LAURI ROBINSON
Il finto matrimonio di Jane Dryer
Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The Flapper's Scandalous Elopement Harlequin Mills & Boon Historical Romance © 2020 Lauri Robinson Traduzione di Marianna Mattei Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. Harmony è un marchio registrato di proprietà HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved. © 2021 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione I Grandi Romanzi Storici dicembre 2021 Questo volume è stato stampato nel novembre 2021 da CPI Black Print, Spagna, utilizzando elettricità rinnovabile al 100% I GRANDI ROMANZI STORICI ISSN 1122 - 5410 Periodico settimanale n. 1285 dello 09/12/2021 Direttore responsabile: Sabrina Annoni Registrazione Tribunale di Milano n. 75 dello 01/02/1992 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distribuzione canale Edicole Italia: m-dis Distribuzione Media S.p.A. Via Carlo Cazzaniga, 19 - 20132 Milano HarperCollins Italia S.p.A. Viale Monte Nero 84 - 20135 Milano
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1928 Il Rooster's Nest era noioso come una vecchietta intenta a sferruzzare. Non c'erano gruppetti di uomini eleganti, né di donne che ridevano, chiacchieravano e facevano la fila per andare a incipriarsi il viso. Non c'erano operai in abiti da lavoro fermi davanti al bancone a raccontarsi sempre le stesse storie, ridendone come se le ascoltassero per la prima volta. Non c'erano coppie che danzando guancia a guancia riempivano la pista da ballo, circondata da sfavillanti luci colorate. Normalmente a quell'ora Jane Dryer si sarebbe scatenata al centro della pista, invece quella sera sedeva al bar e si accontentava di battere il tempo con il piede, sorseggiando un cocktail a base di succo di frutta. Con un gran sospiro, rigirò il bicchiere sul ripiano di legno verniciato del bancone e lasciò nuovamente vagare lo sguardo per il locale, sperando di individuare qualche faccia nuova. Ma così non fu. I tavoli erano occupati dalle solite due coppie. Una, formata da una donna dai ca5
pelli rossi e un uomo col cappello di tweed, stava litigando, e l'altra, intenta a parlare fitto fitto, aveva un'aria losca, tanto che avrebbe potuto trattarsi di un malavitoso con la sua pupa. Gli altri tavoli e gli sgabelli all'estremità opposta del bancone erano occupati da tizi venuti lì per bere, non certo per ballare e divertirsi. Magari, se Jane li avesse invitati, avrebbero anche accettato, ma con gli avambracci sporchi rivelati dalle loro maniche arrotolate erano ben lontani dal suo ideale di compagno di ballo. Sotto quel punto di vista, Jane aveva delle regole severe. A dire il vero, era stata sua sorella Betty a fissare delle regole, che tutte e tre dovevano rispettare durante le loro uscite notturne. Regole che riguardavano non solo gli uomini con cui ballare, ma anche cosa bere per non rischiare la cecità e quali speakeasy frequentare per non finire in una retata. Il problema era che quel tutte e tre ormai non esisteva più. Per molto tempo, quasi ogni sera Jane e le sue sorelle, Betty e Patsy, avevano indossato gli abiti da flapper che loro stesse avevano cucito in gran segreto, per poi calarsi dalla finestra del bagno e recarsi nei famigerati locali clandestini della città, noti appunto come speakeasy. Ormai parecchio tempo addietro, era stata proprio Jane ad avere l'idea di uscire di nascosto la sera, di evadere dalla casa in cui erano praticamente segregate dal padre. Pur essendo tutte e tre adulte – Jane aveva ventuno anni, Patsy venti e Betty ventidue – venivano trattate come bambinette di cinque, con l'ordine tassativo di andare a letto entro le sette e mezza di sera. Dopo aver trovato la libertà sgattaiolando fuori di nascosto, Betty aveva 6
