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MARY & FRANCES SHEPARD

I colori della nebbia


I colori della nebbia © 2013 Mary & Frances Shepard Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2013 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione I Grandi Romanzi Storici ottobre 2013 Questo volume è stato stampato nel settembre 2013 presso la Rotolito Lombarda - Milano I GRANDI ROMANZI STORICI ISSN 1122 - 5410 Periodico settimanale n. 892 del 2/10/2013 Direttore responsabile: Stefano Blaco Registrazione Tribunale di Milano n. 75 dello 01/02/1992 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - Via Trentacoste, 7 - 20134 Milano Gli arretrati possono essere richiesti contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171 Harlequin Mondadori S.p.A. Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano


Prologo

Un anno prima Matilde non sapeva cosa l'avesse svegliata. Forse era stata la camicia da notte che si era attorcigliata attorno al corpo, bloccandola. La stanza era silenziosa e appena illuminata dal fioco bagliore delle braci nel camino. Madida di sudore, la giovane fece alcuni tentativi di liberarsi, ma ogni movimento l'avvolgeva di più nelle spire di stoffa umida, lasciandola spossata e senza fiato. Sentiva la testa pesante e aveva la gola riarsa, probabilmente a causa della febbre che la tormentava da quasi una settimana. Non avrebbe voluto alzarsi, ma, visto che era sveglia, pensò di approfittarne per bere un po' d'acqua. Strinse i denti e si sollevò sui gomiti. Nonostante la debolezza, doveva riuscire a scendere dal letto. Seduta, appoggiò i piedi nudi sul pavimento di legno e si alzò afferrandosi alla cassapanca; poi, con le gambe che le tremavano, percorse la breve distanza che la separava dalla porta e si affacciò sul corridoio. Era immerso nel buio. Avrebbe dovuto portare con sé una candela, pensò sconsolata, tuttavia, se fosse tornata indietro a prenderla poi non avrebbe avuto più la forza necessaria per scendere in cucina. Meglio proseguire nell'oscurità. Dopotutto aveva percorso quel corridoio un'infinità di volte e lo conosceva alla perfezione. 5


Si avviò lentamente, così silenziosa che udiva solo il frusciare delle proprie vesti nell'oscurità. Il pavimento era freddo nonostante fosse il mese di luglio e l'umidità notturna togliesse il fiato. I suoi genitori l'avevano mandata in campagna, nella tenuta dei Sette Frati, per farle respirare dell'aria più sana, ma la salute, anziché migliorare, era peggiorata. Aveva la febbre alta da tre giorni ormai, e in quella grande villa, con la sola compagnia di uno stalliere, di una cuoca e della loro figlia, si sentiva abbandonata. Tastò il muro con le mani e, grazie a una crepa, si rese conto di essere giunta fin quasi alle scale. Si fermò e allungò il piede in cerca del primo scalino. Uno scricchiolio la fece sobbalzare. Qualcuno stava salendo. Al buio. Un brivido le percorse la schiena. Il suo cervello iniziò a lavorare freneticamente. Se si fosse trattato di uno dei domestici avrebbe di sicuro avuto con sé una candela. I passi erano pesanti e veloci. Stivali? Matilde si appiattì contro il muro. Lo stalliere dormiva sopra le stalle, non in casa, dunque non poteva essere lui. Due giorni prima aveva ascoltato di nascosto la cuoca parlare con la contadina che portava loro il latte. Si era lamentata del fatto che le campagne erano piene di disertori dell'esercito francese. E se colui che stava salendo le scale fosse stato proprio uno di loro, che si era introdotto in casa per rubare? I passi erano ormai vicinissimi e Matilde poteva sentire il respiro pesante dell'intruso. I suoi occhi si erano abituati al buio e riusciva a distinguerne l'ombra sul pianerottolo: era un uomo molto alto e le dava le spalle. Si stava dirigendo verso l'ala ovest con passo sicuro, come se sapesse perfettamente dove andare, pensò la giovane. Quando vide l'uomo entrare nello studio di suo padre, Matilde tornò a respirare e scese le scale stando attenta a non fare rumore; 6


