KRISTAN HIGGINS
UN REGALO PER MISS GREY traduzione di Roberta Marasco
ISBN 978-88-6183-349-4 Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: All I ever wanted HQN Books © 2010 Kristan Higgins Traduzione di Roberta Marasco Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2013 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione HM gennaio 2013
Un regalo per Miss Grey
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Mentre l'uomo che amavo si avvicinava al mio ufficio, mi balzò in mente l'immagine di un cervo investito da un camion. Io ero il cervo, metaforicamente parlando, e Mark Rousseau era il furgone del destino. Ecco come vanno le cose. Il cervo si blocca sempre, come ben sappiamo, da cui l'espressione come un cervo davanti ai fari di un'auto. Io (Callie Grey, trent'anni esatti a partire dalle 9.34 di questa mattina) e il cervo siamo consapevoli che il furgone ci investirà. Ma restiamo lì, in attesa dell'inevitabile, che si tratti di un furgone (nel caso del cervo) o di un uomo che cammina atletico verso di me (nel mio caso), il sorriso immancabilmente stampato in faccia, i capelli castani che si arricciano noncuranti, quei fantastici e irrequieti occhi scuri. Aspettavo, con sguardo da cerbiatta. Era davvero un peccato, perché quando non ero sotto l'effetto di Mark, non ero per niente un cervo sul punto di essere abbattuto. Assomigliavo di più a un adorabile e baldanzoso porcospino o a qualcosa del genere. «Ciao.» Mark sorrise. Bam! Impatto avvenuto. La luce del sole si riversava dalle finestre del vecchio edificio di mattoni nell'ufficio in cui io e Mark lavoravamo, e lo illuminava in modo da farlo sembrare un dipinto di Michelange7
lo. A renderlo ancora più affascinante, c'era un vecchio gilet di maglia fatto a mano dalla madre anni prima, sformato e sbiadito, ma da cui lui non era capace di separarsi. Un bravo figlio e un dio del sesso. Era come se esistessero due Callie: quella brillante e ragionevole (io la immaginavo come Michelle Obama) e quella intontita e innamorata... Betty Boop. Michelle avrebbe dato uno schiaffone a Betty Boop, seguito da una bella scrollata. Invece Betty se ne stava seduta lì, incantata, mentre la First Lady sbuffava disgustata. «Ciao» risposi e mi accorsi di avere il viso accaldato. Dopo averlo visto quasi tutti i giorni per quattro anni, avrei dovuto essere immunizzata, invece no. Il petto mi formicolava di desiderio e amore, la gola era diventata il Sahara, i piedi e le dita erano intorpiditi. Per quanto mi sforzassi di sembrare la Collega Intelligente, la mia espressione doveva aggirarsi piuttosto dalle parti dell'Adorazione Patetica. Mark si appoggiò alla mia scrivania, il che significava che il suo inguine era, vediamo, a circa cinquanta centimetri dalla mia faccia, dal momento che io ero seduta. Non che l'avessi notato, ovviamente. «Buon compleanno» disse lui e sulle sue labbra diventò la frase più intima e allusiva del mondo. Faccia: nucleare. Cuore: impazzito. Callie: a un passo dall'orgasmo. «Grazie.» «Ho un regalo per te, ovviamente» mormorò lui con quella voce... Dio, quella voce. Roca e dolce e vellutata. La stessa voce che usava in camera da letto, come ben sapevo. Sì, io e Mark eravamo stati insieme. Per cinque settimane. Cinque fantastiche settimane. Quasi cinque e mezzo, a pensarci bene. Cosa che io facevo, eccome. Dalla tasca posteriore estrasse un piccolo pacchet8