imposto delle regole da seguire alla lettera per evitare di farsi scoprire. Cosa che non era mai successa. Ma ormai poco importava, perché le sorelle di Jane non partecipavano più a quelle scorribande notturne. Si erano entrambe maritate. Tre mesi prima Patsy aveva sposato Lane Cox, proprietario della Los Angeles Gazette, nonché miglior giornalista della California. Adesso anche Patsy faceva la giornalista e adorava la sua nuova vita. Un mese dopo Betty aveva sposato Henry Randall, un agente dell'FBI. Aspettavano un figlio per il maggio successivo, ossia di lì a sei mesi. Betty rifulgeva di gioia. Era sempre stata una mamma chioccia e stava già cucendo il corredino del nascituro. Al pensiero Jane sorrise. Betty sarebbe stata una madre meravigliosa, e Jane era felice per lei e per Patsy. Ma era anche terribilmente annoiata. E quel posto, quella sera, aumentava a dismisura la sua noia. «Serata piatta.» La lunga frangia che ornava l'orlo dell'abito viola di Jane le carezzò i polpacci quando lei si girò sullo sgabello per guardarsi alle spalle e vedere chi aveva parlato. Poi gettò un'occhiata al pianoforte e notò che la panca era vuota. Era stata talmente oppressa dalla noia da non accorgersi nemmeno che la musica era cessata. Il pianista afferrò al volo il bicchiere che il barista, quella sera fiacco come il resto del locale, gli aveva fatto scivolare lungo il bancone. Jane tornò a girarsi sullo sgabello in modo da tenere lo sguardo dritto davanti a sé e bevve un altro sorso della sua bibita. In passato aveva familia7
rizzato con i pianisti, si era persino seduta accanto a loro sulla panca davanti al piano, ma ora si guardava bene dal farlo. Dei pianisti era meglio non fidarsi. «Non balla nessuno» seguitò l'uomo. «Nemmeno voi state ballando.» «Non c'è nessuno con cui ballare» rispose Jane senza voltarsi. Sapeva perfettamente che aspetto avesse: quando sorrideva gli compariva una fossetta nella guancia e, prima di mettersi a suonare, si arrotolava sempre le maniche fino ai gomiti. «Che mi dite di quel tizio?» Jane non aveva bisogno di guardare per sapere che lui si riferiva al tipo seduto al tavolo vicino all'ingresso. Scosse la testa. «Perché no?» «Lavora al porto.» Non si era mai trattenuta a parlare con quel particolare pianista perché, dopo il suo predecessore, si era imposta una regola. Basta pianisti, per quanto attraenti e ben vestiti fossero. Quello in particolare suonava lì solo di tanto in tanto – un paio di sere la settimana – e solo da un paio di mesi. «Cosa importa dove lavori? È solo un ballo.» Jane alzò il bicchiere e bevve un sorso. «Provate a stargli vicino per un po'.» Lui rise. «È così terribile?» «È come ballare con uno scorfano morto» rispose rabbrividendo al ricordo dell'unica volta in cui aveva ballato con quel tizio. L'odore di pesce marcio le aveva appestato le narici per ore. Il pianista ridacchiò di nuovo, poi depose il bicchiere sul tavolo con un colpo sordo. «Per stasera ho finito, Murray.» 8
«D'accordo, Dave» gli rispose Murray, il barista. «A domani sera.» «A domani» disse l'uomo, poi diede a Jane un buffetto sulla spalla. «Buona serata.» Pur continuando a evitare di guardarlo, lei annuì. «Domani sera ci sarete?» Jane fece spallucce. Non rivelava a nessuno i propri piani: un'altra regola di Betty che Jane non aveva smesso di osservare. In generale erano regole condivisibili e, visto che il marito di Betty era un agente federale, Jane era perfettamente informata dei pericoli e delle conseguenze che potevano derivare dalla loro violazione. «Speriamo solo che l'atmosfera sia un po' più vivace» osservò il pianista. Lei lo guardò andare via da sotto la tesa del cappellino. Lui era un gran bel tipo, con capelli castani ondulati e occhi verdi scintillanti, sempre vestito in modo impeccabile, dal colletto della camicia a righe bianche e nere fino alla punta delle scarpe stringate con il classico motivo a coda di rondine, anch'esse bianche e nere. In più sapeva davvero far volare le dita sui tasti, a Jane non era sfuggito. Era una patita di musica e negli speakeasy passava ore a osservare i musicisti. Il pianoforte era il suo strumento preferito e sarebbe potuta restare ad ascoltarlo tutto il giorno e tutti i giorni. Ecco perché in passato aveva fraternizzato con i pianisti, finché uno di loro era diventato possessivo e un altro aveva provato a metterle le mani addosso. «Un altro giro?» le propose Murray. Jane scosse il capo e tornò a girarsi verso il bar. «No.» Era inutile trattenersi oltre. 9
