Il soldato senza ricordi di Bronwyn Scott

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Bronwyn Scott LAURI ROBINSON IL SOLDATO Il banchiere americano SENZA RICORDI


Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Saving Her Mysterious Soldier Harlequin Mills & Boon Historical Romance © 2021 Nikki Poppen Traduzione di Elisabetta Elefante Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. Harmony è un marchio registrato di proprietà HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved. © 2022 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione I Grandi Romanzi Storici maggio 2022 Questo volume è stato stampato nell'aprile 2022 da CPI Black Print, Spagna, utilizzando elettricità rinnovabile al 100% I GRANDI ROMANZI STORICI ISSN 1122 - 5410 Periodico settimanale n. 1307 del 25/05/2022 Direttore responsabile: Sabrina Annoni Registrazione Tribunale di Milano n. 75 dello 01/02/1992 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distribuzione canale Edicole Italia: m-dis Distribuzione Media S.p.A. Via Carlo Cazzaniga, 19 - 20132 Milano HarperCollins Italia S.p.A. Viale Monte Nero 84 - 20135 Milano


Prologo

Ospedale da campo britannico, Scutari, Turchia Torniamo a casa. Le parole destarono Edward dagli incubi della febbre alta, riportandolo al dolore che lo attendeva al risveglio. Non era un viaggio che faceva spesso, né volentieri, ma era piacevole udire il suono soave che annunciava l'arrivo del suo angelo. Sarebbe stato azzardato chiamarlo un angelo della misericordia. Perlomeno, non quando lo rimproverava se si rifiutava di prendere la medicina, o se insisteva per farlo mangiare quando si rifiutava di aprire la bocca. O ancora quando lo tormentava perché trovasse la forza di lottare, mentre lui avrebbe preferito lasciarsi morire. Era comunque un angelo. Il suo angelo custode. Ora viveva in attesa del lieve tocco della sua mano fresca sulla fronte, delle abili dita che cospargevano di unguento all'aloe le bruciature sul petto e massaggiavano i muscoli martoriati della coscia, nel punto in cui era stato colpito. Quelle mani, quella voce, erano tutto il suo mondo. Insieme al dolore. Erano i punti fermi della sua vita dal momento in cui quel proiettile gli aveva maciullato la gamba... e cancellato la memoria. 5


Se c'era stata una vita, prima di quel momento, non sapeva quale fosse stata, o quando l'avesse vissuta. Sapeva solo chi era adesso: Edward. Così lo chiamava lei, e lui doveva chiamarla Thea. Il suo angelo. Edward e Thea, le uniche due persone che popolavano il suo piccolo mondo fatto di mani e di voci. «Il maggiore Lithgow ha già predisposto tutto. Partiremo domani» annunciò il suo angelo, mentre dita forti e attente scivolavano sulla sua gamba dolorante. «Andremo in mare fino a Marsiglia e da lì raggiungeremo in treno Boulogne, dove riprenderemo una nave che ci porterà in Inghilterra. È lo stesso tragitto che ho fatto per venire qui, lo scorso autunno, ma non preoccupatevi, faremo con calma. Il corpo delle ausiliarie ci ha messo due settimane per arrivare sul campo, invece delle tre che ci impiegheremo noi. Faremo diverse soste, in modo che possiate riposare, tra una tappa e l'altra.» Gli spiegava tutto, per aiutarlo a ricostruire il suo mondo fornendogli piccoli dettagli a cui agganciare i ricordi e usando un tono diretto, senza fronzoli, quasi a voler provocare in lui una reazione, a spingerlo a parlare, cosa che accadeva di rado. Lo faceva sentire meno solo, più presente, gli impediva di lasciarsi morire. Che gli piacesse o meno, il suo angelo contava su di lui, incoraggiandolo a non mollare. «Resterò con voi per tutto il tempo» lo rassicurò. Ritrovò la voce, poco più di un roco sussurro, c'era ben poco per cui valesse la pena di sforzarsi di parlare. Per lei, però, volle farlo. «E qui possono... fare a meno di voi?» Sapeva bene che non era così, non per rimandare a casa un solo soldato. Il suo angelo dirigeva l'intero reparto. Non riuscendo a tenere gli occhi aperti per guardarla, Edward tendeva le orecchie, in attesa di riconoscere i suoi passi rapidi e decisi, per sentire la sua voce, squillante e ferma nel dettare gli ordini ai suoi sottoposti. «Florence mi rivuole in Inghilterra. Ha insistito, dicen6


