Il graffio più profondo

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Joely Sue Burkhart

Il graffio piĂš profondo


Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: One Cut Deeper Carina Press © 2015 Joely Sue Burkhart Traduzione di Alessandra De Angelis Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. Harmony è un marchio registrato di proprietà HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved. © 2016 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione Harmony Passion luglio 2016 HARMONY PASSION ISSN 1970 - 9951 Periodico mensile n. 115 del 14/07/2016 Direttore responsabile: Chiara Scaglioni Registrazione Tribunale di Milano n. 71 dello 06/02/2007 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Gli arretrati possono essere richiesti contattando il Servizio Arretrati al numero: 045.8884400 HarperCollins Italia S.p.A. Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano


PARTE 1

Posseduta



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È possibile capire parecchie cose, su un uomo, osservando che tipo di rapporto ha con il suo cane. Nella clinica veterinaria in cui lavoravo c'erano i buoni, pronti a soddisfare ogni capriccio dei loro cani viziati che mordevano il guinzaglio, facevano a brandelli i giochini di pezza e terrorizzavano la nostra gatta, che finiva per rifugiarsi in cima allo schedario più alto dietro il bancone dell'accettazione. Erano uomini animati dalle migliori intenzioni, padroni affettuosi che volevano bene ai loro cani ma che non sapevano imporre loro la disciplina, trasformandoli in animali ingovernabili che non obbedivano neanche ai comandi più semplici. E poi c'erano quelli che chiamavo i cattivi. Erano dei veri bastardi, che strattonavano il guinzaglio, urlavano e maltrattavano i cani ed erano sempre spazientiti. Per quanto le povere bestiole li fissassero imploranti e scodinzolassero, non avrebbero mai concesso loro la minima dimostrazione d'affetto. Probabilmente avevano comprato un cucciolo tenero per i figli ma, ora che era cresciuto, lo guardavano come un fastidio maleodorante. La lealtà e l'amore che sapevano donare i cani erano assolutamente sprecati per loro. Quando tintinnò la campanella sopra la porta, alzai lo sguardo e vidi entrare il mio cliente preferito insieme a Sheba. Lui rientrava in una categoria a parte. Era un vero padrone perché, a guardarlo, sembrava che fosse semplicissimo tenere a bada un pastore tedesco. Non tirava il guinza5


glio, né alzava la voce. Era affettuoso come i buoni, ma aveva sempre il controllo dell'animale. Entrò nella clinica con Sheba come se stessero partecipando a una mostra canina. Sheba avrebbe potuto fare a pezzi l'arredamento in pochi secondi e invece si sedette tranquillamente ai piedi del padrone, scodinzolando. «Brava bambina» la lodò lui sottovoce, in tono affettuoso e autorevole al tempo stesso. La sua voce mi suscitò un fremito di desiderio che mi indusse a serrare le cosce. Non avrebbe dovuto eccitarmi così tanto, e invece il mio corpo reagiva come se fossi io la sua brava bambina. Sheba si girò verso di me, agitando più forte la coda ma senza scostarsi dal padrone. A volte restava da noi a pensione, e avevo preso l'abitudine di occuparmene personalmente e di tenerla con me quando ero alla scrivania. Mi seguiva dappertutto e avevo avuto la tentazione di chiedere alla dottoressa Wentworth il permesso di portarla a casa con me, invece di lasciarla per tutta la notte nel nostro spazio adibito a canile. Lui ridacchiò e fece un cenno a Sheba indicandomi con il mento. «Dai, vai pure. So che vuoi andare a salutarla.» Sheba si precipitò da me, fece il giro della scrivania e mi mise il muso su una coscia. La grattai dietro le orecchie e sotto il mento, sapendo che erano i punti in cui preferiva essere accarezzata. Mi si buttò in grembo, adorante, e il padrone fece una risata calda e profonda. Non potei fare a meno di lanciargli un'occhiata. Charles MacNiall non era uomo dalla bellezza classica e convenzionale. Aveva i capelli scuri, ricci e un po' troppo lunghi. Era più alto di me, ma non ci voleva tanto, perché io non superavo di molto il metro e cinquanta. Era snello e con un fisico tonico e scattante. In ogni caso possedeva l'energia, sia fisica sia mentale, per gestire un cane vivace che pesava più o meno una cinquantina di chili. 6