to rettangolare. Il mio cuore ebbe un tuffo, mentre il cervello correva sfrenato fra pensieri contrastanti. Un gioiello?, squittì Betty. Questo significa qualcosa. È una cosa romantica. Molto romantica! Oh! Mio! Dio! Dall'altra parte, Michelle invitava alla prudenza. Datti una calmata, Callie. Stiamo a vedere che cosa succede. «Oh, Mark! Grazie! Non dovevi» mormorai, con la voce affannata. Dall'altra parte della parete di vetro che separava i nostri uffici, Fleur Eames sbatté un cassetto. La parete era alta solo tre metri; i soffitti erano alti tre metri e sessanta, quindi perfetti per origliare, e immagino che Fleur cercasse di tirarmi fuori dal mio imbambolamento. Fleur, che lavorava con noi come copywriter, sapeva della mia cotta. Lo sapevano tutti. Mi schiarii la gola e presi il pacchetto dalla mano di Mark. Lui lo strinse per un istante, con un sorriso, prima di lasciarlo. Era avvolto in una bellissima carta di un giallo acceso. Il giallo è il mio colore preferito. Gliel'avevo detto? Aveva archiviato quel dettaglio nello stesso modo in cui io avevo archiviato tutto quello che mi aveva raccontato? Insomma, non poteva trattarsi di una coincidenza, giusto? Lui mi sorrise e il mio cuore impazzito balbettò, si fermò e poi andò su di giri. Oddio! Possibile? Finalmente voleva che tornassimo insieme? Lavoravo nella società di Mark da quattro anni. Eravamo l'unica agenzia di pubblicità e pubbliche relazioni del nord est del Vermont. Eravamo una squadra ridotta: soltanto io e Mark; Fleur; la capoufficio, Karen, e i due pallidi genietti del computer dell'ufficio grafico, Pete e Leila. Ah, e Damien, l'assistente personale/receptionist/schiavo di Mark. Adoravo il mio lavoro. Ed ero bravissima, come 9
dimostrava il grande manifesto alle mie spalle, che aveva quasi vinto un Clio, l'Oscar della pubblicità. La cerimonia per l'assegnazione del Clio si era tenuta a Santa Fe, undici mesi prima. E in quella città bellissima e romantica Mark e io eravamo finalmente stati insieme. Ma non era il momento giusto per una relazione seria. O almeno, era quello che aveva detto lui. Diciamoci la verità, quando mai una donna ha detto una cosa simile? Non ci sono molte ventinovenni che si facciano problemi di tempistica quando si tratta di stare con l'uomo amato. No. Era la tempistica di Mark a non andare bene. Adesso però... un regalo. Forse era finalmente arrivato il momento giusto? Forse ora, proprio il giorno in cui io entravo nei trenta e quindi nel decennio in cui una donna ha più possibilità di essere sbranata da un orso che di sposarsi... forse quel giorno sarebbe stato davvero l'inizio di una nuova era. «Aprilo, Callie» mi incoraggiò lui, e io obbedii, con la speranza che non si accorgesse che mi tremavano le dita. Dentro c'era un astuccio di velluto nero. Sìììì! Mi morsi il labbro e lanciai un'occhiata a Mark, che alzò le spalle e mi rivolse di nuovo quel suo sorriso da infarto. «Non succede tutti i giorni che la mia ragazza preferita compia trent'anni» aggiunse. «Bleah» commentò Damien, comparso sulla soglia. Mark gli lanciò una rapida occhiata, poi tornò a guardarmi. «Ciao, Damien» salutai. «Ciao.» Strascicò la parola in sillabe di disprezzo. Damien aveva di nuovo rotto con il fidanzato e al momento detestava l'amore, in tutte le sue forme. «Capo, c'è Muriel sulla due.» Qualcosa balenò sul viso di Mark. Irritazione, forse. Muriel era la figlia del nostro ultimo cliente, 10