poi, in punta di piedi si diresse verso le stanze della cuoca pensando di svegliarla prima di allertare lo stalliere e i vicini. La luce della luna che entrava dalle ampie finestre del piano inferiore permise a Matilde di muoversi più in fretta e di vedere, una volta raggiunta la camera della domestica, che lei e la figlia erano a letto. Avvicinandosi sentì qualcosa di bagnato sotto i piedi. Abbassò gli occhi e notò che erano immersi in un liquido scuro e viscoso. Forse una lanterna si era rotta e l'olio si era rovesciato sul pavimento? No, il liquido sembrava colare dal letto. Gocciolava dal materasso... Oh, santo cielo, era sangue! Soffocò il grido di orrore che le era salito alle labbra tappandosi la bocca con la mano. Il cuore le martellava così forte che sembrava volesse uscirle dal petto. Guardò meglio. La cuoca era stata sgozzata. E anche la gola della figlia, una ragazzina di dieci anni, era stata tagliata da parte a parte. Il sangue uscendo produceva un debole gorgoglio. Matilde chiuse gli occhi e cercò di controllare la nausea inclinando la testa all'indietro e mordendosi il labbro fino a farlo sanguinare. L'intruso le aveva uccise. Doveva correre a chiedere aiuto. Sconvolta, tornò sui propri passi e una volta in cucina cercò di uscire in cortile dalla porta di servizio, ma qualcosa la bloccava. In preda al panico spinse più forte, ma riuscì a malapena ad aprire uno spiraglio... Il corpo dello stalliere giaceva riverso davanti all'uscio. Gli occhi spalancati e fissi. Morto. Anche lui. A quel punto il terrore prese il sopravvento e Matilde gridò. Urlò e urlò ancora, finché una grossa mano non le tappò la bocca. In un bizzarro lampo di lucidità si rese conto che quello che le premeva contro la guancia era un moncone, come se all'uomo che la stringeva mancasse il pollice. 7


«Chut! Taci!» le intimò una ruvida voce maschile, prima in francese e poi in italiano, rivelando così la propria nazionalità. Ma era troppo tardi. Qualcuno doveva averla udita gridare, perché dalla finestra vide avvicinarsi delle luci. Erano contadini con delle fiaccole in mano e armati di forconi. Probabilmente una delle squadre di sorveglianza organizzate per cacciare i disertori dai campi, altra notizia a cui la cuoca aveva accennato. «Merde!» imprecò il francese prima di spingerla via con forza. Matilde cadde a terra e istintivamente sollevò gli occhi verso il suo aggressore. Nella penombra non lo distingueva nitidamente, ma prima che l'uomo le voltasse le spalle e scappasse verso l'ingresso notò una mascella quadrata, una bocca nascosta da lunghi baffi e occhi piccoli e ravvicinati. Sentì sbattere la porta. Probabilmente per sfuggire alla pattuglia l'assassino sarebbe andato verso i boschi. Sperò che lo catturassero, altrimenti sarebbe vissuta nel terrore che un giorno potesse tornare per finire il lavoro e uccidere anche lei. Tremante, si rannicchiò sul pavimento con le braccia strette intorno alle ginocchia e iniziò a piangere.

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Lasciare Vienna nel suo perfetto e plumbeo splendore non rappresentò, almeno nell'immediato, quella ventata di novità che il maggiore William Joseph Roschmann aveva immaginato e desiderato. Come ufficiale dell'esercito imperiale amava l'aspetto militare della propria carica, ma detestava quello mondano, non sopportava i ricevimenti e apprezzava ancor di meno le persone che vi prendevano parte. Dopo tanti anni trascorsi ad addestrare i giovani ufficiali destinati a diventare la nuova guardia personale di Sua Maestà Francesco I, aveva preparato i bagagli con entusiasmo non appena aveva ricevuto il dispaccio urgente che lo distaccava in quella remota provincia dell'impero; ma ora, mentre si allontanava da Vienna, rimpiangeva il conforto di un pasto caldo e di un'uniforme che non fosse zuppa d'acqua. Erano trascorsi troppi anni dall'ultima volta che gli era capitato di affrontare tre giorni di viaggio sotto una pioggia torrenziale; aveva mani e piedi intirizziti e ogni ora passata in sella inaspriva il dolore alla spalla sinistra, un ricordo della battaglia di Austerlitz che avrebbe sempre portato con sé, come la medaglia al valore appuntata sulla giubba grigia. Quando giunse alle porte di Mantova sentì tutto il peso dei suoi trentun anni. Poiché la rigida formazione militare gli imponeva di entrare in città a testa 9


