.1.
Era una bella giornata per stare in spiaggia. Un’estate tipicamente inglese, sotto un vasto cielo blu fiordaliso, i raggi del sole che brillavano dorati sull’acqua e sulla costa. Lustell Cove, la piccola cittadina della Cornovaglia, sembrava uscita da un quadro. Olivia Lark percepì l’onda che arrivava dietro di sé e, mentre la corrente acquistava velocità, iniziò a pagaiare con le braccia, preparandosi per il balzo. Si sollevò di scatto sulla tavola e per un attimo elettrizzante l’ondata la trascinò, prima che lei scivolasse e cadesse in acqua. Per qualche secondo fu sommersa in una sorta di silenzio frusciante, fresco e salato, poi riemerse al sole, ridendo e boccheggiando, e si sentì come sempre minuscola rispetto all’univer1
so. Aveva la bocca piena dell’acqua calcarea dell’Atlantico e un cappio d’alghe intorno alla caviglia, ma quand’era sull’acqua si sentiva più felice che mai. Arrivò a terra, la tavola incastrata sotto un braccio e l’altro sollevato per strizzare l’acqua salmastra rimasta fra i capelli castano ramati. Sulla spiaggia, i corpi abbronzati si crogiolavano al caldo su asciugamani rosa e un arcobaleno di ombrelloni sbatteva pigro nella brezza, a formare un arco da un lato all’altro della baia a ferro di cavallo. I vacanzieri leccavano gelati alla fragola e picchiavano i secchielli per ottenere castelli granulosi, mentre sull’acqua galleggiavano sagome nere in attesa dell’onda perfetta. Olivia fece una doccia e si vestì rapidamente, poi legò i capelli in una coda morbida e umida e si incamminò sulla sabbia. Non poteva rimandare in eterno. La baracca del surf del Blue Paradise era un bungalow in legno circondato da palme di cartone, a cui si accedeva percorrendo un 2
sentiero sghembo e disordinato di tavole di legno, oltrepassando un mucchio di kayak legati insieme. Olivia per poco non andò a sbattere contro un gruppo di ragazze che uscivano. «Oops.» Indietreggiò per lasciarle passare. «Scusate!» Sinuose come pantere nelle mute subacquee, le ragazze sembravano creature patinate provenienti da un altro pianeta, mentre agitavano le chiome e facevano risuonare le loro risate squillanti. Olivia non poté fare a meno di chiedersi se, quando era più giovane, avrebbe potuto possedere quel genere di femminilità da rivista se solo avesse avuto a disposizione del mascara, un asciugacapelli e un guardaroba – parole che nella sua adolescenza avevano il sapore esotico di un mercato di spezie lontano. Ora come ora, le sembrava che essere quel tipo di donna comportasse un’enorme fatica – di rado la mattina si concedeva anche solo uno sguardo frettoloso allo specchio – tempo che poteva essere dedicato ad 3
altre cose, come infilare la testa fuori dal finestrino della macchina o inseguire le mucche nel fango o sognare a occhi aperti il ragazzo per cui aveva una cotta o restare a letto fino a tardi o dipingere un quadro o fare una lista di tutte le cose a cui avrebbe dovuto dedicare il proprio tempo e in cui non rientrava nessuna delle precedenti. Perfino da bambina, giocare a prendere il tè da Tiffany (piccole orribili riunioni che aveva dovuto sopportare a sei anni; Tiffany Price che versava aria dal beccuccio della teiera e chiedeva se qualcuno voleva latte, cosa che tormentava la giovane mente di Olivia, perché come poteva esserci del latte, se non c’era nessun tè?) non aveva mai esercitato su di lei lo stesso richiamo delle avventure maschili, come costruire tane, lanciare con le catapulte, fare i cercatori d’oro sulla spiaggia. Olivia si era guadagnata l’ammissione nel gruppo con le proprie gesta: Oli che si arrampicava sugli alberi più rapida di una scimmia, che prendeva i ragni a mani nude, che disegnava fumetti 4