Charles deVeers, proprietario e fondatore di Bags to Riches. La società produceva abbigliamento sportivo a partire da una combinazione di sacchetti della spesa di plastica e fibre naturali. Era il nostro cliente più importante, un pezzo grosso per la Green Mountain, i cui clienti erano quasi tutti del New England. Avevo incontrato Muriel solo una volta, di sfuggita, ma Mark faceva avanti e indietro da San Diego, dove si trovava la sede di Bags to Riches. Come parte dell'accordo, Charles aveva chiesto che Muriel venisse nel Vermont a lavorare da noi, per avere qualcuno che lo tenesse aggiornato. E dal momento che Charles ci pagava una barcata di soldi, Mark aveva accettato. Mark non rispose a Damien, che fremeva per la gioia di organizzargli la giornata. «Capo?» ribadì Damien, in tono più secco. «Muriel? Hai presente? Sta aspettando.» «Che aspetti ancora un po'» rispose Mark e mi fece l'occhiolino. «Questo è importante. Apri quel maledetto astuccio, Callie.» Damien sospirò con il tono drammatico che solo un gay riesce a ottenere e si affrettò lungo il corridoio. Con le guance in fiamme, aprii l'astuccio di velluto. Era un braccialetto, con fili d'argento delicati che si avvolgevano e giravano intorno come edera. «Oh, Mark, è bellissimo» mormorai, mentre facevo passare il dito sui fili intrecciati. Mi morsi il labbro, gli occhi già umidi di lacrime di felicità. «Grazie.» La sua espressione era dolce. «Non c'è di che. Sei molto importante per me. Lo sai, Callie.» Si chinò e mi baciò la guancia e ogni dettaglio si impresse immediatamente a fuoco nel mio cervello: le labbra lisce e calde, il profumo della colonia di Hugo Boss, il calore della sua pelle. 11
La speranza, che covava sotto la cenere da dieci mesi, pulsò con forza. «Credi di riuscire a passare alla mia festa dopo?» chiesi, sforzandomi di sembrare spigliata e divertente, non ansiosa e in fregola. I miei genitori mi avevano organizzato una piccola festa da Elements, il ristorante migliore della zona, e io avevo invitato tutti i miei colleghi. Non aveva senso nascondersi: compivo trent'anni, tanto valeva che mi prendessi qualche regalo. Mark si raddrizzò, poi spostò una pila di fogli dal piccolo divano dell'ufficio e si sedette. «Ehm... Ascolta, devo dirti una cosa. Hai conosciuto Muriel, giusto?» «Solo una volta. Sembra... molto...» Mmh. Indossava un completo nero da urlo, aveva delle scarpe fantastiche. Un tipo deciso. «Molto determinata.» «Sì. Lo è. Callie...» Mark esitò. «Io e Muriel usciamo insieme.» Mi ci volle qualche secondo per registrare l'informazione. Ero tornata a essere quello stupido cervo, che guardava muto il furgone che sfrecciava lungo la strada. Il mio cuore si bloccò. Per un secondo. Non potevo respirare. Michelle Obama arrivò, scosse la testa con tristezza, le magnifiche braccia incrociate in segno di dispiacere. Mi resi conto di avere la bocca aperta. La chiusi. «Oh» mi sentii dire. Mark guardò il pavimento. «Spero che questo non ti crei... problemi. Visto che abbiamo avuto una relazione.» Sentii un rumore bianco, come di qualcosa che scorreva, come un fiume congestionato dallo scioglimento della neve e dai detriti nascosti. Mark usciva con qualcuno? Com'era possibile? Se era il momento giusto per Muriel... perché non... Oh, merda. 12
