Hhb1 la regina proibita

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ANNE O'BRIEN

LA REGINA PROIBITA traduzione di Elisabetta Lavarello


ISBN 978-88-6183-493-4 Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The Forbidden Queen Mills & Boon © 2013 Anne O'Brien Traduzione di Elisabetta Lavarello Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2015 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione HM febbraio 2015


Genealogia di Owen Maredudd ap Tudor Rhys ap Gruffydd (1132-1197) Ednyfed Fychan

Gwenllian

Siniscalco del Regno di Gwynedd

Goronwy

Morfydd

Lord di Tref-gastell

discendente dell’ultimo Re di Gwent

Tudor Hen

Angharad

Lord di Penmynydd

Gwerfyl

Figlia di Madog ap Dafydd Barone di Hendwr

figlia di Ithel Fychan, Lord di Englefield

Goronwy ap Tudor Lord di Penmynydd

*Magherita

Tudor Fychan

Discendente diretta di Angharad, figlia di Llewellyn il Grande

Lord di Penmynydd

Margherita

Figlia di Dafydd Fychan, Lord di Anglesey

Maredudd ap Tudor

Owen Maredudd ap Tudor

Caterina di Valois

*La sorella di Margherita, Ellen, era la madre di Owain Glyn Dwr


Divenne Enrico VII d’Inghilterra nel 1485, il primo monarca della dinastia Tudor

n. 1421

Owen

n. 1432

n. 1434

Tacinda

1400-1461

Owen Tudor

Figlia

n. 1437

*Vedi ascendenza reale di Margherita Beaufort nella genealogia successiva

Jasper

1401-1437

Caterina di Valois

n. 1431

Enrico VI

Margherita Beaufort*

Enrico Tudor n. 1457

n. 1430

Edmondo

1387-1422

Enrico V

I discendenti di Caterina di Valois e Owen Tudor e l’inizio della dinastia Tudor


Giovanni Duca di Bedford

Humphrey Duca di Gloucester

Enrico di Beaufort Vescovo di Winchester

2. Costanza di Castiglia

Enrico Tudor (Enrico VII)

Margherita Beaufort*

Giovanni Beaufort Duca di Somerset

Giovanni Beaufort Conte di Somerset

3. Katherine Swynford

Edmondo Tudor

*L’ascendenza reale Beaufort di Margherita Beaufort diede a Enrico Tudor il diritto al trono inglese

Tommaso Duca di Clarence

1.Maria di Bohun

Giovanni di Gaunt Duca di Lancaster

Enrico IV

Caterina di Valois

Enrico VI

Enrico V

2.Giovanna di Navarra

1. Bianca di Lancaster

I discendenti di Giovanni, Duca di Lancaster (Giovanni di Gaunt)


La regina proibita


«C’è stregoneria nelle vostre labbra, Kate.» Re Enrico a Caterina, da Enrico V di Shakespeare

[una donna] incapace di tenere a freno le proprie passioni carnali Commento contemporaneo su Caterina di Valois, da: J. A. Giles, ed., Incerti scriptoris chronicon Angliae de regnis trium regum Lancastrensium (1848)


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Fu all'Hôtel de Saint Pol di Parigi, dov'ero nata, che rincorsi mia sorella strillando come una indemoniata in preda alla tortura. Michela fuggiva per le stanze del palazzo, agile come una lepre inseguita da una muta di segugi, e poiché era avvantaggiata dall'età non riuscivo a raggiungerla. Si lanciò su per lo scalone e galoppò lungo una galleria deserta sino a un'anticamera, dove tentò di chiudermi la porta in faccia. Non c'era nessuno ad assistere alla nostra chiassosa, poco edificante scorribanda. Spinsi il pesante uscio sbattendolo contro il muro. Avevo il fiato corto, una fitta al fianco, ma la mia pancia era così vuota che non potevo desistere. Ripresi a darle la caccia e provai un moto di trionfo nel sentirla uggiolare di dolore quando le scivolò un piede e andò a sbattere contro l'angolo di un ingombrante mobile di rovere massiccio. Poi mia sorella si lanciò nella sala delle udienze e io ululai per l'imminente vittoria. Non c'era altra via d'uscita da quella stanza dorata. Michela era mia. O meglio, era mio quello che teneva stretto in mano. Ed eccola lì, in trappola, a digrignare i denti, gli occhi furibondi. «Dividiamocelo!» le ordinai. 13


