I maestri della seduzione

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S. Mayberry - S. Stephens - A. Oliver

I MAESTRI DELLA SEDUZIONE


Titoli originali delle edizioni in lingua inglese: Her Secret Fling The Big Bad Boss There's Something About a Rebel... Harlequin Blaze Harlequin Mills & Boon Modern Heat © 2010 Small Cow Productions Pty Ltd. © 2011 Susan Stephens © 2011 Anne Oliver Traduzioni di Elisabetta Frattini, Lucia Panelli e Susanna Molinari Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. Harmony è un marchio registrato di proprietà HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved. © 2011 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione Harmony Temptation aprile 2011 Prime edizioni Harmony Collezione Sensual gennaio 2012; luglio 2012 Questa edizione Harmony Extra dicembre 2017 Questo volume è stato stampato nel novembre 2017 da CPI, Barcelona HARMONY EXTRA ISSN 1824 - 6567 Periodico mensile n. 149 del 15/12/2017 Direttore responsabile: Chiara Scaglioni Registrazione Tribunale di Milano n. 651 del 20/09/2004 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Gli arretrati possono essere richiesti contattando il Servizio Arretrati al numero: 045.8884400 HarperCollins Italia S.p.A. Viale Monte Nero 84 - 20135 Milano


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Relazione tempestosa Pagina 347

Passione ribelle



ComplicitĂ che travolge



1 Non puoi sentirti male proprio adesso! Lucy Birmingham trasse un profondo respiro, premendosi una mano sullo stomaco. Un paio di persone la guardarono con aria cupa oltrepassando la porta che dava accesso alla redazione del Melbourne Herald. Forse l'avevano riconosciuta e si stavano domandando che cosa ci facesse una delle più amate campionesse australiane di nuoto davanti alla sede di un giornale, con l'espressione di chi avrebbe voluto darsela a gambe. Ti tocca, Birmingham, la spronò la sua voce interiore. Hai preso un impegno e ora è troppo tardi per tirarsi indietro. Raddrizzando le spalle, inalò a fondo di nuovo, poi spinse la porta facendo il suo ingresso in un mondo rumoroso, caratterizzato da un sottofondo di costante eccitazione. I telefoni squillavano senza sosta e le persone che non erano impegnate a rispondere digitavano con una certa foga sulle tastiere dei loro computer. Le stampanti ronzavano e le fotocopiatrici emanavano bagliori di luce. In fondo alla stanza, grandi finestre incorniciavano la vista sulla città di Melbourne, splendente come nuova al sole del mattino, dopo essere stata lavata dalla pioggia durante la notte. Alcune teste si girarono a guardarla mentre si diri9


geva verso il settore in cui ci si occupava di sport, fingendosi a proprio agio, come se quello fosse stato il suo ambiente. Come se il tailleur che indossava fosse la sua divisa abituale invece del costume in lycra e l'aroma di caffè e l'aria pesante non le risultassero alieni dopo tanti anni in cui non aveva fatto altro che respirare odore di cloro e di sudore. Le file di scrivanie sembravano non finire mai, ma per fortuna, a un certo punto, in un ufficio d'angolo, riconobbe la testa calva di Leonard Jenkins china su una tastiera. In veste di caporedattore della sezione sportiva del quotidiano più venduto di Melbourne, era lui che assegnava gli articoli e che aveva l'ultima parola su ciò che veniva pubblicato. Era anche l'uomo che l'aveva cercata sei settimane prima offrendole un lavoro come giornalista. Lucy era rimasta sorpresa dalla proposta. Dopo essere stata costretta al ritiro dalle gare quattro mesi prima in seguito a un infortunio a una spalla, aveva accettato di allenare altri nuotatori e di dedicarsi alla raccolta di fondi e ai contatti con gli sponsor. Una catena di palestre le aveva proposto di rappresentarli e un'azienda produttrice di cereali voleva che pubblicizzasse i suoi prodotti. Solo l'offerta di Leonard le aveva aperto nuovi orizzonti. Per anni non aveva fatto altro che frequentare piscine, mettendo a dura prova muscolatura e polmoni. Ora aveva bisogno di un nuovo inizio. Proprio per quel motivo rischiava di dare di stomaco. Non si sentiva così nervosa dall'ultima volta che i campionati del mondo si erano svolti a Sydney, quando si era davvero sentita male prima della gara. Ferma davanti alla porta dell'ufficio di Leonard, stava per bussare, quando lui sollevò la testa. Non ancora sessantenne, era di parecchio sovrappeso, aveva le borse sotto gli occhi e le dita ingiallite dalla nicotina. 10


«Ah, Lucy, vedo che sei riuscita a trovarci! Benvenuta» l'accolse con un sorriso. «È bello essere qui.» «Vieni, ti presento alla squadra prima di mostrarti la tua scrivania e tutto il resto. Abbiamo una riunione tra un'ora, quindi avrai tutto il tempo per sistemarti.» «Perfetto» commentò Lucy, nonostante le sudassero le mani. Raramente riusciva a ricordare i nomi delle persone che le venivano presentate per la prima volta e per quanto si sforzasse non trovava il modo di collegarli ai visi. Asciugandosi furtivamente le mani sulle gambe dei pantaloni, seguì Leonard fuori dall'ufficio. «Alla tua destra ci sono Johnno, Davo e Hilary, che si occupano rispettivamente di automobilismo, golf e basket.» Johnno aveva una certa età e un volto pieno di rughe. Davo doveva aver passato da un pezzo la trentina ed era molto abbronzato, mentre Hilary aveva i capelli rossi e pareva coetanea di Lucy. Tutti la salutarono stringendole frettolosamente la mano prima di tornare al lavoro. «I ragazzi qui» proseguì Leonard, facendole strada attraverso i pannelli che dividevano una postazione dall'altra, «si occupano di motori e sono Macca e Jonesy.» «Bene, bene, la nostra ragazza d'oro» commentò Jonesy, non ancora trentenne e già con una bella pancetta. «Immagino che tu sia abituata a sentirti chiamare in questo modo» intervenne Macca esibendo un sorriso timido mentre si passava una mano tra i capelli biondi. «È il prezzo da pagare quando si sono vinte diverse medaglie d'oro.» «Ci sono epiteti ben peggiori» replicò lei, ricambiando il sorriso. 11


Leonard le appoggiò una mano sulle spalle, sospingendola verso una scrivania in un angolo. «E ultimo, ma non certo per importanza, il Jack Kerouac australiano» annunciò. Il cuore di Lucy mancò un battito. Jake Stevens. Oh, mio Dio! Il respiro le si bloccò a metà percorso tra i polmoni e la bocca mentre fissava la sua nuca scura. Non c'era bisogno che Leonard le spiegasse che Jake Stevens si occupava di football e dei più importanti eventi sportivi del mondo. Leggeva da sempre i suoi articoli e lo aveva visto intervistare i suoi colleghi, anche se le loro strade non si erano mai incrociate. Sapeva che aveva vinto quasi tutti i premi di giornalismo più prestigiosi almeno una volta e aveva letto il suo romanzo d'esordio così spesso da rovinare la copertina, al punto da doverne acquistare una nuova copia. Era una persona eccezionale, il genere di scrittore che faceva apparire facile la sua professione. Il tipo di giornalista che i suoi colleghi avrebbero voluto essere. Inclusa lei, adesso che faceva parte della categoria. «Alza la testa, Jake» lo invitò Leonard, fermandosi davanti alla sua scrivania. Lucy notò che non aveva usato un diminutivo, come con gli altri, e che la scrivania su cui lavorava era più grande di quella dei suoi colleghi. Jake Stevens li fece aspettare fino a quando non ebbe terminato di scrivere la frase sulla quale stava lavorando. Non abbastanza a lungo da apparire maleducato, ma il tempo sufficiente da far sentire Lucy a disagio. Alla fine si voltò verso di loro. «Bene, la nostra nuova giornalista celebrità» commentò mettendo l'accento sulle ultime due parole. I suoi occhi azzurri dallo sguardo pigro si fissarono su di 12