Murray batté due volte la mano sulla superficie di legno del bancone. Jane non sapeva perché lo facesse, ma era una sua abitudine: invece di annuire o rispondere, batteva la mano sul banco. Anche le sere in cui quel posto scoppiava di gente. Jane avrebbe fatto meglio ad andarsene mentre la musica suonava ancora, perché così si sarebbero notati meno i suoi spostamenti. Poiché il locale era quasi vuoto, qualcuno poteva vederla scivolare di soppiatto dietro la tenda che, appesa alla parete di fondo, celava una porta che conduceva nel retrobottega e per Jane fungeva anche da via d'uscita. Una volta era quasi stata scoperta e da allora era molto attenta, quando si intrufolava sotto la tenda. Passarono dieci minuti buoni prima che Murray si allontanasse per andare in bagno. Jane si alzò e, dopo aver passato in rassegna la sala per controllare che nessuno la guardasse, si avvicinò al pianoforte e, nel passargli accanto, ne carezzò la superficie levigata. Dopo essersi gettata attorno un'altra occhiata guardinga, raggiunse di corsa la parete e s'infilò dietro la tenda. Il più silenziosamente possibile, aprì la porta del retrobottega, entrò e la richiuse. Quindi superò correndo le casse e i ripiani pieni di bottiglie e, giunta alla parete di fondo, spostò lo scaffale dal muro fino a rivelare la porta nascosta dietro di esso. A quanto ne sapeva, nessuno conosceva l'esistenza di quel passaggio, nemmeno Murray. Dopo aver riposizionato lo scaffale, Jane accese la torcia e richiuse a chiave dietro di sé la porta. Aveva promesso a Betty e a Henry di non lasciarla mai aperta, e avrebbe mantenuto la parola. La galleria arrivava fino al seminterrato dei due novelli 10
sposi. Parecchi anni prima quella villa era stata costruita da un boss della malavita e poi confiscata dal governo in una retata. Betty e Henry l'avevano comprata dopo che si erano sposati. Il padre di Jane aveva provato ad acquistarla un sacco di volte, dunque si era chiesto come mai Henry ci fosse riuscito al primo colpo. Semplice: perché Henry lavorava per il governo! Non ci voleva tanto per arrivarci. Invece, William Dryer non si capacitava di non essere riuscito a comprarsi quella proprietà. Ecco le uniche cose a cui teneva il padre di Jane: le case e i soldi. Soprattutto i soldi. Aveva ereditato parecchi terreni dal nonno e dal padre e lì, nell'area collinare nota come Hollywood, aveva creato un quartiere residenziale, dove solo i più ricchi e famosi potevano permettersi di abitare. William Dryer era talmente ossessionato dai soldi, e dal terrore di perderli, che aveva redatto una lista di uomini facoltosi a cui dare in sposa le proprie figlie. Uomini che aveva cercato di imporre con la forza a Patsy e Betty. Betty aveva quasi sposato James Bauer, uno dei nomi su quella lista. Ma proprio all'ultimo Henry era entrato in chiesa e si era opposto alle nozze. Era stato un evento sbalorditivo e Jane era felicissima che, quello stesso giorno, sua sorella avesse sposato Henry, anziché James. Ma era anche terrorizzata, perché sapeva che ciò che era capitato a Betty – essere costretta a sposare uno sconosciuto solo perché costui era ricco – presto sarebbe toccato a lei. Era il suo destino. Anche Lane rientrava nella lista dei potenziali mariti, ma per fortuna Patsy si era innamorata di 11