alta, cercò di scrollarsi di dosso la stanchezza, almeno per salvare le apparenze. Si tolse il berretto da viaggio e si ravviò i capelli biondo cenere che l'umidità gli aveva fatto aderire al capo, controllò che l'arma d'ordinanza fosse ben salda nella tracolla e lisciò con un gesto automatico le mostrine ricamate con filo bianco sulla stoffa verde della giubba: sul campo chiaro spiccavano la stella dorata, che testimoniava il grado di maggiore, e la stella alpina, simbolo dei Cacciatori, la divisione più specializzata dell'esercito, addestrata a muoversi su qualsiasi tipo di terreno e a cui William era fiero di appartenere. Sistemò la sciabola con la mano sinistra continuando a tenere con la destra le redini del baio, che scalpitò, ma seguì subito i suoi comandi, emettendo una densa nuvoletta di fiato. «Forza, Kaiser, ci siamo quasi.» William tranquillizzò il cavallo parlando in italiano. Da quel momento in avanti si sarebbe sforzato di comunicare nella lingua del Regno Lombardo-Veneto, che aveva studiato mentre frequentava la più antica accademia militare d'Austria, situata nel severo castello di Wiener Neustadt. Avrebbe forse zoppicato per qualche settimana e l'accento aspro gli avrebbe impedito di essere fluente in un idioma così ricco di vocali, ma era stato il migliore del corso e sul campo non era disposto a rendere meno. Attraversò Porta Giulia e, oltre il lungo ponte coperto dei Mulini, scorse il profilo bello e antico di Mantova. L'uniforme che indossava, la postura eretta e la forma squadrata e massiccia della mascella lo identificavano come ufficiale austriaco fin dal primo sguardo, tanto che gli abitanti della città lo studiarono da subito con attenzione, curiosi di sapere se il suo arrivo lì avrebbe determinato un cambiamento fra le milizie di stanza. A quell'epoca Mantova, insieme a Verona, Le10


gnago e Peschiera, era una delle roccaforti del Quadrilatero eretto a difesa della ricca regione e, dopo la recente Restaurazione, era diventata un centro di straordinaria importanza strategica per i movimenti di truppe dell'Impero Austriaco. L'Imperatore Francesco Giuseppe Carlo d'Asburgo Lorena non era disposto a cedere un solo miglio di quel territorio strappato ai francesi. Ora che la lunga e sanguinosa guerra contro l'esercito napoleonico si era conclusa con la sconfitta della compagine francese e la cattura di Napoleone, il sovrano poteva finalmente dedicarsi ai propri territori. Ovunque per le vie di Mantova si costruiva, si demoliva, si ristrutturava, e le strade principali erano, né più né meno, grandi cantieri brulicanti di operai. William pensò che forse, in capo a qualche anno, tutti quei mattoni avrebbero formato edifici degni di nota, ma al momento la vista di quelle nude fondamenta lo lasciò senza fiato. Seppure grondante di pioggia, non riusciva a staccare gli occhi dalla vitalità pulsante che animava la città. Per troppo tempo era stato lontano dalle strade e dalla gente comune, prigioniero dei salotti e delle chiacchiere inutili della corte, che l'avevano distolto dalla sua vocazione per la vita militare. Nemmeno addestrare gli ufficiali destinati a formare la guardia personale del sovrano era bastato a soddisfare il suo desiderio di azione. Nonostante fosse il secondogenito del Conte Franz Maximilian Roschmann, suddito stimato di Sua Maestà, e vantasse per parte di madre illustri legami con membri della Camera dei Lord inglesi, lui non era cresciuto negli agi come un nobile rampollo. Ad appena cinque anni era stato spedito all'Accademia Militare Teresiana, dove ogni anno cento nobili e cento popolani venivano addestrati nei rigidi ranghi dell'esercito asburgico, e lì, oltre a diventare un soldato d'impareggiabile valore, aveva avuto modo 11


di confrontarsi con giovani provenienti dalle classi sociali più disparate. L'accademia era stata il suo banco di prova, dopodiché lui aveva proseguito la carriera militare come allievo ufficiale. Poi, a vent'anni, era stato assegnato a un reparto di fanteria ed era partito alla volta della Moravia, fresco di studi e gonfio d'orgoglio per la splendida uniforme da cadetto che indossava. Nel 1805 la compagine austriaca aveva subito colossali perdite sulle pianure vaste e desolate di Austerlitz. L'esercito di Napoleone aveva falciato come una poderosa scure le giovani vite di coloro che avevano tentato di opporsi alla sua avanzata. Per ironia della sorte, era stato sul campo di quella che si era rivelata in seguito la più colossale sconfitta degli austriaci che il giovane William aveva dimostrato il proprio valore. Non si era arreso e aveva continuato a combattere fino all'ultimo, senza curarsi dei cadaveri che lo circondavano. Le gesta eroiche e una ferita che lo aveva ridotto in fin di vita avevano contribuito a innalzarlo nelle grazie di Sua Maestà, che lo aveva nominato capitano della sua guardia personale. William si era battuto con onore e aveva versato il proprio sangue per l'impero, tuttavia dopo quei giorni di gloria ad Austerlitz aveva trascorso dieci anni di servizio negli ambienti più esclusivi a cui un militare potesse avere accesso. Nonostante gli agi e la riconoscenza dell'imperatore, a poco a poco era sprofondato nell'apatia, tanto che alla fine Sua Maestà in persona, preoccupato per la sua salute, aveva deciso di trasferirlo. Dal giorno in cui aveva ricevuto la comunicazione, William aveva ripreso vigore, si era dedicato all'addestramento, e in breve era tornato l'uomo imponente e atletico di sempre. «Largo! Largo!» urlò un vecchio, distogliendolo dai suoi pensieri. 12


