CYNTHIA HAND
L’ULTIMA VOLTA CHE TI HO DETTO ADDIO traduzione di Isabella Polli
ISBN 978-88-6905-020-6 Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: The Last Time We Say Goodbye HarperTeen/HarperCollins Publishers LLC, New York, U.S.A. ©2015 Cynthia Hand Traduzione di Isabella Polli Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. © 2015 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione HM giugno 2015
L’ultima volta che ti ho detto addio
A JEFF PerchÊ questo è l'unico modo che conosco per raggiungerti.
Aiuta la barca del fratello ad attraversare, e anche la tua raggiungerĂ l'altra riva. Proverbio indĂš
. 5 febbraio .
Per prima cosa voglio dichiarare che questa storia di mettere tutto per iscritto non è stata un'idea mia, ma di Dave, il mio terapista. Pensa che io faccia fatica a esprimere le emozioni, motivo per cui mi ha suggerito di tenere un diario: per tirarle fuori, ha detto, come ai vecchi tempi, quando i medici salassavano i pazienti per far defluire qualche misterioso veleno. Il che, nonostante le buone intenzioni dei dottori, quasi sempre li portava alla morte, potrei far notare. La nostra conversazione si è svolta più o meno così: Lui voleva che cominciassi a prendere antidepressivi. Io gli ho risposto che poteva metterseli dove non batte il sole. Quindi, in pratica, a quel punto eravamo a uno stallo. «Proviamo un approccio diverso» ha detto lui alla fine, e ha allungato un braccio all'indietro per prendere un libretto nero, che mi ha mostrato. Me lo ha dato, io l'ho preso, l'ho sfogliato, e poi ho rialzato gli occhi, confusa. Le pagine erano tutte bianche. «Ho pensato che, in alternativa, potresti provare a scrivere» ha detto. «È un Moleskine» ha aggiunto, quando si è reso conto che la mia unica reazione consisteva nel fissarlo. «Li usava anche Hemingway.» «Alternativa a cosa?» gli ho chiesto. «Allo Xanax?» «Voglio che ci provi almeno per una settimana» ha ri11
sposto lui. «A scrivere, intendo.» Ho cercato di ridargli il diario. «Non sono una scrittrice.» «Ho scoperto che puoi essere molto eloquente, Alexis, quando ti ci metti.» «Perché? A che cosa servirebbe?» «Hai bisogno di uno sfogo» ha detto lui. «Ti stai tenendo tutto dentro, e non ti fa bene.» Benissimo, ho pensato. Adesso mi dirà di mangiare verdura, prendere le vitamine e assicurarmi di dormire almeno 8 ore di fila ogni notte. «Certo. E tu lo leggeresti?» gli ho chiesto, perché non c'era neanche la più remota possibilità che questo accadesse. Parlare della mia vita inaspettatamente tragica per un'ora alla settimana è già abbastanza duro. Non esiste proprio che io riversi tutti i miei pensieri in un quaderno in modo che lui possa portarselo a casa e analizzare la mia sintassi. «No» ha risposto Dave. «Ma spero che un giorno tu ti possa sentire abbastanza sicura da parlare con me di quello che hai scritto.» Non granché probabile, ho pensato, ma la mia risposta è stata: «Okay. Ma non aspettarti Hemingway». Non so perché ho accettato, forse sto cercando di essere una brava bambina che ubbidisce al dottore. Dave sembrava immensamente soddisfatto di sé. «Non voglio che tu sia come Hemingway, Hemingway era un coglione. Voglio che tu scriva le cose che ti colpiscono, quali che siano: la tua vita quotidiana, i tuoi pensieri, le tue emozioni.» Non ne ho di emozioni, avrei voluto dirgli, ma invece ho annuito, perché sembrava così speranzoso, come se la mia salute mentale dipendesse esclusivamente dalla mia collaborazione a scrivere questo stupido diario. 12
