neanche a pensare. Il suo nome... come ha detto che si chiama?» «Nicholas O'Hara.» «Dov'è il suo ufficio?» «Non si preoccupi. L'autista la porterà a destinazione. Buonanotte.» «Signor O'Hara?» Udì un clic e seppe che O'Hara aveva riagganciato. Fece immediatamente il numero dell'Hotel Savoy di Londra. Bastava una telefonata per chiarire tutto. «Hotel Savoy» rispose una donna dall'altra parte del mondo. «Pronto. Vorrei la stanza del signor Geoffrey Fontaine, per favore» disse Sarah tutto d'un fiato. 14
«Mi spiace, signora. Il signor Fontaine ha lasciato l'albergo due giorni fa.» «Ha lasciato l'albergo?» gridò Sarah. «Ma dov'è andato?» «Non lo sappiamo. A ogni modo, se desidera fargli avere un messaggio, saremo lieti di inoltrarlo al suo domicilio attuale...» Sarah lasciò cadere il ricevitore senza riagganciare. Guardò il telefono come se fosse un marchingegno perverso. Poi, lentamente, il suo sguardo scivolò sul cuscino di Geoffrey. Il grande letto matrimoniale sembrava sconfinato. Forse non sarebbe più tornato, l'avrebbe lasciata sola in quel letto troppo grande, in quell'appartamento troppo silenzioso. Rabbrividì, si sentì di nuovo stringere la gola, ma le lacrime sembravano non voler uscire. Si gettò sul letto, col viso premuto sul guanciale di Geoffrey. Sapeva di lui, della sua pelle e dei suoi capelli. Forse non sarebbe mai più tornato. Ed erano stati sposati solo per due mesi. Nick O'Hara vuotò la sua terza tazza di caffè e si allentò il nodo della cravatta. Dopo due settimane al mare con addosso solo un paio di shorts, la cravatta era come un cappio. Era tornato a Washington solo da tre giorni e già non ne poteva più. Era stato alle Bahamas e aveva passato quindici giorni senza fare nient'altro che abbrustolirsi al sole. Aveva bisogno di stare solo, di pensare a se stesso. Ma la conclusione delle sue meditazioni 15
era stata solamente una: era un uomo infelice. Dopo otto anni passati al Dipartimento di Stato, Nick O'Hara ne aveva davvero abbastanza. Sentiva di girare a vuoto, la sua carriera era a un punto morto e non era del tutto colpa sua. A poco a poco i giochetti della politica internazionale gli erano divenuti insopportabili. Ma era rimasto al suo posto perché credeva nel valore intrinseco del proprio lavoro: dalle marce pacifiste della sua adolescenza alle trattative di pace internazionali. Gli pareva che ci fosse una certa continuità. Con un sospiro aprì la pratica intestata: Fontaine, Geoffrey H. C'era un piccolo particolare che lo aveva tormentato per tutta la mattina. Dall'una di notte era rimasto incollato al terminale del computer, cercando di ottenere tutto ciò che poteva dagli sterminati dossier del governo. Aveva anche passato una mezz'ora al telefono col suo amico Wes Corrigan, del consolato di Berlino. Alla fine si era deciso a rivolgersi a fonti meno consuete. Quella che era cominciata come una normale telefonata di condoglianze a una vedova si stava trasformando in un rompicapo di cui non possedeva tutti gli indizi. E a lui non piacevano i rompicapi incompleti. Lo facevano imbestialire. Quando si metteva alla ricerca di fatti e informazioni, poteva essere insaziabile. Ma adesso, con la pratica Fontaine tra le mani, sentiva di avere solo un pugno di mosche. Nient'altro che un nome. E un decesso. Si strofinò gli occhi arrossati e sbadigliò. 16