Il maggiore scese da cavallo e si fermò un istante sul ciglio della strada, carezzando il muso di Kaiser, per lasciare il passo a un carbonaio che cercava di far passare un ingombrante carro carico di legna sotto il voltone di un palazzo. L'uomo si tolse il cappello logoro dal capo per ringraziarlo. William avrebbe desiderato continuare a camminare, ma un gruppetto di ragazzini con le guance rosse per il freddo lo circondò offrendogli delle mele piccole e ammaccate, così salì di nuovo a cavallo, frugò nella sacca di pelle in cui custodiva la lettera d'accompagnamento e ne estrasse qualche moneta che gettò loro. «Grazie, signore! Siete troppo generoso!» strillò un bimbo passandosi la manica cenciosa sotto il naso. William proseguì lentamente fino a via Accademia, dove, secondo le indicazioni del dispaccio, si trovava il suo alloggio. Gli appartamenti che il comando gli aveva assegnato occupavano un intero piano di un palazzo gentilizio di recente costruzione, a due passi dal Teatro Bibiena. Quando salì l'ampio scalone di marmo bianco che conduceva alle sue stanze, scosse tristemente il capo, pensando con rammarico che non sarebbe mai più riuscito a ottenere il trattamento che era riservato ai suoi parigrado. La gratitudine di Francesco I non aveva limiti e quella lussuosa sistemazione era solo l'ultimo dei molti regali che gli aveva elargito. Decise che sarebbe andato a presentarsi in caserma l'indomani. Quella giornata interminabile poteva dirsi conclusa. Appena ebbe varcato la soglia rimase sbalordito davanti alla forma seducente e luccicante di un pianoforte a coda. Lo sguardo si posò prima sullo strumento e poi sul resto del mobilio. Le tende di pesan13


te broccato blu, provenienti di certo da Vienna, aggiungevano un tocco di familiarità a quelle stanze dai soffitti alti e dai pavimenti lucidi. Iniziò a esplorare l'abitazione lasciando qua e là impronte di fango, come orme sulla sabbia. La camera da letto padronale era un trionfo di lusso e arroganza maschile, con le sue alte uniformi sistemate su alcuni manichini prima del suo arrivo affinché rimanessero in perfetto ordine. Lui, che aveva viaggiato con la semplice divisa dei Cacciatori, si augurò di non avere molte occasioni in cui sfoggiare quelle tenute da parata. «Ben arrivato, signor conte.» Una voce alle sue spalle lo fece scostare bruscamente dalla bacheca in cui erano custodite le sue onorificenze e mostrine. Era stato un uomo anziano e distinto a parlare, di certo un servitore mandato dallo stesso imperatore. «Il Conte Roschmann è mio fratello. Puoi chiamarmi maggiore» replicò, indispettito da quella presenza. «Örnagy William Joseph Roschmann, è un onore fare la vostra conoscenza. Sono Gustav, umile servitore di Sua Signoria» si presentò l'uomo inchinandosi profondamente. «Non sono necessarie tante cerimonie, Gustav. Sono un soldato» puntualizzò William. «Ma certo, maggiore. Gradite un bagno caldo o preferite che dia l'ordine di preparare la cena?» Imperterrito, Gustav puntò i piccoli occhi, rotondi e blu, in quelli di William, scuri e socchiusi per la diffidenza. «Come vuoi...» sospirò lui, iniziando a sbottonarsi i polsini della giubba. Più tardi, immerso nell'acqua calda di una vasca di ghisa, William rimase a lungo immobile con lo sguardo fisso sul vapore che saliva dal suo bagno. 14