Ma soprattutto era dotato di una forte presenza che attirava la mia attenzione come una calamita. Sentivo il suo calore, nonostante fossi separata da lui dal bancone dell'accettazione, e avevo la voglia istintiva di accovacciarmi ai suoi piedi come Sheba. D'altronde non mi guardava mai direttamente negli occhi, come se avesse intuito la mia vulnerabilità. Mi permetteva di sbirciare, scrutandolo di nascosto, senza mai tentare di incrociare il mio sguardo per cogliermi sul fatto. Se mi avesse fissata mi sarei sciolta, ne ero sicura. Arrossendo, tenni lo sguardo puntato sullo schermo del computer sperando che mi considerasse solo timida e non incapace di resistere alla mia debolezza. Avrebbe potuto portare da noi Sheba tutti i giorni, ma ogni volta il suo arrivo mi avrebbe colpita come un maglio d'acciaio in pieno stomaco. Trattenni il fiato per qualche secondo; poi, non appena ebbi ripreso il controllo, mi voltai e gli rivolsi un sorriso professionale e educato senza guardarlo negli occhi. «Buonasera, signor MacNiall. La dottoressa Wentworth sarà da lei fra poco. Oggi il suo è l'ultimo appuntamento.» Mi sorrise, e sulla guancia gli comparve una fossetta deliziosa. «Non ho alcuna fretta.» Mi sforzai di non emettere un sospiro estasiato. Lo guardai di sottecchi, ammirando in fretta i riccioli che gli ricadevano sulla fronte, le labbra carnose, i suoi occhi intensi. Aveva i capelli più scompigliati del solito, e naso e gote arrossati come se fosse stato tutto il giorno all'aperto. Si sfregò le mani, e notai che non aveva i guanti. Come se avesse intuito i miei pensieri, mi spiegò: «Oggi mi sono concesso una giornata di riposo e ho giocato con Sheba nel parco». Il giorno dopo sarebbe stata la vigilia di Natale, e l'imprevedibile inverno del Missouri era diventato finalmente abbastanza rigido da essere degno delle festività. Forse era lo spirito natalizio a mettermi di buonumore, perciò azzardai: «Abbiamo della cioccolata calda. Ne gradisce una tazza?». 7


«Sì, grazie, sarebbe fantastico.» Mi morsi il labbro, infastidita dal mio momentaneo cedimento. Non avrei dovuto rivolgergli la parola né tantomeno servirlo. Correvo il rischio di abbandonarmi a torbide fantasie, che facevano scivolare pericolosamente la mia immaginazione verso oscure segrete piene di strumenti di tortura. Rilassati, mi dissi. Non ci stai provando, e lui non ha tentato l'approccio. Hai fatto solo un gesto gentile offrendogli una cioccolata in una giornata fredda. Evita di pensare a trasgressivi giochi di dominio e sottomissione. Tuttavia non riuscivo a soffocare l'eccitazione che si era risvegliata in un angolino della mia mente e minacciava di crescere fino a proporzioni gigantesche, mentre lui e Sheba mi seguivano nella saletta privata. I clienti non vi entravano mai, ma ero certa che alla dottoressa Wentworth non sarebbe dispiaciuto. Sosteneva di non avere preferiti, ma Sheba era meravigliosa e si faceva voler bene da tutti. Mentre prendevo una tazza dal pensile, mi sentii in dovere di avvertirlo. «Non è una cioccolata istantanea. È una mia ricetta, e ormai è stata adottata ufficialmente qui da noi. Il cacao in polvere è mescolato con latte di cocco. Spero che le piaccia.» Mi bloccai e feci un respiro profondo, rendendomi conto che stavo parlando a raffica per nascondere il nervosismo. Si tolse il giaccone, e io distolsi lo sguardo per evitare di fissare inebetita le sue spalle tornite. «Purché sia caldo e ci sia del cioccolato, per me è perfetto» commentò. E poi mi guardò. Nel senso che mi trapassò veramente con lo sguardo. Non mi fissò il seno con malizia, non mi soppesò fisicamente, ma ebbi l'impressione che potesse vedere fino in fondo alla mia anima con i suoi occhi penetranti, individuando tutti i miei problemi, i miei segreti, i dolori nascosti, le cose che mi affliggevano così tanto che c'erano giorni in cui temevo di disgregarmi in mille pezzi. Scrutò l'oscurità che era dentro di 8