lei. «Benvenuta a bordo» l'accolse, tendendole la mano. Lucy la strinse. Prima di allora lo aveva visto solo in fotografia e dovette ammettere che dal vivo era ancora più bello, il che non fece altro che accrescere il suo nervosismo. «È fantastico conoscerla, signor Stevens. Sono una sua grande ammiratrice. Ho letto il suo libro così tante volte che potrei recitarlo a memoria.» Jake inarcò un sopracciglio scuro. «Signor Stevens? Accidenti, devi davvero ammirarmi molto.» Lucy era sempre più in imbarazzo. Non era sua intenzione apparire rigida e formale. Il suo disagio crebbe ancora di più quando lo sguardo di Jake passò in rassegna il suo tailleur e le scarpe dal tacco basso, fermandosi sulla valigetta di pelle. Si sentiva come una scolaretta a cui stessero ispezionando la divisa. All'improvviso ebbe la sensazione che lui avesse capito quanto si sentiva a disagio nell'abbigliamento nuovo e in quel contesto a lei estraneo. «Suppongo che tu abbia intervistato Lucy, in passato, non è vero, Jake?» chiese Leonard. «No, non ho mai avuto il piacere.» Ma non sembrava affatto dispiaciuto. Leonard si appoggiò alla parete. «È stato un fine settimana importante. Grande partita tra il Port e gli Swans.» «Sì, un'anticipazione delle finali.» I due uomini si dimenticarono di lei per un istante, impegnati a parlare di football, e Lucy colse l'occasione per studiare l'uomo che aveva scritto uno dei suoi romanzi preferiti. Ogni volta che leggeva The Coolabah Tree guardava l'immagine sulla quarta di copertina facendo congetture sull'uomo che si nascondeva dietro il sorriso 13


accattivante. Era più giovane quando quella fotografia gli era stata scattata, probabilmente sui ventotto anni o giù di lì, ma il naso dritto, gli occhi azzurri e i capelli scuri erano gli stessi. I sette anni che erano passati si notavano solo nelle rughe sottili intorno alla bocca e agli occhi. La fotografia ritraeva solo il suo viso e Lucy aveva sempre immaginato che Jake Stevens potesse contare su un fisico possente, ma non era così. Era alto e aveva spalle ampie, ma la sua corporatura assomigliava più a quella sottile e agile di un centometrista che a quella di un giocatore di football. Indossava un paio di jeans e una camicia bianca spiegazzata e lei si ritrovò a fissare le sue gambe muscolose messe in evidenza dal tessuto aderente. Una pausa nella conversazione la indusse a sollevare lo sguardo per incrociare quello di Jake, acceso da una luce sprezzante. Imbarazzata, Lucy arrossì. «Bene, mia cara, mi sembra di averti presentato più o meno a tutti» concluse Leonard, scostandosi dalla parete. «Quelli che mancano li conoscerai più tardi. La tua scrivania è lì.» Lei lanciò un'ultima occhiata a Jake prima di seguire Leonard, pronta ad accomiatarsi con una frase amichevole, ma lui si era già rimesso al lavoro. Perfetto. Leonard la scortò fino alla scrivania che avrebbe occupato, inserita in un angolo tra una pianta in vaso e una colonna. Era ovvio che si trattava di una postazione ricavata all'ultimo momento, leggermente separata dalle altre. La scrivania era essenziale. Sulla superficie c'erano un computer e un telefono e sulla parete divisoria una lavagna magnetica. «Prendi confidenza con ciò che ti circonda» la esortò Leonard lanciando un'occhiata all'orologio. «Più 14


tardi chiederò a Mary, la nostra assistente amministrativa, di spiegarti tutto quello che ti serve sapere. La riunione si svolgerà tra quaranta minuti nella grande sala vicino agli ascensori. Qualche domanda?» Sì. È la mia immaginazione o Jake Stevens è un bastardo arrogante? «No, è tutto chiaro.» Fu un sollievo essere lasciata sola per qualche minuto. Tutte quelle facce e tutti quei nomi, l'ambiente nuovo e... Ma chi stava prendendo in giro? A farla sentire sollevata era la possibilità che le veniva concessa di riprendersi dopo l'incontro con Jake Stevens e lo scrutinio del suo sguardo sarcastico. E pensare che aveva accettato la proposta di Leonard in parte perché avrebbe avuto l'occasione di lavorare con lui, di imparare dal migliore! Peccato che tra tutti i colleghi fosse stato il meno gentile, per usare un eufemismo. Che delusione! Ma non era la fine del mondo. Jake Stevens non era la persona intelligente, divertente e sensibile che lei aveva immaginato leggendo il suo libro e i suoi articoli? E allora? Probabilmente i contatti tra loro sarebbero stati sporadici e poi non doveva considerare il suo comportamento su un piano personale. In fondo, non la conosceva affatto ed era possibile che fosse così antipatico con tutti. O forse no. Due ore e una riunione più tardi, Lucy era giunta alla conclusione che l'affascinante e brillante Jake Stevens che aveva immaginato esisteva, peccato che quando si rivolgeva a lei si trasformasse in un insopportabile pallone gonfiato. La prima parte della riunione non era stata altro che un aggiornamento in cui tutti avevano discusso sugli 15


articoli che intendevano scrivere dopo il fine settimana. Lucy non era intervenuta, dal momento che non aveva ancora niente da dire, limitandosi ad ascoltare e a prendere appunti. Jake era diverso nei rapporti con gli altri giornalisti. Scherzava, rideva e accettava di buon grado le battute di spirito che gli venivano indirizzate. Offriva idee più che interessanti ai colleghi per la stesura dei loro articoli e faceva commenti arguti riguardo a ciò che avrebbe scritto la concorrenza. Era la persona più carismatica e tutti volevano essere notati da lui e sedersi al suo fianco, come succedeva a scuola con l'elemento più popolare della classe. La seconda parte della riunione fu dedicata a un lavoro di gruppo mirato a trovare nuove storie da raccontare. Con i campionati mondiali di nuoto alle porte, si discuteva molto su chi si sarebbe classificato. Naturalmente tutti chiesero l'opinione di Lucy. Tutti, tranne Jake, che si limitò a osservarla mentre diceva la sua sui componenti della squadra australiana, molti dei quali erano stati suoi compagni e avversari fino a poco tempo prima. «Ehi, è come avere un'arma segreta!» osservò Macca. «Mi piace avere la possibilità di sapere che cosa succede negli spogliatoi prima di una gara.» «Sì, dovremmo sfruttare l'occasione, con l'avvicinarsi delle finali. Potremmo fare una serie di articoli del genere: diario di un nuotatore» propose Leonard. «In modo da entrare il più possibile nelle loro teste.» Lei annuì. «Ci sono molti dettagli di cui poter scrivere. Superstizioni, amuleti, cose di questo genere.» «Sì, fantastico» convenne il caporedattore. Lucy acquistò fiducia. Forse alla fine ambientarsi non sarebbe stato difficile come aveva immaginato. Certo, si sentiva ancora come un pesce fuor d'acqua, nel senso letterale del termine, ma sembravano tutti ca16


rini con lei e poi, grazie alla sua esperienza nel campo delle competizioni, poteva dare il suo contributo. Quando spostò lo sguardo su Jake, lo vide palesemente annoiato. Poi un sorriso gli incurvò le labbra, come se stesse ridendo tra sé. Era lo stesso sorriso che aveva sfoggiato per tutta la riunione, lo stesso atteggiamento noncurante, come se quello che lei aveva da dire non gli interessasse. Quando fu di nuovo alla scrivania che le era stata assegnata, Lucy giunse alla conclusione che la condotta scostante di Jake non era frutto della sua immaginazione. Lei non gli piaceva, anche se non riusciva a capire quale fosse il motivo. Come poteva detestarla, se nemmeno la conosceva? Si era appena seduta quando il cellulare squillò. Era un messaggio di suo zio Charlie: Buona fortuna. Fatti valere e vincerai la gara. Lucy sorrise, commossa dal fatto che si fosse ricordato che quello era il suo primo giorno al giornale. Lo zio Charlie non dimenticava mai gli appuntamenti importanti. Gli rispose subito. L'anno precedente gli aveva regalato un cellulare in modo da restare in contatto con lui anche quando era impegnata a gareggiare all'estero, ma lui non si era ancora adattato al cento per cento alla tecnologia moderna. Riusciva a immaginare quanto tempo ci avesse impiegato per digitare quel messaggio. Il suono di una risata maschile la indusse a sollevare la testa. Jake stava parlando con Jonesy, appoggiato alla scrivania del collega con in mano una tazza di caffè. Sospirando, finse di concentrare l'attenzione sul cellulare, continuando a guardarlo con la coda dell'occhio. Dopo aver detto qualcosa a Jonesy, Jake gli aveva as17


