A. James - T. Wylie - B. Wallace
IL FIDANZATO IDEALE
Titoli originali delle edizioni in lingua inglese: Mr. Right Next Door Her Real-Life Hero Mr Right, Next Door! Silhouette Romance Harlequin Mills & Boon Tender Romance Harlequin Mills & Boon Romance © 1999 Deborah A. Rather © 2004 Trish Wylie © 2012 Barbara Wallace Traduzioni di Daniela Alidori, Laura Polli e Paola Picasso Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. Harmony è un marchio registrato di proprietà HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved. © 1999 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prime edizioni Harmony Serie Jolly ottobre 1999; gennaio 2006; settembre 2013 Questa edizione Harmony Premium gennaio 2018 HARMONY PREMIUM ISSN 1724 - 5346 Periodico mensile n. 158 del 18/01/2018 Direttore responsabile: Chiara Scaglioni Registrazione Tribunale di Milano n. 804 del 29/12/2003 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) HarperCollins Italia S.p.A. Viale Monte Nero 84 - 20135 Milano
Pagina 7
Un vicino di casa speciale Pagina 155
Il mio eroe immaginario Pagina 317
Un vicino tutto da scoprire
Un vicino di casa speciale
1 La pallina rimbalzò contro il muro alla sua sinistra. Le sarebbe bastato uno scatto per prenderla e Denise sapeva di poterci arrivare. Aveva già cominciato a muoversi quando si rammentò che sarebbe stato meglio sbagliare il colpo. Ma era troppo tardi per correggere l'angolo. Disperata, fece l'unica cosa possibile. Lanciò la racchetta che, come un proiettile, colpì il terreno nello stesso istante in cui lei cadeva in maniera scomposta e la gonnellina si sollevò mostrando le cosce abbronzate. La risata trionfale di Chuck rimbombò in tutto il campo. Denise provò un attimo di risentimento, seguito da una fredda determinazione di autocontrollo. Con cautela si raddrizzò e si mise a sedere appoggiandosi con la schiena al muro. Almeno si era tolta la soddisfazione di avergli fatto sputare sangue prima di dargliela vinta, si disse sollevandosi e controllando che la racchetta non si fosse rovinata. Nel frattempo Chuck era chino con le mani sulle ginocchia e respirava forte con il volto che grondava sudore. Gli ci volle parecchio prima che si riprendesse dalla fatica e gioisse per la vittoria. «La cara Dennis ha perso ancora!» disse usando il 9
nome maschile con cui era solito chiamarla in ufficio. Poi, agitando la racchetta verso di lei, aggiunse in tono bonario: «Però, devo ammettere che sei molto migliorata. Davvero, molto». Denise sorrise meccanicamente. Quell'uomo non sapeva che poteva batterlo quando e come voleva e si domandò come potesse essere così ottuso da non accorgersene. E mentalmente si ripromise di non diventare vittima del proprio ego il giorno in cui fosse giunta al potere. E quel giorno sarebbe arrivato presto. Con un sospiro pensò alle continue battaglie che doveva affrontare per andare avanti e a come era diventata difficile la sua esistenza. Poi mise da parte l'autocommiserazione, raddrizzò le spalle, si asciugò il sudore dalla fronte e si ripeté che a trentacinque anni poteva ancora battere a squash il suo capo che ne aveva cinquanta. Mentre recuperava l'asciugamano dalla panchina, ascoltò appena Chuck che la rimproverava in tono amichevole per la sua mancanza di controllo. Poi lo vide avvicinarsi, metterle una mano sul didietro e bisbigliarle in un orecchio: «Scommetto che non perdi mai il controllo tra le lenzuola». Prima che potesse rispondergli a tono, Chuck si allontanò con una risata, senza dubbio congratulandosi con se stesso per il proprio senso dell'umorismo. Denise si accontentò di imprecare sottovoce: un giorno avrebbe fatto pagare a Chuck Dayton quegli stupidi commenti. Lavorava con lui da due mesi, dal giorno in cui era giunta in città, e la lista diventava più lunga ogni giorno che passava. L'avevano avvertita che Chuck si divertiva a infastidire le dipendenti, ma lei non aveva intenzione di sottostare 10
a quei soprusi. Si era data una scadenza. Nel giro di cinque anni, aveva intenzione di diventare la donna più importante della compagnia. Con quel pensiero a risollevarle il morale, si avviò verso gli spogliatoi e si lasciò cadere su una panchina. Rimise la racchetta nella sua custodia di pelle e si tolse le scarpe prima di dirigersi con le sole calze verso gli armadietti delle donne. Un uomo le si parò davanti all'improvviso bloccandole il passaggio. Denise si fermò di colpo e riconobbe subito l'affascinante vicino di casa anche senza guardarlo bene. Un campanello d'allarme le suonò in testa, come la prima volta in cui l'aveva conosciuto. «Bella partita» le disse l'uomo. «Dev'essere duro perdere quando si è più forti.» D'istinto Denise provò una punta di soddisfazione, ma la soffocò usando la tecnica del negare l'evidenza. «Non essere assurdo. Chuck è il migliore qui in giro. Però, questa volta ce l'ho quasi fatta e sono sicura che la prossima riuscirò a batterlo.» «Giusto. Ti piacerebbe giocare una vera partita? Ti prometto di non lasciarti vincere.» Morgan Holt le sorrise e incrociò le braccia in attesa di una risposta. Aveva i capelli castani, appena brizzolati sulle tempie, e Denise notò che quella spruzzata di grigio faceva risaltare ancora di più l'azzurro dei suoi occhi. Si spostò di lato e, piegando la testa, disse con determinazione: «Ho fretta. Devo andare a casa». «Da chi?» le domandò lui in tono critico osservandola attentamente. «Dal tuo gatto?» A quelle parole Denise si sentì sommergere dalla 11
collera. Come si permetteva? Seccata, sbottò: «Il mio gatto è un'ottima compagnia, migliore di tante altre». L'uomo si mise a ridere. «Ma non sa giocare a squash» obiettò. All'improvviso Denise fu tentata di accettare la sfida. Fisicamente Morgan Holt era ben diverso da Chuck Dayton: più giovane di una decina di anni e in condizioni atletiche ottimali. Ma anche lei non scherzava. Aveva una buona massa muscolare e riflessi pronti e, se anche non fosse riuscita a batterlo, poteva almeno rendergli la vita difficile e farlo soffrire. «Ho appena disputato una partita faticosa» gli fece notare sperando di minare la sua fiducia in se stesso. Lui si strinse nelle spalle. «E io ho appena tagliato quel vecchio albero dietro il patio che rischiava di crollarti sul tetto e poi ho sistemato la legna.» Denise sollevò un sopracciglio. Doveva ammettere che era un ottimo padrone di casa. Si occupava del piccolo appartamento in cui lei viveva con la stessa cura e sollecitudine con cui curava la sua bella casa vittoriana, che faceva parte della stessa proprietà. Lei aveva avuto delle riserve ad andare a vivere accanto al proprietario, ma Jasper, nell'Arkansas, era una piccola città e le possibilità di alloggio erano limitate, se non voleva allontanarsi troppo dall'ufficio dove lavorava. Alla fine i vantaggi si erano rivelati superiori agli svantaggi e Morgan Holt, un vicino piacevole. Fin dall'inizio lui le aveva fatto capire che la trovava attraente, ma, da parte sua, lei aveva subito messo in chiaro che la cosa non le interessava. 12