Fuori dalla finestra della camera da letto si stava alzando una fitta nebbia e quel grigiore evocò nella sua mente le immagini agghiaccianti di quel giorno di dieci anni prima, ad Austerlitz. Era come se quei ricordi appartenessero al presente che stava vivendo invece che a un passato ormai lontano... Una densa bruma che si mescolava al fumo dei cannoni avvolgeva il campo di battaglia in una nube spettrale. Le grida e i lamenti dei feriti gli giungevano attutiti; ovunque c'erano corpi affondati nell'erba bagnata. La luce del sole filtrava appena attraverso le nuvole, ma riusciva ugualmente a svelare gli orrori della carneficina. Lui, più giovane e innocente, sprezzante del pericolo, avanzava solitario verso la sommità di una collina, capitando senza volerlo a un passo dalla guardia reale austriaca. «Capitano! Tornate alla vostra unità!» Non riuscì a decifrare all'istante quelle parole, pronunciate da un ufficiale della scorta dell'imperatore, poiché il rumore degli spari le sovrastava. Vide emergere dall'erba fitta la canna scintillante di un moschetto e iniziò a correre per impedire al nemico di sparare. Dopo aver superato il capannello degli alti ufficiali che circondavano il sovrano per proteggerlo, piombò addosso al francese che, pur giacendo in fin di vita tra l'erba alta, quando aveva visto vicino a sé l'imperatore aveva tentato il tutto per tutto prima di arrendersi al destino, sparando l'unico colpo che gli era rimasto in canna. Udì vagamente i nitriti terrorizzati dei cavalli della guardia imperiale, il fragore della detonazione, le grida dei soldati, dopodiché due alti ufficiali lo scostarono bruscamente dal corpo del francese. La sua prima reazione nel vedere la macchia di sangue color rubino allargarsi sulla giubba bianca fu di stupore. Poi vennero il dolore e l'orribile sensazione di quel pezzo di ferro arrugginito, il proiettile, spro15


fondato nelle sue carni, fermo a un palmo dal cuore. William scosse la testa, cercando di spazzare via quei terribili ricordi. L'acqua del bagno si era raffreddata, così uscì dalla vasca e si asciugò strofinando un telo di lino sull'ampio petto, deturpato proprio accanto al cuore da una grossa cicatrice a forma di stella. Era stato addestrato per essere pronto a sacrificare la propria vita in cambio dell'incolumità dell'imperatore, e quando il momento era giunto l'aveva fatto: su quel campo era quasi morto per lui. Nessuno, tuttavia, l'aveva preparato ad affrontare la generosità di un monarca: balli, feste, lusso sfrenato, inaugurazioni e serate all'Opera di Vienna, belle attrici o ballerine offertegli come eleganti rose a fusto lungo. Non si era mai lamentato di tutti quei doni, ma per un uomo cresciuto con i suoi principi avere tutto senza sentire effettivamente di meritarlo era avvilente e il suo spirito si era affievolito giorno dopo giorno. Una fortunata circostanza, ecco cosa gli aveva permesso di salvare la vita di Francesco I, nulla di più. Si diresse verso l'ampio letto, sprofondò tra le coltri profumate e cadde in un sonno inquieto e tormentato dai fantasmi del passato. Il giorno seguente, quando si alzò poco prima dell'alba, William si sentiva pieno di energia e di entusiasmo come nei primi tempi della sua carriera, e mentre si vestiva con meticoloso scrupolo avvertì una stretta allo stomaco che interpretò come impazienza. Qualcuno gli aveva preparato la colazione, notò scorgendo un vassoio sul tavolino della camera, una premura sgradita, poiché vedeva l'incarico in quella nuova città come una possibilità per riguadagnare l'autonomia perduta. Decise all'istante che avrebbe rimproverato Gustav, ma ciò non gli impedì di divorare il pane spalmato di burro e la polenta, e 16


di bere il caffè nero. Dopotutto era a digiuno dalla sera precedente. Finito di mangiare, prese il fucile d'ordinanza dei Cacciatori di Sua Maestà, uno Stutzen M a canna rigida e avancarica, un'arma spartana, ornata solo di una placchetta dorata con incise le iniziali W.J.R. che riluceva sulla cassa di noce. Controllò che l'acciarino fosse ben pulito e la canna lustra come se non avesse mai sparato un colpo, poi sistemò nell'apposito fodero la baionetta. Era abituato a prendersi cura delle proprie armi con precisione quasi maniacale, visto che a esse doveva la sopravvivenza in battaglia. Quando uscì per le strade di Mantova i raggi freddi del sole d'autunno iniziavano a fare capolino sopra i tetti delle case. Montò in sella mentre Kaiser, il fedele amico che aveva nel suo cuore la stessa importanza dell'Imperatore d'Austria, scalpitava appagato dalla lunga notte di riposo in una stalla confortevole, e si avviò al trotto per le vie ancora deserte. Giunto davanti alle mura della caserma, si trovò di fronte una scena inaccettabile: nella guardiola, i due soldati che avrebbero dovuto montare la guardia dormivano senza ritegno, avvolti nei pesanti mantelli di pelliccia e con le uniformi in disordine. Nemmeno dopo giorni di battaglia contro le truppe napoleoniche aveva visto una simile mancanza di disciplina. Kaiser, interpretando l'umore del suo cavaliere, nitrì con vigore e quel suono improvviso svegliò i soldati, che balzarono in piedi sbarazzandosi delle pellicce e alzando gli occhi assonnati sul maggiore austriaco. «Örnagy!» gridarono entrambi scattando sull'attenti. «Soldati» esordì William, senza dare loro l'ordine che consentiva il riposo. Uno dei due, un ragazzo dai capelli rossi, non riu17