Quando era all'università e aveva vent'anni, passare una notte in bianco lo eccitava. Adesso ne aveva trentotto, e lo faceva solo sentire a pezzi. E affamato. Alle sei aveva divorato tre brioche, che insieme al caffè gli avevano dato abbastanza energia per tirare avanti ancora un po'. Ormai era troppo curioso per fermarsi. La porta si aprì e Tim Greenstein entrò allegramente. «Eureka! L'ho trovato!» disse. Lasciò cadere un dossier sulla scrivania e rivolse all'amico uno di quei sorrisi larghi e un po' ebeti per cui andava famoso. Nella maggior parte dei casi i sorrisi erano rivolti allo schermo di un computer. Tim era il segugio dell'ufficio, l'uomo a cui tutti si rivolgevano quando un dossier non si trovava dove avrebbe dovuto. Il suo sguardo era distorto da spesse lenti da miope e il resto del viso, a parte una fronte ampia e un naso sottile, era celato da una barba incolta e corvina. «Te l'avevo detto che lo avrei trovato» disse, lasciandosi cadere sulla poltrona di fronte a Nick. «Ho fatto fare qualche ricerca al mio amico dell'FBI, ma non ha trovato niente, così ho ficcanasato un po' per conto mio. Ti garantisco che non è stato facile ottenerlo: è tra le pratiche riservate. Su in archivio ci dev'essere qualche giovane idiota che insiste nel fare il proprio lavoro.» Nick si accigliò. «Lo hai avuto per via ufficiale?» «Sì. C'è anche altro, ma non ho potuto arrivar17
ci. Ho scoperto che anche la CIA ha qualcosa sul tuo uomo.» Nick aprì il dossier e sgranò gli occhi. Il documento poneva più domande di quante non ne risolvesse, domande che parevano senza risposta. «E questo che cosa dovrebbe significare?» borbottò. «È il motivo per cui non riuscivi a trovare niente su Geoffrey H. Fontaine. Fino a un anno fa quel tipo non esisteva.» «Puoi trovarmi qualcos'altro?» «Senti, Nick, ho paura che stiamo camminando nell'orto di qualcun altro. I ragazzi dell'Agenzia potrebbero aversene a male.» «E tu lascia che se la prendano con me.» Nick non aveva il minimo timore della CIA. Non dopo tutti gli agenti incompetenti che aveva incontrato. Fece spallucce. «Comunque sto solo facendo il mio lavoro. La mia vedova inconsolabile, rammenti?» «Però questa faccenda di Fontaine sembra che abbia radici piuttosto profonde.» «E allora scaverai in profondità.» Tim sorrise. «Vuoi fare il detective?» «Sono solo curioso.» Guardò di traverso la pila di pratiche inevase che aveva sulla scrivania. Scartoffie: il veleno della sua vita. Il caso Fontaine lo stava distraendo troppo. Una virile stretta di mano alla vedova, due parole gentili e Geoffrey Fontaine era morto, sepolto e dimenticato. Questo avrebbe dovuto fare. 18
Ma ormai Tim aveva attizzato la sua curiosità. «Senti, Tim, perché non facciamo qualche ricerca sulla moglie di quel tipo, Sarah Fontaine? Potremmo scoprire qualcosa di più.» «Giusto. Perché non lo fai tu stesso?» «Sei tu quello che ha accesso ai dossier riservati.» «Sì, ma tu hai sottomano la donna.» Tim accennò alla porta. «Ho sentito la tua segretaria prendere il suo nome. Sarah Fontaine in questo momento si trova al di là di quella porta.» La segretaria era una donna di mezz'età con due gelidi occhi azzurri e una bocca che sembrava tagliata con un rasoio. Alzò gli occhi dalla macchina per scrivere giusto il tempo necessario per prendere il nome di Sarah e indicarle un divanetto lì accanto. Sarah sprofondò nei cuscini e si guardò le mani strette in grembo. Non aveva più preso sonno e l'influenza non la mollava. Si sentiva uno straccio. Comunque nelle ultime dieci ore era riuscita a costruirsi una corazza, non sapeva quanto robusta, contro il dolore. Se non altro pensava di essere in grado di affrontare la realtà senza scoppiare a piangere. Sul tavolo della segretaria si udì il suono di un campanello, poi una voce disse: «Angie? Vuol far passare la signora Fontaine, per favore?». «Sì, signor O'Hara.» Guardò Sarah. «Adesso può entrare» disse. 19
