Hrd3 tre amiche e tanti guai

Page 1


JANE COSTELLO

TRE AMICHE E TANTI GUAI traduzione di Elisabetta Lavarello


ISBN 978-88-6905-005-3 Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The Time of Our Lives Simon & Schuster UK Ltd © 2014 Jane Costello Traduzione di Elisabetta Lavarello Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2015 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione HM aprile 2015


Tre amiche e tanti guai


Prologo

Aeroporto di Manchester, luglio 2006 Esiste una regola universale che si applica a qualunque destinazione vacanziera del pianeta: più sole c'era nella località turistica visitata, più drammatico è il rientro nel Regno Unito. E Zante era soleggiatissima. Al punto che, quando scendo con le mie amiche sulla pista d'atterraggio britannica, rabbrividendo nel piovischio, mi pare che l'unica cosa al mondo a non essere grigia sia il mio naso, il quale ha un'allarmante sfumatura di rosso. Ah, forse anche le dita dei miei piedi che, grazie agli infradito che mi parevano un'idea tanto buona alla partenza, ora sono bluastre come ghiaccioli radioattivi. Purtroppo il tempo è stato l'unico aspetto positivo della vacanza. Sul resto, meglio stendere un velo pietoso. «Come va l'intestino oggi, Imogen?» si informa allegramente Meredith mentre saliamo sul tapis roulant. La famiglia di quattro persone che ci precede si volta di scatto a fissarmi. «Meglio» bisbiglio. «Anche se non vuol dire molto.» Ventiquattr'ore fa, ero in preda a dolori da chirurgia intestinale senza anestesia, conseguenza, secondo pettegolezzi alberghieri, della ricorrente presenza di un supervirus nell'acqua della piscina, motivo per cui il nostro hotel a due stelle e mezza aveva ricevuto mode7


ste recensioni su Watchdog l'anno scorso. Meredith non aveva menzionato questo piccolo dettaglio quando aveva persuaso Nicola e me a prenotare quel viaggetto di due notti per il suo addio al nubilato. Il suo terzo addio al nubilato, per la precisione. Lei e il suo ragazzo, Nathan, hanno uno di quei rapporti a intermittenza... talmente intermittenti che se cerchi di tenerti aggiornata ti viene mal di testa. Al momento va a gonfie vele, ma non è una garanzia: entro la fine della settimana, Meredith potrebbe annullare il padiglione nuziale da trecentocinquanta posti a sedere nell'Hampshire, licenziato il quartetto d'archi e provocato a sua madre il terzo esaurimento nervoso. «Non so voi due, ma io mi sono divertita da matti» dichiara Meredith, fiduciosa in una nostra conferma positiva. «So che non era un albergo lussuoso, ma ci si abitua a quei piccoli invertebrati, non trovate?» Non ho idea di cosa intenda con piccoli invertebrati, persino il noto documentarista David Attenborough stenterebbe a classificarli, ma so che io non mi ci sono abituata. Come non mi sono abituata alla doccia che aveva due regolazioni (gelo artico o lava), ai capelli che ho trovato nel cibo a ogni pasto (messi insieme, sufficienti per un toupet), e nemmeno ai muri che tremavano quando la coppia della stanza accanto vomitava, cantava o scopava, quest'ultima cosa, a giudicare dall'incalzare dei rumori prodotti, comportava una varietà di mosse degna della tradizionale danza irlandese Riverdance. Non mi sono abituata a nessuna di queste cose, e nemmeno, a giudicare dalle sue palpebre pesanti, l'ha fatto Nicola. «È stato bellissimo, Meredith» risponde stoicamente. «Sono proprio contenta che tu ti sia divertita. È la cosa più importante.» Né Nicola né io abbiamo la puzza sotto il naso; non 8