sestato una pacca sulla spalla e ora stava tornando alla sua scrivania, il che significava che sarebbe dovuto passare davanti alla sua. Lucy tenne gli occhi bassi sul telefono e, quando Jake si fermò di fronte a lei, avvertì una fitta allo stomaco. Lentamente sollevò la testa. Lui studiò la sua scrivania, notando il dizionario dei sinonimi, la grammatica e il vocabolario in due volumi che aveva portato con sé. In silenzio cercò il suo sguardo. «Lo sai che A-K viene prima di L-Z, vero?» le chiese, indicando il dizionario che lei aveva inavvertitamente sistemato nell'ordine sbagliato. Sporgendosi verso di lei, mise il primo volume sopra il secondo, come se si trattasse di un compito che Lucy non sarebbe riuscita a svolgere senza il suo aiuto. «Questo è il mio suggerimento della giornata» commentò, allontanandosi con fare arrogante. Lucy era diventata rossa come un pomodoro. Per la terza volta, quel giorno, davanti a Jake Stevens. Incredula, fissò la sua schiena fino a quando non si fu seduto alla sua postazione, incapace di credere che l'avesse provocata così apertamente. Era proprio un gran maleducato! Ed era convinto che lei fosse una stupida. Per quel motivo si era comportato in modo sbrigativo quando erano stati presentati e non aveva ascoltato neanche una parola di quello che lei aveva detto alla riunione. La considerava un ammasso di muscoli con un grande talento per il nuoto ed era convinto che non avesse niente da offrire arenata sulla terraferma e di certo non nella redazione di un giornale. Si rendeva conto che la sua opinione non avrebbe dovuto turbarla più di tanto, ma, con il suo atteggiamento, Jake non aveva fatto altro che dar voce alle 18


paure più profonde che l'attanagliavano. In realtà, non era sicura di essere tagliata per quel lavoro. Aveva completato gli studi da poco, leggeva molto, ma scrivere non era mai stato il suo forte. Per gran parte della sua vita aveva misurato il successo a forza di bracciate e millesimi di secondo, non certo con le parole. Persino i suoi genitori erano rimasti stupiti quando aveva accettato quell'incarico. Suo fratello era addirittura scoppiato a ridere, convinto che si trattasse di uno scherzo. Di nuovo guardò il messaggio di suo zio. Buona fortuna. Fatti valere e vincerai la gara. Come avrebbe voluto che fosse così facile! All'improvviso venne colta dalla nostalgia dell'odore del cloro e del calore umido della piscina. Lì sapeva chi era e che cosa doveva fare. Sulla terraferma si sentiva ancora insicura. Cosa ti importa dell'opinione di quell'uomo?, si rimproverò. Non ti conosce, non sa niente di te. Che vada al diavolo! Lucy raddrizzò le spalle e rimise i volumi come li aveva sistemati prima del suggerimento della giornata di Jake Stevens. Aveva battuto alcuni degli atleti più forti del mondo. Aveva dominato l'emotività e ottenuto il massimo dal suo corpo. Era salita su un podio davanti a migliaia di persone mostrando con fierezza una medaglia d'oro. L'opinione di una singola persona non contava affatto. Lei era una ragazza in gamba e piena di risorse, quindi avrebbe ottenuto ottimi risultati anche in quella professione. Jake si versò un bicchiere di Shiraz australiano e portò con sé la bottiglia spostandosi dalla cucina alla sala del suo appartamento di South Yarra. 19


Un disco dei R.E.M. faceva da sottofondo ai suoi pensieri mentre ammirava la vista sul fiume offerta dalla grande finestra. Lucy Birmingham. Non riusciva a capire l'orgoglio con cui Leonard l'aveva presentata. Come se si fosse trattato di un orso danzante. Come se si aspettasse che Jake lo applaudisse per aver assunto una donna che non aveva mai scritto nulla nella sua vita, incaricandola di svolgere un lavoro che richiedeva la capacità di un giornalista esperto. Imprecò pensando ai dizionari intonsi che Lucy Birmingham aveva impilato sulla scrivania. Volumi nuovi, senza nemmeno una grinza sulla costa. Che vergogna! Spostando lo sguardo sulla scrivania accanto alla finestra, bevve un altro sorso di vino. Avrebbe dovuto accendere il computer e cercare di buttar giù qualcosa. Un sorriso triste gli incurvò le labbra. Ma chi stava prendendo in giro? Non avrebbe scritto niente, quella sera, così come negli ultimi anni. In fondo, il suo editore non gli stava più con il fiato sul collo. Aveva smesso cinque anni prima, due dopo che il suo primo romanzo era diventato un bestseller e aveva vinto diversi premi letterari, facendo di lui il ragazzo prodigio della scena letteraria australiana. Aveva saltato così tante scadenze da allora che alla fine avevano smesso di assillarlo. Ora erano solo le persone che lo incontravano per la prima volta a chiedergli quando sarebbe uscito il suo prossimo libro, probabilmente perché supponevano che nel frattempo ne avessero pubblicato un secondo, un terzo e un quarto di cui non avevano avuto notizia. Dopotutto, quale scrittore mosso dall'ambizione di diventare un romanziere scriveva un unico libro? 20


Signore e signori, vi presento Jake Stevens. Si versò un altro goccio di vino. Come una puntina sul solco di un vecchio disco, i suoi pensieri giravano in cerchio intorno a Lucy Birmingham. Non l'aveva mai intervistata, ma ne aveva parlato con tanti campioni. Sapeva, senza bisogno di chiederglielo, che aveva scoperto l'amore per il nuoto da bambina, che un giorno qualcuno l'aveva notata e che aveva trascorso i vent'anni successivi a macinare una vasca dopo l'altra. Aveva sacrificato la scuola, gli amici e la famiglia pur di essere la migliore. Era disciplinata e decisa. Probabilmente sarebbe riuscita a schiacciare una noce con i muscoli super tonici delle gambe. Era un'atleta professionista e non c'entrava niente con un giornale. Forse lui era all'antica, ma la pensava così. Appoggiandosi allo schienale del divano con le gambe distese, accavallò le caviglie. Dall'impianto stereo ora usciva la musica degli U2, il rock vero degli esordi, non il pop edulcorato che avevano propinato agli appassionati negli ultimi dieci anni. Scosse la testa pensando al tailleur di Lucy e a come non le si addicesse. La faceva sembrare un travestito, un uomo che tentava di spacciarsi per donna. In realtà, le cose non stavano proprio così. Forse la scelta dell'abito non era stata azzeccata, ma non c'era niente di mascolino in lei. Era alta, certo, e con spalle ampie da nuotatrice, ma allo stesso tempo era molto femminile. Il seno e i fianchi riempivano bene l'abito. E aveva un viso dolce, con un naso piccolo, grandi occhi grigi e zigomi ben delineati. La bocca era troppo grande per essere considerata bella, ma le labbra carnose la rendevano sexy. E anche se portava i capelli biondi tagliati corti, il suo aspetto era tutt'altro che androgino. 21


Con calma sorseggiò il vino. Il fatto che la sua nuova collega fosse bella non rendeva la decisione di Leonard più accettabile. Un sorriso gli sollevò gli angoli delle labbra. Se Lucy era inesperta nel campo del giornalismo come lui era convinto che fosse, il caporedattore avrebbe avuto un gran bel daffare a sistemare i suoi articoli. Del resto, era la giusta punizione per aver preso una decisione avventata. Jake si recò al lavoro a piedi, la mattina successiva, approfittando della pista ciclabile che correva lungo il fiume Yarra fino in città. Osservando la condensa formata dal suo respiro a contatto con l'aria fredda, cercò di concentrarsi sull'intervista che voleva fare quel giorno e non sulle parole che non aveva scritto la sera prima. Come al solito, fu il primo ad arrivare in redazione. Dopo essersi tolto il cappotto e la sciarpa, si avviò verso la cucina per prepararsi una tazza di caffè. Solo allora si accorse che qualcuno lo aveva preceduto. Lucy Birmingham era in piedi accanto al ripiano, intenta a versare dello zucchero in una tazza. Ne contò quattro cucchiaini. Le piacevano le cose dolci, a quanto pareva. Sentendolo avvicinarsi, si voltò. «Buongiorno» mormorò, riprendendo subito a mescolare il caffè. Doveva ancora essere arrabbiata con lui per la storia dei dizionari. Probabilmente non riusciva a concepire un mondo dove la forza muscolare non le permettesse di aprire tutte le porte. E dal momento che lui era una carogna, non resistette alla tentazione di stuzzicarla di nuovo. «Non va bene, lo sai, vero?» Lucy sollevò lo sguardo e lui indicò il caffè. 22