Sarah si mise gli occhiali e aprì la porta. Quando fu nell'ufficio, si fermò per un attimo a osservare l'uomo dietro la scrivania. Dava le spalle alla finestra, e al principio riuscì a vederne solo la sagoma. Era alto e magro e le spalle sembravano un po' curve. Aveva un'aria stanca. L'uomo si alzò e girò intorno alla scrivania per stringerle la mano. La camicia azzurra era sgualcita e la cravatta gli pendeva intorno a collo come se qualcuno ci si fosse appeso. «Signora Fontaine, sono Nick O'Hara.» Riconobbe subito la voce che dieci ore prima aveva raso al suolo tutto il suo mondo con una telefonata. Nick le tese la mano. Un gesto che Sarah giudicò subito automatico, una pura formalità che senza dubbio era identica per tutte le vedove. Però la stretta era sincera. Da vicino poté vedere il viso lungo e spigoloso e la bocca priva di sorriso. Doveva essere vicino ai quaranta, forse anche più vecchio. I capelli castani erano spruzzati di bianco e gli occhi grigi erano sottolineati da profonde occhiaie. Le indicò la poltrona. Mentre si sedeva, Sarah notò per la prima volta che nella stanza c'era una terza persona, un uomo occhialuto e barbuto che sedeva in un angolo. Nick si appoggiò alla scrivania e la guardò. «Sono davvero addolorato per suo marito, signora Fontaine» disse in tono gentile. «Dev'essere stato un colpo tremendo per lei. Succede a molta gente 20
di non voler credere a quel che sente quando riceve la nostra telefonata. Ho provato il bisogno di incontrarla personalmente. Avrei qualche domanda, e sono sicuro che anche lei ne avrà.» Accennò all'uomo con la barba. «Le dispiace se il signor Greenstein assisterà al colloquio?» Sarah si strinse nelle spalle. Si chiese vagamente per quale motivo quel Greenstein fosse lì. «Lavoriamo entrambi per il Dipartimento di Stato. Io al reparto affari consolari» continuò Nick, «mentre il signor Greenstein al reparto supporto tecnico.» «Capisco.» Rabbrividì e si strinse nel maglione. Stava ricominciando ad avere freddo e aveva male alla gola. «Si sente bene?» le chiese Nick. «In questo ufficio si gela.» «Vuole una tazza di caffè?» «No, grazie. La prego, vorrei sapere di mio marito. Non riesco ancora a crederci. Continuo a pensare che ci sia stato un errore.» «È una reazione comune pensare che sia tutto uno sbaglio.» «Davvero?» «Rifiuto. Ci passano tutti. È proprio quello che lei sta provando in questo momento.» «Però lei non chiede a tutte le vedove di passare nel suo ufficio, vero? Ci dev'essere qualcosa di diverso, questa volta.» «Sì» ammise lui, «qualcosa c'è.» Prese il dossier dalla scrivania e ne estrasse un 21
foglio fitto di appunti. Era una calligrafia illeggibile, a parte l'autore nessuno sarebbe riuscito a decifrarla. «Dopo averle telefonato, signora Fontaine, ho contattato il nostro consolato di Berlino. Quello che lei mi aveva detto non mi ha lasciato indifferente, e ho sentito il bisogno di fare una verifica. Così ho parlato con Wes Corrigan, il nostro console. Ecco che cosa mi ha detto.» Scorse i suoi appunti. «Ieri, intorno alle venti, ora di Berlino, un uomo di nome Geoffrey Fontaine è andato all'Hotel Regina. Ha pagato con un traveler's check. La firma corrispondeva. Per l'identificazione ha usato il passaporto. Circa quattro ore dopo, verso mezzanotte, i pompieri hanno ricevuto una chiamata dall'albergo. La stanza di suo marito era in fiamme. La versione ufficiale è che si è addormentato con la sigaretta accesa in mano. Suo marito... era troppo ustionato perché fosse possibile un'identificazione diretta.» «E allora come fanno a essere sicuri che è lui?» sbottò Sarah, che fino a quel momento aveva ascoltato con crescente disperazione. «Qualcuno potrebbe avergli rubato il passaporto.» «Mi lasci finire, per favore.» «Ma lei ha appena detto che non è stato possibile identificare il corpo.» «Cerchiamo di essere razionali, per favore.» «È quello che sto facendo!» «E invece lei è emotiva. Senta, è normale che una vedova si aggrappi a ogni speranza, ma...» 22