scì a trattenere il fucile, che cadde quindi a terra con un clangore metallico. «Raccoglilo, soldato!» gli intimò William, mentre Kaiser faceva un giro su se stesso. «Nome e grado.» «Cacciatore di Sua Maestà Albert Mosele, signore. Undicesimo reggimento dei Cacciatori Tirolesi» rispose il soldato e, pur trovandosi a parecchi passi di distanza, William notò che puzzava di alcol. L'altro, un ragazzo poco più che ventenne, piuttosto corpulento, aveva le guance vermiglie e le orecchie paonazze per lo sforzo di rimanere composto. Quando lo sguardo di William si posò su di lui, non si trattenne e bofonchiò: «Soldato Armin Miller, Örnagy». «Soldato Miller, non sei stato interpellato. Dovrai imparare a non parlare in presenza del tuo maggiore, se non interrogato. Soldato Mosele, prendi il registro e annota che il maggiore William Joseph Roschmann ha preso servizio in questo istante.» «Sissignore. Benarrivato, Örnagy.» Il soldato Mosele deglutì con fatica. William varcò la soglia della caserma senza degnare i due uomini di un ulteriore sguardo. Avrebbe avuto occasione di insegnare loro la disciplina, visto che per uno strano caso del destino era proprio per addestrare l'undicesimo battaglione dei Cacciatori Tirolesi che si trovava a Mantova. Sospirò, scompigliando il pelo del bavero in pelliccia, gli occhi scuri fissi sulle luci delle lampade accese negli uffici del governatorato. Si impose di calmare l'ondata di rabbia che l'aveva assalito dopo l'incontro con i due zotici tirolesi, sapendo che doveva ricomporsi e andare a comunicare di persona il proprio arrivo alla massima autorità del governo austriaco a Mantova, il colonnello Von Werklein. «Örnagy Roschmann! Che piacere avervi finalmente qui tra noi!» gli diede il benvenuto la voce 18


gioviale del colonnello, giungendo da dietro un paravento. William avvertì un sonoro sciabordare d'acqua in un catino e un istante dopo dal divisorio fece capolino un uomo che indossava solo i pantaloni della divisa e si premeva un telo di lino bianco sul viso. Aveva il ventre prominente, radi capelli bianchi scarmigliati e un'aria nel complesso trascurata che chiarì al maggiore da dove derivasse la mancanza di austerità e rigore militare che aveva notato in caserma. «Oberst Von Werklein... Vi ringrazio, signore. A vostra disposizione.» Il colonnello annuì mentre si infilava camicia e giacca dell'uniforme. «Assomigliate a vostro padre, maggiore.» «Per me è un grande complimento, colonnello» replicò William. «Riposo, Roschmann.» William rilassò leggermente la postura. «Naturalmente avere qualcosa in comune con il Conte Roschmann è un onore. Vostro padre e io siamo stati allievi ufficiali insieme; era un uomo coraggioso, disciplinato, uno stimato suddito di Sua Maestà. Vi faccio le mie condoglianze per la sua perdita» aggiunse con voce più greve. «Grazie, colonnello...» La stretta allo stomaco di William si riacutizzò. «Non ho mai compreso le ragioni che l'hanno allontanato dalla vita militare... Ho sentito parlare dei vostri meriti, maggiore: voi siete il soldato che vostro padre sarebbe potuto diventare.» Esitò, studiando gli occhi fermi che lo fissavano. «Purtroppo, la città di Mantova non è in grado di accogliere degnamente Sua Maestà, ve ne sarete già reso conto. Tuttavia, l'imperatore insiste per frequentare anche queste frange del suo regno e il vostro compito consisterà nel garantire la sicurezza durante i suoi spostamenti. E per farlo dovrete disporre di un manipolo di soldati capaci e leali. Suppongo però sappiate 19