«Callie?» disse lui. Ecco il problema quando si viene investiti da un camion. A volte quel cervo continua a correre. Si infila nel bosco e dice qualcosa come Accidenti! C'è mancato poco! Per fortuna sto bene. Ehm... sto bene, vero? In realtà, sai cosa? Mi sento un po' strano. Credo che mi stenderò un attimo. E non si sveglia più. Mark abbassò la voce. «L'ultima cosa che voglio è farti soffrire.» Di' qualcosa, ordinò la First Lady. «No, no!» cinguettai. «È solo... che... non preoccuparti, Mark. Nessun problema.» A quanto pareva sorridevo. Sorridevo e annuivo. Sì. Annuivo. «Allora, da quanto tempo state... insieme?» «Un paio di mesi» rispose Mark. «È una cosa bella... bella seria.» Allungò la mano e tolse il braccialetto dall'astuccio, poi me lo mise al polso, le dita che sfioravano il punto in cui la pelle è più sensibile, tanto che dovetti trattenermi dall'allontanarmi di scatto. In tutti gli anni in cui l'avevo conosciuto, Mark non era mai uscito con qualcuno per un paio di mesi. Un paio di settimane sì, certo. Credo che cinque fosse un record, a dire il vero. Ah. Il mio corpo iniziava a rendersi conto di essere appena stato investito. Mi si strinse la gola, le giunture ronzavano per l'istinto di fuggire davanti al pericolo, e un dolore acuto mi sfrecciò nel petto. «Giusto. Bene. Sai cosa? Devo rinnovare la patente! Me n'ero quasi scordata! Hai presente... compleanno. Patente. Rinnovo.» Respira, Callie. «Va bene se a pranzo me la svigno un po' prima?» Mi si incrinò la voce e mi schiarii di nuovo la gola, evitando scrupolosamente gli occhi scuri e ora addolorati di Mark. «Certo, Callie. Prenditi tutto il tempo che ti serve.» La gentilezza nella sua voce mi fece provare un 13
improvviso istinto omicida. «Non ci metterò molto» squittii. «Grazie per il braccialetto! Ci vediamo fra poco!» E con quello afferrai la mia enorme borsa a sacco rosa e mi alzai, ben attenta a non sfiorare Mark, ancora seduto sul divano, lo sguardo fisso davanti a sé. «Mi spiace, Callie» disse. «No! Non hai niente di cui scusarti!» esclamai. «Devo scappare. Oggi chiudono a mezzogiorno. A dopo!» Mezz'ora più tardi, ero in coda alla Motorizzazione e, dopo essere stata investita emotivamente dall'uomo che amavo – e che ora odiavo pur continuando ad amarlo – gli effetti iniziavano a farsi sentire. Michelle Obama mi aveva abbandonato, dopo aver constatato con rammarico che ero un caso senza speranza, e Betty Boop serrava le labbra e ricacciava indietro le lacrime. Mi guardai attorno, nel tentativo di tenere a bada il trenino a vapore della disperazione. Sudice piastrelle grigie sul pavimento. Pareti bianche lerce. Ero a metà di una fila di una decina di persone, tutte senza energia, senza vita e senza amore. O almeno era quello che sembravano. Pareva la scena di un film esistenzialista francese. L'inferno non sono gli altri. L'inferno è la Motorizzazione. Impiegati robotici che strascicavano i piedi dietro i computer, evidentemente odiando la propria vita e valutando il modo più facile di fare harakiri o un'appropriazione indebita per poter lasciare quel posto squallido. L'orologio sul muro sembrava prendersi gioco di me. Stai sprecando il tempo, cara. La vita ti scorre accanto. Buon compleanno del cazzo. Il respiro accelerò, le ginocchia sembravano alveari pieni di api incazzose. Le lacrime mi bruciavano negli occhi e, al polso, il mio stupido regalo di compleanno 14