Quando, a dispetto del respiro ansante, si ficcò in bocca un pezzo di pane, mi scagliai contro di lei e cademmo a terra, rotolando in un groviglio di gonne stazzonate, gambe luride e capelli scarmigliati. Denti e unghie furono impiegati indiscriminatamente, gomiti aguzzi entrarono in gioco finché, piantandole un pugno nel ventre con tutto il mio peso di bambina di cinque anni, non le strappai il bottino: una crosta rafferma e l'osso bruciacchiato di qualche animale non identificato che aveva sgraffignato nelle cucine mentre la cuoca le dava le spalle. Mi tirai su e arretrai, ficcandomi in bocca il pane duro e affondando i denti nella poca carne attaccata all'osso, con un brontolio allo stomaco. Girai sui tacchi per non vedere la sua furia e mi accinsi a tornare indietro di corsa. «Cosa c'è?» Parole blande, ma era stata una voce autoritaria a pronunciarle. Mi fermai di botto perché la mia strada era sbarrata, e tuttavia sarei riuscita a scappare se Michela non fosse arrivata di soppiatto al mio fianco. Nella foga della lite non avevo sentito i passi avvicinarsi. Il cuore che batteva forte nelle mie orecchie mi aveva assordato, e là, a pulsare contro le mie tempie, c'era la lieve pressione, il piccolo palpito di dolore che spesso mi affliggeva quando ero agitata. «Smettetela!» Il tono blando era svanito, e mi chinai in una riverenza talmente priva di grazia che mi lordai ancora di più le gonne di unto e briciole. Non c'erano istitutrici che si occupassero delle nostre buone maniere o della nostra educazione. Non c'era denaro in casa per pagare tali lussi. «Ebbene?» Il re, nostro padre, voltò gli occhi agitati sul servitore che lo accompagnava. «Le vostre figlie, sire» replicò l'uomo con pron14


tezza, ma in tono quasi irrispettoso. «Davvero?» Il re ci scrutò strizzando gli occhi. Poi sorrise. «Venite qui» disse, mentre sguainava il pugnale dall'elsa tempestata di gemme. Noi trasalimmo, gli occhi fissi sulla lama sulla quale si rifletteva una luce inquietante mentre il re fendeva indiscriminatamente l'aria davanti a sé. Era noto per colpire chiunque gli capitasse a tiro, se così gli garbava, perciò non mi sentii incoraggiata nemmeno quando il servitore tolse il pugnale dalla mano di mio padre, non più pulita della mia, e se lo infilò nella cintola. Negli occhi di nostro padre c'era uno strano, furbesco luccichio. Imperturbabile anche quando mi ritrassi, allungò la mano per sollevare una ciocca floscia che stava appiccicata alla mia guancia, infeltrita come il vello di una pecora dopo il lungo inverno. Le sue dita si strinsero e io contrassi tutti i muscoli, preparandomi al dolore, che però non venne. «Tu quale saresti?» chiese, con una certa gentilezza. «Caterina, sire.» «Già. Sei molto piccola.» Inarcò un sopracciglio. «E tu?» «Michela, sire.» «Perché non siete impegnate con le vostre lezioni?» Io guardai di sottecchi Michela, che si limitò ad abbassare la testa. Non c'era più nessuno che ci insegnasse da almeno un mese. «Ebbene?» Una familiare asprezza tornò a colorire la sua voce. «Il gatto vi ha mangiato la lingua?» «Madame, la nostra istitutrice, se n'è andata» azzardai. «Davvero? Chi vi ha vestite questa mattina? No, non curatevi di rispondere.» Il fuoco nei suoi occhi 15


si attenuò un po' quando si girò verso il servitore. «Perché sono in questo stato? Solo un po' meglio rispetto a degli animaletti?» «Non c'è nessuno, sire.» «Perché no? Non hanno i loro domestici? Dove sono le ancelle che le servono?» «Sono andate via anche loro, sire. Non venivano pagate da molte settimane, ormai.» Il re abbassò gli occhi su di me. Il rapido battito delle sue ciglia mi innervosiva, ma la domanda fu lucida e chiara. «Cosa nascondi dietro alla schiena, Caterina?» E quando glielo mostrai, mi afferrò la mano e ringhiò. «Quando hai mangiato l'ultima volta... a parte questo?» «Ieri, sire.» Era stata Michela a rispondere. La paura mi ammutoliva. «Così hai rubato pane e carne? Tacete, tutte e due!» ruggì il re, prima che potessimo iniziare a scusarci. «Al cospetto di Dio! Non siete meglio dei monelli dei bassifondi di Parigi! Dovrei farvi frustare.» Mi strinsi al fianco di Michela e mi aggrappai alle sue gonne, sentendomi quasi svenire per il terrore. Davvero il re ci avrebbe battute per il nostro peccato? Lasciai cadere per terra il pane e la carne quando il tremito delle mie mani divenne incontrollabile. Non ero mai stata una bambina coraggiosa. «Dov'è la loro madre?» domandò il re. Il servitore scosse la testa ignaro. «Attendete qui!» Nostro padre uscì a passo di marcia, lasciando noi tre in un silenzio imbarazzato. E se non fosse più tornato? Se si fosse scordato di noi? Forse, però, questa eventualità sarebbe andata a nostro vantaggio. Lanciai un'occhiata interrogativa a Michela. Dovevamo svignarcela finché ne avevamo la possibilità? Lei scosse la testa, e così restammo ad 16