me e non distolse lo sguardo, non mi voltò le spalle. Non riuscivo a muovermi, né a respirare o a battere le palpebre. Emanava un'intensità incandescente. Era un tipo da tutto o niente, senza compromessi. Avere a che fare con lui era come dondolare su un trapezio senza rete di sicurezza. Non si poteva civettare con lui, non c'era una via di fuga. Era proprio come me. Motivo per cui era off limits, troppo pericoloso. Gli porsi la tazza e distolsi lo sguardo mentre beveva una lunga sorsata, tanto per cercare di far ripartire il cuore. Mi tremavano le mani, avevo le dita fredde e insensibili, ma il viso accaldato. Per dissimulare la mia reazione emotiva, mi inginocchiai e mi concentrai su Sheba, che mi lanciò un'occhiata sagace, come per dirmi: so che è un padrone eccezionale, ma è mio. Fatti da parte, donna. Per blandirla la grattai dietro le orecchie dritte. Se si fosse sollevata sulle zampe posteriori sarebbe stata alta quasi quanto me, ma, come il suo padrone, era delicata e gentile malgrado la sua potenza. «Ranay?» Sentir pronunciare il mio nome in tono così dolce mi fece chiudere gli occhi, nonostante volessi alzare la testa e lasciare che dalla mia espressione trasparisse il mio desiderio, la voglia di abbandonarmi al potere che emanava da lui con naturalezza. Ero già in ginocchio. Sarebbe stato così facile... Troppo facile. Affondai il viso contro il collo di Sheba ed emisi un suono che sperai potesse sembrare un: «Sì?». «Posso farti una domanda personale?» Mi aggrappai al cane come se fosse in grado di proteggermi. «Certo, signor MacNiall.» «No, chiamami Mac, oppure Charlie, se vuoi, anche se l'unica persona che mi abbia mai chiamato così era mia madre. Ormai vengo dalla dottoressa Wentworth da un anno e ti conosco da quando ti ha assunta. Puoi darmi del tu. Io ti ho 9


già dato del tu, e spero che non ti dispiaccia.» Mi chiesi quanto la dottoressa Wentworth sapesse del mio passato e se gli avesse parlato di me. Considerato che era la migliore amica di mia madre, probabilmente era al corrente di più cose di quanto avrei desiderato. Però ero una dipendente affidabile, puntuale, efficiente e amavo gli animali. Cercavo di darmi da fare e di dimostrarmi psicologicamente stabile, in modo che nessuno sospettasse le fratture interiori che stavo cercando di saldare. «Grazie, ma la dottoressa Wentworth preferisce che ci comportiamo con la massima professionalità nei confronti dei clienti» replicai. «Però la Wentworth mi dà del tu e mi chiama Mac, come tutti, perciò puoi fare altrettanto.» Se non mi fosse piaciuta tanto Sheba e lui non fosse stato così bravo e premuroso con lei, portandola da noi puntualmente tutti i mesi per un controllo, forse avrei potuto reprimere la scintilla di attrazione che si era sprigionata in me. Ma sarebbe stato più facile se non mi avesse fatto scorgere la sua personalità dominante. Charlie MacNiall non immaginava proprio l'effetto che aveva su di me. Come avrei potuto spiegarglielo? Se avessi socchiuso quella porta, si sarebbe spalancata da sola, e sarei stata travolta e seppellita da una valanga di emozioni incontrollabili. Dovevo fare appello a tutta la mia forza di volontà per reprimerle e comportarmi normalmente. Avevo impiegato due anni a riprendermi dalla mia ultima relazione. Benché relazione non fosse il termine più adatto per definire il rapporto che avevo avuto con quell'uomo. «Devo tornare di là» annunciai, alzandomi in piedi e tenendomi alla larga da lui, lo sguardo basso. Una parte di me sperava di essere afferrata per le braccia e tenuta stretta finché non gli avessi detto la verità. Evitai di notare la mia delusione quando si limitò a seguirmi. Mi sedetti dietro il bancone che mi riparava dal mondo e10