lui prima che si fidanzassero. Jane aveva sperato che quello fosse il primo passo verso il cambiamento e la possibilità per lei e Betty di sposare un uomo scelto da loro. Ma non era andata così. Poche ore dopo le nozze di Patsy e Lane, suo padre aveva ordinato a Betty di sposare James. Il sospiro che le sfuggì di bocca echeggiò forte nella galleria buia e subito lei fece saettare tutt'attorno il fascio di luce della torcia per accertarsi di non aver disturbato qualche occupante peloso o alato di quel passaggio stretto e umido. Anche se non ne aveva mai incontrati, temeva che ve ne fossero e che la fissassero con occhietti attenti mentre, di sera in sera, percorreva il corridoio nelle due direzioni opposte. Era una sensazione inquietante, ma non le avrebbe impedito di tornare la sera successiva. Tanto non aveva di meglio da fare. Adesso che le sue sorelle erano sposate e avevano lasciato la casa paterna, Jane non aveva nessuno con cui parlare, nessuno con cui ridere, nessuno che, semplicemente, le tenesse compagnia. O che cucinasse, spolverasse, facesse il bucato o pulisse con lei le ville che suo padre aveva appena finito di costruire sulle colline di Santa Monica, vicino agli studi cinematografici, che andavano spuntando come funghi. Ecco come si arricchiva il loro padre. E quella ricchezza non voleva condividerla con nessuno. Jane non intendeva lamentarsi: la sua era pura e semplice frustrazione. Suo padre aveva provveduto egregiamente alla famiglia. Avevano una splendida casa, cibo in abbondanza, vestiti e ogni altra comodità, ma lui voleva che le figlie sposassero uomini ricchi, così, una volta uscite di casa, non a12
vrebbero avuto bisogno del suo. Era quello il nocciolo della questione. William Dryer teneva più ai soldi che alla famiglia, e a tale riguardo Jane non poteva fare proprio nulla. Sarebbe finita in moglie a un uomo solo perché quest'ultimo era ricco, e quel pensiero le procurava il voltastomaco. Diversamente da Patsy, Jane non aveva conosciuto nessuno capace di smuovere in lei sentimenti come quelli che sua sorella provava per Lane. Tanto meno aveva incontrato qualcuno disposto a opporsi al suo matrimonio con un altro uomo come aveva fatto Henry per Betty. E come avrebbe potuto, dal momento che suo padre non le permetteva di andare da nessuna parte? Era condannata. Peggio: era senza speranza. Betty e Patsy erano sposate e, per quanto restassero sempre le sue sorelle e si volessero un gran bene, ormai erano andate per la loro strada, e lei si sentiva abbandonata. Il soffitto rivestito di legno tremò, avvisandola di essere giunta nel tratto sotto la strada che dal Rooster's Nest portava a casa di Betty. La galleria si snodava per più di dieci isolati e certe sere le venivano i brividi al pensiero che potesse cedere e crollarle addosso. Ma andare a piedi o in tram le metteva ancor più paura. Niente invece la spaventava quando erano ancora in tre. Avevano sempre raggiunto i vari locali che frequentavano a piedi o in tram. Da quando Jane era rimasta l'unica a uscire di nascosto, aveva provato a frequentare qualche altro speakeasy, ma ben presto si era resa conto che aggirarsi da sola per le strade buie non le piaceva affatto. Né le pia13
ceva prendere il tram senza compagnia. D'altro canto, non era neppure entusiasta di dover percorrere quella galleria da sola. Coprì l'ultimo tratto di corsa e, raggiunto il seminterrato della casa di Betty, si chiuse la porta alle spalle tirando il catenaccio. Dopo aver ripreso fiato, appese le chiavi al solito gancio, salì al piano superiore e uscì dalla porta della cucina. Henry l'aveva dotata di una serratura speciale, che si chiudeva senza bisogno di chiave. Così Jane non doveva fare altro che uscire e tirarsi dietro la porta, visto che a quell'ora Betty e Henry dormivano, o comunque erano già a letto al piano superiore. La loro proprietà era poco distante da casa Dryer. Ma quel percorso era comunque buio e solitario, e il fruscio del vento fra i rami