Perciò, perché stava per accettare la sua sfida?, si chiese, un po' perplessa. La verità era che le capitava raramente di avere l'opportunità di una onesta competizione. E perché era un modo per dimostrargli che era più forte. E la cosa la stuzzicava! «D'accordo. Accetto.» Morgan sorrise. «Campo tre. Tra dieci minuti.» Soddisfatto si allontanò tenendo le scarpe appese alla spalla con i lacci. Indossava dei pantaloncini corti neri sbiaditi e una maglietta consunta con le maniche tagliate e i bordi sbrindellati. Denise scosse la testa e si domandò quanti altri uomini avrebbero avuto il coraggio di girare conciati in quel modo. Sicuramente nessuno dei soci del club che facevano a gara per avere sempre il completo all'ultima moda. Un pensiero improvviso la folgorò. Soci. Morgan Holt non poteva essere socio lì, dato che si trattava di un club riservato ai dipendenti e ai familiari della Wholesale International. Forse, era ospite di qualcuno. Ma di chi? Incuriosita, Denise lasciò le scarpe sulla panchina e si precipitò verso la segreteria. Qualcuno doveva avere prenotato il campo tre. Guardò il cartellone e, sotto la colonna delle sei del pomeriggio, lesse il suo nome scritto in matita. Abbassò le spalle. Il presuntuoso aveva prenotato il campo a suo nome! Come aveva osato? Che opportunista! Si voltò e tornò nello spogliatoio con espressione decisa. Non soltanto aveva intenzione di stracciarlo, ma anche di umiliarlo davanti a tutti. Oh, si sarebbe divertita! Sì, aveva intenzione di divertirsi. E molto. Gli bastarono tre minuti per capire che Denise era 13
imbattibile. Riconobbe la determinazione, la fluidità del ritmo e il luccichio implacabile che le brillava negli occhi castani dal taglio orientale. Denise Jenkins era venuta per vincere e aveva tutte le intenzioni di farlo. Perciò, doveva trovare un altro modo per catturare il suo interesse, decise Morgan preparandosi a una dura battaglia. Denise non lo deluse. Sin dall'inizio la partita fu brutale dal punto di vista fisico e Morgan si ritrovò con la maglietta bagnata di sudore. Se la tolse rimanendo a torso nudo. All'ultimo punto finì lungo e disteso per terra nel vano tentativo di salvare il game, mentre Denise si appoggiava con le mani alle ginocchia per riprendere fiato. La osservò con attenzione. Aveva la coda di cavallo disfatta e i capelli che le scendevano sulla fronte in ciocche scomposte mentre il top senza maniche le stava appiccicato addosso come una seconda pelle. Le dita erano strette alla racchetta e le nocche erano bianche per lo sforzo di tenerla. Aveva un'espressione raggiante. «Non ti dispiace... essere battuto... da una donna?» gli chiese ansimando per la fatica. Morgan sollevò la testa. «No» rispose respirando forte. «Non a me.» Riprese fiato. «A me piacciono le donne che...» Un altro soffio. «... che non demordono e reggono il confronto.» «Reggono il confronto?» Denise appoggiò a terra il manico della racchetta e lo usò per sostenersi. «Ti ho battuto... nel caso non te ne fossi accorto!» «Lo so» ammise lui mettendosi a sedere. «La prossima volta farò in modo di essere più fresco.» «Non ci sarà una prossima volta» dichiarò Denise 14
in tono piatto e determinato. «Hai avuto la tua opportunità e non ne avrai un'altra.» «Paura che ti batta se giocassimo ancora?» Denise scosse la testa e si tolse la banda di spugna che le cingeva la fronte. «Non mi stai ascoltando. Non giocheremo più. E se scoprirò che userai ancora il mio nome, ti denuncerò.» Morgan si mise a ridere. «Non ho dubbi in proposito. Ma mi sorge spontanea un domanda: è stata abilità la tua... oppure semplice fortuna?» Denise gli puntò l'indice contro. «Ti ho battuto onestamente.» «Giusto. Ma sei in grado di ripetere l'exploit?» Denise assunse un'aria battagliera. «Non ti va giù, eh? Però, ricordati che tu e io non siamo degli amici, che si sfidano a squash tutte le settimane. Siamo padrone e inquilina e niente più.» «Esatto» convenne lui. «Che cosa ne dici di una cena?» Il viso di Denise si irrigidì. «No, grazie.» «Coraggio, Denise. Che cosa devo fare per diventare tuo amico?» Lei gli lanciò un'occhiata annoiata. «Non sono il tipo che accetta inviti, se proprio vuoi saperlo. Il lavoro assorbe la maggior parte del mio tempo.» «Una volta anch'io ero così» dichiarò lui in tono enigmatico. Incapace di resistere alla curiosità, Denise si voltò. «Oh, davvero? E cosa è successo poi? Non hai ottenuto la sperata promozione?» Lui si limitò a sorridere. «Dovrai venire a cena per scoprirlo.» Denise alzò gli occhi al cielo e si incamminò ver15
so l'uscita. «Ho già abbastanza da fare nell'occuparmi della mia carriera, grazie. Oh, a proposito...» Si girò con un sorrisino agro. «Il tuo cane ha l'abitudine di lasciare degli sgraditi regali sul viale di casa mia. Vedi di farlo smettere, d'accordo?» Così dicendo, aprì la porta e uscì lasciandolo stanco e deluso. Morgan aveva esaurito tutte le idee per avvicinare Denise Jenkins e la cosa lo deprimeva. Denise chiuse la porta dell'ufficio di Chuck e respirò profondamente, abbandonando l'espressione rigida. Era inutile mostrare al personale che ancora una volta il vecchio Chuck era riuscito a innervosirla. L'ennesima volta. Dio, come avrebbe voluto stenderlo con un pugno in pieno viso! Chiuse gli occhi per un momento pensando a ciò che doveva fare. Poteva denunciarlo per molestie sessuali, ma avrebbe significato dire addio alla carriera che aveva percorso con tanta fatica e non sapeva se avesse voglia di rinunciare a tutto. Raddrizzò le spalle e si diresse verso il corridoio che portava agli uffici del personale. Bussò a una porta a vetri e, senza aspettare la risposta, entrò. Il giovane alzò gli occhi e le sorrise. «Signora Jenkins!» «Ken, ho bisogno di parlarti.» «Certo. Che cosa succede?» Senza sorridere Denise disse: «Non qui. Vediamoci nel mio ufficio, tra cinque minuti». Mentre parlava cercò di non pensare che Ken Walters era sposato con un bambino piccolo. Secondo Chuck, quello era il problema. Ken non stava dando il massimo e aveva lasciato che i problemi 16
familiari interferissero nel lavoro. A lui non importava che il bambino fosse nato con una malformazione cardiaca e dopo che Ken e sua moglie avevano già perso un figlio nello stesso modo. Era vero che Ken non aveva raggiunto il budget previsto nelle vendite, ma era comprensibile, date le circostanze. Purtroppo, le vendite erano l'unica cosa che contasse nel mondo del lavoro, rifletté Denise e decise di fare tutto il possibile per Walters. Aveva appena posato la cornetta quando lui aprì la porta del suo ufficio ed entrò senza nemmeno preoccuparsi di farsi annunciare dalla segretaria, segno che aveva capito quello che lo aspettava. Denise andò dritta al sodo. «Mi rincresce, Ken. So che non è giusto, ma devo licenziarti.» Il giovane impallidì e strinse le mani a pugno lungo i fianchi. «Dannazione!» Denise premette il pulsante dell'interfono. «Betty, portami quella lettera appena è pronta.» Poi tornò a voltarsi verso Ken Walters. «Siediti. Ho chiesto alla mia segretaria di prepararmi una lettera di raccomandazione e mi sono presa la libertà di fissarti un colloquio con una ditta nostra associata di Rogers.» Gli sorrise. «Immaginavo che non avresti avuto da ridire.» Gli porse un foglio con i dettagli e finse di ignorare lo sguardo di sorpresa di Ken mentre si sedeva e leggeva quello che c'era scritto. Denise tossicchiò e proseguì. «Si tratta di una compagnia di assicurazioni che ha bisogno di assumere un nuovo collaboratore. Naturalmente, le condizioni saranno le stesse.» Per la prima volta si concesse di sorridere. «Adesso dipende tutto da te. Non 17
sprecare l'occasione. Io ti ho aperto una porta, ma sta a te entrarci. Capito?» Lentamente Ken Walters piegò il foglio e se lo fece scivolare in tasca, poi alzò gli occhi che brillavano di gratitudine. «È un peccato che nessuno qui sappia che brava persona è lei» disse con calma. «Deve avere lavorato sodo per tenerlo nascosto.» Denise deglutì forte, stupita dal groppo che le stringeva la gola. «Vorrei che non ne facesse parola con nessuno.» Ken annuì. «Non si preoccupi. Lo terrò per me.» Poi si alzò. «Non so come ringraziarla. Dio solo sa come avrebbe reagito mia moglie se fossi tornato a casa e le avessi annunciato che mi avevano licenziato. Invece così posso dirle che ho semplicemente cambiato lavoro.» Denise alzò una mano. «Non sia troppo sicuro. Potrebbe rovinare tutto, se affrontasse quel colloquio con l'atteggiamento sbagliato.» Lui si mise a ridere. «Non è possibile. Sono stati mesi difficili, ma sono pronto a ricominciare da capo. Anzi, forse era proprio l'occasione che aspettavo.» Denise si alzò e gli tese la mano. Ken la prese e la tenne fra le sue un attimo. «Grazie. Non lo dimenticherò.» Poi uscì dall'ufficio con passo più spedito di quando era entrato e si chiuse la porta alle spalle. Rimasta sola, Denise si sentì sommergere da una sensazione di abbandono. Era assurdo, si disse. Ken Walters non era mai stato un suo amico. Anzi, era un suo dipendente e nulla era cambiato. Lei aveva la sua carriera e non aveva bisogno di altro. O forse sì? Denise guardò dalla finestra Morgan che lanciava 18
