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ANOUSKA KNIGHT

DA QUANDO NON CI SEI traduzione di Chiara Alberghetti


ISBN 978-88-6183-492-7 Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Since You've Been Gone Mills & Boon © 2013 Anouska Knight Traduzione di Chiara Alberghetti Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2015 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione HM febbraio 2015


Da quando non ci sei


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Quello doveva essere il suo giorno libero. Mi aveva promesso che non sarebbe stato via per molto. Doveva solo assicurarsi che i ragazzi si comportassero bene e che non si cacciassero nei guai; non voleva trovarsi a dover redigere un altro verbale per un incidente sul lavoro, e questo significava che doveva sorvegliarli. Io gli avevo promesso il suo piatto preferito – linguine al limone e basilico – e lui mi aveva assicurato che sarebbe tornato a casa prima che si raffreddassero. In quel momento, però, non avevano un aspetto molto invitante. Abbassai lo sguardo sul freddo groviglio colloso che continuavo a rimestare nel piatto, sforzandomi di non sentirmi così abbandonata. Appoggiai automaticamente le posate sul piatto nella posizione che, secondo il galateo, indica la fine del pasto, ma poi mi chiesi perché diamine mi dessi quella premura. Le regole del galateo a tavola erano qualcosa di paradossale, e perfettamente inutili per chi consumava i suoi pasti con persone a cui non importava proprio un bel niente se qualcuno appoggiava i gomiti sul tavolo oppure no. Mia madre, Pattie, ce le aveva inculcate quando eravamo piccole, e sarebbe rimasta quanto meno stu7


pita nel vedere la sua bambina arrangiarsi alla bell'e meglio, appoggiata alla penisola della cucina, invece di usare una delle dodici, superflue sedie della sala da pranzo. Se avesse una vaga idea di quante volte ho mangiato direttamente sul lavello solleverebbe all'istante un angolo della bocca. Quella smorfia di disapprovazione che le ho visto fare alcune volte. Sapevamo tutti che mia madre aveva patito una vita costellata di frustrazioni, per non essere stata esattamente all'altezza delle amiche in fatto di stipendio medio del marito. Amava mio padre, questo lo sapevamo – e non poteva essere altrimenti – ma non era riuscita a trattenersi dal sovracompensare quel suo cruccio allevando me e Martha come se fossimo iscritte a una specie di scuola privata per signorine, che ci preparasse a cogliere al volo le occasioni migliori per accaparrarci un avvocato o un medico, o un qualsiasi uomo facoltoso, insomma. Mia madre pensava che le signorine dovessero essere raffinate e che il loro obiettivo consistesse nel trovare un marito capace di assicurare loro una certa agiatezza, e quindi una vita a lieto fine. La solita vecchia storia. Con mia sorella la strategia della mamma aveva funzionato alla grande, e Martha era stata talmente brava da trovarsi un avvocato con un cuore d'oro. Ma quando vidi Charlie per la prima volta, mentre caricava ceppi di legna sul furgone del suo capo, flettendo le braccia abbronzate sotto la giacca mimetica, completamente inconsapevole del proprio fascino, capii all'istante a chi sarebbero state destinate le mie buone maniere a tavola. La mamma mi aveva avvertito che si trattava di 8


un tipo poco raffinato; era un po' grezzo, diceva lei, e affascinante, fin troppo. Aveva anche aggiunto che venticinque anni erano troppo pochi per sposarsi – o almeno, per sposarsi con una guardia forestale – e che sarebbe finito tutto tra le lacrime. Aveva ragione. Charlie aveva molto di cui dispiacersi ultimamente. Guardai le foglie di basilico, rimaste incollate al piatto di fronte a me. Dovevo chiamare i miei. Erano quasi tre settimane che non li sentivo, e dovevo tenerli aggiornati sulle dimensioni delle caviglie di Martha. Il fatto di avere ventisette anni non mi metteva al riparo dalle continue pretese di mia madre, ma le tre ore di volo che separavano l'Inghilterra dalla loro residenza per pensionati a Minorca sì, grazie al cielo. Lo sgabello dondolò quando mi alzai e passai intorno alla penisola per lasciar cadere le mie stoviglie nel lavello di sinistra. Charlie Jefferson e io avevamo scelto l'opzione dei lavabi gemelli. Il motivo principale era che io detestavo quando lui irrompeva in cucina con un mucchio di verdure fangose, l'altro – non detto – era il fascino racchiuso nel fatto di avere due lavelli uno di fianco all'altro che davano sulla finestra con la vista migliore di tutta la casa. Una di quelle decisioni bizzarre che si prendono quando si è innamorati cotti. Quel periodo meraviglioso, prima che arrivassero le lacrime. Guardai se ci fossero altre cose da lavare sui piani da lavoro mentre l'acqua scrosciava nel lavello inondando la manciata di stoviglie che vi avevo gettato. Erano le sei e tre quarti. Ma dov'è?, mi chiesi, spruzzando una generosa 9