con una matita spuntata e aveva sempre le ginoc-chia sporche d’erba. Prese un respiro profondo ed entrò. «Ciao, Addy.» Olivia appoggiò la tavola vicino alla porta. Il negozio era immerso nel bagliore sonnolento del pomeriggio, gli scaffali stipati di attrezzature per l’immersione, costumi da bagno, portatavole da surf e cere varie. Alla parete era appesa la riproduzione impressionante di un grande squalo bianco, che agitava la coda e mostrava i denti. Addy Gold era al solito posto dietro il bancone e pigiava sui tasti del telefono, a petto nudo, qualche filo di perline al collo e ai polsi. Era illuminato da un raggio di sole, gli addominali che brillavano sopra la muta abbassata, e Olivia si sarebbe aspettata quasi un’esplosione di musica corale ad accompagnare quella visione. «Ciao» borbottò Addy e alzò gli occhi dalle proprie importanti faccende per lanciarle un sorriso fuggevole, a dir tanto perplesso. «Già di ritorno?» 5
«È passato un anno.» «Ah sì?» La sua indifferenza le fece male. «Sì, be’, a Londra non ha funzionato.» Era l’eufemismo del secolo. Olivia stentava a credere di essere tornata a Lustell Cove, il posto dov’era cresciuta, teatro degli anni scolastici carichi di rabbia alla Taverick Manor, dei pomeriggi oziosi e interminabili trascorsi a sguazzare nell’acqua e dei baci rubati al tramonto con Theo Randall del club del tennis, con il suo odore di tessuti sintetici. A ventidue anni, Olivia si era diplomata presso una scuola d’arte locale, e Londra le era sembrata il passo logi-co successivo, così si era trasferita in città per “diventare una pittrice” – quanto suonava ridicolo! – immaginando giornate a zonzo nei musei, a discutere di espressionismo astratto e sorseggiare vino a scrocco. Invece aveva trascorso l’anno seguente in un monolocale di Archway, non in un atelier di Aix-en-Provence, con uno scrittore tormentato che non comprava mai la carta 6
igienica ed era così peloso che sembrava di fare la doccia dopo un gorilla. Muoversi fra i disegni invenduti che le arrivavano alla caviglia era diventato presto deprimente e dopo una serie di impieghi poco duraturi come cameriera, l’ultimo dei quali si era concluso quando aveva mandato affanculo un cliente aggressivo e sessista, il suo conto in banca si era azzerato e lei era stata costretta ad ammettere la sconfitta. «Non ci credo» disse lui in tono monotono. Olivia sorrise allegra. «Allora, mi sono persa molto?» «Nah.» Addy sbadigliò e si stiracchiò, e il petto le si aprì davanti come un baule del tesoro. «La baia è un mortorio. Non succede mai niente di eccitante da queste parti.» «Succederà adesso che sono tornata. Non posso trascorrere tutta l’estate sotto il tetto della roulotte di mia madre, se capisci cosa intendo.» Ammesso che il tetto potesse essere definito tale: c’erano pezzi dell’antica Pemberton Static di Florence Lark che erano tenuti insieme con il nastro adesivo di 7
carta. «Cerchi lavoro, immagino?» «Per questo sono qui.» Olivia consultò la bacheca. «È saltato fuori qualcosa di interessante?» «Non ne ho idea. Non la guardo da secoli.» Tutti gli impieghi disponibili della baia venivano annunciati al Blue Paradise e la bacheca era strapiena di volantini con richieste di camerieri, commessi, vendemmiatori per i vigneti Quillets o spalatori di letame alle stalle Barley Nook... La lista continuava. Olivia aveva fatto molti di quei lavoretti per racimolare qualcosa durante le vacanze, ai tempi in cui aveva appena iniziato a indossare il reggiseno. «Forse dovrei» commentò Addy in tono annoiato. «Aprire nuovi orizzonti e roba del genere.» Olivia alzò la testa di scatto. «Te ne vai?» «Forse. Sono irrequieto. Lo sai cosa mi prende. Voglio di più dalla vita che stare seduto qui ad abbordare ragazze... Dopo un po’ è tutto monotono, hai presente?» 8