siamo certo cresciute nel lusso. Al contrario, tutte e due veniamo dalla poco pretenziosa periferia sud di Liverpool, dove ci siamo conosciute alle medie. Ma perfino noi abbiamo degli standard sotto cui evitiamo di scendere. Ed ecco perché Meredith, la mia ex vicina di casa di Londra, è un enigma. La sua famiglia dev'essere proprietaria di metà della costa meridionale, suo padre era un maggiore dell'esercito britannico e gli altri suoi amici hanno dei nomi che sembrano tratti da romanzi di P.G. Wodehouse. Quindi, l'unico modo in cui posso spiegare l'infinita sopportazione che ha mostrato per il tugurio in cui abbiamo soggiornato è che lo abbia visto come una novità. «Sapete, se aveste voluto andare in un posto più elegante, ve lo avrei offerto volentieri» cinguetta, quando arriviamo al nastro trasportatore per recuperare i bagagli. «Non mi sarebbe dispiaciuto affatto.» «Sei molto gentile, ma sarebbe dispiaciuto a noi» ribatte Nic. «Per la prossima volta, sarà meglio che cominciamo a mettere via qualche soldino.» Io mi giro e, con una stretta al cuore, mi rendo conto che la valigia che si sta avvicinando sul nastro trasportatore è la mia. Non è più il bel borsone da weekend che ho consegnato al banco del check-in. Questo ammasso di tela sembra essere stato usato da un ippopotamo furioso per imparare mosse di taekwon-do. Manca la maniglia, c'è uno squarcio su un lato e la mia busta da toeletta si è aperta, rivelando un mezzo pacchetto di assorbenti interni, tanti cosmetici da competere con un negozio di Clinique e un tubetto schiacciato di crema antimicotica che ha impiastricciato tutto. Mentre tiro giù il borsone, mi passano accanto due donne che hanno viaggiato sul nostro aereo. Sembrano 9


sui trentacinque e sono curate fino all'inverosimile: capelli lucidissimi, unghie con la French manicure e fronti che, da una certa angolazione, sembrano essere state immerse nella formaldeide. Avverto la fitta di qualcosa che non mi fa onore: temo possa essere invidia. Non per il loro aspetto favoloso, devo precisare. Ma perché so dove stavano sedute sull'aereo: in business class. Nicola segue il mio sguardo. «Sono certa che la business sia sopravvalutata.» «Un lusso inutile» concordo. «La classe economica è più che adeguata.» Meredith scuote la testa. «Su questo vi sbagliate.» Ci dirigiamo verso la chilometrica coda al banco dei reclami per denunciare il danno al mio bagaglio. Dopo dieci minuti senza avanzare di un passo, tiro fuori la spiegazzata copia di Hello! che ho comprato per il viaggio e sfoglio le pagine ormai familiari. Guardare foto di aristocratici europei o di Jane Seymour in posa accanto alla piscina di un palazzo di Kuala Lumpur potrebbe non essere una buona idea dopo due notti passate in un albergo con più fauna selvatica di una riserva naturale in Tanzania. «Non mi dispiacerebbe un tocco di lusso la volta prossima» confesso, anche se non ho idea di quando potrebbe essere questa prossima volta. Non è che non mi piaccia andare via con le mie amiche, la loro compagnia ha salvato un viaggio per il resto deludente, però ho iniziato da poco un nuovo lavoro, i soldi non mi escono dalle tasche e, per quanto economica e deprimente, Zante ha rosicchiato i fondi per la vacanza che intendo fare con il mio ragazzo, Roberto. Ho un palpito al cuore al pensiero che lui si trovi oltre la porta scorrevole degli Arrivi, pronto a prendermi tra le braccia. Le mie amiche si chiedono come sia 10