in aria il frisbee e osservava il suo cane, Reiver, che lo afferrava al volo stringendolo nelle possenti mascelle e mostrando dei denti bianchi e aguzzi. Poi, con le orecchie penzoloni, glielo riportava e gli leccava le mani con la lingua rosa. Morgan rideva cercando di scansarlo e nello stesso tempo lo abbracciava. A un certo punto si voltò e, quando la vide, il sorriso gli morì sulle labbra. Si alzò e tornò in casa. Era evidente che non sopportava nemmeno la sua vista, si disse Denise con un sospiro e continuò ad accarezzare il gatto raggomitolato in grembo. Avrebbe dovuto essere contenta. Detestava l'attenzione degli uomini, eppure si sentiva confusa. Si alzò e vagò per la stanza, avvicinandosi a uno scaffale. Incerta, prese un album di fotografie e lo aprì. Jeremy le sorrise, un neonato paffuto vestito con una tutina blu. Voltò pagina. Jeremy che muoveva i primi passi lungo il vialetto. A quel punto non ce la fece più, chiuse l'album e lo rimise al suo posto, sullo scaffale. Non sopportava di vedere come era diventato, un bimbo alto e magro dagli occhi vivaci e l'espressione intelligente. Non lo sopportava perché le fotografie si erano fermate lì, a otto anni. Per sempre. Non ce ne sarebbe più stata una di Jeremy a dieci anni. Non ci sarebbero più state fotografie di Jeremy. Denise chiuse gli occhi. Negli anni aveva imparato che il dolore per la perdita del figlio non si sarebbe mai attenuato. Per fortuna un colpo alla porta la riscosse da quei pensieri tristi. Si legò una felpa sulle spalle e andò ad aprire. Davanti a lei c'era Morgan Holt con una casseruola tra le mani. Le sorrideva. «Hai un minuto?» 19
Pur essendo grata dell'interruzione, Denise si udì dire: «Ho parecchio lavoro da sbrigare questa sera e...». Il gatto si affacciò sulla porta e tentò di uscire. «Smithson, torna subito dentro!» Denise lo prese per la coda e Morgan ne approfittò per entrare e chiudersi la porta alle spalle. «Siamese?» si informò spostando la casseruola per vedere meglio l'animale. «Sì» rispose Denise chinandosi per prenderlo in braccio. Era un esemplare maschio, enorme e arrogante, e si considerava il padrone del mondo anche se usciva raramente e solo in una cesta chiusa a chiave. Per dimostrare il suo disdegno, si girò e conficcò le unghie nelle mani di Denise liberandosi e scivolando a terra. Morgan si mise a ridere. «Come hai detto che si chiama?» «Smithson.» «Smithson?» «Sì, figlio di Smith.» «Così il nome di suo padre era Smith.» Denise sollevò un sopracciglio. «Perspicace. Non tutti ci arrivano.» «A cosa? A capire che avevi un gatto di nome Smith e che hai tenuto un figlio suo?» «Esattamente» confermò Denise. Morgan sorrise. «Vediamo. Oltre allo squash e alla casa, abbiamo in comune un'altra cosa.» «E cioè?» «L'amore per gli animali.» Denise assunse un'espressione scettica. «Immagino che siamo compatibili come cani e gatti.» Lui si mise a ridere. «Chi può dirlo? A proposito» 20
continuò Morgan indicando la casseruola fumante, «questa è per scusarmi. Non avrei dovuto usare il tuo nome al club senza permesso. Mi spiace. Pensavo... speravo... Be', diciamo che vorrei che diventassimo amici. Semplici amici». Denise era impreparata alla delusione che la sommerse a quelle parole, ma la scacciò e accettò l'offerta di pace. Guardò dentro la casseruola. «Cos'è?» «Pollo» spiegò lui. «Con formaggio, riso, broccoli e cavolfiori. Tutto a basso dosaggio di calorie.» Aveva un profumo delizioso, ma era l'ultima parte del discorso a renderla scettica. «Un formaggio con poche calorie?» ripeté Denise sollevando le sopracciglia. Morgan si fece una croce sul cuore. «Fatto con latte scremato. Parola di scout.» Denise lo guardò, perplessa. Da quello che aveva visto giocando a squash, Morgan Holt non sembrava avere bisogno di una dieta povera di calorie. Il ricordo di quel torace muscoloso la fece sentire a disagio, perciò si diresse in cucina e gli accennò di seguirla. «Mangi sempre così bene?» Morgan posò la ciotola sul bancone. «Ehi, tenersi in forma a quarantacinque anni non è facile. Prima o poi lo scoprirai anche tu.» Quarantacinque! «Sei più vecchio di quello che pensavo» si lasciò sfuggire Denise. Lui si mise a ridere. «Grazie.» Denise si lavò le mani prima di avvicinarsi a un armadietto da cui estrasse piatti, posate e tovaglioli e in silenzio cominciò a preparare la tavola. Quando alzò gli occhi lui le chiese: «Significa che mi hai invitato a cena?». 21
«Di solito si fa tra amici, no? Occasionalmente.» «Occasionalmente» ripeté Morgan con un sorriso. «Ma... il lavoro?» Vergognandosi per la bugia, Denise balbettò: «Uh, p... può aspettare». Soddisfatto, Morgan si sfregò le mani. «Bene. Hai per caso del pane? E magari un po' di insalata?» Denise gli indicò la porta della dispensa, poi aprì il frigorifero e guardò dentro. «Ho della lattuga, ma non ho la salsa per condirla.» Morgan estrasse una bottiglia di vino rosso dalla dispensa. «Non preoccuparti. Se non ti spiace, me ne occupo io.» «Fa' pure» rispose Denise prendendo l'insalata e mettendola sul bancone. Lo osservò mentre preparava la salsina e metteva tutto in tavola e, per la prima volta dopo tanto tempo, si ritrovò a sorridere. Sorriso che si trasformò in un mormorio di approvazione quando assaggiò il primo boccone di pollo. «Buono, vero? Vuoi la ricetta?» le offrì Morgan. Denise scosse la testa. «Sì, è buono. No, però, non voglio la ricetta.» «Non ti piace cucinare, eh?» «No, non ho tempo» spiegò lei stringendosi nelle spalle. Lui mangiò in silenzio per qualche secondo, poi posò la forchetta e disse: «So che cosa intendi. Io ho sempre adorato cucinare, ma ero così preso dalla carriera che per anni me ne sono dimenticato. Così come ho dimenticato tante altre cose che amavo fare». «Ma se il lavoro ti piaceva...» 22
Pagina
Romanzo
Il mio eroe immaginario
1 Jack Lewis si fermò sulla soglia. La sua presenza diede a Catherine l'impressione che lo spazio della cabina della nave fosse ancora più angusto. Forse perché non era preparata a uno sfoggio così sfacciato di fascino maschile. Con l'uniforme da ufficiale bagnata di pioggia, il bel viso virile, gli occhi blu dall'espressione magnetica e i capelli scuri raccolti con un semplice nastro di seta nera, Jack la lasciò senza parole. «Lady Catherine... Spero di non avervi disturbata» esordì lui. La sua voce, calda e profonda, le provocò un delizioso brivido. Da quando un uomo aveva il potere di suscitarle quella gamma confusa di emozioni? Quel turbamento profondo? Di farle dimenticare i rigidi principi nei quali era stata educata? «Nessun disturbo» gli rispose, cercando di assumere un tono di voce naturale. Lui entrò nella cabina e si chiuse la porta alle spalle. «Sono venuto a informarvi che il peggio è passato. Ci siamo lasciati alle spalle la tempesta e alle prime luci dell'alba avvisteremo la costa della Cornovaglia.» La verità era che non aveva resistito 157