mi faceva il solletico. Avrei dovuto strapparlo via. Fonderlo in un proiettile e uccidere Mark. O me stessa. Oppure inghiottirlo intero e lasciare che si impigliasse nell'intestino e dover essere operata d'urgenza, in modo che Mark arrivasse in ospedale e si rendesse conto di quanto mi amava. Non che io l'avrei ripreso. (Sì, certo, Callie, disse la signora Obama, facendo la sua ricomparsa. Ti mangeresti un bambino, se servisse a riaverlo.) Be', magari un bambino no. Ma l'idea che Mark stesse con qualcuno... da un paio di mesi, in una storia bella seria... ah, merda! Il panico incombeva come le fauci di un enorme squalo bianco, terrorizzante e inaspettato. Quella stupida Muriel, con i suoi capelli neri e la pelle bianca, come una specie di vampiro con scarpe fantastiche. Quando accidenti avevano iniziato a uscire insieme? Quando, maledizione? Oh, cavoli. Era meglio che me ne andassi? No. Dovevo rinnovare la patente. Era l'ultimo giorno in cui potevo farlo senza incorrere in una sanzione. Avevo anche scelto questo completo diabolicamente carino, maglia stampata rossa e bianca, gonna rossa corta, grandi orecchini a cerchio dorati, e i miei capelli erano perfetti, lucidi e ondeggianti. E poi, che cosa potevo fare? Restare seduta in macchina a frignare? Prendere a calci un albero? Strangolare un alce? Non ero proprio il tipo. L'unica idea che mi attirava era stare seduta sulla mia sedia a dondolo a mangiare impasto per torte. Un singhiozzo asciutto mi raschiò la gola. Merda. Merda merda merda. «Il prossimo» gridò uno degli automi della Motorizzazione e tutti trascinammo i piedi in avanti di una quindicina di centimetri. Il tizio dietro di me sospirò rumorosamente. 15
Senza pensarci due volte, frugai nella borsa alla ricerca del cellulare. Dov'era? Dov'era, maledizione? Assorbenti interni... no. Libro su CD... no. Foto di Josephine e Bronte, le mie nipoti... Neanche i loro bellissimi visi riuscirono a rallegrarmi. Dov'era il telefono? Ah. Eccolo. Scesi fino ad Annie Doyle. Merda! Beccai la segreteria telefonica. Per qualche ragione mi sembrò un insulto personale. Com'era possibile che la mia migliore amica fosse irraggiungibile nel momento del bisogno? Non mi voleva più bene? Evidentemente il trenino a vapore correva più rapido, adesso, così scorsi la rubrica in cerca di un sostituto. Mia madre? Dio, no... Poteva solo confermarmi che il cromosoma Y avrebbe dovuto essere cancellato dall'umanità. Mia sorella? Non migliorava molto. Ma era pur sempre qualcuno. Grazie al cielo, Hester rispose, anche se sapevo che era al lavoro. «Hester? Hai un minuto?» «Ciao, festeggiata! Che succede?» La voce di mia sorella, sempre a volume troppo alto, rimbombò fuori dal telefono. Lo scostai dell'orecchio. «Hester» piagnucolai. «Esce con qualcuno! Mi ha dato un braccialetto bellissimo e mi ha baciata e poi mi ha detto che esce con qualcuno! Da un paio di mesi ed è una cosa bella seria, ma io lo amo ancora!» «Gesù, signora, si ripigli» borbottò un tizio dietro di me. Senza pensarci, mi voltai di scatto e gli lanciai un'occhiataccia. Lui sollevò un sopracciglio altezzoso. Idiota. Però d'accordo, era vero, la gente iniziava a voltarsi. Per un miracolo non conoscevo nessuno dei presenti. La motorizzazione era a Kettering, la cittadina accanto a Georgebury, almeno quello. «È di Mark che parliamo?» chiese Hester, come se nell'ultimo anno avessi parlato di qualcun altro. O negli ultimi due. O quattro. Ah, merda! 16