«Tutto quello zucchero ti farà male.» «Forse, ma preferisco il dolce all'amaro» replicò lei uscendo dalla stanza. Jake la seguì senza poter fare a meno di notare il fondoschiena tonico ondeggiare mentre camminava. Probabilmente sarebbe riuscita a schiacciare una noce anche con quello. Chissà com'era, nuda. La maggior parte delle nuotatrici non aveva un seno florido, ma di certo lei aveva un gran bel fondoschiena e delle gambe fantastiche. Lucy prese posto alla sua scrivania. Passando, lui le lanciò un'occhiata. Aveva già incominciato a scrivere il suo primo articolo. Jake lesse la prima frase e corresse mentalmente due errori di grammatica. Come previsto, Leonard avrebbe avuto il suo bel daffare per mettere insieme qualcosa di decente. Grazie al cielo, non era un problema suo. Quando, però, a metà mattina il caporedattore si fermò davanti alla sua scrivania, il sorrisetto ironico che gli increspava le labbra scomparve. «Non se ne parla neanche» dichiarò Jake, categorico. «Non ho alcuna intenzione di fare da babysitter alla sirena.» L'altro si accigliò. «Non si tratta di farle da babysitter, ma da mentore. Ha bisogno di una guida per qualche settimana e tu sei il migliore, qui dentro.» Lui si massaggiò la fronte. «Grazie per il complimento, ma la risposta è no.» «Perché?» Jake lo fulminò con lo sguardo, poi scrollò le spalle. Al diavolo, in fondo non poteva succedere niente se diceva al suo capo come la pensava! «Perché Lucy Birmingham non merita di stare qui.» Non si era accorto di aver alzato la voce, ma la reazione di Davo e Macca gli lasciò intendere che le sue 23


parole erano state udite da tutti. Hilary e Mary avevano un'espressione sconcertata. Lucy aveva sollevato la testa e lo aveva guardato incredula. Per un attimo, fu come se il mondo intero si fosse fermato, poi lei si alzò e gli si avvicinò. Solo in quel momento, Jake comprese perché la stampa l'avesse soprannominata l'amazzone australiana. Aveva un aspetto imponente e marziale quando era arrabbiata. Incrociò le braccia sul petto e si appoggiò allo schienale della sedia, in attesa. E che diamine! Non aveva mai avuto paura di dire la verità.

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Romanzo

Relazione tempestosa



1 «L'alba. E davanti a voi l'idilliaca campagna inglese. Riempitevi i polmoni con il profumo dell'erba. Ammirate quei timidi raggi di sole e le ombre della notte che scivolano via sulle vellutate colline...» Per quanto tempo avrebbe dovuto fermarsi lì? Con uno scatto nervoso, Heath cambiò canale, zittendo il programma bucolico. Fino a quel momento l'unico odore che aveva sentito era quello dello sterco di mucca. E poi pioveva. Abbassò il piede sull'acceleratore. La Lamborghini ruggì, soffocando il canto degli uccelli. Perfetto. Gli mancava la giungla d'asfalto: niente odori, niente fango, niente tubature inaffidabili. Perché lo zio Harry gli avesse lasciato una fatiscente proprietà di campagna era un mistero. Lui era allergico alla campagna e a tutto quello che non finiva per.com. Il suo impero era stato costruito in una camera da letto. Che cosa se ne faceva di prati e campi di fiori? Fu allora che vide la tenda montata all'interno della proprietà... e vide anche due piedi sbucare fuori da quella tenda. Chi è che odiava quel posto? Al diavolo. A un tratto si sentì il padrone. Che cosa avrebbe fatto se qualcuno avesse montato la tenda davanti alla porta della sua casa di Londra? Frenò di colpo e uscì dall'auto. Due veloci falcate e 181


stava già abbassando la cerniera della tenda. Uno strillo penetrò il ritmico martellio della pioggia. Heath indietreggiò, incrociò le braccia al petto e restò in attesa. Non dovette aspettare a lungo. Un folletto urlante strisciò fuori e saltò in piedi gridandogli che era notte fonda. Capelli rossi al vento, mani sui fianchi, gli rovesciò addosso ciò che pensava di lui con un linguaggio colorato come i vestiti che cercava di mettersi a posto: maglietta mimetica e leggings rosa shocking. Un'occhiata furibonda alla Lamborghini e lui divenne l'imputato numero uno per tutto ciò che non andava sul pianeta, dall'inquinamento di mari e fiumi al riscaldamento globale fino a quando, superato lo spavento per essere stata svegliata così rudemente, lei deglutì, prese fiato ed esclamò: «Heath Stamp!». Una mano al petto, restò a fissarlo come se non credesse ai propri occhi. «Bronte Foster-Jenkins?» mormorò lui, riconoscendola. «Ti stavo aspettando.» «Vedo» replicò lui, guardando la tenda. Bronte si aspettava l'arrivo di Heath? Certo, ma non la sua reazione a lui. E ancor meno che lui arrivasse all'alba. Intorno a mezzogiorno, aveva supposto la direttrice dell'ufficio postale. Heath Stamp, fico, bello, macho e persino più affascinante di quanto apparisse nelle foto comparse sui giornali. Quella era la versione migliorata e corretta di un ragazzo che lei aveva sognato per tredici anni, due mesi, sei ore e... «Sai che sei su una proprietà privata, vero, Bronte?» E che era più deliziosa che mai. Gli anni trascorsi dal loro ultimo incontro si dissolsero. E in un attimo furono di nuovo ai ferri corti. Bronte dovette ricordare a se stessa che Heath non era più un giovane scapestrato, arrestato con l'accusa di condurre combattimenti clandestini e quindi mandato a 182


Hebers Ghyll a seguire un programma di recupero, bensì un imprenditore di successo nonché nuovo proprietario di Hebers Ghyll, il possedimento fondiario dove Bronte era cresciuta e di cui sua madre era stata la governante e suo padre il guardacaccia. «La proprietà è abbandonata ormai da settimane e...» «E quindi ti sei sentita in diritto di intrufolarti dentro?» «I cancelli erano aperti. Sta andando tutto in malora» ribatté lei in tono piccato. «E la colpa è mia?» «Il proprietario sei tu.» L'eredità di Heath le stava particolarmente a cuore per svariati motivi, non ultimo il fatto che lei considerasse quella proprietà come la sua seconda casa. Se Heath aveva sicuramente guadagnato in fascino, era chiaro che continuava a infischiarsene di ciò che pensasse la gente. In quello non era cambiato, rifletté Bronte quando lui le diede le spalle e si allontanò di qualche passo. Rivedere Bronte lo aveva lasciato di stucco. Era confuso, disorientato. Dalla prima volta che aveva messo piede in quel luogo, dove suo zio gestiva un centro di riabilitazione per ragazzi difficili, c'era stato qualcosa tra lui e Bronte, qualcosa che attirava la brava ragazza verso il lato oscuro. Lui aveva provato a starle alla larga, ma si era scoperto a pensare a lei quando, da solo, fissava le mani ammaccate per i pugni. Lei era la luce nella sua oscurità. All'epoca, Bronte rappresentava tutto ciò che era puro, divertente e allegro, mentre lui era il ragazzo di strada che ricorreva ai pugni per risolvere ogni problema. L'aveva adorata da lontano, senza che lei sospettasse mai niente. «Quell'albero è stato abbattuto da un lampo e nessu183


no lo ha rimosso» affermò Bronte, reclamando la sua attenzione. Heath non si era nemmeno accorto di avere gli occhi fissi sul vecchio albero, ma a un tratto ricordò che lo zio Harry gli aveva raccontato che era una pianta secolare. «Immagino che rimarrà là finché non marcirà» osservò Bronte, seccata. «Lo farò portare via.» Heath si strinse nelle spalle. «Magari al suo posto farò piantare qualcos'altro». «Sarebbe anche ora.» L'occhiata che le lanciò diceva di lasciar perdere. Ma lei non avrebbe mollato. Non lo aveva mai fatto. Bronte adorava qualsiasi tipo di battaglia, da quella per ridare la libertà ai polli, a quella per offrire alla gioventù locale un luogo di ritrovo. E a un tratto i ricordi riaffiorarono e con essi la sua invidia nei confronti di Bronte, della vita semplice che lei conduceva in campagna insieme alla sua famiglia. Lui aveva desiderato disperatamente poterne fare parte ma si era sempre tenuto alla larga, per timore di seminare zizzania. E adesso? Era ancora ostinato e controllato. E Hebers Ghyll? Era tra le questioni in sospeso. E Bronte? Innervosito, Heath si passò una mano tra i capelli. Stava accadendo tutto troppo in fretta. Bronte non si era aspettata di sentirsi così agitata quando avesse rivisto Heath. Mentre si dirigeva verso il riparo offerto dal fitto fogliame di alcuni alberi, inspirò ed espirò profondamente, cercando di riprendere il controllo di sé. Dovette ricordare a se stessa perché si trovasse lì: per cercare di scoprire quali fossero i progetti di Heath ri184


guardo a Hebers Ghyll. «Dicono che il nuovo proprietario voglia frazionare la proprietà...» «E allora?» «Non puoi.» Il cuore di Bronte accelerò quando Heath la raggiunse sotto le fronde. «Non conosci l'attuale situazione della regione. Non hai idea di quanta gente cerchi un lavoro. Non vivi da queste parti da anni.» «E tu sì?» Bronte si sentì avvampare. Sì, certo, era stata lontana, ma i suoi viaggi le erano serviti per mettere in pratica ciò che aveva imparato all'università. Da bambina tallonava sempre lo zio Harry, cercando di rendersi utile e ponendogli un'infinità di domande su Hebers Ghyll. Una volta, lui le aveva detto che era una brava vice e che se avesse lavorato sodo, un giorno sarebbe diventata un'ottima amministratrice terriera. Quando aveva terminato il liceo, lo zio Harry le aveva pagato l'università per studiare gestione del territorio. «Negli ultimi tempi sono stata lontana» ammise, «ma a parte questo periodo, ho sempre vissuto in questa proprietà.» «Che cosa vorresti dire, Bronte? Che sei l'unica a preoccuparsi per Hebers Ghyll?» la attaccò Heath. «Be', a parte il suo valore commerciale, a te importa qualcosa di questo posto?» «Sarei uno stupido se non mi importasse il suo valore commerciale.» «Ma qui c'è in gioco molto di più del vil denaro.» E lei si era preparata a campeggiare lungo la vecchia strada per tutto il tempo necessario a farglielo capire. «Altrimenti perché pensi che sarei andata a rovistare nella soffitta dei miei genitori alla ricerca di quella vecchia tenda?» Gli occhi scuri di Heath lanciarono scintille di avvertimento, che lei ignorò. «Pensi mi piaccia campeggiare sotto la pioggia?» «Non so che cosa ti piaccia.» 185