faceva sobbalzare Jane di continuo. E poi l'aria della notte era fredda, così Jane compì anche quel tratto correndo fra gli alberi e attraverso il cortile sul retro di casa sua. Infine si aggrappò al graticcio ricoperto di edera, si arrampicò fino al primo piano e passò per la finestra del bagno, che aveva lasciato aperta. Arrivata nella sua stanza, si tolse rapidamente gli abiti da flapper, li nascose nel baule in fondo al guardaroba e si infilò a letto. Soltanto allora si concesse di esalare un sospiro di sollievo per essere di nuovo riuscita a rincasare senza farsi sorprendere. Mentre fissava le ombre proiettate dalla luna sul soffitto della camera, Jane si domandò se sposare uno sconosciuto non fosse preferibile a quella vita, così solitaria ora che le sue sorelle non ne facevano più parte. Ora che erano entrambe sposate. Felici. Solo che lei non voleva sposarsi. 14
Sbuffò esasperata. Patsy aveva sempre desiderato diventare giornalista, e ci era riuscita. Anche Betty aveva realizzato le proprie ambizioni di avere una casa e una famiglia tutte sue. Jane si girò sul fianco. Lei, invece, non sapeva cosa voleva, perché non sapeva cosa ci fosse là fuori. Nelle riviste leggeva di cose meravigliose, e avrebbe voluto vederne e sperimentarne almeno qualcuna. Soltanto allora sarebbe stata in grado di decidere cosa voleva dalla vita. Ma senza contare l'uscita settimanale per far compere, la messa domenicale e le sortite notturne negli speakeasy, Jane non era mai stata da nessuna parte. E non aveva nessuno con cui confidarsi. Forse, la sera successiva, avrebbe potuto provare a parlare con quel pianista. Dave. Le sarebbe bastato un istante per capire se era come Allen, quello che aveva allungato le mani. Era stata sollevata quando al suo posto era arrivato Rodney. Ma solo finché questi non aveva iniziato a pretendere che lei gli sedesse accanto sulla panca, gli scegliesse le canzoni da suonare e gli portasse da bere per tutta la sera. Era arrivato persino a vietarle di ballare con altri uomini. E se l'era presa parecchio quando Jane l'aveva mandato a quel paese. Così le era toccato di evitare il Rooster's Nest nelle serate in cui Rodney era di turno. Quando Dave lo aveva sostituito, Jane ne era stata ben contenta, ma, memore dell'esperienza con Allen e Rodney, aveva preferito mantenere le distanze. Un altro uomo ansioso di comandarla a bacchet15
ta era l'ultima cosa al mondo che Jane desiderava. Bisognava ammettere che Dave era più avvenente di Allen e Rodney messi insieme, e che non l'aveva mai invitata a sederglisi accanto come avevano fatto gli altri due. Ma forse era meglio continuare a evitarlo. Se lui si fosse messo in testa strane idee, Jane non avrebbe più avuto un altro posto in cui recarsi, e allora sarebbe davvero stata la fine. David Albright fissava il soffitto sopra il letto, osservando il riverbero dei fanali filtrare attraverso le tende ogni volta che un'auto sfrecciava lungo la superstrada poco distante dal suo condominio. Nel corso di quei mesi si era abituato alle luci e al rumore, come aveva previsto quando, quattro mesi prima, aveva affittato l'appartamento. Allo stesso modo, si era abituato all'hotel in cui aveva alloggiato per qualche tempo prima di trasferirsi lì. Aveva dovuto andarsene perché Joshua continuava a tempestarlo di telefonate. Proprio per quel motivo non aveva voluto installare un telefono in quell'appartamento. Suo fratello tentava in tutti i modi di convincerlo a interrompere le sue ricerche, tornare a casa e sposarsi. David strinse i denti per contrastare la rabbia che gli montava dentro. Non voleva sposarsi. Mai. Gliene era passata per sempre la voglia quando Joshua aveva sposato Charlene. Joshua. Il fratello maggiore. L'uomo che aveva tutto. Il predestinato a prendere in mano le redini dell'azienda di famiglia. E così era stato. Joshua dirigeva la società ferroviaria di cui gli Albright erano proprietari, guadagnava più denaro di quanto 16