«Sì! Mark esce con Muriel, in California! Muriel, la figlia del nostro cliente più importante! Non è adorabile?» Il tizio dietro di me si schiarì la gola in modo decisamente falso ed evidente. «Be', ho sempre pensato che Mark fosse un gran bastardo» se ne uscì Hester. «Non sei di aiuto!»sbottai. Perché Annie non aveva risposto al telefono? Lei era molto più brava in questo genere di cose. Era una persona normale, non come Hester. «Che cosa dovrei dire? Che è un principe? Comunque, dove sei?» chiese mia sorella. «Alla Motorizzazione. A Kettering.» «Che cosa ci fai alla Motorizzazione?» «La mia patente sta per scadere! Era segnato sul calendario: rinnovo patente. E dovevo uscire di lì... E non sapevo che cos'altro fare.» Un singhiozzo mi si incastrò in gola. «Hester... avevo sempre pensato...» Presi un respiro fra i singulti e cercai di abbassare la voce. «Lui diceva che era solo il momento sbagliato. Non era mai stato serio con nessuna prima. E loro stanno insieme da mesi.» Il tradimento, lo shock di quelle parole mi fece letteralmente male al petto e mi portai una mano sul cuore gonfio, mentre sentivo lacrime calde scendermi sul viso. La donna davanti a me si voltò. Aveva il viso coriaceo e rugoso e le spalle larghe da lattaia. «Tutto bene, figliola?» chiese, l'accento del Vermont che legava la bocca come sciroppo d'acero bollito troppo a lungo. «Sto bene» risposi, con una voce tremante e poco convincente, mentre cercavo di fare un sorriso coraggioso. «Ho sentito, poveretta» sospirò. «Gli uomini sono tutte carogne. Mio marito, Norman, intendo, una se17
ra viene a cena e dice che vuole divorziare perché si scopa la segretaria giù al caseificio. E questo dopo quarantadue anni di matrimonio.» «Oh, cavoli, mi spiace tanto» dissi e allungai il braccio per prenderle la mano. Aveva ragione. Gli uomini erano davvero delle carogne. Mark era una carogna. Non avrei dovuto lasciarmi spezzare il cuore da lui. Peccato che amassi quel bastardo schifoso. Oh, al diavolo! «Pronto? Sono ancora qui, Callie» mi ricordò mia sorella, brusca. «Che cosa vuoi che ti dica?» «Non lo so, Hes... Secondo te che cosa dovrei fare?» «Farsi da parte?» suggerì il tizio dietro di me. «Magari lo sapessi, Callie» sospirò lei. «La relazione più lunga che abbia mai avuto è durata trentasei ore. E lo sai» disse, con voce pensosa, «a me andava benissimo così.» «Hes» biascicai, con il viso bagnato, «li vedrò insieme ogni giorno.» Al pensiero mi si serrò il cuore. «Bello schifo» concordò mia sorella. «Poveretta» ribadì la donna più anziana e mi strinse la mano. Il lavoro non sarebbe più stato lo stesso. La Green Mountain Media, la compagnia che avevo contribuito a fondare, adesso sarebbe stata la casa di Muriel. Muriel. Che nome meschino! Un nome da ragazza ricca. Un nome freddo come una condanna. Non come Callie, così amichevole e carino. Mi scappò un verso simile a un singhiozzo e Mister Intollerante dietro di me brontolò. Adesso basta. Mi voltai di scatto. «Ascolti, signore, mi spiace se la disturbo, ma ho avuto proprio una giornata di merda, d'accordo? Le sta bene? Il mio cuore è a pezzi, va bene, amico?» «Assolutamente» mi rispose lui in tono gelido. 18
«Continui pure con la sua diarrea emotiva.» Ooh. Che bastardo! Aveva l'aria del tizio con un palo nel sedere. Giacca e cravatta (cioè, per favore, siamo in Vermont...). Aveva un banale taglio di capelli militare, gelidi occhi azzurri e sdegnosi zigomi slavi. Tornai a voltarmi. Evidentemente lui non sapeva che cosa fosse l'amore. L'amore che finisce male. L'amore non ricambiato. Il mio tenero cuore fedele, spezzato. Detto questo, forse aveva ragione. «Meglio che vada» sussurrai a mia sorella. «Ti chiamo più tardi, Hes.» «Okay. Che fregatura che oggi sia il tuo compleanno. Ma ascolta, se è per i figli che ti preoccupi, stai tranquilla, posso farti