L'abisso tra loro aumentò ulteriormente. Forse se avesse visto Heath di recente sarebbe stato più facile spiegargli le proprie motivazioni e convincerlo. Non si era aspettata che rivederlo dopo tutti quegli anni l'avrebbe sconvolta a quel punto. Non c'entravano altezza o bellezza, ciò che la innervosiva era quell'aura di pericolo e sfacciata mascolinità. «Allora, Bronte» mormorò Heath con quella voce roca che le aveva sempre provocato fremiti di piacere, «che cosa posso fare per te?» Lei inspirò, cercando di riprendere il controllo. «Quando sono tornata, Heath, lo zio Harry era morto e la proprietà un disastro. Nessuno al villaggio ha idea di quello che accadrà, né sa se ha ancora un lavoro.» «E i tuoi genitori?» chiese Heath. Bronte immaginò che lui conoscesse già la risposta. Gli avvocati dovevano averlo messo al corrente di quanto accaduto al personale di Hebers Ghyll. «Posso solo pensare che lo zio Harry avesse capito di essere gravemente ammalato, perché prima di morire ha dato del denaro ai miei genitori, invitandoli a prendersi una pausa e a soddisfare il loro desiderio di conoscere il mondo.» Senza accorgersene, Bronte si era stretta le braccia intorno al corpo, forse per farsi coraggio. Era difficile lanciarsi in un'argomentazione convincente in difesa della proprietà con Heath che la fissava in quel modo. Lui la conosceva troppo bene. Anche dopo tutti quegli anni, capiva quello che lei non diceva. Capiva ciò che lei provava. Erano sempre stati sulla stessa lunghezza d'onda, anche se la prima volta che Heath aveva messo piede nella proprietà lei aveva temuto che il teppista che lo zio Harry stava cercando di domare volesse mozzare la testa alle sue bambole. Il sentimento che Heath ispirava ora in lei era molto 186


diverso. «Non riesco a credere che tua sia il proprietario di Hebers Ghyll» osservò, scuotendo la testa. «E l'idea non ti piace?» «Non ho detto questo.» «Non ce n'è bisogno. Forse pensi che lo zio Harry avrebbe dovuto lasciare a te la proprietà.» «No» ribatté stizzita Bronte. «Non mi è mai passato nemmeno per l'anticamera del cervello. Sei tu il nipote, Heath, io sono solo la figlia della governante.» «Che si è intrufolata qua dentro e si è sistemata come se fosse a casa sua.» Heath lanciò un'occhiata alla tenda. «I cancelli erano aperti. Se non mi credi, chiedilo al tuo amministratore.» «Quell'uomo era stato assunto dagli esecutori testamentari dello zio Harry e non lavora più per me.» «Be', chiunque fosse...» La voce di Bronte si spense appena la ragazza si rese conto che Heath possedeva la proprietà da cinque minuti e aveva già licenziato un membro del personale. «Era una perdita di denaro» spiegò Heath. «E comunque, è facilmente sostituibile.» Heath la innervosiva. Nel suo mondo erano forse tutti sostituibili? «Se nella regione c'è così tanta gente a spasso» continuò lui, «non impiegherò molto a trovare un altro uomo...» «O una donna» lo interruppe Bronte. Heath si lasciò andare a una risata sarcastica. «Sempre la stessa Bronte.» L'ultima volta che avevano avuto un simile battibecco sulla rivalità tra i sessi, lei aveva dodici anni e lui quindici, età difficili per entrambi e che rendeva impossibile trovare punti in comune. Ma nonostante il trascorrere del tempo sembrava non fosse cambiato 187


niente, rifletté Bronte, consapevole dei capezzoli turgidi sotto l'inconsistente maglietta. Con noncuranza, incrociò le braccia al petto. «Quando potremo vederci per una normale chiacchierata?» «Quando mi contatterai attraverso normali canali.» «Ho provato a chiamarti, ma il tuo assistente non ha fatto altro che ripetermi che eri impegnato. Se sono qui adesso è solo perché ero decisa a parlarti.» «Tu? Decisa, Bronte?» Il primo barlume di divertita sorpresa illuminò il volto finora scuro di Heath. «Qualcuno doveva scoprire che cosa sta succedendo.» «E come sempre, quel qualcuno sei tu?» «Mi sono offerta come portavoce.» «Ti sei offerta?» Heath tirò indietro la testa e la guardò attraverso gli occhi socchiusi. «Ma che sorpresa.» «Allora, mi vuoi dire che progetti hai per la proprietà?» Per quale motivo le pulsazioni non rallentavano? Per quell'aura da cattivo ragazzo che circondava Heath, rispose una vocetta dentro di lei. Gli anni non l'avevano cambiata e certo non l'avevano diminuita. «Vuoi proprio saperlo?» domandò Heath. «Sì.» Bronte si irrigidì mentre lui le si avvicinava. «Questo posto è un disastro» affermò Heath, comprendendo con un gesto del braccio recinzioni crollate, muri sgretolati e siepi informi, «e l'omologazione del testamento ha richiesto tempo. Ma adesso sono qui. Che cosa accadrà adesso?» Bronte deglutì a vuoto quando lo sguardo di Heath si abbassò su di lei. «Farò una valutazione.» «E basta?» mormorò lei, ipnotizzata dagli occhi di Heath. «E basta» confermò Heath in tono duro, girandole le spalle. «Mi sembra di capire che tu non sia ancora entrata dentro casa, vero?» 188


La facciata di sicura spavalderia di Bronte vacillò. «No, sono venuta subito qui.» La proprietà comprendeva una residenza e un fatiscente castello, oltre a un enorme appezzamento di terra. Lo zio Harry aveva sempre vissuto nella residenza, che aveva preservato come meglio aveva potuto, considerato che aveva sempre preferito spendere buona parte delle sue ricchezze per aiutare gli altri. Bronte ricordava le meravigliose vetrate colorate, la biblioteca dove le librerie si allungavano fino al soffitto e il fuoco nel camino era sempre acceso, e la cucina immacolata, sebbene un po' demodé, dove sua madre era la regina. Possibile che non ci fosse più niente di tutto ciò? «Che è successo, Heath?» domandò a un tratto in preda all'ansia. «Posso rendermi utile?» «E che cosa potresti fare?» fu la piccata reazione. Bronte restò stupita. E amareggiata, ma sempre più decisa a scoprire quali fossero le vere intenzioni di Heath. «Dicono che tu abbia già venduto la proprietà e...» «E cos'altro?» la interruppe Heath, incrociando al petto le braccia muscolose. I suoi occhi erano belli come lei li ricordava e altrettanto freddi. «Bulldozer. Ho sentito parlare di bulldozer.» Era inutile addolcire la pillola. Doveva scoprire tutto. «Dicono che tu abbia già contattato una società di demolizioni per buttare giù tutto e costruire uno shopping centre...» «E anche se lo facessi?» Il panico si impadronì di lei al pensiero che Heath avrebbe potuto effettivamente fare una cosa simile; in fin dei conti ne aveva tutti i diritti. «E lo zio Harry?» «Lo zio Harry è morto.» Fu come se lui l'avesse pugnalata. Heath era sempre stato restio a esternare i propri sentimenti, a parte quelle rare occasioni in cui si era aperto in presenza di 189