Poi però ha detto: «E penso che perché funzioni davvero, dovresti anche scrivere di Tyler». Il che ha scatenato l'irrigidimento riflesso di tutti i miei muscoli masticatori. «Non posso» sono riuscita a sibilare fra i denti. «Non scrivere di come è finita» ha detto Dave. «Cerca di parlare di un periodo in cui era felice. Di quando eravate felici, insieme.» Ho scosso la testa. «Non mi ricordo.» Ed è la verità: dopo solo 7 settimane scarse, giusto 47 giorni senza interagire con mio fratello ogni giorno, senza lanciargli i piselli attraverso il tavolo della cucina, senza vederlo nei corridoi a scuola e fare finta, per salvare le apparenze come farebbe ogni brava sorella maggiore, che mi desse fastidio, l'immagine di Ty si è offuscata nella mia mente. Non riesco a visualizzare un Ty che non sia morto. Il mio cervello ritorna sempre alla fine: il corpo, la bara, la tomba. Sono troppo lontana anche solo dal cominciare ad avvicinarmi all'idea di felicità. «Concentrati sulle prime e le ultime volte» mi ha consigliato Dave. «Ti aiuterà a ricordare. Per esempio, circa vent'anni fa avevo una Mustang dell'83. Ci avevo lavorato un sacco, amavo quell'auto più di quanto dovrei forse ammettere, ma adesso, dopo tutti questi anni, non riesco a ricordarmela bene. Però se penso alle prime e alle ultime volte legate a quella macchina, potrei raccontarti della prima volta che l'ho guidata, o dell'ultima volta che l'ho usata per un lungo viaggio, o della prima volta che ho passato un'ora sul sedile posteriore con la donna che sarebbe diventata mia moglie, e allora la vedo chiaramente.» Si è schiarito la gola. «Sono quei momenti chiave che brillano nelle nostre menti.» Però non stiamo parlando di una macchina, ho pensa13
to. Stiamo parlando di mio fratello. Inoltre, mi sono accorta che probabilmente Dave mi aveva appena raccontato di aver fatto sesso con sua moglie, il che era proprio l'ultima cosa che mi volevo immaginare. «Quindi, questo è ufficialmente il tuo compito» ha detto, appoggiandosi allo schienale come per chiudere la questione. «Scrivi dell'ultima volta che ricordi di aver visto Tyler felice.» Il che mi riporta qui: a scrivere in un diario che non voglio tenere un diario. L'ironia non mi sfugge. Sul serio, però, io non sono una scrittrice. Agli esami di ammissione al college ho preso un dignitoso 720 nella prova di elaborazione scritta, ma nessuno ci fa caso di fronte al mio perfetto 800 in matematica. Non ho mai tenuto un diario. Papà me ne aveva regalato uno, per il mio tredicesimo compleanno: era rosa, con un cavallo in copertina. È finito in fondo al mio scaffale insieme a una copia della Bibbia degli adolescenti, alla Settima Guida Definitiva alla Bellezza e a tutta l'altra roba che avrebbe dovuto prepararmi alla vita fra i 13 e i 19 anni, come se avessi mai potuto essere pronta. Roba che è ancora tutta lì, cinque anni dopo, a prendere polvere. Quella non sono io. Io sono nata con una mente matematica, io penso per equazioni. Quello che vorrei fare, se davvero potessi appoggiare questa penna sul foglio e produrre un risultato utile, sarebbe prendere i miei ricordi, quegli inafferrabili e dolorosi momenti della mia vita, e trovare un modo di addizionarli e sottrarli e dividerli, inserire variabili e spostarli, provare a isolarli, per scoprire i loro significati sfuggenti, per trasformarli da possibilità in certezze. Cercherei di risolvere me stessa, individuare il punto dove tutto è andato storto. Come ho fatto ad arrivare qui, 14
dal punto A al punto B, dove A è l'Alexis Riggs che era così sicura di sé, che era brillante e solida e rideva un sacco e a volte piangeva, e non falliva nelle prove più importanti. E dove B è questo. Invece, la pagina bianca mi sbadiglia davanti: la penna che ho in mano mi sembra innaturale, tanto più pesante di una matita. Definitiva. Non ci sono gomme, nella vita. Vorrei poter tirare una riga e ricominciare da capo.
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.1.