possibile che, dopo due anni che stiamo insieme, io sia ancora pazza di Roberto. Non vorrei sembrare sdolcinata, né voglio dare l'impressione che il nostro sia un rapporto perfetto, perché abbiamo avuto delle melodrammatiche liti (inevitabile, quando un esuberante italiano si innamora di una ragazza determinata a rendere pan per focaccia), ma a due anni di distanza, comincio a capire perché siamo fatti l'uno per l'altra. Roberto non è soltanto l'uomo che amo: è l'uomo che mi ha fatto capire che non sono poi tanto male. A dispetto dei tre chiletti che cerco di perdere da dieci anni. Nonostante i capelli che si rifiutano ostinatamente di stare come li metto. Malgrado il fatto che non riuscirei a tenere un segreto neanche se ne andasse della mia vita, che digrigno i denti nel sonno, che faccio fatica a dire mi spiace e che ho un ragno tatuato sul sedere (un ricordo di quando facevo la bagnina a Camp America e che ora sembra un melanoma maligno). Nonostante questi difetti e un milione di altri, Roberto tira fuori il meglio di me e, anche quando sono al mio peggio, so che mi ama. «Forse dovremmo davvero cominciare a risparmiare per concederci un viaggio speciale, un giorno» propone Nicola. «Potremmo mettere via qualcosa tutti i mesi. E fra... oh, non so, tre o quattro anni... potremo permetterci una vacanza come si deve. Una vacanza di lusso.» «Nicola, sei un genio. Facciamolo!» Meredith è raggiante. «Voli di linea. Un hotel a cinque stelle. Champagne a fiumi. Sarà fantastico!» Ovviamente, ha ragione. Anche se, dopo gli ultimi due giorni, qualunque posto con un water il cui scarico funzioni sarebbe un progresso.

11


1

Wandsworth, Londra, luglio 2012 Il mio beauty case non sembra quello di una donna che tra due giorni alloggerà in uno degli alberghi più lussuosi del mondo. Persino io me ne rendo conto, malgrado il mio scarso entusiasmo per il make-up. Possiedo svariati rossetti (l'unico cosmetico che talvolta mi compro, per fare uno sforzo), un correttore della Rimmel, un mascara disidratato e uno stick che funge da fard e lucidalabbra, omaggio di Meredith. Più o meno è tutto. Che disastro sono diventata! Una volta non ero così. Una volta le frivolezze femminili mi piacevano. Ma oggi sono una professionista impegnata e non mi pare il caso di presentarmi in ufficio con labbra color ciliegia e biancheria di pizzo... soprattutto, con delle tette come le mie. Se devo essere onesta, però, il desiderio di essere presa sul serio sul lavoro è solo parte della storia. L'intera storia è lunga e complicata, ma probabilmente può essere riassunta in questo modo: adesso ho altre priorità. Questo viaggio mi farà bene, continuano a ripetermi tutti. Non ho mai fatto una vacanza lussuosa come questa. Anzi, non faccio una vacanza da quattro anni e mezzo, se non conto i campi estivi. «Mami!» strilla Florence, la mia bimba di quattro 12


anni, dalla sua cameretta. «È successa una... cosa. Ma è stato un incidente.» Florence, così chiamata in onore della città natale di suo padre, Firenze, può anche avere la vocina di un angelo, però alcune sue frasi sono capaci di raggelarmi il sangue. Decido di essere ottimista e giudico il tono non abbastanza pressante da indicare una vera emergenza. «Che tipo di incidente?» chiedo in tono disinvolto. Impilo i vestiti nella valigia, prendendo deliberatamente tempo. «Ehm... ti arrabbi?» Inspiro a fondo. «Non lo so. Cos'hai fatto?» «Niente. E, comunque, è okay perché è stato un incidente.» Smetto di fare i bagagli e attraverso il corridoio verso la cameretta. Ci siamo trasferite in questa casa l'anno scorso perché si trova nel distretto dell'eccellente scuola statale che Florence inizierà in settembre. Purtroppo, questa data epocale della vita di mia figlia coincide con il giorno più importante del decennio per la mia azienda. Un cruccio da emicrania, per me, perché significa scegliere se chiedere alla mia amica e vicina di casa Debbie di accompagnare Florence al suo primo giorno di scuola o essere arsa viva dal mio capo. Zona a parte, è l'appartamento meno adatto del mondo alla nostra famigliola: è piccolissimo, il giardino consiste in quattro gerbere in vaso, ha un vago, ostinato odore di umido ed è molto meno vicino al mio ufficio della nostra vecchia casa di Clapham. Questo significa che i miei frenetici spostamenti da pendolare assomigliano a una scena di Momenti di gloria. È anche assurdamente costoso, difetto aggravato 13