ne avrebbe mai potuto spendere e aveva una moglie bella e amorevole. David scacciò il pensiero di Charlene, come faceva costantemente da quattro anni a quella parte. L'unico sentimento che ormai nutriva ancora nei confronti di sua cognata era di compassione. Un tempo aveva provato ben altro, ma solo finché lei aveva rifiutato di sposarlo per diventare la moglie di Joshua. Cosa che ormai aveva accettato. Quello che non riusciva ad accettare era l'insistenza con cui Joshua lo esortava di continuo a sposarsi. Sentendosi un nodo allo stomaco, David sbuffò spazientito. Il tempo a sua disposizione si andava esaurendo. Mancava una settimana e mezza al compleanno di suo nonno. Entro pochi giorni sarebbe dovuto partire e tornare a Chicago. Senza essere ancora riuscito a escogitare un modo per evitare di sposare Rebecca Stuart. Aveva lasciato la casa di famiglia sei mesi prima, per ispezionare la nuova rete di superstrade, che era stata costruita di recente. Suo nonno lo aveva esortato a fare con calma, a prolungare il suo soggiorno. A restare per un po' di tempo in California, svolgere i suoi sopralluoghi e, una volta tornato a casa, riferirne gli esiti agli azionisti e decidere se sposare Rebecca fosse la scelta giusta non solo per la famiglia, ma anche per lui. Era la nipote del migliore amico del nonno, Orville Stuart, morto qualche anno addietro. Il nonno raccontava spesso che, quando Rebecca era appena nata, lui e Orville avevano deciso di farle sposare uno dei suoi nipoti. E adesso, venticinque anni dopo, il nipote prescelto era David, visto che Joshua era già sposato. 17
Rebecca era una donna dal fascino aggressivo. Un'arrivista interessata solo al nome e al prestigio degli Albright. David avrebbe potuto dimostrarle che quel prestigio non valeva poi tanto, se essere un Albright significava rinunciare alla propria libertà. E lui lo sapeva bene dato che non era mai stato veramente padrone della sua vita. Con il tempo ci si era rassegnato. Soprattutto quattro anni prima, quando Charlene aveva sposato Joshua invece di lui. David chiuse gli occhi per impedire ai pensieri di portarlo ancor più lontano. Durante la sua permanenza a Los Angeles aveva esplorato ogni possibilità, cercato in ogni modo di elaborare un piano che gli consentisse di non sposare Rebecca e allo stesso tempo di aiutare Charlene. Negli ultimi anni lei era cambiata talmente da essere diventata l'ombra della donna di un tempo. David non poteva fare a meno di chiedersi se la colpa non fosse in parte anche sua. Se vivere sotto lo stesso tetto con lui, oltre che con Joshua, non le ricordasse il passato. I tempi in cui David era stato sicuro di sposarla. Ne era stato davvero sicuro. Lo erano stati tutti. Esalò l'aria che, trattenuta troppo a lungo, gli opprimeva il petto. Com'era arrivato a Los Angeles, ossia senza avere un programma preciso, così ne sarebbe ripartito. La sua unica certezza era che sarebbe tornato a Chicago. L'aveva promesso al nonno. E probabilmente avrebbe anche finito per sposare Rebecca. A volte, lo sforzo di conciliare i doveri verso la famiglia con i suoi desideri e le sue esigenze era quasi insopportabile. L'unico sollievo lo ricavava 18
dal suo lavoro per la società ferroviaria. Per lui contribuire a espandere l'impero creato da suo nonno era un onore. Il Paese cresceva e si sviluppava di continuo, e servivano nuove linee ferroviarie, ma anche altri mezzi di trasporto. Per David era molto stimolante lavorare in quel campo, e sapeva di essere bravo nel suo mestiere. Nemmeno Joshua avrebbe potuto negarlo. L'ampliamento delle reti ferroviarie avvenuto negli ultimi anni sotto la sua guida aveva fruttato alla famiglia lauti profitti. Così si era buttato a capofitto nel lavoro anche lì in California, valutando la possibilità di costruire nuovi tratti di ferrovia e acquistare