che qui non disponiamo ancora di un tale... ehm... corpo d'armata.» «Colonnello Von Werklein, sarà un onore addestrare i vostri soldati migliori» dichiarò William slacciando la pelliccia e lasciandola scivolare dalle spalle all'avambraccio. «Sedetevi, maggiore.» Il colonnello gli sorrise bonario e lui obbedì. «Qui non siamo a Vienna, non troverete la disciplina a cui siete abituato.» L'ufficio ingombro di documenti e scartoffie, il colonnello che si lavava al di là di un esile paravento e la polvere sulla scrivania lo provavano senza alcun dubbio, tuttavia William non era disposto a darsi per vinto. Sua Maestà chiedeva soldati ben addestrati? Li avrebbe avuti, a costo di dover piegare diverse schiene. «Colonnello, avete reso l'idea alla perfezione. Mio padre era solito ripetere che non è la ricchezza che dimostra quanto valga un uomo, piuttosto la sua tenacia. Sceglierò cinquanta uomini tra i più forti e promettenti dei Cacciatori di Sua Maestà e li forgerò secondo la disciplina del nostro esercito. Non ci sarà spazio per i deboli o i rinunciatari.» Avviandosi verso l'ampia finestra che si affacciava sul cortile, il colonnello Von Werklein sorrise sotto i baffi folti, osservando un plotone di oltre cento uomini schierato su cinque file storte e sgangherate. «Maggiore, credo che voi sarete il bastone di cui le schiene di quei somari hanno bisogno. Andate, vi aspettano.» Nel cortile della caserma era riunito il più vario e disarmante gruppo di giovani soldati che William si fosse mai trovato davanti. Erano scomposti, mal vestiti e scarmigliati, e per giunta lo guardavano con aria di sufficienza, con l'arroganza di chi ha deciso a priori di non essere disposto a cambiare. Erano un centinaio, calcolò rapidamente, più di quanti se ne a20


spettasse. Nella folla individuò subito i soldati Mosele e Miller con un aperto sorriso di sfida sul volto sudicio. «Riposo, uomini» concesse William, dopo dieci minuti trascorsi a passare in rassegna ogni singolo elemento. I soldati posarono a terra il calcio del fucile. «Signori, sono il maggiore Roschmann e da oggi ho il compito di fare di voi dei veri soldati di Sua Maestà.» Parlò in tono solenne, guardando negli occhi grigi Mosele. «Sai dove tiene la baionetta questo?» sghignazzò il soldato rivolgendosi al proprio vicino. «Soldato Mosele!» William sputò il suo nome con sdegno crescente. Un allievo che si permetteva di sussurrare battute di spirito mentre lui si presentava meritava una lezione che non avrebbe dimenticato facilmente. «Metti da parte le tue osservazioni ignoranti, posa il fucile e togliti la giubba dei Cacciatori. Non sei degno di indossarla.» Sotto il pallido sole d'ottobre il soldato Mosele eseguì alla lettera gli ordini, poi a torso nudo avanzò verso lo spazio che si era creato fra la prima fila e il maggiore. Con sommo stupore della la truppa, Roschmann fece lo stesso: si slacciò la giubba, la sistemò ordinatamente a terra, e accanto a essa depose l'arma di ordinanza. Con un rapido gesto della mano indicò a Mosele di afferrare un bastone lungo tre braccia, spesso quanto un avambraccio e ben levigato. Quando lo vide obbedire, seppure un po' intimorito, con un gesto deciso brandì un secondo legno, lo soppesò, valutandone attentamente le proporzioni e il bilanciamento, e strinse le mani intorno all'impugnatura con la dimestichezza di un esperto di armi non convenzionali. «La baionetta te la devi guadagnare, soldato Mosele, così come la divisa.» Fece roteare sopra la testa 21


il bastone, poi lo bloccò a un palmo dal viso impaurito di un soldato in prima fila. «Siete stati scelti per diventare la guardia personale di Sua Maestà, non potete permettervi il lusso di avere paura.» Iniziò a mulinare il bastone davanti al torace, e poi dietro la schiena agile e muscolosa. Ogni sequenza finiva con il blocco dell'arma, perfetto, armonioso e micidiale. «C'è solo un modo per non provare paura in battaglia: essere addestrati, conoscere i propri limiti, sfruttare al massimo i vantaggi e...» Con un fendente ben assestato fece volare in aria il copricapo dell'avversario. «... rimanere concentrati.» «Maggiore, in battaglia non ci capiterà mai di essere armati solo di un bastone» osservò Albert Mosele, e dalla truppa si levarono risolini e segnali di assenso. «Molto bene, soldato, tu potrai scegliere fra il bastone e la baionetta. Io invece rimango fedele alla mia scelta del legno. Ora ci affronteremo in un finto corpo a corpo.» Albert Mosele valutò l'opzione, poi si diresse convinto verso la baionetta. La conosceva meglio perché l'aveva usata in decine di scontri simulati. «Attacca!» lo esortò William piegandosi sulle ginocchia come un grosso felino in agguato. Albert si lisciò i capelli rossi e agitò la baionetta in direzione della truppa, da cui si alzarono grida d'incitamento. William non si curò dei sostenitori del suo avversario e schivò senza affanno la serie di colpi veloci e scomposti mossi contro di lui. Quando Mosele, sudato e ghignante, si fece più aggressivo, William iniziò a usare le due estremità del bastone per parare i colpi, uno dei quali fu così violento da far vibrare l'asta e scheggiarla. Il silenzio si impadronì della folla per lunghi istanti. William, che era rimasto stranamente passivo fino 22