alla tentazione di trascorrere qualche istante con lei, ammise fra sé, divorandola con lo sguardo. L'elegante abito da viaggio di pesante velluto color prugna le modellava la figura, facendo apparire la sua pelle ancora più candida e invitante. «Grazie al cielo» mormorò Catherine, lieta del fatto che il capitano Jack Lewis non le avesse fatto visita un'ora prima. Le onde agitate a causa del maltempo e il conseguente rollio della nave le avevano provocato il mal di mare. In quel momento la pioggia batteva ancora con violenza contro i vetri della cabina di poppa, un suono che faceva da contrappunto al battito del suo cuore. Jack si avvicinò e Catherine percepì un gradevole aroma di acqua salata, stoffa bagnata e tabacco. Quella miscela tipicamente maschile e la sua vicinanza accentuarono il suo turbamento. A differenza di altri uomini, il capitano Lewis non aveva mai tentato di baciarla. Non l'aveva mai neppure sfiorata. Ma bastava la sua presenza per scatenare in lei una tempesta di emozioni. Così, ogni volta che lo incontrava, era costretta a combattere una faticosa battaglia con se stessa. «Sono venuto anche per chiedervi, milady, se preferite sbarcare subito quando arriveremo a Southampton, o aspettare più tardi.» «Più tardi» rispose Catherine senza la minima esitazione, chiedendosi se e quando in futuro avrebbe avuto la possibilità di rivedere Jack Lewis. L'idea di separarsi da lui... «Percival! Avanti, scendi subito dalla tastiera!» esclamò Tara seccata. Con delicatezza, ma anche 158
con una certa decisione, sollevò il grosso soriano dalla tastiera del computer e lo depositò sul pavimento. Il gatto la fissò con i grandi occhi verdi ed emise un debole miagolio di protesta. Devono essere le sette, immaginò Tara. Percival, infatti, puntuale come un orologio svizzero, pretendeva sempre la sua razione di cibo a quell'ora. Cioè prima di uscire dalla porta di servizio e dedicarsi a un'intensa attività di caccia notturna in giardino. Incurante del fatto che lei stesse scrivendo la prima delle scene d'amore del suo nuovo romanzo, il gatto continuò a miagolare. Tara si arrese. «Va bene, pausa» annunciò guardando il felino con indulgenza. «Dieci lunghi anni per diventare una scrittrice di successo e mi faccio ancora condizionare da una palla pelosa a quattro zampe... Sai, Percy, sei un po' in soprappeso» aggiunse con una risatina. Premette un tasto per memorizzare le ultime righe che aveva scritto e poi si alzò. Intuendo ciò che stava per accadere, Percival si affrettò a raggiungere la cucina. Tara riempì di cibo la ciotola del gatto e poi decise di approfittare della pausa per provare la nuova maschera di bellezza idratante che quella mattina aveva acquistato nella profumeria di Ross's Point. Cinque minuti più tardi fissò la sua immagine nello specchio del bagno e si mise a ridere. Con indosso un vecchio pigiama di flanella azzurro, le sue amatissime pantofole di peluche rosa a forma di coniglio, due grossi bigodini fissati sopra la fronte e un generoso strato di gel verdino spalmato sul viso sembrava... 159
Già, chi?, si chiese divertita. Di sicuro non Tara Devlin, la fascinosa, giovane scrittrice di talento che i critici descrivevano come la nuova regina del romanzo rosa. L'erede di Jane Austen e Margaret Mitchell, l'aveva definita in modo lusinghiero la sua amica Lilian Crowe sul Cornwall Gazette. Una modesta parolaia che scrive i soliti polpettoni strappalacrime, aveva scritto invece uno dei suoi detrattori, sul prestigioso Times. Probabilmente la verità sta nel mezzo, si consolò Tara, dimenticando di definire il proprio aspetto. Né parolaia strappalacrime né erede di Jane Austin. Amen, concluse tornando in salotto. Percival non era in vista e lei si sedette di nuovo davanti al computer, sperando che il gel non colasse sulla tastiera. Stava rileggendo le ultime righe che aveva scritto, cercando di ritrovare la concentrazione, quando sentì squillare il campanello d'ingresso. Tara alzò gli occhi al cielo, chiedendosi chi potesse avere avuto l'idea di venirle a farle visita a quell'ora e con quel tempo da lupi. Laura, probabilmente, si disse, ricordando che quel pomeriggio al telefono la sua amica aveva espresso il desiderio di vederla per raccontarle per filo e per segno la sua ultima disavventura sentimentale. Senza guardare prima nello spioncino, Tara aprì la porta. «Laura, ti sembra questa l'ora di...» S'interruppe di colpo, fissando a bocca aperta l'esemplare maschile con i capelli scuri incollati alla testa e l'impermeabile zuppo di pioggia fermo di fonte a lei. Davvero un bell'esemplare, pensò. 160
«Apri sempre la porta a chiunque si presenta a casa tua senza neppure chiedere chi è?» Il tono ironico dello sconosciuto la irritò. Anche perché, a dire il vero, lui non era del tutto uno sconosciuto... Era il suo nuovo, affascinante vicino di casa, che fino a quel momento lei aveva avuto la possibilità di contemplare solo dalla finestra del salotto, mentre verniciava le imposte della villetta che stava ristrutturando. «Sarebbe cambiato qualcosa se te l'avessi chiesto?» ritorse Tara. «Mi avresti passato la carta d'identità sotto la porta? Oppure mi avresti detto che sei Jack lo Squartatore?» «In effetti mi chiamo Jack... Jack Lewis» si presentò lui tendendole la mano. In meno di un minuto, Tara si ritrovò a fissarlo di nuovo a bocca aperta. Non è possibile, pensò fissandolo stupefatta. Un attimo dopo, un pensiero improvviso le balenò nella mente. «Sta' a sentire, se si tratta di uno scherzo...» «Nessuno scherzo» le assicurò lui. «Mi chiamo Jack Lewis, siamo vicini di casa e...» «Questo lo so» lo interruppe Tara. «Cosa diamine ti è saltato in mente di comprare quella vecchia stamberga di Colton House?» gli chiese cambiando bruscamente argomento. «Sono un architetto e ho l'hobby della ristrutturazione» rispose lui trovando a dir poco originali le maniere di quell'aliena dalla faccia verde. «Colton House è un piccolo gioiello in stile vittoriano. Il restauro le restituirà tutta la sua bellezza. Esattamente come tu speri che succeda con quella poltiglia che hai in faccia.» 161
Con un certo sgomento, Tara si rese conto di essersi completamente dimenticata di avere uno strato di gel verde sul viso. «Mi chiamo Tara Devlin, sono una scrittrice e di solito non ho la faccia verde» replicò freddamente, improvvisamente conscia del vecchio pigiama, dei bigodini e delle pantofole di peluche. «Me lo auguro» ribatté Jack, curioso di scoprire come fosse in realtà la sua vicina di casa. Bionda, occhi grigi, dedusse, dopo un rapido esame. Giovane? Difficile dirlo con quella pappa che aveva sul viso. «Posso sapere il motivo della tua visita, signor...» Tara esitò un istante. Possibile che il suo cognome fosse uguale a quello dell'eroe del suo ultimo romanzo? Si trattava di una stupefacente coincidenza oppure di uno scherzo di una delle sue amiche che aveva letto in anteprima il riassunto della trama? «Lewis» ripeté lui. «Il motore del mio fuoristrada ha deciso di concedersi una vacanza a circa un miglio da qui. Ho bisogno di un meccanico, altrimenti domattina non potrò andare a lavorare.» «Niente telefono nel gioiello vittoriano?» domandò Tara con una punta di ironia. «No, e il mio cellulare non prende bene la linea su questo tratto di costa. Posso usare il tuo?» Lei annuì. «Basta che ti togli quello straccio gocciolante» rispose accennando all'impermeabile. Jack obbedì e per un istante Tara trattenne il respiro, aspettandosi di vedere apparire l'uniforme degli ufficiali della marina inglese del diciottesimo secolo. Sei una sciocca, Tara Devlin, si rimproverò. Naturalmente sotto l'impermeabile non c'era alcu162