sterno. Mi ero impegnata strenuamente per imparare a comunicare con naturalezza con gli estranei, dovevo farlo per lavoro. Lui, però, era diverso. Se mi avesse guardata profondamente negli occhi avrebbe intuito i miei segreti. Invece puntai lo sguardo sul suo maglione, sulla trama e la tinta, per distrarmi e potergli rispondere con disinvoltura. «Quale sarebbe la domanda?» Lui mi fissava, in attesa. Dio, quanto era pericoloso! Sapeva come tenermi sulla corda, come tentarmi. Parlavamo solo di Sheba, ma lui conosceva i segreti che tentavo accuratamente di celare. Non volevo stare al gioco e farmi conoscere. No, era una bugia. Volevo giocare con lui, lo desideravo al punto da esserne spaventata. Mi ero illusa. Avevo buttato tutti gli attrezzi, non chattavo più nei miei forum preferiti, avevo interrotto i rapporti con tutti quelli che conoscevo, prima di tornare a casa. Adesso avevo un lavoro e un appartamento, facevo la spesa, cucinavo e fingevo che fosse tutto normale. Invece non era così. Non sarei mai stata normale. Era bastato che quell'uomo mi guardasse, che mi rivolgesse una domanda innocente, e ci stavo già ricascando. Avevo i muscoli rigidi, indolenziti per la tensione. Desideravo disperatamente cedere, abbandonarmi e dargli ciò che voleva. Non c'era alcuno spazio di manovra. Il mio corpo aveva già deciso che ero in suo potere, e la mia mente fremeva per il desiderio di essere sua schiava. Se solo mi avesse fatto un cenno... No, no, no! Digrignai i denti, serrando le mascelle. Per un attimo temetti di aver protestato ad alta voce, perché lui aveva sgranato gli occhi e aperto la bocca. Mi batteva forte il cuore ed ero pervasa da un calore intenso. Non avevo paura di lui, ma se non avesse smesso di guardarmi così avrei finito per umiliarmi e perdere il lavoro. Mi sforzai di mantenere il controllo, di restare seduta invece di inginoc11


chiarmi, ma immaginavo come mi avrebbe guardata, se gli avessi sbottonato i pantaloni. Mi sembrava già di sentire in bocca il sapore del suo pene. Fu Sheba a salvarmi dai miei impulsi. Mi poggiò il muso sulle gambe e uggiolò, riuscendo a farmi riscuotere dal desiderio che mi stava soffocando. Mi doleva la testa e avevo lo stomaco stretto, ma non era finita, perché lui era ancora lì. Fortunatamente non aveva idea di quanto poco ci fosse mancato che facessi qualcosa di sconveniente. Voleva solo che lo chiamassi per nome, e non riuscivo neanche a fare una cosa tanto banale senza aver voglia di farlo godere con la bocca in pubblico. Posai la mano sulla testa di Sheba, cercando di trattenere le lacrime. In quel momento si aprì la porta dell'ambulatorio e ne uscì la signora Summers con il suo gatto obeso. Avrebbe dovuto pagare la visita di Fluffy e prendere un altro appuntamento. Ancora stordita dalla mia lotta interiore, guardai MacNiall, decisa a farla finita alla svelta e nella maniera più indolore possibile. Non avrebbe avuto il tempo di commettere l'errore di chiedermi di uscire con lui. Meglio così. Poggiati i gomiti sul bancone e il mento nel palmo, mi guardava coccolare il cane. Aveva un sorrisetto enigmatico e incuriosito che mi provocò un sussulto. Non sembrava pentito né intenzionato a darsi alla fuga, era ancora lì, e il calore non era scomparso dal suo sguardo dolce e irresistibile come la cioccolata calda che aveva appena bevuto. Tuttavia non aprì bocca, aspettava che lo accontentassi. Con la sua prepotente presenza fisica sembrava occupare tutto il bancone, pur non essendo altissimo, per impedire alla signora Summers di avvicinarsi. Era deciso a vincere quella battaglia, da me voleva solo una parola. Avrei avuto il coraggio di stare al gioco? Perché continuava a provocarmi, quando gli avevo già dimostrato di non essere in grado di mantenere l'autocontrol12