Bronte e dello zio Harry. A volte si era chiesta se loro fossero state le uniche due persone con cui lui si fosse mai lasciato andare. Ed era un ricordo così vago che ora faceva fatica a credere che fosse mai accaduto. «Per l'amor del cielo, Heath, sei suo nipote. Non provi niente?» Al diavolo il posto di lavoro per il quale voleva proporsi. «Hebers Ghyll non significa nulla per te? Non ti ricordi quello che faceva lo zio Harry per...?» «Per ragazzini come me?» la interruppe Heath in tono gelido. Lei lo aveva riportato al passato e a suo padre, il fratello buono a nulla dello zio Harry, e al loro inesistente rapporto minato dalla violenza. Solo su insistenza del tribunale, il padre di Heath aveva acconsentito affinché il figlio trascorresse un periodo di riabilitazione a Hebers Ghyll sotto la tutela dello zio Harry. E lui, come si era sempre scontrato con lo zio. Non aveva fatto altro che gettargli in faccia la sua gentilezza. Un comportamento di cui si era vergognato e pentito per tutta la sua vita di adulto. «Sai che non intendevo dire quello» sottolineò Bronte. «Lo zio Harry era felice di averti qui. Avrai capito che per lui eri il figlio che non aveva mai avuto, no?» «Non usare questa tattica con me, Bronte.» «Ma quale tattica?» esplose lei. «Non uso nessuna tattica. Sto solo dicendo la verità. E non fare finta che non ti importi, Heath. Ti conosco bene e so...» «Mi conosci?» l'aggredì lui, fissandola con sguardo gelido. «Sì. Ti conosco» replicò lei decisa. «Forse mi conoscevi» la corresse Heath. Non gradiva che gli fosse ricordato il passato. «Non voglio litigare, Heath.» La sua voce era diventata a un tratto dolce. Bronte che faceva marcia indietro? Sarebbe stata la prima vol190


ta. Gli anni l'avevano forse ammorbidita? Ripensando a come l'aveva accolto, Heath scartò quell'opzione. «Scuse accettate» disse. Ma anche mentre i loro sguardi si incontravano, lui capì che quella piccola concessione era il primo passo sulla via della dannazione, la prima concessione al suo desiderio. Perché Bronte era attraente più che mai; e ancora di più quando era accalorata. «È importante che il lavoro avviato qui dallo zio Harry continui» affermò lei con passione. «E con te al timone, Heath» aggiunse con un po' meno convinzione. I sensi di Heath scattarono sull'attenti. Lei era splendida con quegli sfavillanti occhi verdi e quel grazioso broncio. Era risoluta, decisa. Una sorta di Giovanna d'Arco delle brughiere dello Yorkshire. Ma era anche agitata e inquieta. Era inquieta perché non sapeva che cosa lui avrebbe fatto. Ripensando al passato, a quella che ora gli sembrava un'altra vita, lui non poté biasimarla. «Quando prenderò una decisione, sarai la prima a conoscerla. Ma sappi una cosa: io non so che cosa siano i fine settimana. Non so che cosa siano le vacanze. E non ho bisogno di una casa in campagna. E ora tira tu le somme.» «Hai risposto alla mia domanda.» Lo sguardo deciso non scomparve dal suo volto. «Se Hebers Ghyll ti interessa così tanto, che cosa intendi fare per difenderla?» le domandò Heath, cambiando le carte in tavola. «Non me ne andrò senza lottare.» Lui non ne dubitava. «E in termini pratici?» Bronte sollevò il mento in un gesto risoluto. «Che tu tenga o meno la proprietà, mi candiderò come amministratrice.» Heath scoppiò a ridere. Adesso sì che lei lo aveva 191


davvero sorpreso. «L'avere preparato deliziose torte di mele con tua madre difficilmente ti qualifica per una posizione simile.» «Non sei l'unico ad avere fatto strada, Heath» sbottò lei. «Sono una qualificata amministratrice di proprietà terriere. E ho viaggiato in tutto il mondo per studiare come debbano essere gestite e amministrate con successo enormi proprietà come questa.» Adesso aveva catturato il suo interesse. «È naturale che io desideri conoscere i tuoi programmi» insistette Bronte. «Non vorrei sprecare tempo con la persona sbagliata.» E sollevò il viso in un gesto di sfida. «I miei programmi non ti riguardano.» Heath smise di ammirarla nel momento in cui si rese conto che Bronte voleva qualcosa che apparteneva a lui. O per lo meno, voleva il controllo di Hebers Ghyll, che era poi la stessa cosa. Era una sfida che lui non poteva ignorare. Molta acqua era passata sotto i ponti da quando lui era un ragazzino ribelle, violento e indisponente e Bronte la compassata ragazzina figlia della governante che sgusciava fuori casa per andare a spiarlo, nascosta nell'ombra e convinta che lui non la vedesse. Ma Heath non era cambiato quando si trattava di proteggere ciò che era suo. «Se vuoi che trovi il tempo per incontrarti, metti in ordine questo disastro e sparisci dalla mia proprietà.» E indicò la zona circostante la tenda che, a dire la verità, era perfetta. Bronte era sempre stata rispettosa della natura. «Hai promesso che parleremo.» «Ma non prometto altro, chiaro?» replicò lui, perdendo la pazienza. Bronte reagì indignata quando lui afferrò un picchetto e lo strappò dal terreno. «Ehi, che cosa diavolo fai?» sbottò, gettandosi su di lui. 192


«Ti consiglio di non rifarlo.» L'aveva afferrata per i polsi e la teneva davanti a sé. Il suo sguardo scivolò sulle labbra socchiuse di lei. Il desiderio di assaggiarle lo travolse. «Lasciami andare, Heath» lo sfidò Bronte. La voce le tremava. Gli occhi erano cupi. Le labbra schiuse... Lui riprese il controllo e allontanò le mani. «Togli la tenda» le ordinò. «Non mi fai paura» borbottò Bronte, massaggiandosi i polsi. Ma non era vero. In realtà, Bronte aveva temuto la propria reazione a lui. La scarica elettrica tra loro aveva sorpreso Heath. Quella non era una normale rimpatriata, rifletté mentre lei iniziava a smontare la tenda. La monella dai capelli rossi e il ragazzaccio di città, in passato avevano avuto scontri a elevato voltaggio e sembrava che quella passione non si fosse attenuata. Ma era cambiata, pensò. Sotto le sue mani, Bronte gli era sembrata delicata e vulnerabile. Era una donna adulta ora, e il suo profumo di sapone ed erba umida aveva solleticato i suoi sensi, lasciando una traccia di cui non si sarebbe sbarazzato con facilità.

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Romanzo

Passione ribelle



1 Non era stato il rombo del tuono a svegliare Lissa Sanderson poco dopo la mezzanotte, né le luci provenienti dalle finestre della casa galleggiante che il caldo tropicale di Mooloolaba l'aveva indotta a tenere aperte per godere della seppur minima brezza proveniente dal fiume. Non era nemmeno colpa dell'ansia per la situazione finanziaria in cui versava, sebbene fosse diventata il suo chiodo fisso da settimane. A svegliare Lissa era stato un rumore di passi sul piccolo molo di legno. Chi mai poteva essere? Non poteva trattarsi di suo fratello Jared, visto che si trovava all'estero, e di certo nessuno dei suoi amici si sarebbe mai presentato lì nel cuore della notte. Un brivido le corse lungo la schiena. Sollevò la testa dal cuscino e rimase in ascolto del fruscio delle palme attorno alla piscina poco lontana e del delicato suono delle campanelle a vento sopra la porta d'entrata mentre il rumore di passi si faceva sempre più vicino. I suoi pensieri corsero a nove mesi prima, a Todd, e il sangue le si gelò nelle vene. Si chiese se il bastardo avesse avuto il coraggio di farsi vedere di nuovo da quelle parti. Sperò di no, ma non ne era certa. Scese dal letto e cercò a tentoni la torcia, poi si ri349


cordò di averla lasciata in cucina. L'ultima volta l'aveva usata per controllare l'ennesima infiltrazione nel soffitto. Accidenti! D'un tratto il rumore di passi svanì. Subito dopo un tonfo fece vibrare il pavimento della casa galleggiante e il cuore le balzò in gola. C'era qualcuno sul ponte, appena fuori la porta! Ecco, adesso Lissa aveva veramente paura. Afferrò il cellulare e fece per comporre un numero, ma subito rimase a fissare il display spento. Era scarico. Perfetto, proprio quel che ci voleva! Tremando come una foglia, raggiunse la porta della camera da letto. Da lì diede un'occhiata fuori e fu a quel punto che vide la sagoma di uno sconosciuto. Era un uomo alto e dalle spalle larghe. Non poteva essere Todd, grazie al cielo! Ma, allora, di chi si trattava? Del gobbo di Notre Dame, vista la protuberanza che aveva sulla schiena? L'uomo depositò a terra un grosso sacco e subito la gobba sparì. Lissa si portò la mano alla bocca per trattenere un grido. Chi accidenti poteva essere? Che cosa voleva da lei quel tizio nel cuore della notte? Un lampo squarciò il cielo notturno illuminando per un istante lo sconosciuto. Era vestito di nero, aveva le braccia nude e muscolose e un viso attraente i cui tratti le risultarono vagamente familiari. I corti capelli scuri erano lucidi di pioggia e un accenno di barba gli metteva in risalto la mascella squadrata. Lissa notò le sue mani grandi mentre si tastava le tasche dei pantaloni come in cerca di qualcosa. Quelle mani le suscitarono ricordi spiacevoli che risalivano agli anni della sua adolescenza. Le sembrò di sentirle di nuovo su di sé, sul proprio corpo, e la paura tornò ad assalirla. Avrebbe dovuto chiamare la polizia, ma come pote350


