Hya2 la mia fuga piu dolce

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CHELSEA M. CAMERON

LA MIA FUGA PIÙ DOLCE traduzione di Luigi Bertolini


ISBN 978-88-6905-000-8 Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: My Sweetest Escape HQN Books © 2014 Chelsea Cameron Traduzione di Luigi Bertolini Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2015 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione HM marzo 2015


La mia fuga pi첫 dolce


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«Non posso credere che i tuoi genitori ti costringano ad andartene. Mi sembra – come dire? – illegale. Hai più di diciott'anni. Fregatene.» Kelly si sedette su uno degli scatoloni che occupavano la stanza ormai sgombra e riprese a masticare la sua cicca. Un'abitudine che all'inizio, appena conosciute, mi irritava profondamente, mentre ora non ci facevo più caso. «Mi piacerebbe, ma sono loro a pagare la retta, per cui al momento non ho scelta» spiegai. Tacendo il fatto che nessuno, ma proprio nessuno, osava mai dire no a mia madre. «Perché allora non molli l'università?» Oh, ci avevo pensato più di una volta. Anzi, più di un migliaio di volte. Ma era impossibile spiegare le complesse dinamiche della mia famiglia a una come Kelly, che era uscita di casa per andare a vivere da sola quando era ancora al liceo. «Non lo so» risposi, scrollando le spalle e chiudendo un altro scatolone con il nastro adesivo. Kelly si rigirò fra le mani la sua coda di cavallo, un ammasso di treccine bionde e sudice, facendo di nuovo scoppiare la cicca. Si era offerta di darmi una mano col trasloco, ma fino a quel momento non aveva fatto altro che distrarmi. «Verrai comunque a trovarci, vero?» mi chiese. «Sì, certo» le risposi con un mezzo sorriso. Sapevamo benissimo entrambe che molto probabilmente non sarei più tornata da quelle parti. Ripiegai la coperta dell'University of New Hampshire e la ficcai in un altro scato7


lone. Me l'aveva comprata mia madre due estati prima, il suo regalo di commiato alla figlia che partiva per il college. Ero una degli unici due, tra fratelli e fratellastri, che erano riusciti a finire il liceo e a farsi ammettere in un college. Mia madre, mio padre, la mia matrigna e il mio patrigno avevano tutti mollato prima, e quindi essere arrivata fin lì era considerato un evento di straordinaria importanza. L'altra che, come me, ce l'aveva fatta era Renee, e per questo motivo ora mi rispedivano nel Maine a vivere con lei dopo... dopo tutto quello che era successo. Il cellulare di Kelly emise un ronzio e lei digitò una rapida risposta all'sms appena ricevuto. Poi sorrise. «Mac vuole vedermi per un caffè.» Ogni volta speravo che nel dire caffè facesse il segno delle virgolette con le dita, perché entrambe sapevamo che in realtà intendeva dire farsi e fare sesso sul sedile posteriore della vecchia Pontiac di Mac. Kelly e il suo ragazzo erano famosi per questo: più d'una volta erano anche stati beccati in pieno giorno dalla sorveglianza del campus. Per come la vedevo, era un miracolo che non li avessero cacciati dall'università. «Divertiti.» Sapevo che mi avrebbe piantato in asso per Mac. Faceva sempre così. Kelly non era una mia grande amica, ma era l'unica che avessi. Le altre mi avevano scaricato mesi prima. «Chiamami quando stai per partire. Voglio salutarti.» Si alzò e mi abbracciò senza calore. O meglio, si piegò su di me a braccia aperte ritraendosi all'istante. «A più tardi» aggiunse, sbattendo la porta. Kelly non usciva mai silenziosamente da una stanza. Mi guardai intorno: che desolazione! La mia coinquilina mi evitava dall'inizio dell'anno. Avevamo avuto solo un paio di conversazioni: una il giorno in cui avevamo preso possesso della stanza, l'altra quando una notte mi aveva trovato svenuta davanti alla porta, dopo 8