quantità di detersivo nel lavabo fumante. Gli avevo già detto che la cena era pronta. Guardai fuori, ma non vidi nessuna traccia di lui mentre tuffavo le mani nella schiuma bollente. La pelle tra le dita cominciava a farmi un po' male. Avrei potuto comprarmi un paio di guanti di gomma, ma in pasticceria mi lavavo le mani talmente tante volte che mettermi i guanti a casa non mi sembrava avesse alcun senso. Martha diceva che ero l'unica, tra le persone che conosceva, a scegliere deliberatamente di lavare i piatti a mano anziché usare la lavastoviglie. Dal canto suo, Martha è l'unica persona che conosco che scelga deliberatamente di camminare traballando sui tacchi all'ottavo mese di gravidanza, del tutto incurante del fatto che le sue caviglie abbiano ormai raggiunto le dimensioni delle ginocchia. Ci ha provato, lei, a convincermi dei benefici dei tacchi – di come allunghino le gambe, migliorino la postura, esaltino la femminilità in generale – proprio come io ho cercato di spiegarle che, a meno che non mi capiti di avere ospiti a cena, mi ci vorrebbe una settimana per riempire una lavastoviglie. E poi, questa vista sulla vallata merita ampiamente un'occasionale screpolatura delle mani. Quando acquistammo la nostra metà della casa colonica dalla nostra vicina, la signora Hedley, decidemmo di allargare la finestra proprio per quel motivo. Una vista mozzafiato che si apre sulla parete laterale del cottage e che si estende fino al punto in cui il nostro prato digrada dolcemente verso le acque blu scuro del laghetto. Attraverso quella finestra si possono ammirare tutti i colori che la natura può offrire, grazie soprat10


tutto alla fissazione di Charlie di piantare qualsiasi tipo di bulbo, arbusto o albero gli capitasse a tiro. Quando iniziammo a ristrutturare il cottage, lui si dedicò alla piantumazione del terreno, così, mentre noi due discutevamo su come dipingere le pareti delle stanze, il giardino si riempiva di piante e di fiori. Alla fine dovetti cominciare a nascondergli il portafogli, durante l'orario di apertura del vivaio. Lo tengo nel comò, adesso, insieme ad altre cose importanti e inutili allo stesso tempo. Mi resi conto, poi, di averlo criticato troppo. L'acqua del rubinetto si fece di colpo bollente, e ritrassi la mano di scatto; poi ripresi a scrutare attraverso il vetro della finestra. Era ora di falciare il prato. I fili d'erba crescevano allungandosi verso le gambe delle sedie da giardino, ormai arrugginite. Ma dov'è?, mi chiesi di nuovo. La mia visuale si estendeva giù fino a circa una metà del laghetto, l'altra parte rimaneva coperta dalla vegetazione di alberi e cespugli ai quali Charlie aveva potato le cime dopo la nostra ultima litigata. Usare la motosega era un modo un po' insolito per scaricare la tensione, ma con lui funzionava, e ora gli alberi erano tornati ad avere più o meno la stessa altezza di prima. Niente di più facile che il mio imprevedibile compagno fosse lì da qualche parte. Non poteva essere lontano, ma evidentemente aveva trovato qualcosa di molto più interessante della mia pasta e del pollo. Forse era arrabbiato: quella mattina avevo alzato la voce con lui. Era la seconda volta, in quella settimana, che mi lasciava sola quando era ora di mangiare, ma non avevo intenzione di far raffreddare la cena per starmene ad aspet11


tare sulla soglia di casa urlando come una pescivendola. Se voleva mangiarla più tardi, bene, ma se avesse continuato a fare così gli sarebbero toccate solo le scatolette. Mi ci erano voluti meno di tre minuti per lavare i piatti. Martha non lo avrebbe mai ammesso, ma eravamo sempre state diverse, e la foto appoggiata sul davanzale dietro il lavandino lo dimostrava chiaramente. Nella foto i miei capelli erano più lunghi di come ce li avevo ora, ma gli attacchi di panico erano stati più facili da gestire una volta che mi ero sbarazzata di quei ricci disordinati. I capelli lunghi erano un intralcio di cui potevo fare volentieri a meno nelle notti in cui, stesa nel letto, sentivo mancarmi il fiato. In fondo alla cucina faceva più caldo, perché lì vi batteva il sole del primo mattino; Charlie aveva fatto in modo che si formasse un angolino soleggiato proprio tra le due librerie color panna disposte perpendicolarmente alla panca sotto la finestra. Quello era il posto che aveva scelto per fare colazione ogni mattina, con il sole che batteva sulla schiena e il cane accucciato ai suoi piedi. La madre di Charlie aveva detto che quella visuale a centottanta gradi sul giardino si sarebbe rivelata molto utile una volta che fossero arrivati i nipotini. E soprattutto se fossero stati birichini come il papà. Ma a farmi arrabbiare in quel momento non vi era nessun bambino birichino. Aprii i battenti della porta laterale e uscii in giardino. «Dave? Dave? Ultima chiamata, bello.» Un gruppetto di uccellini svolazzò dalle cime degli alberi che Charlie aveva sfrondato con la motosega. Eccolo, ora riuscivo a vederlo, mentre galoppava arran12