a quel momento, iniziò ad attaccare. Il primo colpo lo assestò allo stinco destro, e per il dolore Mosele perse l'equilibrio, ma si rialzò subito furente di rabbia, il viso paonazzo per lo sforzo e l'umiliazione. Quello che successe in seguito fu così veloce e letale che molti dei soldati non avrebbero saputo dire con esattezza come il maggiore avesse mosso la propria arma. Due colpi micidiali alla bocca dello stomaco e uno in pieno volto misero al tappeto l'arroganza e il fisico impreparato del giovane dai capelli rossi. Notando che respirava a fatica e che il suo volto era una maschera di sangue e lividi bluastri, William gli si avvicinò e gli porse una mano per aiutarlo a rialzarsi. Mosele cercò di riconquistare una posizione decorosa senza aiuto, ma le gambe gli cedettero e ricadde nel fango del cortile. «Due di voi lo portino in infermeria, gli altri prendano i bastoni. Cominciamo gli esercizi di oggi.» Senza che nessuno osasse fiatare si formò una fila ordinata per avere un bastone e poi tutta la truppa iniziò l'addestramento. Quella sera, seduto sullo sgabello del pianoforte nella grande sala della musica dell'appartamento di via Accademia, William sfiorò i tasti dello strumento senza permettersi di premerli davvero. Non una nota gli era sfuggita negli ultimi mesi; perché quel lungo silenzio avrebbe dovuto interrompersi proprio in quel momento? Fece risuonare nell'aria un lungo e lugubre do e accarezzò i tasti lasciando che suonassero sotto il peso delle lunghe dita. Nella sua mente echeggiava il Preludio n. 1 di Bach, ma nella realtà, nell'isolamento della propria stanza, non osò liberare la musica e i ricordi che portava con sé. Rimase a lungo sospeso sopra la tastiera, poi abbassò il coperchio e si allontanò. 23


I colori della nebbia

MARY & FRANCES SHEPARD MANTOVA, 1815 - William è un ufficiale austriaco ferito durante la battaglia di Austerlitz. Matilde l'unica testimone di un orribile delitto. Il loro amore sopravvivrà alle tenebre?

Per decreto del re LAURA NAVARRE

INGHILTERRA, 1005 - Katrin si ritrova contesa tra due fratelli. Attratta dal futuro marito, deve però difendersi dal crudele cognato. Ma l'equilibrio fra i tre è molto delicato...

Segreti e verità SARAH MALLORY

INGHILTERRA, 1816 - Adam Stratton decide di aiutare Amber, una giovane vedova in difficoltà per la quale prova una forte attrazione. Ma forze nemiche tramano nell'ombra...

La signora degli enigmi ROBYN DEHART SCOZIA - INGHILTERRA, 1881 - Graeme è un cercatore di tesori. Vanessa è una studiosa con la propensione per l'avventura. E quando finisce nei guai, lui la salva... sposandola!


Una relazione pericolosa GAIL RANSTROM

LONDRA, 1822 - Charles Hunter deve indagare su Mrs. Huffington, sospettata di essere una pluriomicida. Ma la famigerata vedova è una donna bellissima e innocente... O no?

Guerriero ribelle BLYTHE GIFFORD

SCOZIA, 1529 - Per vendicarsi, Rob Brunson rapisce Stella, la figlia del suo peggior nemico. Poi però il disprezzo che prova per lei comincia a trasformarsi in qualcosa di diverso.

L'ultimo cavaliere DEBORAH SIMMONS

INGHILTERRA, 1287 - Nicholas de Burgh ha giurato di aiutare Emery senza sapere che si tratta di una donna. E quando scopre che è una fanciulla bellissima, tutto si complica...

La sfida del visconte MICHELLE STYLES INGHILTERRA, 1852 - Lord Bingfield è un libertino senza legami. Sophie crede nell'amore. Per evitare uno scandalo organizzano un finto fidanzamento... e un vero matrimonio!

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