va con un cellulare fuori uso? Si sforzò di pensare a un modo di fronteggiare l'ospite inatteso. Sentì nell'aria il piacevole profumo della candela al gelsomino che aveva acceso poco prima, del basilico fresco che aveva raccolto e sistemato in un vaso e l'odore del fiume che avvolgeva ogni cosa. Sarebbero state quelle le sue ultime sensazioni prima di morire? Impietrita dalla paura, rimase a guardare lo sconosciuto che si metteva le mani in tasca, estraeva qualcosa e si avvicinava alla porta. Lissa si precipitò sul primo oggetto che le capitò sotto gli occhi, una grossa conchiglia adeguatamente provvista di acuminati spuntoni. «Stia lontano, questa è proprietà priva...» iniziò a gridare. Ma le parole le morirono sulle labbra mentre sentiva la chiave girare nella toppa. La porta si aprì e lo sconosciuto entrò, portando con sé l'odore della pioggia. Lissa lo mise in guardia brandendo il cellulare. «Non si avvicini, ho appena chiamato la polizia.» L'uomo si fermò sui propri passi. Lei notò che era sorpreso ma per niente impaurito, quindi non esitò a minacciarlo di nuovo puntandogli la conchiglia alla gola. «Ehi, calma, non voglio farle del male!» le disse l'uomo con una voce profonda come il rombo del tuono che sopraggiungeva dall'oceano. «Questa è la mia barca. Se ne vada, subito!» gli intimò lei, stringendo in pugno la conchiglia e puntandogliela contro come fosse un'arma. Lo sconosciuto, però, le afferrò il braccio e con voce suadente le disse: «Calma tesoro, metti giù questo coso». «Questa è la mia barca» ripeté Lissa con minor convinzione. «Ma io ho aperto con la mia chiave» obiettò lui, la351


sciandole il braccio e accendendo la luce. Quindi portò in alto le mani per dimostrarle che era disarmato. Lissa socchiuse gli occhi, accecata dalla luce improvvisa. Già, quell'uomo era entrato servendosi di una chiave propria e aveva acceso la luce come se l'ambiente nel quale si trovava gli fosse familiare. Che si trattasse di Brad Everett in persona? Lissa si appoggiò al tavolo, ma il momentaneo senso di sollievo venne subito scalzato dalla tensione. Lo sconosciuto indossava un paio di sbiaditissimi jeans neri e una maglietta lisa le cui maniche, forse in seguito a infiniti lavaggi, si erano ristrette al punto da lasciare scoperti gli avambracci muscolosi. Era proprio lui, l'amico di Jared! La sua primissima cotta quando lei aveva soltanto nove anni e lui diciotto. Ricordò quando era tornato a casa in congedo per la morte di sua madre. All'epoca lei aveva tredici anni e lui ventidue, ma Lissa lo aveva guardato con gli occhi di una donna, lo aveva sognato come soltanto una donna avrebbe potuto fare, benché avesse tenuto segreto il piacevole senso di colpa che tali sogni le suscitavano. Lui non si era mai accorto di lei, fatta eccezione per quella volta in cui Lissa era caduta con lo skateboard mentre cercava di attirare la sua attenzione. Ricordava di avergli imbrattato di sangue la candida maglietta che indossava e di essersi vergognata come una ladra. A un certo punto avevano preso a circolare molti pettegolezzi sul conto di Brad. La gente diceva che era un cattivo ragazzo, una pecora nera. Ma Lissa non si era mai lasciata influenzare da quelle voci, fino a quando non era venuta a sapere che Brad aveva messo incinta Janine Baker e aveva lasciato la città per arruolarsi in marina. Per quanto strano, lei si era sentita tradita. Adesso ricordava i suoi occhi – il cui colore poteva 352


cambiare in un attimo passando dal blu intenso all'azzurro glaciale – e l'espressione riflessiva e distante che talvolta assumeva il suo volto e che già in passato aveva fatto presa su di lei, suscitandole il desiderio di entrare a far parte del suo mondo. Lissa aveva trascorso ore e ore a immaginare come doveva sentirsi una donna al centro delle attenzioni di uomo dal fascino così intenso e vagamente misterioso e adesso... Forse adesso lui la stava guardando proprio nel modo in cui lei aveva sempre sognato, con una punta di desiderio nei suoi occhi color oceano. Tuttavia Lissa non era più la ragazzina ingenua di un tempo e non aveva nessuna intenzione di ricambiare quello sguardo. I suoi tredici anni erano ormai lontani. Adesso aveva un grosso problema da risolvere. «Sono Brad Everett» disse lo sconosciuto, rompendo il silenzio che era sceso fra loro e posando lo sguardo sulla vestaglietta che Lissa indossava. «Sono...» «So chi sei» gli rispose. Lissa sentì il bisogno di portarsi le braccia al seno per nascondere i capezzoli eretti che tradivano la sua eccitazione e provò a rilassare i muscoli che sentiva tesi fino allo spasimo. Tirò un sospiro profondo mentre il suo sguardo si posava sulle labbra sensuali di lui, le stesse labbra che l'avevano fatta sognare da ragazzina. Brad studiò il volto di Lissa nel tentativo di ricordare dove si fossero conosciuti, ma a nulla valsero i suoi sforzi. Da tempo non gli capitava di trovarsi così vicino a una donna, soprattutto a una attraente come quella Venere tascabile dai capelli ramati. E, dopo i lunghi mesi trascorsi in marina, il suo dolce profumo gli risultava inebriante come quello del paradiso. I suoi capelli, illuminati dalla luce della lampada, brillavano come una fiamma vivace e i suoi occhi era353


no verdi come le acque trasparenti di una laguna tropicale, ma Brad notò che dietro quello sguardo limpido era in agguato una tempesta. In un attimo capì che il suo vecchio si era dimenticato di dirle chi era il vero proprietario della casa galleggiante che stava affittando. Dieci anni prima, quando sua madre era morta, Brad aveva acquistato la barca da suo padre per aiutarlo a salvarsi dai debiti e per avere un rifugio tranquillo e solitario dove stare quando tornava in congedo in Australia. Ma da allora non vi aveva più fatto ritorno. «Hai preso tu in affitto la barca. Lo capisco, io sono stato via e mio padre...» «Non sono qui in affitto. Mio fratello ha comprato questa barca da tuo padre tre anni fa. Adesso appartiene a noi. Questa è la mia barca, quindi... dovrai trovarti un altro posto dove stare.» «Tuo fratello ha comprato la mia barca?» Brad rimase esterrefatto nel ricevere quella notizia e il pensiero corse subito al padre. Come aveva potuto fidarsi di lui, ben sapendo che il vecchio era dedito al gioco d'azzardo? «Jared Sanderson è mio fratello.» Jared? Brad fissò lo sguardo su di lei, valutando i capelli scarmigliati, gli occhi verdi, le labbra piene e sensuali appena imbronciate. Da tempo aveva perso i contatti con il suo amico Jared, compagno di tante uscite in mare con il surf, ma non aveva certo dimenticato la sua sorellina... «Dunque tu sei Melissa» disse con uno sguardo di approvazione. Era piccola di statura, ma aveva un corpo mozzafiato con tutte le curve al posto giusto ed era decisamente cambiata dai tempi in cui era soltanto una ragazzina. «Scusa, Melissa, mi dispiace di averti spaventata. Avrei dovuto bussare.» 354