lo? E, soprattutto, perché proprio ora? Avevo l'impressione che si fosse accorto del fatto che avessi un debole per lui da quando era intervenuto in mio aiuto, qualche settimana addietro. Un tirocinante della dottoressa Wentworth, Jacob, mi aveva invitata a uscire con lui. Era carino, e le altre dipendenti della clinica flirtavano con lui, ma un ragazzo normale non mi interessava e, dopo mesi di psicoterapia, sapevo ormai con certezza quale tipo d'uomo mi piacesse, anche se non mi sentivo ancora abbastanza forte da cercare una relazione stabile. Jacob, però, non demordeva. Non era molesto, ma aveva un atteggiamento tipico da macho. Era convinto che avrei finito per dirgli di sì se avesse insistito abbastanza a lungo, sicuro che giocassi a fare la ritrosa. Ogni volta che mi chiedeva un appuntamento ero sempre più agitata, quando lo vedevo ero assalita dall'ansia e dai dubbi. Cominciavo a chiedermi se non avessi torto, forse avrei dovuto concedergli una possibilità... Però mi era capitato sin troppe volte di uscire con un cretino qualsiasi, solo per avere la soddisfazione di sentirmi desiderata. Un giorno il signor MacNiall era entrato con Sheba proprio mentre Jacob mi stava chiedendo di uscire con lui per la decima volta. MacNiall aveva intuito la mia ansia, nonostante mi fossi sempre comportata con la massima correttezza. Senza alzare la voce, ma in tono tagliente e minaccioso, aveva detto a Jacob di lasciarmi in pace. Non aveva mosso un dito, non l'aveva neanche sfiorato, ma il suo sguardo truce aveva fatto correre via Jacob con la coda fra le gambe. Da quel momento in poi, fino alla fine del suo tirocinio, non mi aveva più rivolto la parola, né posato lo sguardo su di me. Avevo avuto una dimostrazione del potere che il padrone di Sheba esercitava su di me. Era il genere di autorità a cui anelavo con tutta me stessa. Avrebbe potuto ordinarmi di inginocchiarmi ai suoi piedi senza aprire bocca, gli sarebbe 13


bastato uno sguardo per farmi desiderare di sottomettermi a lui. Sapevo cosa sarebbe successo se avessi ceduto all'impulso: avrei avuto bisogno di udire i suoi ordini, diventando ogni giorno sempre più debole. Non potevo neanche pensare di giocare con un uomo come lui, ma non riuscivo a ignorare la sfida, la scossa di adrenalina che mi scorreva nelle vene quando mi chiedevo fino a che punto sarebbe stato disposto a spingersi. Ogni minuto che avessi trascorso in sua presenza avrei messo in gioco la mia stabilità e il mio benessere interiore, e sapevo che la posta era alta. Tuttavia non avevo la forza di resistere, anche a costo di perdermi. Aprii infine la bocca. «Charlie» lo accontentai. Mi raggelai nell'attimo stesso in cui pronunciai il suo nome, turbata per avere osato chiamarlo con il nome di battesimo, come sua madre, e non con il diminutivo usato dalla dottoressa Wentworth e dai suoi amici. Ma ero fatta così... testarda come un mulo nella mia determinazione a non seguire la massa. Mi rivolse un sorriso luminoso, con tanto di fossetta maliziosa, poi si ritrasse per lasciare il posto alla signora Summers. Cercai di dimostrarmi seria e professionale mentre incassavo, le consegnavo la ricevuta e il promemoria per l'appuntamento successivo. Arrivò la dottoressa Wentworth per prendere Sheba, ma si rivolse a me, prima di allontanarsi. «Ranay, sei riuscita a trovare la cartella di Pepper? Callie giura di averla messa in archivio, ma non la trovo da nessuna parte. Ne ho bisogno per la visita di controllo.» Rimproverandomi per la mia mancanza di efficienza, presi la cartellina che avevo già trovato ma non le avevo dato subito, e gliela porsi. «Callie l'aveva messa nel cassetto sbagliato, quello degli animali deceduti.» La dottoressa Wentworth fece una risatina. «Dio, spero 14