ascoltare i passi svanire in lontananza. Per un po' il silenzio fu rotto solo dai miei piedi che strusciavano sul pavimento e da Michela che tirava su col naso. Il servitore sospirò pesantemente. E poi a distanza si udirono i passi tornare. Nostro padre apparve sulla soglia, portando con sé una folata di sfrenata energia poiché ruotava le braccia come le pale di un mulino a vento. Io piagnucolai. «Ecco!» Ficcò in mano al servitore una coppa scintillante d'oro e pietre preziose. «Vendila!» ringhiò, rivelando la giallastra dentatura irregolare. «Paga una serva che si prenda cura di loro. Hanno bisogno di cibo e di indumenti degni delle mie figlie.» Abbassò gli occhi su di noi per un breve istante, l'espressione perplessa, poi lasciò la stanza a passo di marcia. Fummo debitamente nutrite. Non ricordo se ci diedero dei vestiti. È questa la memoria più vivida della mia infanzia: il freddo, le privazioni, l'incuria. La costante paura. La miseria, frutto della trascuratezza di coloro che erano preposti a occuparsi di noi. Era ammesso che delle Principesse Valois patissero la fame? A noi accadde. Per un breve periodo la situazione migliorò, per noi, ma quanto poteva durare il denaro ricavato dalla vendita di una sola coppa d'oro? In poche settimane le monete erano scivolate nelle avide mani dei servitori e noi ci ritrovammo affamate e lerce, ad aggirarci per il palazzo come anime perse, la pancia incavata. Chi eravamo, Michela e io? Era accettabile che delle Principesse Valois fossero allevate in un tale squallore? Anche se eravamo figlie di Re Carlo e della Regina Isabella, non c'era nessuno a perorare la nostra causa. Michela e io facevamo parte di una numerosa famiglia di sei fratelli e cinque so17


relle, progenie del puissant Re Carlo VI di Francia e dell'ancora più potente moglie di lui, la Regina Isabella di Baviera. Molto prolifici nel loro matrimonio, il re e la regina erano ora irrimediabilmente estranei l'uno all'altra. Noi due, le figlie minori, intrappolate tra loro, diventammo le vittime del loro odio. I miei fratelli erano tutti morti, a parte il piccolo Carlo, le mie sorelle maritate o avevano preso il velo, e Michela e io fummo lasciate a subire l'infame distacco di entrambi i genitori. Perché ci tenevano così poco a noi? Ci fu facile capirlo quando fummo più grandi. Il re nostro padre soffriva di un'indisposizione, di crescente aggressività, che lo aveva privato del ben dell'intelletto. Alternava confusione mentale a lucidità, violenza a ilarità, con impressionante regolarità. Nei suoi momenti peggiori detestava la regina, lanciava insulti e percosse indiscriminatamente. Anche se era stata una moglie che aveva condiviso il suo letto e la sua corte, l'aveva estromessa del tutto dalla sua vita. Si bisbigliava che ne avesse il diritto. Quale scandalo arrivò alle nostre orecchie, col suo fardello di peccato e depravazione! Perché nostra madre, priva di un marito che le garantisse di conoscere il suo nome, teneva una corte separata da quella di nostro padre, e qui si intratteneva con una sequela di lascivi amour. Potevo anche essere una bambina, ma i pettegolezzi erano volgari e indiscreti, le insinuazioni abbastanza chiare da rientrare nella mia comprensione. Indossavo scarpe sfondate, mentre la regina spendeva denaro con mano prodiga per i propri abiti e i propri cortigiani, godendosi una vita di passionali liaison che scandalizzava le corti di tutta Europa. 18


Donna di smodate esigenze carnali, si diceva che si facesse scaldare le lenzuola da una sfilza di uomini attraenti e di buoni natali. Persino, si bisbigliava, dallo stesso fratello minore di mio padre, Luigi d'Orléans... finché non era stato assassinato su ordine di Giovanni Senza Paura, il cugino di Borgogna di mio padre. Si mormorava addirittura che il mio fratellino Carlo, diventato Delfino dopo la morte dei fratelli, potesse non essere figlio di mio padre. Questi erano i miei genitori, io la loro figlia Caterina. Che eredità da portare sulle spalle per una bambina. Follia da un lato, lasciva dissolutezza dall'altro. Le raccapriccianti dicerie riempivano la mia giovane mente. Sarei diventata come Carlo e Isabella? Avrei ereditato la loro natura, così come avevo ereditato i capelli chiari di mia madre? «Sarò pazza e malvagia anch'io?» bisbigliai un giorno a Michela, inorridendo alla prospettiva che sarei stata segnata a dito, irrisa, schernita. Non lo avrei sopportato. «Non vedo perché dovresti» mi fece notare con buonsenso. «Nostra sorella Maria è nata pia... e ne è soddisfatta. Perché altrimenti una donna dovrebbe prendere il velo? Io so che non ho intenzione né di perdere il senno né di strapparmi le vesti per il primo uomo che vedo. Perché dovresti essere tu a portare le tare di famiglia?» Quel discorso mi confortò un po', finché la fame e l'incuria non mi costrinsero nuovamente ad ammettere che della mia vita non importava a nessuno. Isabella veniva descritta come una donna passionale, ma nulla di tale fuoco s'era trasformato in calore materno. Col re rinchiuso nelle sue stanze e la regina dedita ai propri svaghi, Michela e io sopravvivevamo come meglio potevamo: due animaletti, come aveva detto il re. 19