dal fatto che l'aumento di stipendio che aspetto da sei mesi non si sia ancora materializzato. Oh già, abbiamo anche un cane. Non sono una che si semplifica la vita, io. Ma è stato soltanto quando recentemente è mancata la proprietaria di Spud, Mary, nostra padrona di casa, che ho scoperto, inorridita, che lo aveva lasciato a Florence nel testamento. Suo figlio James, nostro nuovo padrone di casa, non poteva tenerlo perché è allergico e ha le sue vacanze da golfista da considerare. Spud è un cagnolino adorabile, ma, se devo essere pratica, non certo quello di cui avevo bisogno in questo momento della mia vita. Così, ho brevemente considerato l'idea di affidarlo a un rifugio per animali, tuttavia non me la sono sentita, soprattutto perché, se Florence lo avesse scoperto, ce l'avrebbe avuta con me per il resto della vita. Inoltre, nella sua infinita previdenza, Mary ci ha anche lasciato i fondi necessari a pagare una persona che porti a spasso il cane tutti i giorni in cui io sono al lavoro per i prossimi cinque anni. Il che dimostra quanto fosse ottimista, dato che Spud va già per i quattordici. Nonostante questo caos, ce la caviamo. Non posso affermare di essere la mamma dell'anno: ho avuto un paio di défaillance, la più recente delle quali in occasione della Raccolta Alimentare all'asilo di Florence, quando all'ultimo momento le uniche cose che sono riuscita a trovare in dispensa da donare sono state un vasetto di bicarbonato, degli stuzzicadenti da cocktail e tre bottigliette di aperitivo alla vodka. Niente, comunque, impedisce a mia madre di ripetermi, ogni volta che ci parliamo, che tutto sarebbe molto più facile per me se tornassi a Liverpool. Cosa che non farò mai, e non solo perché ci abita lei. Il fatto è che amo Liverpool e sono orgogliosa di es14


serci nata: è lì che ho le mie radici. Ma Londra è il folle, magnifico luogo che non potrei più lasciare, neanche quando tanti ricordi ci vivono con me. È con trepidazione che apro la porta della cameretta di Florence. La stanza è, sotto ogni aspetto, un'offesa alla sensibilità femminista. Decorata in una sinfonia di rosa, ha un tavolino da toeletta tutto rivestito di lustrini (regalo della nonna), un letto da fiaba (anch'esso opera di mia madre) e più gadget della serie Le principesse di Disney di quanti se ne vedano sugli scaffali dei negozi di Disney World. Ma lei la adora. E, dato che ho educato mia figlia a sapere quello che vuole, non posso lagnarmi quando fa valere le proprie idee. Vorrei solo che si togliesse dalla testa il suo attuale oggetto del desiderio: un piccolo aspirapolvere rosa. Mi rifiuto di comprarglielo, anche se lei ha strappato una foto da un catalogo Argos e l'ha appiccicata al muro, in una sorta di altarino alla servitù domestica. Sono i suoi occhioni la prima cosa che vedo. Non è possibile non notarli, neanche quando sono parzialmente nascosti dai ribelli ricci scuri. Poi la mia attenzione migra. «Mi sono fatta le unghie. Ma ho gocciolato un po'» dichiara, mostrando le mani. Grazie a una boccetta di smalto rosso ciliegia (di nuovo opera di mia madre), sembra che abbia infilato le dita in un tritadocumenti. E sì, ha davvero gocciolato... su tutto il piumino del letto. «Florence!» ansimo, lanciandomi in avanti. Solo quando sono a metà strada mi rendo conto che il mio movimento ha svegliato Spud da uno dei suoi prolungati pisolini. Corre verso di me per darmi una leccatina, rovescia la boccetta e si mette a saltellare 15