na giacca di panno blu ornata di spalline dorate. Nessun panciotto, nessuna camicia di seta bianca. Solo una felpa e un paio di jeans. Il fusto che aveva di fronte poteva anche, per una bizzarra coincidenza, chiamarsi come il protagonista del suo romanzo, ma questo non significava che fosse lui. Strano, però, che se lo fosse immaginato proprio così... «Tara?» «Sì?» «Posso entrare adesso?» «Come? Oh, sì, certamente» rispose lei in fretta facendosi da parte. Jack Lewis non aveva tutti i torti se pensava che la sua vicina di casa era una sciocca, pensò, irritata con se stessa. «Il telefono è sul quel tavolino.» Jack seguì la direzione dello sguardo di lei e si avvicinò a un tavolino sul quale era posato un apparecchio giallo a forma di Titti il Canarino. «Grazie» mormorò, fissando l'oggetto con un misto di perplessità e divertimento. Tara rimase a guardarlo mentre lui leggeva sul display del suo cellulare il numero dell'unica officina meccanica di Ross's Point, e componeva il numero sulla tastiera di Titti. «McIlvenna? Buonasera, mi chiamo Lewis e telefono da Shelly Bay. Il mio fuoristrada è fermo sulla strada costiera, a circa tre miglia da qui. Avete un carro attrezzi, immagino... Sì, fra mezz'ora va bene. Ci vediamo là.» Jack riagganciò e tirò un sospiro di sollievo. «Grazie al cielo ho fatto in tempo... L'officina stava per chiudere.» «Sean McIlvenna ha la segreteria telefonica. È 163
l'unico soccorso stradale su questo tratto di costa e Sean viene a salvarti anche alle due di notte, dietro adeguato compenso, naturalmente.» «Sarà ricco come Creso, suppongo» commentò Jack. Tara si strinse nelle spalle. «Sean è una vera e propria istituzione da queste parti.» Lui la osservò con espressione vagamente divertita. «Non credi sia ora di riassumere sembianze umane?» «Come dici, scusa?» mormorò lei senza capire. «La poltiglia» precisò Jack. «Le mie sorelle dicono che arrossa la pelle se la lasci sul viso troppo tempo.» «Oh, il gel... No, questo è idratante e lenitivo. Non c'è pericolo.» «Sicura?» Lei annuì. Jack si guardò intorno, valutando rapidamente l'ambiente per deformazione professionale. Il cottage di Tara Devlin era di proporzioni meno ampie di Colton House, ma ben tenuto. Gli unici elementi tradizionali del salotto erano il parquet di legno chiaro, la travatura a vista, il caminetto e la scrivania sulla quale c'era un computer acceso. Il resto dell'arredamento era a dir poco originale. Divani e cuscini coloratissimi, tappeti di varie forme e fantasie, quadri e poster di stile contrastante, piante ornamentali, oggetti kitsch e di artigianato formavano una miscela bizzarra, eppure gradevole. Tara Devlin aveva senza dubbio del talento come arredatrice, pensò. «Bel gatto» commentò osservando il soriano. 164
Percival, ben pasciuto, alla libertà sotto la pioggia a dirotto in giardino aveva preferito l'asciutto comfort di una poltrona verde a forma di mela. «È uno scherzo, vero?» replicò Tara. «Cosa intendi dire?» ribatté lui. «Il nome e tutto il resto. Chi l'ha organizzato?» «Nessuno scherzo, te l'assicuro» rispose lui perplesso. «Mi chiamo davvero Jack Lewis, il mio fuoristrada è fermo sulla strada costiera e non ho idea di cosa tu stia parlando. Comunque sia, grazie per avermi permesso di usare il tuo telefono» aggiunse, dirigendosi verso la porta d'ingresso. In quel momento la pioggia battente gli sembrò un'alternativa migliore all'ospitalità dell'aliena. «Quanti anni hai?» gli domandò lei, seguendolo. «Trentuno.» «Sì, è uno scherzo» asserì Tara con convinzione. Il capitano Jack Lewis aveva la stessa età. Troppe coincidenze per essere un caso... «Quante sorelle hai?» «Quattro, perché?» «Pazzesco!» esclamò lei con indignazione. Anche quel particolare corrispondeva. No, non poteva essere un caso. «D'accordo, fuori il rospo, mister furbizia. Come fai a saperlo?» «A sapere cosa?» ribatté Jack, cominciando a chiedersi se l'aliena con la faccia verde avesse tutte le rotelle a posto. Con lo sguardo misurò la distanza che lo separava dalla porta d'ingresso. Non era lontana. Forse, se si fosse messo a correre... «Hai letto per caso il mio manoscritto?» «Il tuo cosa?» «La bozza del romanzo che sto scrivendo» preci165
sò Tara con severità. «È stata Elinor a dartela?» «Senti, non conosco nessuna Elinor... Voglio dire, a eccezione di una mia prozia che ha ottantadue anni e abita a Galway, e che quindi non c'entra niente con questa faccenda.» «Ah-ah, vedi che esiste?» ribatté Tara trionfante. «Chi? Mia zia?» «No, il complotto.» «Quale complotto?» «Quello organizzato da qualcuno che è convinto che la mia esistenza sia poco movimentata.» «Può darsi sia così» ammise Jack. «Dal tuo abbigliamento non è difficile dedurre che non stavi per uscire a divertirti.» «E tu che ne sai?» insorse Tara. «Forse mi stavo proprio preparando per uscire, forse...» Lui scosse il capo. «Quando le mie sorelle si mettono in pigiama, con una poltiglia in faccia, esistono solo due possibilità.» «Quali?» domandò Tara, suo malgrado incuriosita. «Delusione sentimentale o crisi depressiva.» «Non è il mio caso» asserì lei con decisione. «Allora sei l'eccezione che conferma la regola» rispose lui facendo un altro passo verso la porta. «Ti auguro quindi un buon proseguimento di serata e...» «Non hai risposto alla mia domanda» gli fece notare Tara. «Quale?» «Voglio sapere chi ti ha dato da leggere il riassunto della trama del mio nuovo romanzo. Non puoi essere Jack Lewis.» «Ti assicuro che lo sono. Vuoi vedere i documenti?» 166
«Certamente!» Con un sospiro di rassegnazione lui estrasse la patente dal portafoglio e gliela mostrò. «Contenta adesso?» «Sì, io... È incredibile» mormorò lei. «Che cosa? Il fatto che mi chiami Jack Lewis? Mi sembra un nome piuttosto comune.» «Si dà il caso che sia anche quello del protagonista del romanzo che sto scrivendo» gli spiegò Tara. La sua fantasia di scrittrice era a dir poco deliziata da quella singolare coincidenza. «Anche il capitano Jack Lewis ha trentun anni, quattro sorelle e...» «Senti, mi fa molto piacere sapere che ho un omonimo virtuale, ma sarà meglio che mi sbrighi se voglio arrivare puntuale all'appuntamento con Sean McIlvenna» la interruppe lui. «Sai, mi ha fatto molto piacere conoscerti» aggiunse per dovere. «Mi piacciono le donne indipendenti, di successo e dotate di senso dell'umorismo. Credimi, nessuno mi ha mandato qui. Le tue erano le uniche luci accese nel raggio di mezzo miglio e io avevo bisogno di aiuto. Non esiste alcuna cospirazione per rendere la tua vita più movimentata... Anche se non sarebbe un male.» «Cosa vuoi dire?» domandò Tara in tono di sfida. «Abiti a una certa distanza da un piccolo centro, in un cottage isolato con un gatto come unica compagnia. Alle sette di sera stai ancora lavorando, in pigiama, pantofole, bigodini e con una poltiglia verde sulla faccia. Questo significa che hai sicuramente dei problemi.» «E tu chi credi di essere per dirmi queste cose? Uno strizzacervelli?» 167
«Sono Jack Lewis, ricordi? La personificazione vivente del protagonista del tuo ultimo romanzo.» Se quella situazione non fosse stata tanto assurda, avrebbe potuto essere quasi divertente, pensò. «Fuori di qui!» intimò Tara, ignorando l'improvvisa voglia di mettersi a ridere. Jack non se lo fece ripetere. Aprì la porta e infilò l'impermeabile che aveva lasciato a gocciolare sul patio. «Ci vediamo» mormorò accennando un saluto. «Temo di sì, purtroppo.» «Considerando il fatto che siamo vicini di casa, non credo ci sia la possibilità di ignorarci e...» Lei alzò gli occhi al cielo e chiuse la porta. All'inferno Jack Lewis! Non il capitano, naturalmente, ma il vero, insopportabile, indisponente Jack Lewis. Come si permetteva di metterla in imbarazzo, facendole notare che era in pigiama, pantofole e maschera idratante? E, come se non bastasse, di criticare anche il suo stile di vita! Senza contare che non era affatto convinta che Elinor e le altre sue amiche non c'entrassero proprio nulla in quella faccenda. Come Jack, anche loro non facevano che criticare il fatto che abitasse da sola in quel cottage isolato e trascorresse le giornate ‒ e quel che era peggio le serate ‒ lavorando. Appoggiò le spalle alla porta e sorrise. «Sono un caso senza speranza» mormorò ridacchiando.