«Mi chiamano tutti Lissa adesso. E, sì, avresti dovuto bussare. Va bene, diciamo che lo spavento mi ha tolto cinque anni di vita, ma accetto le tue scuse. E, non ti preoccupare, non ho chiamato la polizia» gli disse, facendogli vedere il cellulare spento. «Il telefonino è scarico. Piuttosto, dimmi: che ci fai da queste parti?» «Dopo quattordici anni un uomo avrà pure il diritto di tornare a casa sua, o no?» rispose lui evasivo, nascondendole il fatto che era tornato per riconsiderare la propria esistenza e il proprio scopo nella vita. «Intendevo dire che cosa ci fai qui, su questa barca» precisò Lissa. «A dire il vero ero convinto di esserne ancora il proprietario» rispose Brad a denti stretti, amareggiato al pensiero di essere stato ingannato dal proprio padre. Certo, avrebbe dovuto trovare il modo di contattarlo prima di presentarsi lì, ma il rancore che provava nei suoi confronti gli aveva impedito di farlo. «Ma, non capisco...» disse Lissa aggrottando la fronte mentre il suo sguardo limpido si rabbuiava. «È una storia lunga e complicata» rispose Brad, passandosi una mano sulla piccola ferita sotto il mento provocata dalla conchiglia poco prima. «Mi dispiace» si rammaricò Lissa, indicando il graffio. «Vado a prendere...» «Lascia stare, non è niente» disse lui mentre la guardava alzarsi in punta di piedi per raggiungere qualcosa riposto un armadietto. La vestaglietta color pesca si sollevò scoprendole le cosce tornite, la pelle liscia, appena baciata dal sole. Gli occhi di Brad si posarono sui glutei di lei e, per un interminabile istante, lui si ritrovò incapace di distogliere lo sguardo da quello spettacolo. Lissa estrasse dal mobiletto la scatola dei medicinali nella quale rovistò a lungo prima di pescare un tubetto 355


d'unguento. «Questo dovrebbe andare...» si voltò verso Brad e lo colse intento a fissarla. Lui non accennò a distogliere lo sguardo. Perché mai avrebbe dovuto? Dopotutto, si trattava del miglior panorama sul quale gli fosse capitato di posare gli occhi da molto tempo a quella parte. Lei gli porse il tubetto, arrossendo fino alla radice dei capelli. «Questo ti farà guarire in fretta.» «Grazie.» «Hai parlato di una storia lunga e complicata... ti ascolto.» «Domani tornerò a Surfers, sistemerò la faccenda con mio padre e poi ne discuterò con Jared. Sarà tutto a posto in men che non si dica» la rassicurò, pensando che avrebbe rimborsato il suo vecchio amico e avrebbe aiutato Melissa – o, meglio, Lissa – a trovare una nuova sistemazione. «Come pensi di aggiustare le cose? Jared ha comprato la barca quando tuo padre ha venduto la sua casa di Surfers per trasferirsi al sud. A New South Wales, credo. Nessuno sa di preciso dove sia andato.» Lui non si stupì nell'apprendere quella notizia. Aveva versato a suo padre una bella somma in contanti in cambio della barca il giorno stesso in cui aveva lasciato l'Australia con il suo battaglione, ma non aveva firmato nulla e non aveva mai più ricevuto i documenti che il padre gli aveva promesso di spedirgli. Quando Brad lo aveva chiamato per reclamarli, aveva scoperto che a suo padre erano stati tagliati i fili del telefono e a quel punto anche le e-mail che gli aveva inviato erano rimaste senza risposta. Non era la prima volta che il vecchio opportunista si serviva di lui e adesso Brad si trovava di nuovo a dover risolvere i problemi che il padre gli aveva creato. «Dunque, devo dedurre che per il momento siamo in 356


due a possedere questa barca» chiese Lissa mentre fuori infuriava la tempesta e la pioggia si riversava con violenza sul tetto della barca e sul ponte. Brad annuì. Aveva rilevato la lussuosa casa per le vacanze di un'agiata famiglia e comprato la barca. Aveva chiesto un prestito in banca e, fortunatamente, aveva messo al sicuro il documento che lo indicava come proprietario del terreno sul quale sorgeva l'abitazione. «Ma perché hai optato per la barca, quando potresti stare più comodo nella villa?» domandò Lissa aggrottando la fronte. La verità era che in quella casa Brad non riusciva a rilassarsi. Troppo grande, troppe stanze vuote, troppi ricordi. Così era uscito a prendere una boccata d'aria, sperando che gli avrebbe fatto passare l'attacco di emicrania, uno dei tanti di cui soffriva da quando era rimasto vittima dell'incidente che lo aveva riportato in Australia. «Speravo che almeno qui sarei riuscito a dormire» spiegò, senza precisare che non si aspettava di trovare a bordo una compagna di letto. «Ma, dal momento che qui ci sono io, tornerai alla villa, vero?» gli chiese lei guardandolo con i suoi verdi occhi sgranati. A dire il vero, quella era l'intenzione di Brad fino a pochi istanti prima ma, adesso che i suoi piani erano andati a pallino, si accorse di non essere poi così stanco e di non avere fretta di dare la buonanotte a Lissa Sanderson. Era il suo corpo a imporgli di restare per conoscere meglio Lissa, inebriandosi del suo profumo di donna. Era il suo corpo a suggerirgli di avvicinarsi a lei, accarezzarle la pelle morbida dando così una piacevole svolta a quella serata. 357


Tuttavia Brad era abituato a ragionare prima di agire. E in quel preciso frangente la testa gli diceva di non lasciarsi traviare dal richiamo della carne. Nell'ambiente militare, era noto per la sua capacità di mantenere i nervi saldi anche sotto pressione, anche nelle situazioni più pericolose. Le donne, invece, erano più propense a descriverlo come un uomo incapace di manifestare i propri sentimenti e, con quella scusa, erano state in molte a dargli il benservito. Comunque, lui era sufficientemente esperto da sapere che era meglio tenersi alla larga da un tipo con le curve e la femminilità esplosiva di Lissa Sanderson, gli occhi verdi come smeraldi che sembravano leggere nei suoi pensieri. «Va bene, ti lascerò in pace. Almeno per ora» disse infine, ricacciando in un angolo della sua mente certi pensieri peccaminosi. «Almeno per ora?» ripeté lei guardandolo incredula con gli occhi sgranati. «Ma questa è casa mia! Forse non ci siamo capiti, io non ho nessun altro posto dove andare. Ho bisogno di questa barca» gli disse, senza riuscire a celare la propria disperazione. «Ti prego, calmati! Troveremo il modo di sistemare la faccenda.» Perché le donne avevano il vizio di esasperare sempre i toni? Per la prima volta da quando aveva rimesso piede lì dentro, si guardò attorno. Ricordò in quali condizioni era la barca anni prima, quando ancora ci viveva suo padre. Notò un divano azzurro ingombro di scatoloni, alcuni aperti, altri ancora sigillati, che aveva preso il posto di una vecchia poltrona in pelle. La cucina era identica, fatta eccezione per il forno a microonde sistemato in un angolo e la miriade di fogli disseminati sulla panca. Gli occhi di Brad si posarono su una bolletta già scaduta, tenuta ferma da una calamita sull'anta 358


del frigorifero. Distolse subito lo sguardo, dicendo a se stesso che non erano affari suoi. Ogni centimetro quadrato della barca era ingombro di oggetti. Tele da pittore erano appoggiate alle pareti vicino a una scatola che conteneva vecchi pennelli e a un contenitore pieno di matite e carboncini. I letti a castello erano ingombri di scampoli di stoffa, tavolozze sovraccariche di colori, ritagli di giornale e libri d'arredamento. Come si poteva vivere in mezzo a quel caos? Eppure, sarà stato per il profumo di fiori che aleggiava nell'aria, o per la fragranza emanata dagli aromi sistemati in un vaso vicino alla finestra, l'incredibile confusione che regnava lì dentro riusciva a creare un'atmosfera accogliente. Brad non aveva mai vissuto in un luogo simile e si chiese se finalmente lì dentro sarebbe riuscito a rilassarsi e a chiudere occhio. Ma subito si riscosse da quel pensiero. Doveva andare via da quel posto, trovare un'altra sistemazione e togliersi subito dalla testa Melissa Sanderson. Lui aveva bisogno di essere lasciato in pace, soltanto così avrebbe ritrovato l'equilibrio che aveva perso dopo l'incidente. Il rumore sordo di una goccia che cadeva sul pavimento attirò la sua attenzione. Brad alzò lo sguardo e vide una grossa macchia di umidità sul soffitto. A giudicare dal livello dell'acqua nel secchio sottostante, l'infiltrazione non era affatto recente. «Da quand'è che perde?» «Non da molto. Ma la farò sistemare io, non è un problema» rispose Lissa sulla difensiva. «Non è un problema? Alza gli occhi tesoro, se l'acqua entra in quella presa della corrente sono guai.» Brad vide Lissa alzare lo sguardo e aggrottare la fronte. Evidentemente non si era accorta del danno che 359


l'acqua aveva già causato, né aveva preso coscienza del pericolo che correva. «Non ti ha mai detto nessuno che l'acqua e la corrente elettrica non vanno d'accordo?» le chiese, guardando la pozzanghera che stava raggiungendo la base del frigorifero e alcune altre zone umide sul pavimento. «Certo che lo so! E comunque, il problema è mio e non ti riguarda» sbottò Lissa. Brad scosse la testa. «Non importa se il problema è mio o tuo, in queste condizioni la barca non è un luogo sicuro.» Come a dare maggior enfasi alle sue parole, un lampo rischiarò la notte, seguito subito dopo da un rombo di tuono. «Ecco, visto? Ti do due minuti di tempo per raccogliere le tue cose. Per stanotte dormirai alla villa.»

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