«Non sono affatto convinta di essere vedova.» Nick allargò le braccia. «Okay, okay, allora stiamo ai fatti. I fatti nudi e crudi. Primo: nella stanza hanno trovato la sua ventiquattrore. Fatta di alluminio, resistente al fuoco.» «Geoffrey non ne ha mai avuta una così.» «Il contenuto era intatto. C'era il passaporto di suo marito.» «Ma...» «Poi c'è il rapporto del medico legale. È stato esaminato il corpo... almeno quello che ne restava. Non avevano una cartella dentistica per fare il raffronto, ma l'altezza corrispondeva.» «Questo non vuol dire niente.» «E poi...» «Signor O'Hara...» «E poi» disse lui quasi brutalmente, «abbiamo un'ultima prova, una cosa che è stata trovata sul corpo.» Sarah si premette le mani sulle orecchie. Se era una prova definitiva, lei non voleva sentire. «Si tratta di una fede nuziale. L'iscrizione all'interno era ancora leggibile: Sarah. 14-2.» Alzò gli occhi dal foglio. «È la data del vostro matrimonio, no?» Sarah chinò lentamente la testa. Gli occhiali le caddero in grembo e gli occhi le si riempirono di lacrime. Cercò alla cieca un fazzoletto nella borsa, ma O'Hara l'aveva preceduta e le stava porgendo un'intera scatola di Kleenex. Probabilmente faceva parte del suo lavoro. Nick restò a guardarla mentre si asciugava le 23
lacrime e cercava di soffiarsi il naso senza fare troppo rumore. Sotto il suo esame, Sarah si sentiva stupida e goffa. Gli occhiali scivolarono sul pavimento e la borsetta rifiutava di chiudersi. Sentì un disperato desiderio di andarsene e scattò in piedi. «Si sieda, per favore, signora Fontaine. Non ho ancora finito» disse Nick. Come un bambino ubbidiente, Sarah tornò a sedersi tenendo gli occhi bassi. «Se si tratta dei funerali...» «No, di questo ci occuperemo in seguito, quando sarà arrivato il corpo. Ma c'è qualcos'altro che vorrei chiederle. A proposito dei viaggi di suo marito. Come mai era in Europa?» «Per affari.» «Che genere di affari?» «Era... rappresentante della Banca di Londra.» «Allora viaggiava molto.» «Sì. Quasi ogni mese doveva andare a Londra.» «Solo a Londra?» «Sì.» «Mi dica perché era in Germania, signora Fontaine.» «Non lo so.» «Deve averne almeno un'idea.» «Non lo so.» «Era sua abitudine non dirle dove andava?» «No.» «Allora come mai era in Germania? Ci deve pur essere una ragione. Altri affari? Altre...» 24
Lei lo guardò duramente. «Altre donne? È questo che vuol dire?» Nick non abbassò gli occhi. «È un sospetto ragionevole.» «Non su Geoffrey!» «Su chiunque.» Si guardarono negli occhi. «Lei è stata sposata per due mesi» proseguì lui. «Quanto profondamente conosceva suo marito?» «Conoscerlo! Io lo amavo, signor O'Hara.» «Non stavo parlando di amore, qualunque cosa voglia dire. Le ho chiesto se conosceva profondamente quell'uomo. Chi era, che cosa faceva. Da quanto tempo vi frequentavate?» «È stato... credo sei mesi fa. L'ho incontrato in un bar, vicino a dove lavoro.» «Dove lavora?» «Agli Istituti Nazionali di Sanità. Faccio ricerche di microbiologia.» Nick strinse le palpebre. «Che tipo di ricerche?» «Ingegneria genetica... DNA. Perché me lo chiede?» «Si tratta di ricerche segrete?» «Continuo a non capire perché...» «Sono segrete o no, signora?» Sarah lo fissò, scioccata dall'asprezza del suo tono. Poi disse piano: «Sì. Alcune sono segrete». Nick annuì e prese un altro foglio dal dossier. «Ho chiesto al signor Corrigan di verificare il passaporto di suo marito» proseguì calmo. «Ci sono diversi visti d'ingresso: Londra, Schiphol, 25