168
2 Nei giorni seguenti Tara s'impose di non pensare all'irritante incontro con il suo nuovo, affascinante vicino di casa. Quello che si chiamava Jack Lewis ed era la personificazione del protagonista di Cuori nel vento, il romanzo che stava scrivendo. Le sembrava già di vedere i titoli sui giornali. L'ultima, indimenticabile storia d'amore di Tara Devlin, avrebbe scritto Lilian sul Cornwall Gazette. Il nuovo polpettone strappalacrime della Devlin, di cui non sentivamo affatto la mancanza, avrebbe scritto Thomas Bigby sul Times. Dopo il fatidico incontro in quella tempestosa serata di pioggia, nessuna delle sue amiche si era fatta viva. Né per telefono né di persona, rifletté Tara, mentre si preparava a uscire di casa. Strano. Possibile che Jack fosse stato sincero? Nessun complotto. Pura coincidenza. No, il fatto che il capitano Jack Lewis e Jack Lewis si assomigliassero come due gocce d'acqua non era una coincidenza, ammise Tara. Quante volte, guardando fuori dalla finestra della cucina o del salotto in modo più o meno casuale, aveva contempla169
to di nascosto dietro le tende il suo nuovo vicino di casa? Una scrittrice aveva bisogno di stimoli, di modelli per i suoi personaggi e senza rendersene conto aveva scelto Jack Lewis come protagonista di Cuori nel vento. L'unica, vera bizzarria di quella faccenda era il fatto che Jack Lewis e il suo eroe immaginario avevano lo stesso nome. Potrei scrivere il prossimo romanzo su due piani temporali diversi... Mmh, niente male come idea, si congratulò Tara con se stessa. Una trovata estremamente originale, avrebbe scritto Lilian. L'ennesimo polpettone, con la pretesa di essere originale, sarebbe stato il commento di Bigby. Comunque fosse, evidentemente anche in un piccolo centro come Ross's Point, le fonti di ispirazione non mancavano, concluse, uscendo di casa. Non appena entrò nel negozio di alimentari, nonché ufficio postale di Ross's Point, si accorse subito che Jack Lewis non era stato fonte di ispirazione solo per lei. «Ho saputo con assoluta certezza che il signor Lewis è architetto e non è sposato» dichiarò Geraldine Donnelly in tono giulivo. Tara finse di cercare una lattina della sua marca preferita di bibita dietetica, e attese la risposta di Edith McHughes. «Alla sua età un uomo dovrebbe essere sposato» asserì la donna. «Non sarà per caso gay?» replicò Geraldine con espressione smarrita. Per poco a Tara non sfuggì di mano la lattina. 170
Jack Lewis gay? Mai visto un uomo che le ricordasse meno quella speciale categoria. «Sciocchezze» ribatté Edith. «Non aver fretta di sposarsi non significa che ci sia qualcosa di strano.» «Non è naturale» insistette Geraldine. «Per quale ragione un bell'uomo come lui non è ancora sposato?» «Ce ne possono essere tante. Una delusione sentimentale, magari...» «Oh, in questo caso il rimedio è molto semplice» dichiarò l'altra allegramente. «Potremmo fargli conoscere Philomena. Non è sposata e abita ad appena due miglia da qui.» Ed è almeno venti chili sovrappeso, aggiunse Tara in cuor suo. Sheila Mitchell, titolare del negozio e quasi coetanea di Tara, sorrise con indulgenza alle sue anziane clienti. «Sono convinta che il signor Lewis sia perfettamente in grado di cercarsi una ragazza da solo» dichiarò. «E se fosse timido?» ipotizzò Geraldine, un'inguaribile romantica, una delle più assidue lettrici di Tara. Non è affatto timido, pensò Tara, rammentando i commenti, al limite della sfacciataggine, che Jack Lewis aveva fatto riguardo al suo abbigliamento e al suo stile di vita tranquillo. «Potremmo dargli il numero di telefono di Fiona» continuò Geraldine, il cui sport preferito era quello di combinare appuntamenti al buio a tutti i membri single della sua parentela. «Dubito che Fiona gradirebbe l'iniziativa» sentenziò Edith. 171
Pagina
Romanzo
Un vicino tutto da scoprire
1 Lo stava facendo di nuovo. Da quando Sophie Messina si era trasferita in quell'appartamento, l'inquilino del piano soprastante non aveva mai smesso di martellare, segare, sbattere e Dio sa che cos'altro. Tutto quel frastuono le impediva di concentrarsi. Non si rendeva conto, quel bifolco, che nei fine settimana la gente voleva godersi un po' di quiete? Sospirando, cercò di non ascoltare. Allen Brekinridge, uno dei dirigenti, aveva annunciato il pomeriggio precedente che per la riunione di martedÏ avrebbe avuto bisogno del contratto per una fusione: questo significava che lei doveva correggere immediatamente le bozze che la sua piÚ giovane analista le aveva mandato quel mattino e siccome nessuna di queste poteva diventare un documento definitivo senza che lo avesse riletto e controllato almeno quattro volte, era necessario che si sbrigasse ad apportarvi delle eventuali correzioni. Molti analisti sarebbero stati tentati di aggiungere dei commenti dettagliati solo per dimostrare la loro competenza, ma Sophie preferiva l'efficienza. L'ultima cosa che desiderava era passare per una che ral319
lentava il lavoro. Soprattutto perché il suo obiettivo era fare carriera, diventare dirigente lei stessa. Bum! Per tutti i diavoli, che cosa stava facendo quell'uomo lassù? Dei buchi nel muro? Togliendosi gli occhiali da vista, Sophie li buttò sul tavolo. Era una situazione assurda. Gli aveva infilato sotto la porta decine di biglietti, pregandolo d'interrompere quello che stava facendo. Dapprima con gentilezza, poi minacciando una denuncia alla riunione condominiale, ma lui sembrava averli ignorati completamente. Ebbene, adesso avrebbe smesso di fare tutto quel baccano. Buttandosi dietro le spalle la coda di cavallo bionda, si recò nell'atrio del palazzo che, prima di essere ristrutturato e diviso in appartamenti, era stato un'imponente dimora signorile. Gli architetti avevano deciso di lasciare le zone comuni e l'appartamento di Sophie il più possibile uguale all'originale tanto che dal soffitto dell'ingresso pendeva ancora un grande lampadario di cristallo. Sophie amava lo stile e il gusto del Ventesimo secolo. Tutto in quel palazzo ricordava il Vecchio Mondo, la storia e quindi dava un senso di stabilità che le piaceva molto. Amava anche la tranquillità, cosa che le era mancata nell'ultimo mese. Mentre saliva la scala, sentì che a ogni gradino il fracasso aumentava. Era proprio necessario che quel tipo facesse tutto quel rumore? Non era così che aveva previsto la sua prima conversazione con lui. Anzi, a essere sinceri, non aveva previsto alcuna conversazione. Uno dei motivi per 320
cui vent'anni prima si era stabilita in città era che potevano passare mesi, perfino anni, senza scambiare più di un saluto con chi ti stava intorno. Non che fosse un'asociale. Solo preferiva scegliere con chi socializzare. Aveva anche troppo da fare per perdere tempo in frivolezze. Conosceva il nome dell'inquilino del piano superiore solo perché la cassetta delle lettere del signor Templeton era vicina alla sua. Aveva poi visto lo stesso nome sulla fiancata di un furgone parcheggiato fuori. Doveva essere un appaltatore. Ma che cosa stava facendo adesso? Demoliva lo stabile? Di colpo a Sophie tornarono alla mente i danni e le distruzioni compiute da uomini ubriachi e violenti. Aveva comprato quell'appartamento per dimenticare quei giorni, non per ricordarli. Alla sua età non avrebbe più voluto essere perseguitata dai fantasmi del passato. Eppure quelle ombre non scomparivano mai del tutto. Sentiva che la spiavano, la controllavano. In un certo senso la loro persistenza l'aiutava a concentrarsi sul lavoro. Diversamente, invece di essere riuscita a comprarsi un appartamento che aveva immaginato tranquillo, sarebbe stata ancora in un misero buco infestato dagli scarafaggi, come quello di Pond Street in cui era cresciuta. Quando raggiunse il secondo piano ebbe l'impressione che ogni colpo si riverberasse sulla sua spina dorsale, accrescendo la sua irritazione. Poco ma sicuro, il signor Templeton avrebbe ricevuto una tirata d'orecchi. Imponendosi un atteggiamento autorevole, bussò alla porta. La risposta fu un altro colpo. 321