una folle serata in compagnia di Mac, Kelly e altra gente che non avevo mai più rivisto. E di cui in ogni caso non mi sarei ricordata. Presi il posto di Kelly su uno degli scatoloni, con le gambe piegate e il mento sulle ginocchia. Non riuscivo a smettere di pensare alla lite che avevo avuto con mia madre quando mi aveva imposto di tornare a casa. Tutto il periodo delle vacanze di Natale, in realtà, era stato un continuo, incessante litigare. Cosa ti prende, Joscelyn? Faresti meglio a darti una regolata e cercare di rigar dritto. Adesso torni nel Maine, altrimenti vengo io lì e ti riporto indietro a calci nel sedere, capito? Darmi una regolata e rigar dritto. Sì, mamma, certo. Proprio lei! Fra l'uno e l'altro, i miei genitori avevano collezionato mezza dozzina di matrimoni, e adesso avevano la casa piena di figli e figliastri. Era già una fatica ricordarseli tutti. Avevo perso la voce a furia di gridare, ma senza risultato. In quei giorni aveva perfino smesso di odiare mio padre, tanto da telefonargli per aggiornarlo e costringerlo a farmi a sua volta una sfuriata. Ero totalmente disarmata nei confronti di quei due. E poi c'era Renee. Se non fosse venuta la mamma per riportarmi indietro a calci nel sedere, l'avrebbe fatto lei. Mia sorella... Squillò il cellulare e, quando vidi chi stava chiamando, per un attimo meditai di non rispondere. «Ciao» dissi, tremando al pensiero di quel che stava per piovermi addosso. «Faresti meglio a raccogliere la tua roba e a partire immediatamente» esordì, senza tanti preamboli. «Anche a me fa piacere sentirti, cara sorella.» «Risparmiami queste stronzate, Jos. Mi hanno stufato. Ti consiglio di alzare le chiappe e di metterti per strada nel giro di un'ora, altrimenti...» 9


«Lo so, lo so. Mi staccherai le dita col bisturi e me le ricucirai sul culo. Lo so.» Avere una sorella esperta in chirurgia e incazzata con te era una vera sciagura. «Senti, non fare la strafottente. Hai già la fortuna di venire a stare da me e non dalla mamma.» Vero. A casa della mamma sarei annegata in un mare di mezzi fratelli e fratellastri, fra i quali dei gemelli di quattro anni al cui confronto il diavolo sembrava Madre Teresa. «Lo so» ammisi. Negli ultimi tempi era diventata la mia risposta preferita. «Sappi che ti starò appiccicata al culo come una cozza allo scoglio, e se dovrò assentarmi ci sarà sempre qualcun altro al mio posto. Stai per mettere piede in una casa piena di gente che ti terrà il fiato sul collo fino a sfinirti, ti è chiaro?» Cristo. «Sì.» «Okay. Ti aspetto. Chiamami appena parti.» «D'accordo. Arrivederci.» Chiusi la telefonata prima che potesse aggiungere altro. Mi coprii il volto con le mani e cacciai un grido: era un incubo da cui temevo di non risvegliarmi più. Giorno e notte, non mi mollava un secondo. In ogni caso adesso era giorno e dovevo darmi una mossa. Scesi dallo scatolone e lo sollevai.

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Sudando e imprecando, in una dozzina di viaggi riuscii a caricare tutta la mia roba in macchina. Era gennaio, fuori faceva freddo, il fiato si condensava nell'aria, ma tolsi il cappotto e rimasi con la mia felpa logora. La gente passava e mi osservava. Sapevo cosa stavano pensando. Eccone un'altra che non ce l'ha fatta, un'altra che deve abbandonare gli studi e che non tornerà dopo le vacanze. Non potevano immaginare. Tornai nella mia stanza spoglia e la guardai per l'ultima volta. Addio libertà. Non mi presi la briga di lasciare un messaggio alla mia coinquilina e mi chiusi la porta alle spalle. Non ci sarebbe certo rimasta male. Mandai un sms a Kelly per dirle che stavo partendo, ma non mi rispose. Figurarsi! A parte lei, non c'era nessun altro in tutta l'Università del Maine che avrei voluto salutare. Di Matt non avevo più notizie da prima dell'estate, quando mi aveva piantato. E della mia piccola schiera di amici, nessuno era più rimasto in contatto con la pazza, irrequieta ragazza emo. Più di una volta li avevo sentiti sparlare alle mie spalle della mia trasformazione. Stava iniziando a nevicare quando tornai alla macchina. Ormai non si vedeva quasi niente nello specchietto retrovisore; per fortuna avrei fatto quasi tutto il viaggio in autostrada. 11