restare incinta in un minuto, tempo di New York. Conosco tutti i migliori donatori di sperma.» «Non voglio che tu mi metta incinta» sbottai. «Santo cielo» mormorò Mister Zigomi Slavi. La lattaia cornuta mi guardò con aria interrogativa. «Mia sorella è un medico esperto in fertilità» spiegai. Chiusi il telefono e mi asciugai gli occhi con il dorso della mano. «È molto brava.» «Oh, che bello» rispose la mia amica lattaia. «Mia figlia l'ha fatto in vitro. Ha due gemelli adesso. Quattro anni.» «Magnifico» dissi fra le lacrime. «Il prossimo» ronzò il robot. Strascicare di piedi. L'uomo dietro di me sospirò di nuovo. Le immagini di Mark mi invasero la mente: il nostro primo bacio, quando avevo solo quattordici anni. Anni dopo al lavoro, lui chino sul mio computer, la mano appoggiata amichevolmente sulla mia spalla. Quando c'eravamo quasi ubriacati con lo sciroppo d'acero, solo la settimana prima, in una fattoria che volevamo portare a casa come cliente. Il nostro primo 19
bacio. Il volo fatale fino a Santa Fe. Ho già menzionato il nostro primo bacio? Lacrime calde mi sgorgavano dagli occhi e inspirai con un singulto. All'improvviso, un fazzoletto ben ripiegato mi comparve accanto al viso. Mi voltai. Mister Intolleranza dagli Zigomi Crudeli mi offriva il suo fazzoletto. «Tenga» disse e lo presi. Era stirato. Forse anche inamidato. Chi lo faceva più? Mi soffiai il naso vigorosamente, poi lo guardai di nuovo. «Lo tenga pure» suggerì lui, guardando sopra la mia testa. «Grazie» risposi con voce stridula. «Il prossimo» chiamò uno degli automi da dietro il bancone. Avanzammo di nuovo strascicando i piedi. Un'eternità dopo, avevo finalmente una nuova patente. Come se non bastasse, negli anni a venire mi sarei vista come una pazza fuggita dal manicomio, con il mascara sbavato, il viso a chiazze, un sorriso tremolante e falso. Tanti saluti al mio completo fantastico. Mentre cercavo le chiavi in borsa, vidi la lattaia vicino all'entrata, che si infilava quegli enormi occhialoni da sole neri che i vecchi mettono dopo essere stati operati di cataratta. Ebbi pietà di lei. Almeno mio marito non mi aveva tradita. Non mi aveva lasciata dopo quarantadue anni. Accidenti. «Le va un caffè?» chiesi. «Chi, io?» domandò lei. «No, cara. Devo lavorare. Buona fortuna per tutto, comunque.» D'impulso, la abbracciai. «Norman è un idiota.» «Sei una ragazza in gamba» dichiarò lei e mi diede una pacca sulla schiena. «Quel tuo fidanzato non sa che cosa si perde.» 20
«Grazie» risposi, le lacrime che minacciavano di tornare. La mia nuova amica mi salutò con un cenno e andò alla macchina. Il telefono belò. Mia madre. Fantastico. «Buon compleanno, Calliope!» cantò. «Ciao, mamma» risposi, mentre mi chiedevo se avrebbe dedotto qualcosa dal mio tono abbattuto. Non lo fece. «Ascolta. C'è una novità. Dave ha appena chiamato. Da Elements si è rotto un tubo e si è inondato il locale.» Elements si trovava in un vecchio edificio industriale che risaliva a un secolo e mezzo prima, quindi quel genere di incidenti non era insolito. «Non c'è problema» risposi. «Comunque non sono dell'umore.» Almeno non avrei dovuto sopportare una festa di compleanno. Potevo tornarmene a casa e mangiare impasto per torte. «Non essere sciocca» cinguettò mia madre. «Ho già avvisato tutti. Daremo la tua festa qui.» Il mio cuore ebbe un tuffo. «Qui? Che cosa intendi con qui?» «Alle pompe funebri, tesoro. Dove altrimenti?»
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