Magnifico, pensò, bussando ancora più forte. «Signor Templeton!» strepitò. «Un momento. Sto arrivando.» Era ora. Incrociando le braccia sul petto, Sophie si preparò a ricordare al signor Templeton che esistevano degli altri condomini e che bisognava rispettare la loro tranquillità. La porta si aprì. Dio del cielo! L'aspra ramanzina le morì sulle labbra. Sulla soglia era apparso l'uomo più sensuale del mondo. Non lo si poteva definire bello, rivolto a lui quello sembrava un termine riduttivo. Quell'uomo abbronzato e con la mascella quadrata, aveva un aspetto rude, una sensualità aggressiva. Un naso un po' più lungo rispetto ai canoni di bellezza impediva al suo viso di essere perfetto e gli dava personalità. Gli uomini forti devono avere dei tratti forti. I suoi capelli avevano il colore del miele scuro e gli occhi le ricordavano lo zucchero caramellato. Per non parlare del torace che sembrava fatto apposta per posarvi sopra le mani. Doveva avere almeno dieci anni meno di lei e teneva in mano un martello, di sicuro la causa del gran baccano che stava facendo. Fu quello a far tornare Sophie sulla terra. Sollevando il mento, si preparò a dirgliene quattro. «Signor Templeton?» ripeté, tanto per essere sicura. I suoi caldi occhi la percorsero dalla testa ai piedi. «Chi vuole saperlo?» Se credeva che il suo sguardo sfrontato la innervosisse, si sbagliava. Era ormai dai tempi del diploma che aveva imparato a ignorare le occhiate assas322
sine. Forse nessuna era stata arrogante quanto questa, ma non importava. «Sono Sophie Messina, del piano di sotto.» Lui annuì. «La signora che mi ha scritto dei biglietti. Che cosa posso fare per lei, signora Messina?» «Signorina» lo corresse Sophie pur non comprendendo il motivo di quella precisazione. Lui posò il martello e incrociò le braccia sul petto. «Va bene. Che cosa posso fare per lei, signorina Messina?» Sophie era certa che lo sapesse benissimo. «Ultimamente ha fatto molto baccano.» «Sto ristrutturando il bagno principale per installare una vasca con i piedi a zampa di leone.» «Interessante» commentò lei, pensando che una vecchia vasca con i piedi a zampa di leone non si addiceva a un tipo così rude. «Ebbene» aggiunse, lisciandosi i capelli per darsi un contegno, «io sto preparando un modulo finanziario da presentare a un potenziale acquirente.» L'uomo strinse le labbra che avevano una linea perfetta. «Ha detto modulo finanziario?» «Sì. Sono un'analista del settore investimenti. Lavoro per la Twamley Greenwood.» «Buon per lei» commentò l'uomo, per nulla impressionato. «Che cosa vorrebbe che facessi?» Non era ovvio? Meno rumore. «Mi domando se non potrebbe fare più piano. I colpi che vibra m'impediscono di concentrarmi.» «È un po' difficile dare delle martellate sommesse» replicò lui con calma. «Per sua natura martellare è un'attività rumorosa.» 323
Sophie digrignò i denti. Conosceva quel tono condiscendente. Lui non la stava prendendo assolutamente sul serio. «Senta» esordì, raddrizzandosi in tutta la sua altezza. Sforzo vano visto che lui la sovrastava di oltre una spanna. «Le ho chiesto diverse volte se può fare meno rumore.» «No. Lei ha infilato dei biglietti sotto la mia porta esigendo che cessassi di fare rumore. Non mi ha chiesto proprio niente.» «Bene. Glielo chiedo adesso. Per favore, può fare meno rumore?» «Spiacente.» Lui scosse la testa. «Non posso.» «No?» «Gliel'ho spiegato. Sto rifacendo il bagno. Ha idea di che cosa significhi?» «Sì» rispose lei, immaginando i suoi bicipiti al lavoro. «È sicura? Perché altrimenti sarei lieto di offrirle una dimostrazione. Forse le piacerebbe dare lei stessa qualche martellata.» «Io... io...» Stava flirtando con lei? La sua audacia le tolse il respiro, come pure lo spettacolo delle sue braccia muscolose. Inspirando, tentò di nuovo con maggiore fermezza. «Senta, signor Templeton, ho molto lavoro da sbrigare...» «Anch'io» la interruppe lui, gonfiando i bicipiti, forse per distrarla. «È sabato pomeriggio, non notte fonda e credo che ristrutturare il mio appartamento durante i fine settimana sia accettabile. Se il rumore le dà troppo fastidio, le suggerisco di portare altrove i suoi moduli.» 324
Il punto non era quello. Sì, Sophie aveva un ampio e comodo ufficio in cui avrebbe potuto lavorare, ma non voleva andare a Manhattan. Che vantaggio offriva avere la propria casa se bisognava sottostare alle esigenze altrui? Tra l'altro aveva sborsato un sacco di soldi per quel posto. Se voleva lavorare a casa, accidenti, doveva poterlo fare. Come era riuscito quel tipo a comprare un appartamento in quella zona? Lei aveva impiegato venti anni per mettere da parte il denaro necessario. Forse lui non si faceva problemi ad avere dei debiti. Oppure era un milionario mascherato. Ma in quel caso perché avrebbe ristrutturato il bagno da solo durante i fine settimana? Comunque fosse, non le importava. Voleva solo tornare a lavorare. «Potrei concordare se si trattasse di un pomeriggio, ma questa situazione va avanti da tutto il mese.» «Che cosa posso dire?» ribatté lui, stringendosi nelle spalle. «Il lavoro da fare è molto.» Ignorava volutamente il problema. Forse avrebbe ottenuto un miglior risultato se si fosse presentata in abbigliamento professionale, pensò Sophie. La gonna di cotone e la polo non le conferivano un'aria autorevole, ma al contrario le davano l'aspetto di una ragazza. Tentando di reagire, sollevò il mento e assunse quel tono che, perfezionato nel corso degli anni, non ammetteva replica. «E gli altri inquilini? Che cosa pensano delle sue ristrutturazioni?» Il signor Templeton tornò a scrollare le spalle. «Finora nessuno si è lamentato.» 325
«Davvero?» «Lei è la sola.» Sophie si lisciò la coda di cavallo. Era ora di fargli capire che non scherzava. «Forse, quando esporrò questo problema durante la riunione condominiale, sentirà qualche altra opinione in merito.» «Oh, è vero. Mi ero dimenticato che nell'ultimo biglietto minacciava di parlarne con l'amministratore.» «Mi fa piacere sapere che almeno li ha letti. Immagino che lei non desideri arrivare a questo punto.» «Infatti, ma le faccio presente che sono io l'amministratore del condominio. Gli altri proprietari non avevano voglia di occuparsi del mantenimento dello stabile e di altre beghe e hanno affidato a me il mandato.» Parlando, abbassò le braccia e infilò una mano in tasca. «Ripensandoci, è probabile che sia questa la ragione per cui non protestano.» «Incredibile» commentò lei a denti stretti. «Non tanto, perché si dà il caso che io sia la persona più adatta a svolgere questo compito. Adesso, se vuole scusarmi, devo staccare delle mattonelle» concluse, facendo per chiudere la porta. «Aspetti!» intimò lei, infilando un piede tra stipite e battente. «Che cosa dovrei fare io in attesa che lei finisca i lavori?» «Il negozio all'angolo vende delle cuffie per le orecchie. Fossi in lei le proverei.» Sophie fece appena in tempo a ritirare il piede che lui sbatté la porta. La domenica notte Sophie lavorò fino all'una per 326