Olivia si obbligò a sorridere. Addy era consapevole di quello che provava per lui? Forse. Addy però poteva scegliere tutte le ragazze che voleva e lei era soltanto un’amica. Poteva farlo ridere. Poteva fare surf con lui sotto la pioggia. Poteva aiutarlo con i compiti di inglese, visto che i libri con più di cinquanta pagine lo intimidivano. Ma non poteva diventare una stangona bionda con un paio di gambe che non finivano più. Olivia lo conosceva fin dall’inizio dei tempi, eppure in quell’istante il fuoco di Addy le divampava davanti vivido e pericoloso esattamente come il primo giorno che l’aveva visto. Lei aveva sei anni e lui nove, e la sorellina di Addy era un habitué dei tè a casa di Tiffany. Olivia lo spiava mentre giocava fuori con gli amici alla contraerea. E avrebbe dato qualunque cosa per scappare da quella sala da pranzo graziosa con le sue tazze di porcellana vuote, per intrufolarsi fra i rovi fino a lacerarsi i vestiti. I maschi ovviamente facevano di tut9
to per levarsela di torno: la chiudevano a chiave nel Capanno dell’Orrore, le facevano giurare di essere la loro schiava, sfrecciavano sulle bici in modo che lei non li raggiungesse, le ponevano sfide che pensavano non avrebbe mai accettato... Olivia però era determinata e dopo aver accettato la sfida finale e aver attraversato di corsa il campo del contadino Nancarrow, un personaggio ombroso e misterioso, cupo e at-traente, che agli occhi dei bambini era entrato a far parte del mito – si diceva che sparasse a chiunque sconfinava nella sua proprietà e poi se li cucinasse per cena! – avevano finalmente ammesso che per essere una femmina non era poi tanto male. Era passato un secolo, eppure sembrava solo ieri. Olivia sperava che rivedere Addy le provocasse una sorta di epifania, che si sarebbe resa conto che in tutti quegli anni le aveva fatto vedere qualcosa che non esisteva, l’aveva convinta di una menzogna. Ma con Addy, solo con Addy, sempre con Addy, era 10
ogni volta la stessa storia. Olivia non era stupida; ma lui la rincretiniva. Olivia era solida; Andy la mandava in poltiglia. Olivia era equilibrata; con lui diventava indecisa. Il suo amore per lui risaliva a quando aveva dodici, undici, dieci anni e forse ancora prima, quando giocavano a nascondino fra le felci e lei si era accorta per la prima volta che i suoi occhi erano azzurri, non grigi, e la madre di Olivia preparava panini con i bastoncini di pesce per tutti e due e ogni volta che Olivia gli regalava un disegno, un ritratto di lui, di lei, dello pneumatico che avevano sistemato sopra il lago dai suoi genitori per usarlo come altalena, ben piegato e infilato nella tasca di Addy, le sembrava di perdere un pezzetto minuscolo del proprio cuore. «C’è un sacco di roba qui» constatò Olivia, poco convinta. «Senza offesa, Oli, ma punto a qualcosa di meglio della baia. Non la guardo neanche quella bacheca per perditempo.» Addy si grattò il mento. «Io penso in grande.» 11