do che le sarò molto più utile laggiù» rispose lei, asciutta, come se stesse cercando di convincere se stessa che era davvero così. Girò intorno al letto per passare a massaggiargli anche l'altra gamba, che pure non era stata ferita. Serviva a tonificare i muscoli, gli aveva spiegato. A lui, però, non importava perché lo facesse. Quel lieve contatto la faceva apparire più umana, ai suoi occhi. Il suo angelo non era un sogno che rischiava di svanire da un momento all'altro. «Il Movimento Sanitario vuole che rientri in patria quanto prima, proprio perché il modo in cui è stata gestita la guerra ha evidenziato tutte le pecche del sistema in termini di igiene e di assistenza. E mi hanno affidato il compito di sensibilizzare l'opinione pubblica scrivendo ai giornali, in modo che tutti sappiano cosa succede, qui, specie le persone influenti, che decidono le sorti del nostro Paese. Certo, potrei scrivere anche da qui, ma Florence dice che non sarebbe la stessa cosa, perché in Inghilterra potrei andarci a parlare di persona, se fosse necessario.» A sentirla, sembrava riluttante. Non voleva partire, sebbene Edward non riuscisse a spiegarsi il motivo per cui qualcuno potesse preferire di restare in quell'inferno. Lì gli uomini venivano mandati a morire, e proprio per quello non capiva come mai volessero rispedirlo a casa. Erano mesi che aspettavano di vederlo esalare il suo ultimo respiro. Tutti, tranne il suo angelo. «E perché mi fanno tornare?» le chiese. «Perché l'aria di casa vi farà bene.» Lei gli sorrise, come per tranquillizzare entrambi che si trattava della soluzione migliore. La risposta giusta sarebbe stata un tantino diversa, però. Se fosse rimasto lì senza di lei, non sarebbe sopravvissuto. Il suo angelo sapeva che era stata la sua forza di volontà a tenerlo in vita, fino a quel momento. «A casa vi rimetterete più in fretta. Con un po' di pa7


zienza irrobustiremo un po' questa gamba; e non appena riuscirete a rimettervi in piedi, potremo fare lunghe passeggiate nei prati verdissimi, sotto cieli azzurri. Andremo a raccogliere fragole e le mangeremo così, stesi sull'erba, sotto il sole.» Diventava quasi una poetessa, con le parole, e l'immagine di quei campi di fragole, di quei cieli azzurri, portava con sé il profumo del paradiso, un posto così distante dal fetido inferno fatto di angoscia e di febbre nel quale Edward viveva ora. Naturalmente lei non parlava sul serio, era solo un'esca, una carota che gli faceva sventolare sotto il naso per dargli uno scopo, un obiettivo. Come a dirgli: non morire proprio stanotte. Non che Edward avesse deciso di morire. E chi mai poteva desiderare una cosa simile? Solo... non era del tutto sicuro di voler vivere. Se guardava davanti a sé, vedeva il vuoto. Il nulla più assoluto. Era un uomo il cui mondo ruotava intorno al dolore, alla sofferenza. Un uomo che non aveva idea di chi fosse, né da dove venisse. Sapeva solo ciò che le aveva detto il suo angelo. Lei gli premette le labbra sulla fronte. «Dormite bene, Edward. Ci vediamo domattina.» Le rispose con una sola parola, la stessa con cui la salutava ogni sera. «Forse.» Respirò a fondo, per lasciarsi solleticare le narici dal profumo di lei, un misto di erbe aromatiche e lavanda. Una breve fuga dagli orribili odori di cui era impregnato l'ospedale. Aveva gli occhi chiusi, ma sarebbe stato pronto a scommettere che lei stava sorridendo. Ancora un giorno, pensò tornando a sprofondare nella febbre e negli incubi dai quali era popolato il suo mondo, e ormai allo stremo delle forze fisiche e mentali. Per quel sorriso, le avrebbe concesso un altro giorno. 8