Finché un giorno nostra madre, la Regina Isabella, non calò su di noi come un rapace. «Santa Madre di Dio!» Alla regina bastò un'occhiata. Persino una come lei, dopo l'esclamazione iniziale, rimase ammutolita. Tenendosi a distanza dai pidocchi e dal sudiciume, impartì ordini con un tono che non ammetteva repliche. Fummo tirate su di peso, come se anche noi fossimo disgustosi parassiti, infagottate in mantelli e caricate su una portantina, sporche come eravamo. La regina, era comprensibile, viaggiò separatamente in un lussuoso palanchino, mentre Michela e io ci stringevamo l'una all'altra nella nostra scomoda vettura, infreddolite e spaventate, tremanti come due topini terrorizzati dato che nessuno si era curato di comunicarci la nostra destinazione. Fu così che le due più giovani Principesse di Valois vennero condotte al convento di Poissy. «Queste sono le mie ultime due figlie. Ve le lascio. Hanno un estremo bisogno di disciplina» annunciò la regina all'arrivo. Era già buio e le sorelle si stavano preparando alla compieta. Non era certo il momento di accogliere delle bambine. Io ero ammutolita dalla paura. Quelle figure con le loro tonache e i soggoli erano spettrali; i neri veli domenicani e le cappe risultavano minacciosi ai miei occhi. Mia sorella, la soddisfatta, pia Maria, poteva anche aver preso i voti ed essere una di quelle ombre, ma era molto più grande di me e non la conoscevo neppure. «Questa è Michela» spiegò la regina. «Andrà in sposa a Filippo di Borgogna. Fate quel che potete con lei.» Io mi aggrappavo alla mano di Michela, e i miei timori si moltiplicavano al pensiero di restare sola con quelle creature vestite come gazze in un luogo 20


talmente freddo e spoglio. Come sarei sopravvissuta lì, da sola, quando Michela se ne fosse andata per sposarsi? La mia prozia, Maria di Borbone, Priora di Poissy, ci scrutò con gelida alterigia, come uno dei rapaci di mio padre. «Sono luride.» I suoi occhi chiari, altezzosi e schifati, ci squadrarono con disapprovazione. «E questa?» «Lei è Caterina. Deve avere circa cinque anni.» Isabella non conosceva neppure la mia età. «Chiedo solo che sia pulita e che impari le buone maniere in modo che sia adeguata a trovare marito. Ci sarà pure un principe di rango disposto a prenderla in considerazione in cambio di un'alleanza con i Valois.» La priora mi guardò come se si fosse trattato di un compito al di sopra delle sue capacità. «Faremo del nostro meglio anche per lei» annunciò. «Sa leggere? Scrivere?» «Non che io sappia.» «Bisognerà insegnarle.» «È necessario? Tali abilità sono irrilevanti per il suo futuro ruolo, e dubito che abbia la capacità mentale di imparare. Guardatela.» La regina era crudele nel suo disprezzo mentre mi indicava e io piagnucolavo terrorizzata, asciugandomi la faccia con la manica. «La sposeranno per il suo sangue, non perché sappia tenere in mano la penna.» «Preferite che rimanga ignorante?» «Preferisco che non diventi pedante. Se solo riuscirà ad attrarre l'occhio di un principe e a rallegrare il suo letto, qualcuno la sceglierà.» Parlavano come se non fossi presente, ma io capivo il tono della conversazione e provavo vergogna. Fu allora che, presi gli accordi, Isabella si rivolse direttamente a me per la prima volta. «Impara l'ubbidienza e l'umiltà, Caterina. Fa' 21


onore al nome che porti. Verrai fustigata se ti comporterai come una selvaggia, qui.» Io abbassai gli occhi a terra. «Se continui a tenere il muso così, chi ti sposerà, anche se sei una Valois? Nessuno desidera una moglie arcigna. E senza marito resterai qui e prenderai il velo come tua sorella Maria.»

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