Collegai l'iPod agli altoparlanti dell'automobile e pigiai shuffle. La strada era lunga e avevo solo la musica a tenermi compagnia. Dalle maniche della felpa spuntò il braccialetto che non toglievo mai. Era una semplice catenella con un elefantino portafortuna. Mi faceva da promemoria. Un promemoria costante. Scossi la testa nell'allontanarmi dal pensionato, avviandomi verso l'autostrada e un nuovo capitolo della mia vita. Ripartire da zero non ha quasi senso se ti porti dietro tutte le tristezze del passato. Mi ci volle più del previsto per arrivare a Bangor, nel Maine, e raggiungere la casa di mia sorella. Che poi non era, di fatto, neanche casa sua. Ci si era trasferita insieme a quel tizio, Hunter, che l'aveva comprata perché era pieno di soldi. Se è questione di trovarsi un amico ricco, non c'è nessuno più bravo di Renee. Lei nel frattempo era tornata con Paul, e per fortuna, a mio parere, perché era uno strazio quando non stava con lui. Più ancora di quando stavano insieme. Non avevo mai visto la casa e rimasi davvero impressionata quando parcheggiai all'indirizzo che Renee mi aveva dato. «Accidenti!» esclamai. Era enorme, più di quanto Renee avesse lasciato intendere. Mi ero figurata un edificio un po' cadente, e piccolo, mentre quello era più grande di tutte le case in cui avevo vissuto con mia madre o con mio padre. Presi lo zaino e salii i gradini del portico, gettando uno sguardo alle macchine parcheggiate sul vialetto. Avevo subito individuato quella di Renee, quindi l'indirizzo era quello giusto. C'era anche un assurdo campanello, e stavo per posarci sopra un dito quando la porta si aprì di colpo. «Eccoti! Temevo già che fossi finita in un fosso lungo la strada» disse Renee, gettandosi su di me. Sorpresa da quell'abbraccio, rimasi come impietrita. 12


«E invece eccomi qui.» Avevo ereditato il gene recessivo del rutilismo, e così avevo i capelli rossi, le lentiggini e gli occhi verdi. In Renee erano invece confluiti i geni buoni di famiglia, con i suoi occhi azzurri e i capelli biondi naturali. Anche se i nostri lineamenti erano simili, i colori erano così diversi che la gente non ci prendeva mai per sorelle. Smise finalmente di abbracciarmi e tenendomi una mano sulla spalla per trattenermi, quasi temendo che potessi fuggire, mi introdusse all'interno. Dove sarei potuta fuggire non so. Renee aveva accennato al fatto che Stephen King abitava in fondo alla via, tuttavia non ero certa che mi sarei sentita più al sicuro in casa sua. «Com'è andato il viaggio?» Renee chiuse la porta, che emise un clic definitivo. «Bene» risposi, guardandomi intorno. Maledizione. Di nuovo. Non so chi si fosse occupato dell'arredamento, ma di certo si era ispirato a una di quelle stupide riviste che pretendono di insegnarti come rendere più bella la tua casa. Una cosa comunque era certa: non sembrava uno di quegli alloggi un po' di fortuna tipici dei college. Intanto, si notava una grande pulizia, e poi si capiva che c'era sotto un progetto, perché ogni elemento si combinava armoniosamente con il tutto. C'erano anche molte piume di pavone in giro, e colori ad esse intonati. Renee mi aveva accennato all'ossessione per i pavoni di Taylor, la sua compagna di stanza, ma non ne ricordavo il motivo. Smisi di ascoltarla quando attaccò a parlare come un'esaltata della sua vita da favola, mentre la mia aveva imboccato una spirale discendente che pareva non dover mai toccare il fondo. «Ciao, Jos. Come va?» disse Paul, comparendomi all'improvviso davanti. Aveva un'aria da ragazzo perbene, studioso e un po' sfigato, che lo faceva sembrare 13


anche carino, ma non era il mio tipo. Non che avessi in mente un tipo... «Benone» risposi. Un grado in più di bene, perché nessuno ti fa più domande quando dici che stai benone. Mentre se rispondi semplicemente bene, tutti pensano che c'è qualcosa che non va. Mi abbracciò con una certa goffaggine. L'avevo visto a Natale, quando aveva evitato che la mamma e Renee si strangolassero a vicenda, con scarso successo. Io avevo cercato di spiegargli che era inutile, ma lui ci aveva provato ugualmente. «Dove sono tutti gli altri?» Ero ansiosa di vedere Darah e di conoscere il suo nuovo ragazzo. Darah era una delle persone più dolci che avessi mai conosciuto, e sapevo che se c'era una persona che non mi avrebbe giudicato, quella era lei. «Volevano lasciarci tranquille. Arriveranno più tardi.» Qualcosa nel tono della sua voce mi insospettì. «Non è che hanno in mente di fare chissà cosa, spero.» «No» rispose Renee, evitando di guardarmi e lanciando un'occhiata a Paul. Stava succedendo qualcosa. «Allora, perché non scarichiamo la tua roba? Coraggio, Paul.» Renee lo prese per mano e lo scaraventò fuori dalla porta. «Okay.» Mi lasciarono sola nell'ingresso. Entrai nel soggiorno splendidamente arredato, salvo un'orrenda poltrona reclinabile e i videogiochi abbandonati un po' dappertutto. Mi cadde l'occhio su Skyrim e sorrisi. Renee non ne aveva mai abbastanza di quel gioco. Ci aveva passato la maggior parte del tempo durante le vacanze di Natale. Mi lasciai cadere sul divano e rimasi a guardare il soffitto. Anche quello era straordinariamente pulito. Poco dopo un rumore sordo mi segnalò che Paul e Renee avevano portato dentro un po' della mia roba. «Cara sorella» disse lei ansimando, «siccome abbia14