che manchi ancora molto prima che Pepper finisca lì! Grazie, Ranay. Non so cosa farei senza di te» commentò, prima di portare Sheba in ambulatorio. Ero contenta del complimento, però ora ero rimasta sola con Charlie MacNiall. Non restava mai fuori quando la dottoressa visitava Sheba, anche se spesso finiva solo per tagliarle le unghie e niente più. Era una cosa che Sheba detestava, ma non muoveva un muscolo in sua presenza. Non riuscivo a ricordare cosa dovesse fare quel giorno, ma ero sicura che MacNiall non l'avrebbe lasciata per più di qualche minuto. «Volevo chiederti una cosa, Ranay» tornò all'attacco. Ecco, ci siamo, pensai. Mi avrebbe proposto di uscire insieme, io avrei declinato educatamente l'invito, e le mie fantasie trasgressive sarebbero morte dopo una lunga e straziante agonia, perché un uomo come lui non si sarebbe accontentato di un rifiuto secco, e sarei stata costretta a spiegargli perché non frequentavo più gli uomini. Fissai lo schermo del computer senza vederlo. Perché non se ne andava? Perché insisteva a rovinare i miei sogni a occhi aperti? La mia psicoterapeuta mi aveva detto che le mie fantasie erano un segnale di miglioramento, perché finalmente riuscivo a immaginarmi insieme a qualcuno. Ero ormai in grado di stabilire un legame, magari anche di innamorarmi. Potevo fingere che Charlie fosse un uomo sensibile e premuroso, ma anche passionale e dominatore a letto, implacabile nell'infliggere punizioni. Nelle mie fantasie avrebbe saputo sempre cosa mi piacesse e cosa detestassi. Mi avrebbe tormentato e legato, avrebbe fatto di tutto per portarmi al limite, benché non ne avessi nessuno, e mi avrebbe fatto male fino a farmi morire d'estasi per le sue punizioni erotiche. Mi avrebbe posseduta senza alcun riguardo e dominata tanto completamente da non permettermi neppure di respirare senza che me lo avesse ordinato. 15


Sarebbe stato un dominatore gentile e pieno di riguardo, che avrei rispettato, ma anche un padrone pieno di inventiva, perverso al punto giusto. Avrei potuto amarlo, sarei stata sua nel corpo e nell'anima. Grazie alla terapia, ora sapevo che era ciò che volevo, benché non fossi affatto sicura di poter trovare l'uomo giusto per me. Un uomo non poteva contenere una tale dicotomia nella sua personalità. Avrei dovuto scegliere, prima o poi. Tuttavia non volevo affrontare la realtà e ammettere che il mio uomo ideale non esisteva. «Stanotte devo trattenermi fuori città per un impegno imprevisto e vorrei chiederti un favore. Visto che siamo vicini a Natale, qui non c'è spazio per Sheba neanche per una sola notte» esordì. Potevamo tenere a pensione dieci animali, e il periodo delle feste natalizie era già prenotato da mesi. Eravamo al completo. Lo guardai interrogativa, mentre era appoggiato al bancone, proteso verso di me. La pressione mi salì alle stelle per colpa dei suoi riccioli scuri, della sua fossetta irresistibile e delle sue dita agili che tamburellavano sul piano di legno. Charlie MacNiall non aveva idea di quanto mi scombussolasse parlare con lui. Era come fare un giro sulle montagne russe, specialmente dopo aver capito la verità. Avevo pensato che volesse invitarmi a uscire con lui, o sottopormi a giochi erotici sadomaso, ma mi ero agitata inutilmente, perché in realtà voleva che badassi al suo cane. Decisi di cercare un'ultima conferma. «Quindi dovrei portare Sheba a casa mia?» «Sarebbe più a suo agio nel suo ambiente, se per te non è troppo disturbo.» Una notte a casa sua? Oh, cavoli... Certo, lui non ci sarebbe stato, ma la sua presenza avrebbe permeato ogni stanza. Mi immaginavo già ad annusare l'aria per cogliere il sentore del suo profumo. Sarei riuscita a tenere a bada la curiosità e a non aprire il suo armadio per tuffare il naso tra i suoi vestiti o, peggio ancora, per cercare dei sex toy...? 16