l'aeroporto di Amsterdam. E alla fine Berlino. Tutti i visti portano date dell'ultima settimana. Può spiegare perché è andato proprio in queste città?» Sarah scosse la testa. «Quando le ha telefonato l'ultima volta?» «Una settimana fa. Da Londra.» «È sicura che fosse a Londra?» «No. Era una chiamata diretta. Non ho parlato col centralino.» «Suo marito aveva un'assicurazione sulla vita?» «No. Cioè, non lo so. Non me ne ha mai parlato.» «C'è qualcuno che trarrà beneficio dalla sua morte? Economicamente, voglio dire.» «Non credo.» Nick scosse la testa. Incrociò le braccia e si appoggiò allo schienale. Sarah ebbe quasi l'impressione di sentire il rumore del suo cervello che lavorava. Ed era confusa quanto lui. Tutta la faccenda sembrava non avere senso. Geoffrey era stato suo marito, eppure stava cominciando a chiedersi se questo O'Hara non potesse avere ragione. Dividere un appartamento e un letto con un uomo può significare moltissimo, ma può anche non significare nulla. No, no, un momento. Questo voleva dire tradire la memoria di Geoffrey. E poi chi era questo sconosciuto che le metteva in testa tutti quei dubbi? Non poteva nascondere un secondo fine? 26
All'improvviso provò una rabbiosa antipatia nei confronti di Nick O'Hara. «Se ha finito...» disse, alzandosi di nuovo. Lui tornò a guardarla di scatto, come se avesse dimenticato la sua presenza. «No. Non ho finito.» «Non mi sento bene. Vorrei andare a casa.» «Ha una fotografia di suo marito?» chiese lui, brusco. Presa in contropiede, Sarah aprì la borsa e pescò una fotografia dal portafogli. Era abbastanza somigliante, scattata su una spiaggia della Florida durante i loro tre giorni di luna di miele. Gli occhi azzurri guardavano direttamente l'obiettivo, e i capelli biondo oro formavano come un'aureola intorno a un viso irregolare ma piuttosto attraente. O'Hara prese la foto e la studiò senza fare commenti. A Sarah parve di vedere un velo di tristezza calargli sugli occhi. Si chiese che cosa stesse pensando mentre guardava quella foto. A parte i segni della fatica, il viso di lui restava inespressivo, così come gli occhi grigi e impenetrabili. Mostrò la foto a Greenstein e poi la restituì. Lei la rimise a posto con cura. «Perché mi sta facendo tutte queste domande?» «Devo farlo. Mi dispiace, ma è necessario.» «Per chi? Per lei?» «Anche per lei. E forse persino per Geoffrey.» «Questo proprio non ha senso.» «Ne avrà quando le avrò detto del rapporto della polizia berlinese.» «C'è qualcos'altro?» 27
«Sì. Riguarda le circostanze della morte di suo marito.» «Ma lei ha detto che è stato un incidente.» «Sì, perché sembrava un incidente.» Parlando, Nick la osservava attentamente. Non voleva perdersi nemmeno la minima reazione del suo viso. «Quando ho parlato con il signor Corrigan, un paio d'ore fa, c'erano stati nuovi sviluppi. Nel corso delle normali indagini sull'incendio è stato esaminato ciò che restava della stanza. Nei resti del materasso hanno trovato un proiettile.» Sarah lo fissò incredula. «Come sarebbe a dire un proiettile? Vuole dire...» Nick annuì. «Pensano che si tratti di omicidio.»
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Prossimo mese Due voci uniche, due storie che sapranno coinvolgervi fino all'ultima pagina. Emily Richards accompagnerà il lettore in un viaggio che attraversa mezzo mondo. Una lettera dall'Irlanda getterà una nuova luce sul passato della famiglia Donaghue. Un'altra storia ad alta tensione e un crime riuscitissimo, invece, per l'affermata Brenda Novak alla prese con lo Strangolatore di Sandpoint. Tutto fa pensare che sia tornato, ma forse non è così.
Questo volume è stato stampato nel dicembre 2017 da CPI, Barcelona