per la stanza finché non ci sono impronte di cane rosso ciliegia su tutta la moquette. Mi approprio dello smalto e, senza neanche fermarmi a tirare il fiato, mi precipito in camera mia a prendere l'acetone, che comincio a spargere per tutta la cameretta nel futile tentativo di smacchiare. «Se solo avessi quell'aspirapolvere Hoover rosa per aiutarti.» Florence sospira. È a questo punto che mi squilla il cellulare. Rispondo stringendo il telefono tra l'orecchio e la spalla. È il mio capo, David. «Imogen, mi hai chiesto di richiamarti. Non sai che è sabato?» David è un capo ideale sotto molti aspetti, e gli sono debitrice per motivi che vanno oltre la mia recente, spaventosamente stratosferica promozione. È il direttore generale di una delle principali aziende alimentari del Regno Unito, la Peebles Ltd. Forse non riconoscerete il nome, eppure siamo una potenza onnipresente che produce alcuni dei tipi più diffusi di biscotti, cracker, cereali da colazione e prodotti dolciari. Praticamente, se c'è farina e zucchero in quello che state mangiando, è probabile che lo abbiamo fatto noi, e questo vale in almeno altri ventun paesi del mondo. Per quanto possa sembrare incredibile per una mamma single ventinovenne, sono il direttore marketing del Regno Unito. O almeno, faccio le funzioni di direttore marketing, il che significa che ho la posizione ma non il salario, almeno per il momento. David mi ha nominato dopo che i miei due predecessori avevano ceduto allo stress. Questa promozione ha superato le mie più ardite ambizioni ed è giunta prima del previsto. Ancora meglio: mi fa sentire motivata e mi ha dimostrato che 16


lavorare sodo dà i suoi frutti. Non è solo per il nuovo ufficio che mi sento soddisfatta, né per il fatto che adesso partecipo a riunioni in cui vengono serviti minisandwich senza crosta (pur squisiti). Tutto a un tratto sono diventata, o almeno sto diventando, una donna che prende decisioni, che viene ascoltata ed è rispettata. E questo dà proprio una bella sensazione, non lo nego. Inoltre, la Peebles è una bell'azienda in cui lavorare, un ambiente in cui il cameratismo tra colleghi è spontaneo. Ai tempi in cui Florence era solo un'idea, questo si traduceva in brindisi improvvisati da Punch & Judy dopo il lavoro. Anche se adesso devo accontentarmi di un panino al volo una volta ogni morte di papa con Stacey, Elsa o Roy, tre colleghi che lavorano al mio piano, so che sono fortunata a lavorare con persone che, quasi sempre, mi piacciono. L'unico lato negativo è che essere una donna in carriera, o almeno fingere di esserlo, non si concilia bene con la famiglia. Anche se nessuno lo dice esplicitamente, non è bello svignarsela dall'ufficio per arrivare a casa in tempo per cenare con la propria figlia. Ho costantemente la sensazione di battere la fiacca, anche se sto appiccicata al computer fino a mezzanotte passata. Cosa che faccio. Tutte. Le. Sere. «Scusami, David. Per la verità ti ho lasciato il messaggio ieri sera, mentre lavoravo da casa, ma grazie di avermi richiamato. Volevo solo dirti che ti ho mandato una mail con tutto ciò che occorre tu sappia in mia assenza.» «Ricevuta. E anche le due precedenti.» «Ah. Scusa. Volevo solo prevenire ogni problema, soprattutto per quanto riguarda la fusione.» Fra otto settimane, la Peebles annuncerà ai dipendenti, al mercato azionario e ai media di tutto il 17