altre locomotive, ma nemmeno questo era riuscito ad allentare la pressione a cui si sentiva costantemente sottoposto. L'unico modo per alleviarla, per distrarsi dalle sue preoccupazioni, era suonare il piano in uno speakeasy qualche sera la settimana. Era un passatempo che David aveva sempre amato molto e in genere il locale era pieno di gente che ballava, rideva e si divertiva. Ma non quella sera. Al pensiero, David sorrise fra sé. «Ballare con uno scorfano morto» ripeté ad alta voce. Non l'aveva mai fatto, non aveva mai ballato con uno scorfano morto, ma poteva immaginare che non fosse affatto piacevole. Lei però lo era, eccome se era piacevole. E anche carina e spiritosa. La graziosa flapper bionda era una frequentatrice abituale del Rooster's Nest. Ci andava quasi ogni sera. Sorrideva sempre e riusciva a portare il sorriso anche sulle labbra di chi le stava vicino. 19
Prima di quella sera David non le aveva mai rivolto la parola, ma l'aveva adocchiata sin da quando aveva iniziato a suonare lì, un paio di mesi prima. Lei arrivava sempre da sola. E da sola se ne andava. O almeno così presumeva. Era proprio quella la cosa strana riguardo alla ragazza: appariva e spariva all'improvviso. Dalla sua postazione al pianoforte, David poteva tenere d'occhio la porta del locale e non l'aveva mai vista entrarne o uscirne. Di colpo, lei era lì, a ballare, a ridere, a divertirsi. Murray non sapeva come si chiamasse. Anche quello era strano, perché il barista conosceva per nome quasi ogni cliente. La chiamava semplicemente bambola. Ed era un nomignolo adatto, perché lei era davvero graziosa come una bambola. David si rigirò nel letto e si tirò le coltri fin sopra la testa per oscurare il riverbero delle luci, sperando così di riuscire a addormentarsi. Mentre la sua mente tornava alla ragazza misteriosa, un sorriso gli curvò le labbra. Una flapper. Se avesse saputo che il suo fratellino suonava il piano in un locale clandestino e fraternizzava con una flapper, a Joshua sarebbe senz'altro venuto un colpo. Immancabilmente, anche la sera successiva, lei era lì, a ballare, ridere e divertirsi. Come sempre, comparve all'improvviso, sbucata da chissà dove. David aveva aspettato di vederla guardare dalla sua parte e, al momento giusto, le aveva rivolto un cenno di saluto. Lei gli aveva strizzato l'occhio, aveva riso e continuato a ballare con un tizio. 20
Un tizio diverso da quello con cui stava danzando adesso. Che fenomeno! Peccato che non abitasse a Chicago. David l'avrebbe portata a casa con sé solo per fare dispetto a Joshua. David rimase sorpreso quando lei lasciò la pista da ballo e andò a sedersi accanto a lui sulla panca del pianoforte. Finì di suonare la canzone, terminando con una nota alta che vibrò a lungo nell'aria, poi guardò la ragazza. «Ehi, Joe» gli disse lei con un sorriso abbagliante come le luci del locale. Era adorabile, con le guance rotonde, gli occhi azzurri luccicanti e il piccolo mento con una minuscola fossetta proprio sulla punta. «Joe?» ripeté. Lei rise. «Sì, Joe Brooks, sai? È così che le riviste chiamano...» S'interruppe e quegli occhi azzurri lo scrutarono da capo a piedi. «... un tipo vestito elegante.» «Non lo sapevo» ammise lui. «Ma mi chiamo David, non Joe.» «Bel nome.» Poi lei iniziò a sfogliare gli spartiti sul leggio. Gli spartiti che David aveva già disposto nell'ordine in cui voleva suonarli. Adesso non erano più in ordine, ma non gliene importava. Tanto non se ne sarebbe accorto nessuno. «E tu come ti chiami?» le chiese. Un gran sorriso rivelò denti di un bianco sfolgorante. «Oh, potrei essere una Jane qualunque.» Gli uomini chiamavano Jane le donne che non conoscevano, capitava di continuo. Probabilmente capitava di continuo anche che le chiedessero come si chiamava. «Bel nome, Jane Qualunque.» 21