La mamma sta piangendo di nuovo, stamattina. Ultimamente le succede questa cosa: come se, in un momento qualsiasi, dentro di lei si aprisse improvvisamente un rubinetto. Magari stiamo facendo la spesa, o guidando o guardando la TV, io la guardo di sottecchi e lei sta piangendo in silenzio, come se non se ne rendesse neanche conto: senza singhiozzare o gemere o tirare su col naso, solo un fiume di lacrime che le scende sul viso. Dicevo, stamattina. La mamma prepara la colazione, come ha sempre fatto per quasi tutti i giorni della mia vita: fa scivolare le uova strapazzate nel mio piatto, imburra il toast, mi versa un bicchiere di succo d'arancia e mette il tutto sul tavolo della cucina. Piangendo tutto il tempo. Quando fa questa scena delle cateratte, cerco di comportarmi come se non fosse nulla di straordinario, come se fosse perfettamente normale che tua madre pianga sulla tua colazione. Come se non mi desse nessun fastidio. CosĂŹ dico qualcosa di allegro come: ÂŤMagnifico mamma, stavo morendo di fameÂť e comincio a spostare il cibo bruciacchiato qua e lĂ nel piatto, in un modo che spero la convinca che sto mangiando. Se fosse prima, se ci fosse Ty, la farebbe ridere. Soffierebbe le bolle nel suo latte al cioccolato, disegnerebbe una faccia con il bacon e le uova e farebbe finta di parlarci, e poi griderebbe come se fosse nel bel mezzo di un film 16
dell'orrore, mangiandosi lentamente uno degli occhi. Ty sapeva come sistemare le cose, io no. La mamma si siede di fronte a me, con le lacrime che le scorrono fino al mento, e giunge le mani in grembo. Smetto di fingere di mangiare e chino la testa, perché anche se da un po' ho smesso di credere in Dio, non voglio complicare le cose confessando a mia madre il mio nascente ateismo. Non adesso, ha già abbastanza cose di cui preoccuparsi. Invece di pregare, però, lei si asciuga la faccia con il tovagliolo e mi guarda con occhi luminosi, le ciglia appiccicate dalle lacrime. Fa un bel respiro, il tipo di respiro che si prende quando si sta per dire qualcosa di importante, e sorride. Non riesco neanche a ricordarmi l'ultima volta che l'ho vista sorridere. «Mamma?» dico. «Come stai?» Ed ecco che arriva il momento in cui dice la cosa folle, la cosa che non so come gestire. Dice: «Penso che tuo fratello sia ancora in questa casa». Prosegue spiegandomi che ieri notte si è svegliata senza motivo da un sonno profondo. Dice che si è alzata per prendere un bicchiere di vino e un Valium, che l'aiutasse a riaddormentarsi. Era in piedi vicino al lavello della cucina quando, all'improvviso, ha sentito il profumo della colonia di mio fratello, dice che quell'odore la circondava. Come se lui fosse in piedi accanto a lei. È inconfondibile, quella colonia, Ty se l'era comprata da Walmart due Natali fa, in una bottiglia da, tipo, venti litri, questo contenitore gigante di Brut di un color verdefango-radioattivo: l'essenza di un uomo, sbandierava la confezione. Ogni volta che mio fratello si metteva quella roba, il che accadeva piuttosto spesso, l'odore invadeva 17
la stanza. Quando passava nel corridoio, a scuola, era come in una nuvola sospesa due metri davanti a lui. Non è che fosse proprio un odore spiacevole, ma aveva questo strano modo di invaderti i sensi: ANNUSAMI, sembrava pretendere. Non ho l'odore di un vero uomo? STO ARRIVANDO. Inghiotto una forchettata di uova e cerco di pensare a qualcosa di utile da dire. «Sono certa che il flacone rilascia qualche tipo di effluvio spontaneo» le dico alla fine. «E la casa è piena di spifferi.» Ecco qua, mamma. Una spiegazione perfettamente logica. «No, Lexie» mi dice scuotendo la testa, con i resti di quello strano sorriso ancora appesi agli angoli della bocca. «Lui è qui. Lo sento.» Il punto è che non sembra impazzita: sembra piena di speranza, come se le ultime sette settimane non fossero state altro che un brutto sogno, come se non lo avesse perduto, come se non fosse morto. Questo può diventare un bel problema, dico fra me e me.
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