mondo che unirà le forze con la Uber-Getreide, l'equivalente tedesco della nostra azienda. È ancora una notizia iper-riservata, ma questa nuova PeeblesGetreide Ltd. sarà la più grande azienda alimentare mai esistita in Europa. David e il suo omologo tedesco daranno l'annuncio nel corso di una conferenza stampa il 2 settembre, ma è compito mio occuparmi dietro le quinte dei necessari preparativi per la fusione: dai rapporti con il dipartimento marketing della Getreide, alla selezione di uno specialista di PR qui a Londra, alla decisione su che tipo di cravatta darà a David una sufficiente autorevolezza quel giorno. «La mail include dettagli su tutto, dai nostri contatti alla Getreide ai risultati delle ricerche di mercato, alla società di PR che abbiamo appena ingaggiato, a tutti i nominativi e i numeri di telefono che potrebbero servirti. Anche se sono sicura che non ne avrai bisogno. È solo una misura precauzionale.» Lui sbuffa in modo esagerato. «Sai cosa penso, Imogen?» Una pausa a effetto. «Penso che devi rilassarti.» Espiro, accorgendomi solo ora che non lo faccio da svariati secondi. «Lo faccio. Voglio dire, lo farò. E, comunque, Laura è al corrente di tutto e le ho detto di non esitare a chiamarmi se qualcuno avesse bisogno di me. Oltre al mio cellulare, ti ho lasciato anche il telefono dell'albergo e il numero della mia amica Nicola, per ogni evenienza. Ti ripeto, non sarà necessario, ma...» «Imogen!» «Mmh... sì?» «Cosa dico sempre in occasioni come questa?» «Oh. Ehm...» Esito perché è una domanda con risposta a scelta multipla. David ama filosofare, pur 18


non essendo propriamente un Aristotele. «Dico: pensa a lungo, pensa intensamente, ma pensa.» La sua voce si abbassa di un'ottava, con la stessa tecnica adottata da Churchill quando pronunciava i suoi discorsi di guerra. Poi fa una pausa, riflettendo su quelle parole. E così faccio io, anche se il nesso mi sfugge. «Lo farò, David.» «Le vacanze sono fatte per questo, Imogen. E tu non ne fai una seria da un po'. Quando è stata l'ultima volta in cui ti sei presa più di una settimana?» «Mmm... 2007. Dopo il parto.» «E da allora?» «Una settimana intera mai. Ho fatto un giorno qua e là. Qualche fine settimana lungo. Sono andata ai campi estivi per famiglie...» «Allora direi proprio che ti meriti del tempo libero. Ce la caveremo, Imogen! Non è che questa azienda cada a pezzi senza di te.» Ride. «E comunque, si tratta solo di tre giorni.» «Una settimana. Be', una settimana e un giorno. Sarò di ritorno alla mia scrivania martedì prossimo.» «Una settimana e un giorno? Oh, caspiterina...» Il mio cuore salta un battito. «SCHERZAVO! Ehi, Imogen, una settimana va bene.» «Una settimana e un giorno.» «Pensa solo ad abbronzarti!» «Lo farò» gli assicuro. «E sciogliti i capelli.» «Bene.» «Fatti sbattere, qualche volta!» «Mmm.» «Portati a letto uno dei camerieri o anche due.» «Oh.» «Fumati uno spinello! Va' a nuotare nuda!» 19


«David, non credo...» «Dico sul serio, Imogen. Tu lavori troppo. E senti cosa ti prometto: se ti squilla il telefono, non sarà nessuno di questa azienda. Me ne assicurerò io.» «Bene, se proprio ci tieni.» «Imogen, stacca la spina. Dammi retta. Stacca la dannata spina.» Ho le mani umide di sudore. «Davvero?» «Davvero. Ora, va' e divertiti come una matta. Non voglio sentire la tua voce fino a giovedì.» «Al martedì seguente.» «Giusto.» «Bene, sei davvero gentile, David... grazie.» «Nessun problema. Oh, prima che tu parta, mi hai mandato la bozza della presentazione che dovrò fare al consiglio d'amministrazione la settimana prossima?» «Sì.» Due volte. «Okay, bene. E le nuove immagini che ti ho chiesto?» «Certo.» «I dati aggiuntivi?» «C'è tutto.» «Ottimo. Mmm.» Esita. «Cosa c'è?» «A proposito del tuo cellulare...» «Lo lascerò sempre acceso, va bene?» Esita di nuovo. «Probabilmente è meglio.»

20


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.