cando su per il fianco della collina. Bisogna dire che era proprio una brutta creatura. Un trionfo di goffaggine e pelo marrone sbiadito che si inerpicava su per il terrapieno, il muso ballonzolante in tutte le direzioni e la pappagorgia che fluttuava libera dalla forza di gravità. Raggiunse i miei piedi e si lasciò cadere seduto, scodinzolando contro il terreno. «Ciao, Dave.» Lui sbuffò per tutta risposta. «Sei in ritardo per la cena» gli dissi imbronciata. Rientrammo in casa. Non sembrava affatto pentito. Nell'ingresso mi tolsi gli stivali con un calcio, e intanto lo sentii fiutare rumorosamente il pollo che gli avevo tenuto da parte. Ero quasi a metà delle scale quando squillò il telefono al piano di sotto. Era sicuramente Martha, che mi chiamava per decidere quale arrosto preparare per domenica. Io non sarei voluta rimanere a pranzo da lei, ma fino a quel momento non ero riuscita a trovare una scusa abbastanza plausibile. Il telefono continuava a suonare e la mia coscienza avvertì una fitta. Forse il pranzo non c'entrava niente. Magari era il bambino. Mi affrettai a sollevare la cornetta, ma proprio in quel momento partì la segreteria. «Salve, questo è il cantiere dei Jefferson. Non possiamo rispondervi in questo momento: probabilmente io sarò da qualche parte aggrappato a una scala mentre Holly implora i nostri amici di venire ad aiutarci. Lasciate un messaggio.» «Hol? Sono io. Mi chiedevo se per domenica ti andasse bene l'agnello. Oppure il pollo? Sì, penso che faremo anche il pollo. Forse lo preferisci? Perché non 13


sei ancora tornata a casa? Chiamami quando rientri. Okay, ti voglio bene. Ciao.» Dave mi raggiunse in fondo alle scale. «Adesso vuoi tenermi compagnia? Mi dai il bidone per cena ma sei contento di venire a vedermi mentre faccio la doccia?» Dave non rispose. I listelli di legno delle scale erano duri sotto i piedi, ma c'erano dei vantaggi nel fatto di non avere ancora messo la moquette o la carta da parati, come non dover preoccuparsi se un mastino di circa novanta chili ti seguiva ovunque per casa. Dave si accomodò sul pavimento del bagno mentre io mi buttai sotto il getto bollente della doccia. Addosso avevo zucchero a velo dappertutto, come al solito. Lo zucchero sembrava appiccicarsi alla pelle come faceva con i denti. Che scema. Mi ero dimenticata di comprare uno spazzolino da denti nuovo, quel giorno. Nel bicchiere appoggiato sul lavabo, accanto all'altro spazzolino – a mia sorella avevo detto che era quello di riserva – il mio era ormai tutto rovinato. Avrei potuto comprarne uno prima di andare al lavoro, la mattina, oppure riportarmelo indietro da casa di Martha, dopo il weekend. A patto che me ne fossi ricordata. Ero così stanca in quel periodo. Se avessi continuato così, entro novembre sarei diventata di nuovo sonnambula. Dave dormicchiava tranquillo quando uscii dalla doccia in una nuvola di vapore. Sentii l'aria fredda sulle spalle umide quando attraversai il pianerottolo per raggiungere la camera. Mi asciugai velocemente e mi misi in fretta e furia la mia tuta da baseball preferita. Era ancora troppo presto per andare a letto; il solo guardarlo mi ricordava quanto fosse pro14


blematico quell'aspetto, se problematico era il termine giusto per definirlo. Era una sensazione che arrivava a ondate, me ne ero resa conto, e anche se avrei voluto fare volentieri a meno della stanchezza, morivo dalla voglia che lui mi facesse visita quella sera. Ma per scaramanzia decisi di rimanere fedele alla routine che ultimamente era sembrata funzionare, e mi infilai sotto le coperte intorno alle dieci. Ammazzare il tempo era diventata un'ossessione. Minuti, settimane... e adesso anni. Avrei potuto trovare qualcosa da fare solo per un paio di ore, magari stirare l'esigua pila di panni appoggiati sul comò. Pescai alcune grucce dall'armadio e cominciai a ficcarci disordinatamente altri vestiti. Non eravamo riusciti a deciderci di comprare un secondo armadio. Diedi una sistemata ai miei vestiti tutti spiegazzati e passai in rassegna l'ordine perfetto di quelli appesi dalla parte di Charlie. Ma come faceva la polvere a entrare negli armadi? Era una specie di fenomeno caratteristico delle case? Tirai fuori alcuni indumenti per osservarli piÚ da vicino. Giacca estiva di Charlie, giubbotto invernale di Charlie, camicia di Charlie, camicia di Charlie, camicia di Charlie. Soffiai via la polvere da quei vestiti che ormai detestavo, cercando di non lasciar affiorare in me quella familiare bolla di rancore poco prima di andare a dormire. Ma lei era sempre lÏ, in agguato, proprio sotto la superficie, in attesa dell'occasione giusta per balzare fuori. SÏ, Charlie Jefferson. Hai davvero molto di cui dispiacerti.

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