La risata allegra di lei aleggiò nell'aria come l'ultima nota suonata dal pianoforte. «E adesso cosa suonerai?» «Cosa vorresti ascoltare?» «Speravo che me l'avresti chiesto.» Lei prese uno spartito e lo mise in cima agli altri. «Vuoi ballare il charleston?» Lei fece spallucce. «O solo ascoltare la canzone.» David si guardò attorno fra i tavoli e il bar, in cerca del tizio con cui lei aveva ballato fino a poco prima. «Che ne è stato dei tuoi cavalieri?» Lei storse il naso. «L'ultimo mi ha pestato i piedi troppe volte.» «E gli altri?» «Avevo già danzato due volte con ciascuno di loro.» «Capisco» disse David, tanto per rispondere qualcosa. «Perché la gente lo dice?» La ragazza aggrottò la fronte perplessa. «Capisco? Cosa capisci?» Lui alzò le spalle. «Perché la gente chiama gli uomini Joe Brooks e le donne Jane?» «Perché è divertente.» La piuma di struzzo colorata che le spioveva dal cappellino oscillò quando lei scrollò la testa. «Capisco, invece, non è divertente.» Lui annuì. «Capisco.» Scoppiarono a ridere e David mise le dita sulla tastiera e iniziò a suonare il brano che lei aveva scelto. «Bravo!» Lei prese a dimenarsi al ritmo della musica, muovendo i piedi pur restando seduta accanto a David. «Accipicchia!» 22
Lui suonò più veloce, ridendo quando lei si adeguò al ritmo; di tanto in tanto lo urtava e rideva deliziata. Era già capitato che qualcuno gli si sedesse accanto mentre suonava. Non gli dispiaceva affatto. Era proprio per quello che aveva iniziato a lavorare lì: per divertirsi. Appena terminata la canzone, David cambiò spartito e lesse il titolo del successivo. Indicò un tasto alla ragazza. «Quando te lo dico io, premilo.» Sorridendo, lei posizionò un dito sopra il tasto. David incominciò a suonare, poi le rivolse un cenno d'intesa. Lei colpì il tasto, gettò il capo all'indietro e rise di gusto, come se fosse la cosa più divertente del mondo. Continuarono così per tutta la canzone: David le rivolgeva un cenno al momento giusto e lei schiacciava il tasto e rideva. Al termine del brano, la ragazza batté le mani. «Perdinci, mi sono proprio divertita!» «Vuoi che ne suoniamo un'altra?» «Ma certo, Joe!» «David.» «D'accordo, Davie!» Ridendo, David attaccò un altro pezzo e di nuovo le segnalò quando premere il tasto. Lei gli rimase seduta vicino, aiutandolo nell'esecuzione, fino a mezzanotte passata. La folla si era diradata ed era rimasto un solo tipo di avventori: quelli interessati unicamente a bere. David abbassò il coperchio della tastiera. «Sembra che per oggi abbiamo finito.» Lei posò la mano sul pianoforte. «È stato bello. Grazie.» 23
«Di niente.» David raccolse gli spartiti in una pila ordinata e d'impulso le domandò: «Ti occorre un passaggio a casa? Potrei darti uno strappo». «No.» Gli rivolse un sorriso incantevole prima di aggiungere: «Non mi fido dei pianisti». Pensando a certi loschi ceffi che aveva visto negli speakeasy, David non faticava a crederlo. «E se ti dicessi che non sono un vero pianista?» «Allora mi fiderei ancora di meno.» Lei si alzò. Aveva smesso di sorridere. «Alla prossima, Joe.» Incuriosito, la guardò allontanarsi, quasi aspettandosi di vederla sparire sotto i suoi occhi. Lei non sparì, ma non andò neppure verso l'uscita. Ci passò davanti e imboccò il corridoio che portava alla toilette. Il bagno degli uomini era proprio di fronte a quello delle donne, così David percorse lo stesso corridoio per usare i servizi. Si stava lavando le mani quando udì la porta del bagno delle donne aprirsi e richiudersi. Chiuse il rubinetto con una mano, afferrò una salvietta con l'altra e, dopo essersi asciugato in fretta, la rimise a posto e aprì la porta. La ragazza non era in corridoio, né nella sala principale del locale. David imboccò l'uscita e salì di corsa i gradini. Lei non era neppure sul marciapiede. «Come ci è riuscita?» si domandò ad alta voce, lasciando vagare perplesso lo sguardo lungo la via buia e silenziosa.
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