revisionare il lavoro fatto e spedirlo via mail al signor Brekinridge. Una volta a letto, per quanto tentasse, non riuscì a dormire. I mercati d'oltreoceano stavano aprendo e lei doveva essere al corrente di quello che succedeva. Non voleva essere colta impreparata. Essere sempre ineccepibile era un suo vanto, così come essere efficiente e determinata. Chi vuole avanzare nella carriera deve impegnarsi molto e lei lo desiderava veramente. Voleva andare tanto avanti da far diventare dei fantasmi Pond Street e il passato. Una volta che ci fosse riuscita, avrebbe dormito finché voleva. Era già a metà strada e se le voci di corridoio che sostenevano che Raymond Twamley era deciso a ritirarsi erano attendibili, il resto del percorso sarebbe stato breve e lei sarebbe giunta alla meta due anni prima del previsto. Nel frattempo si sarebbe tenuta su a forza di caffè. Arrivata in ufficio, si riempì una tazza e mentre guardava quel liquido caldo, le venne in mente che gli occhi del suo vicino avevano avuto lo stesso colore caramellato. Non che le importasse. Quel bifolco le aveva sbattuto la porta in faccia. Che cafone! «Leggi le foglie del tè?» Sophie non ebbe bisogno di alzare la testa per sapere chi le avesse rivolto quelle parole. Benché avesse sempre mantenuto una certa distanza dai colleghi, David Harrington faceva eccezione. Membro del dipartimento legale, si erano conosciuti durante una festa di Natale di alcuni anni prima. «Sto cercando di assorbire la caffeina attraverso gli occhi» borbottò. «È ovvio che non succederà» affermò lui. 327
La tendenza di David di prendere tutto alla lettera di solito la divertiva, ma quel mattino era stanca e nervosa. Le sarebbe servito un litro di caffè per riuscire a dimostrarsi gradevole fino al termine della giornata. L'avvocato Harrington, un distinto signore dai capelli argentei, si sedette sull'angolo della scrivania. Come sempre aveva un aspetto ineccepibile. Non doveva affannarsi per sembrare un professionista. Lo era. «Sono passato per vedere come stai. Sabato, quando hai disdetto il nostro appuntamento, mi sei sembrata molto nervosa» spiegò lui. Sophie si sentì in colpa. «Mi dispiace» disse. «Allen ci ha costretto a lavorare per tutto il fine settimana. Non ho avuto quasi il tempo di respirare.» David agitò una mano. «Dimenticalo. So bene quanto sia esigente Allen. Andremo in quel ristorante un'altra volta.» «Ti ringrazio per la tua comprensione» replicò lei con sincerità. La sua disponibilità a capire sempre tutto era la dote che più apprezzava in lui. Ma David era anche ambizioso, imperturbabile e molto poco complicato. Non era l'uomo più stimolante del mondo e il loro rapporto non avrebbe ispirato delle poesie d'amore, ma era il tipo che avrebbe scelto quando fosse venuto il momento di allacciare una relazione a lungo termine. «Sarei stata una pessima compagnia anche senza le richieste di Allen. Sto avendo dei problemi con un condomino» lo informò. «Ricordi le martellate?» In fretta gli fece un resoconto della conversazione avuta con Grant Templeton, ma per ovvie ragioni non 328
accennò ai suoi bicipiti e ai suoi ammiccamenti. Come si aspettava, David manifestò la giusta indignazione. «Ti ha chiuso la porta in faccia? Senza nemmeno salutarti?» «È ovvio che gli sembrava d'aver detto tutto quello che c'era da dire.» «A me pare che abbia voluto evitare una discussione. Non penso che tu sia stata la sola a lamentarti.» «Lui dice di sì.» «Sciocchezze. Scommetto che alla prossima riunione condominiale le lamentele si sprecheranno.» «Ne dubito. È saltato fuori che l'amministratore del condominio è lui. Gli altri proprietari non vogliono irritarlo» spiegò lei. «Pare che sarò costretta a sorbirmi le sue martellate finché avrà finito di ristrutturare.» «Che cosa sta facendo?» Sophie scrollò le spalle. «Questa settimana rifà il bagno.» Davanti agli occhi le passò l'immagine della vasca con i piedi a zampa di leone e subito dopo quella dei bicipiti in azione. In fretta bevve un sorso di caffè. «Qualunque cosa facesse, il fracasso è continuato per tutto il pomeriggio. Poi ha passato la domenica a portare via i detriti, facendo il massimo rumore possibile nel buttarli fuori dalla porta.» E ogni volta lei aveva avuto un sobbalzo e si era distratta. «Povera piccola. Non mi meraviglia che tu sia agitata. Dovevi sfogarti con me quando ti ho telefonato. Anzi, saresti potuta venire a casa mia.» «Lo terrò a mente per la prossima volta» rispose lei, sapendo che non l'avrebbe fatto. Perché erano 329
tutti ansiosi di farla spostare? Perché non capivano che desiderava passare i fine settimana in casa sua? Tra l'altro il rapporto tra lei e David funzionava così com'era. Non era disposta a complicare la situazione trascorrendo i fine settimana da lui. In quel momento apparve Allen Brekinridge, e Sophie deglutì il sorso di caffè. Come sempre il direttore generale aveva un fiuto particolare per comparire nei momenti meno opportuni. «Buongiorno Allen» lo salutò David. Lui non sobbalzava mai. «Hai passato un buon fine settimana?» «Non male. Jocelyn e io siamo stati negli Hamptons» rispose Allen. «A proposito di quel rapporto...» «È pronto» rispose Sophie, porgendogli una copia. Se gli avesse fatto notare che durante la notte gli aveva spedito la relazione via mail, la sua risposta sarebbe stata: come vedi, non sono al computer. «Grazie.» Il direttore prese la copia e lanciò un'occhiata inquisitoria a David. «Stavo per tornare nel mio ufficio» affermò l'avvocato, mettendosi in piedi. «Sophie, se desideri un ulteriore controllo sulle notizie che hai raccolto, fammelo sapere.» «D'accordo.» In silenzio lei aggiunse un ringraziamento. Un altro punto a favore di David era la sua discrezione. Capiva il suo desiderio di tenere nascosta la loro relazione. Allen stava guardando il risultato della ricerca e benché l'avesse controllato almeno quattro volte, Sophie trattenne il respiro. L'atteggiamento di quell'uomo era sempre così severo da farle temere di a330
ver combinato un pasticcio. Per mascherare il proprio nervosismo, sfogliò le pagine della sua copia. «Ho anche controllato le cifre previste, come mi aveva chiesto.» «Non pensi più a questi moduli» replicò lui, buttando la relazione sulla scrivania come se fosse un promemoria insignificante. «Ho un nuovo progetto per lei. La Franklin Technologies ha in programma un IPO, vale a dire un'offerta al pubblico, per la prima volta, di proprie azioni quotate in borsa. Ho bisogno di un'analisi per la riunione che si terrà a Boston domani pomeriggio.» «Non c'è problema» assicurò Sophie. Insieme al suo staff avrebbero potuto concentrare in poche ore il lavoro di due giorni. Ma avrebbe avuto bisogno di molto caffè. Purtroppo il caffè non bastò. Appena Allen fu andato via, Sophie si mise a correre per l'ufficio disorientata. Ogni cinque minuti qualcuno le chiedeva qualcosa. Saltò il pranzo e la cena. Ingoiò una capsula di proteine e due aspirine, sperando che le facessero passare il mal di testa e la tensione al collo. Finalmente lasciò l'ufficio e si dedicò alla sua corsa serale sul tapis roulant, pensando che tre quarti d'ora di esercizio fisico avrebbero aumentato le endorfine e di conseguenza migliorato il suo umore. Sbagliato. L'unico effetto della corsa fu quello di ritrovarsi sudata fradicia. Ma che cosa diavolo era successo all'impianto d'aria condizionata della palestra? «Ehi, dove sta andando?» le gridò qualcuno mentre si recava negli spogliatoi per fare una doccia. 331
LA VOLONTÀ DEL MILIONARIO di S. Craven - C. Williams - C. Shaw
IL FIDANZATO IDEALE di A. James - T. Wylie - B. Wallace
L'AMMIRATORE SEGRETO di I. Grey - H. Brooks - R. Donald Non importa quanto a lungo dovrò aspettarti perché un giorno sarai mia.
e
COME SPOSARE IL CAPO di J. Adams - R. Winters - M. Lennox Se innamorarsi del proprio capo è un grosso rischio... non farlo sarebbe un gigantesco errore.
Dal 22 marzo all'eccezionale prezzo di 6,50 euro ciascuna
Questo volume è stato stampato nel dicembre 2017 da CPI, Barcelona