Lo vide per un pelo. Un foglietto nascosto dietro la brochure di una barca a vela, ma su cui si intravedeva lo stemma inconfondibile che ricordava fin dalla sua adolescenza: Tenuta Usherwood Cercasi giardiniere capace ed entusiasta Orario estivo a una paga competitiva. Per maggiori informazioni rivolgersi ai proprietari Olivia si accigliò. L’antica tenuta Usherwood, un tempo maestosa residenza di Lord e Lady Lomax, era una castello di torrette e ali, torri e molti ettari di terreno, che sembrava uscito da una fiaba, la grandiosa reliquia di un’epoca dimenticata. I Lomax erano morti in un incidente aereo tredici anni prima e i figli, che all’epoca erano adolescenti, avevano ereditato la proprietà. Cato, il maggiore, era famoso, una star hollywoodiana, e dopo la tragedia se l’era filata e non aveva più fatto ritorno. Il minore era rimasto nella casa avita, in cui viveva a tutti gli effetti da recluso. 12
«Ehi, Humpty, guarda qui!» Era una voce così aristocratica che sembrava che il tizio avesse un sacchetto di biglie in bocca. Olivia si voltò. Un gruppetto di sbruffoni arrivati dalla città aveva trovato un manichino svestito e uno di loro faceva gesti osceni rivolti alle sue parti basse. Lustell Cove attirava i ventenni bene della capitale, sul genere di quelli immortalati dalla serie tv Made in Chelsea. Con i suoi panorami rigogliosi e selvaggi, le strade punteggiate alla rinfusa dai cottage pittoreschi tipici della Cornovaglia e dai tea shop, era abbastanza lontana dalla capitale da sembrare esclusiva ai veri ricchi, e la sfrenata vita da spiaggia evitava il rischio che fosse un rifugio contegnoso e soporifero. «Troppo divertente, Ruffers, troppo divertente.» Humpty esibiva un paio di calzoncini da surf hawaiani, anche se Olivia sospettava che la sua unica attività acquatica fosse un po’ di nuoto a rana, e solo se era sicuro di non bagnarsi i capelli. 13
«Fate surf?» domandò Addy, senza troppo interesse. Olivia lo vide passare in rassegna il gruppetto alla ricerca di una bionda sexy con un fondo fiduciario; lo conosceva fin troppo bene. «Mio papà ha un Maxus» rispose Humpty e scrollò la pettinatura impeccabile in direzione del porticciolo, dove galleggiavano lucidi motoscafi bianchi e lussuosi. Il suo entourage di ric-castri rise sguaiatamente in segno di approvazione. «Che cosa me ne faccio di una tavola di legno?» «In che cosa posso aiutarvi, allora?» chiese Addy. «Che abbia a che fare con il surf, intendo.» Uno di loro chiese: «Amico, conosci i Lomax?». Addy tornò a guardare il telefono. «No, se intendete Cato» rispose stizzito. «Per quanto ne so, non torna qui da almeno un secolo.» «Quella casa mette davvero i brividi, eh?» disse Humpty. «È vero che è, tipo, la casa più grande d’Inghilterra?» chiese Ruffers. «Ho sentito dire che hanno fontane di cham14
pagne in giardino» disse un altro. «E che Cato tiene una scimmia nel seminterrato» intervenne Humpty, «perché gli porti le cose. L’ho letto da qualche parte. Qualcuno l’ha vista dondolare in giro con un panciotto dorato.» Proseguirono con un inventario di frottole sempre più assurde. Erano tutti così occupati a parlare, che non si accorsero che Olivia staccava il volantino della tenuta Usherwood e lo infilava discretamente nella tasca posteriore dei jeans. Poi uscì. Il sole era scomparso ed era calata un’ombra sulla baia. Olivia incrociò le braccia per scacciare la pelle d’oca improvvisa. In cima alla collina si stagliava minacciosa la grande silhouette della tenuta di Usherwood, che imbrattava l’orizzonte come un’enorme macchia di inchiostro. Olivia avanzò sulla spiaggia. La sabbia era fresca e morbida come seta fra le dita dei piedi e lei attraversò l’insenatura a passo leggero, allontanandosi da Usherwood e tornando alla luce del sole.
15