Come se avesse intuito i miei pensieri, mi sorrise accattivante. Sembrava certo che avrei frugato nei suoi cassetti e che avrei trovato qualcosa che mi sarebbe sembrato interessante. «È solo per una notte» insistette. «Tornerò prima della cena della vigilia, non preoccuparti, perché sicuramente avrai dei programmi. Chiederei al mio vicino di venire a dare da mangiare a Sheba, ma non voglio lasciarla sola tutta la notte. E poi le piaci molto, si fida di te, Ranay.» Mi faceva impazzire il modo in cui pronunciava il mio nome con la sua voce calda. Ero sicura che si fosse accorto del fremito di emozione che mi scuoteva ogni volta che mi chiamava. «E piaci anche a me» aggiunse. Un gelo improvviso mi immobilizzò e mi serrò la gola. Gli lanciai una rapida occhiata per tentare di capire le sue intenzioni, ma forse il suo tono disinvolto non nascondeva secondi fini. Oppure si fingeva innocente proprio per attirarmi nella sua tana e ridurmi in suo potere con la scusa di fare da dog sitter? «Ma soprattutto mi auguro che la cosa sia reciproca» riprese. Aprii la bocca, ma non riuscii a dire niente. Non ero moralmente irreprensibile, ma non ero in grado di dire bugie e non sarei riuscita a cavarmela con una frase di circostanza, quando l'unica cosa che volevo dirgli era che avrei camminato scalza sui vetri rotti se me l'avesse ordinato. Fortunatamente la dottoressa Wentworth e Sheba mi salvarono. «Oggi la manicure di questa bella signorina è andata liscia come l'olio» annunciò la dottoressa passando il guinzaglio a Charlie. «Non ha emesso neanche un guaito. Cosa le hai detto per convincerla, Mac?» Charlie mi strizzò l'occhio. «Semplice. Le ho promesso che avrebbe avuto la compagnia di un'amica» rispose, indicandomi con un cenno del capo. 17


«Oh, bene, mi fa piacere che non resti sola. Devo darti indicazioni, Ranay?» Annuii, timorosa che si sarebbe sentito il tremito nella mia voce se avessi parlato. La dottoressa si lanciò in una spiegazione dettagliata, ma alla seconda svolta a destra non riuscivo più a seguirla. Fortunatamente Charlie mi diede un biglietto piegato, senza togliere le dita mentre stendevo la mano per prenderlo, ma attesi, perché non volevo toccarlo. «Chiamami se dovessi avere dei problemi a trovare la casa.» Non era esattamente un ordine, ma ebbi ugualmente un fremito. Volevo che mi comandasse, che mi punisse. Il dolore sarebbe stato solo piacere, per me. Era troppo vicino, e avevo i polmoni vuoti, contratti. Finalmente tolse la mano e aggiunse: «Devo uscire al massimo alle otto per andare in aeroporto. Vieni quando vuoi, dopo le sei. Se hai paura di perderti posso passare a prenderti, ma forse preferisci avere la tua macchina a disposizione». Dopo averci salutate, se ne andò, tallonato da Sheba. Non dovevo farlo pagare, perché aveva un conto aperto e versava una quota fissa ogni mese tramite bonifico automatico. Era il cliente perfetto. La dottoressa Wentworth insistette affinché chiudessimo prima e mi invitò ad andare subito a casa per preparare le mie cose. «Prima di partire, Mac dovrà spiegarti cosa dare da mangiare a Sheba, dove trovare l'occorrente e via dicendo.» Però mi fece l'occhiolino, tanto per farmi capire che non le era sfuggita la mia attrazione nei confronti di Charlie MacNiall. «Se arriverai da lui abbastanza presto, potrai anche cenare lì. Ha una collezione di vini notevole, non perdere l'occasione di assaggiarne qualcuno» aggiunse. La ringraziai e andai via, sempre più convinta di aver commesso un terribile errore ad accettare. Sarei arrivata po18


co prima delle otto, e non intendevo cenare da Charlie nĂŠ bere il suo vino, e tantomeno cedere ai miei desideri, che non avevano niente a che fare con il mangiare e il bere. Tuttavia ero curiosa di sapere come mai la dottoressa Wentworth fosse al corrente della sua collezione di vini.

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Fotogramma proibito di Katana Collins Dato che l'inchiesta sull'omicidio di sua sorella continua, la fotografa della scientifica Jessica è ancora assorbita dalla ricerca del responsabile e questo ha delle ripercussioni anche sulla sua relazione con Sam, detective che si occupa del caso. Quando una foto scattata da Jess rivela l'identità del fidanzato della sorella, lei...

Il graffio più profondo di Joely Sue Burkhart Charlie, ex militare e agente dell'FBI, porta regolarmente il suo pastore tedesco nella clinica in cui la sexy Ranay lavora come veterinaria. Lui deve partire e ha bisogno di qualcuno che tenga Sheba. Quando Ranay si offre di aiutarlo, lui si rende conto che il servizio avrà un prezzo. Lei ha una voglia disperata di essere...

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