mo solo tre stanze da letto, tu starai nel seminterrato che abbiamo appena ristrutturato. È una fortuna aver deciso di preparare una camera per gli ospiti.» «Ottimo» risposi, anche se mi sarei accontentata di dormire sul divano di pelle. Era il divano più grande che avessi mai visto e occupava la maggior parte del soggiorno. «Perché non le mostri il resto della casa mentre io recupero tutta la sua roba?» propose Paul. Mi alzai e Renee mi accompagnò giù per le scale nel seminterrato. «Benvenuta nella caverna dei maschi» disse, facendo un ampio gesto con il braccio. La caverna dei maschi, una definizione più che azzeccata: bar, biliardo, un altro divano gigantesco, un televisore grande come lo schermo di un cinema. E poster di baseball, football, pallacanestro, i Red Sox, i Patriots, i Celtics. Le squadre più famose. Renee mi condusse in fondo al locale dove c'era una stanzetta per gli ospiti con un bagno di fianco. Grazie a Dio, non avrei dovuto condividere il bagno con nessuno. Avevo sempre dovuto farlo nel pensionato studentesco e ne avevo decisamente abbastanza. «Ecco.» Le pareti erano tinteggiate di marrone chiaro e nero, non proprio esaltante, ma nel complesso era una bella cameretta. Mi sedetti sul grande letto e guardai la mia nuova casa. «Ci sono delle regole da rispettare» mi avvertì subito Renee, appoggiandosi al cassettone. D'accordo, non farla tanto lunga e vieni al sodo, sorella. «Primo» disse alzando un dito, «dovrai sempre dirmi dove vai e con chi. Starai sempre in contatto con me attraverso il cellulare. E dovrai rispondere ogni volta che ti chiamo, non importa che stai facendo.» Tenni la bocca chiusa. Non volevo provocarla nel bel 15


mezzo del suo discorso, che aveva di sicuro provato più volte, probabilmente con Paul. «Secondo» e alzò un altro dito, «niente feste. Niente alcol. Niente droghe. Nessuna sostanza strana, salvo l'aspirina. Non voglio tornare a casa e trovarti in uno stato di semincoscienza per aver bevuto o peggio. Terzo, a una certa ora scatterà il coprifuoco e sarai tenuta a rispettarlo o ne subirai le conseguenze. Quarto, non sono tua madre, ma mi porterai il massimo rispetto, come lo porterai a tutti quelli che abitano in questa casa. E quinto...» A quel punto si bloccò, sembrava incapace di proseguire. «Quinto?» dissi, dopo qualche secondo di silenzio. «C'era ancora una regola che adesso non ricordo» disse bruscamente. «Comunque, le prime quattro valgono tutte. Le accetti?» «Sì» risposi. Che importanza aveva? «Hai risposto sì troppo in fretta. Non ti credo.» Dio. Mi rimproverava di essere troppo accondiscendente. «Fa' un po' come ti pare, Renee. Adesso, però, posso rimanere sola un momento?» Mi girai sul letto e sfiorai le lenzuola con la mano. Non potevano che essere in percalle di cotone egiziano. Naturalmente. «Ascolta» disse, sedendosi di fianco a me. Ahi, cominciava sempre i suoi predicozzi a quel modo. Proprio come la mamma. Anche se quelli di Renee contenevano molte più parolacce. «Stai per intraprendere qualcosa di buono. Una nuova fase, se vogliamo. Ci sono passata anch'io. E anche Paul.» Già, come se mi fosse facile crederlo. E poi lei non conosceva esattamente la mia situazione. Pretendeva di sapere tutto, ma non era così. Nessuno sapeva niente, e io non potevo spiegare. Presi fra le dita il mio elefantino portafortuna. Di punto in bianco mi diede un schiaffo sulla spalla, con violenza. 16


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