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Due settimane dopo, Hertfordshire, Inghilterra 2 aprile 1855 Thea aveva dimenticato il silenzio dell'Hertfordshire. L'aria sembrava farsi ancora più immobile, mentre si allontanavano dalla stazione. Gli unici suoni erano gli sbuffi dei cavalli imbrigliati e il cigolio delle ruote del carro che sobbalzava a ogni buca lungo il sentiero che li avrebbe condotti a Haberstock Hall. C'era un tale silenzio che si sarebbe potuto udire anche un respiro affannoso, o un gemito. Ed era proprio quello a preoccuparla. L'uomo disteso sulla lettiga, sotto il telo che proteggeva il carro, non emetteva un suono. I forti sobbalzi dovevano avergli dato il colpo di grazia, dopo che aveva viaggiato per tre, interminabili settimane utilizzando tutti i mezzi di trasporto possibili e immaginabili: calesse, nave, treno, e ora quel traballante carretto. Era pallido come un cencio. Respirava, sì, ma a fatica, e quelli che fuoriuscivano dalla sua bocca erano più i rantoli di un moribondo che i gemiti del dolore causato dal movimento del carro. Rimboccò meglio la coperta che gli aveva avvolto 9


intorno, preoccupatissima. «Ancora un po', e siamo a casa.» Siamo per modo di dire, lei sarebbe stata a casa. Non conosceva la provenienza di Edward. Era inglese, senza dubbio, ma di dove? Sapeva poco e niente di lui, sapeva soltanto che doveva salvarlo. Era un'esigenza che avvertiva dentro, nel profondo dell'anima. Ecco perché aveva tanto insistito con il maggiore perché l'autorizzasse a portarlo via. Se lo avesse lasciato in Crimea, sarebbe morto. E comunque non era sicura che si sarebbe salvato. Lo sentì tossire, un suono gracchiante che la indusse a sporgersi per tastargli la fronte. Che avesse di nuovo la febbre? La temperatura non si era più alzata da quando erano partiti da Marsiglia, e Thea si era augurata che il peggio fosse passato. A quanto pareva, non era così. Scottava. Frugò nella valigetta e ne estrasse il flacone dello sciroppo al lattice di papavero, chiedendosi se fosse il caso di dargliene subito una dose. Al loro arrivo, avrebbero dovuto farlo scendere dal carro e portarlo di sopra. Non sarebbe stato facile, perché ogni spostamento gli procurava forti dolori. E ormai mancava poco. Svitò il tappo del flacone, decidendo che era meglio darglielo subito. Lo avrebbe stordito, certo, ma avrebbe agito da anestetico, risparmiandogli un'inutile sofferenza. Una volta arrivati a Haberstock, tutto sarebbe stato più facile. Ne era stata convinta, quando aveva preso la decisione di portarlo a casa. In quel momento, però, si sentì assalire dai dubbi. Forse aveva corso un grosso rischio, a farlo viaggiare in quelle condizioni. L'ospedale da campo a Scutari, quartier generale dell'esercito britannico in una Crimea dilaniata dalla guerra e dalle malattie, era lonta10


nissimo dalla quiete e dalla frescura della campagna inglese. Un viaggio interminabile e faticoso per chiunque, figuriamoci per un malato così grave. Tuttavia, lasciarlo a Scutari a trascorrere una primavera e un'estate durante le quali si prevedevano nuove ondate di dissenteria e di colera avrebbe significato condannarlo a morte. Un destino che per Thea era inaccettabile. Edward non era sopravvissuto tutto l'inverno alla febbre alta per morire di colera, se lei poteva salvarlo, se poteva riportarlo a casa. Se c'era un posto, al mondo, in cui Edward avrebbe avuto tutte le cure possibili, era Haberstock Hall. Lì viveva suo padre, il dottor Alfred Peverett, che salvava vite da sempre, oltre a essere uno stimato membro sostenitore del Movimento Sanitario. Lui, meglio di chiunque altro, avrebbe potuto salvare la vita di un soldato i cui peggiori nemici sembravano essere l'ambiente sporco e malsano in cui era curato da mesi, e il desiderio di abbandonarsi alla morte. Quando le era venuta l'idea di portare Edward a casa sua, Thea si era convinta che la primavera inglese avrebbe fatto il miracolo. Guardandolo in quel momento, però, pallido e tremante su quella lettiga, il viso trasfigurato dal dolore, non ne era più così sicura. «Non fate scherzi, Edward» gli sussurrò con una nota di monito nella voce. «Non vi azzardate a morire. Non dopo aver fatto tutta questa strada.» Non prima di avermi detto il vostro nome e quello dei vostri cari. Non morirete solo e dimenticato da tutti. Aveva fatto quel solenne giuramento molte altre volte, al capezzale di tanti, troppi uomini che non avrebbero mai più rivisto le coste inglesi. Ai suoi piedi, aveva una sacca piena di lettere e di piccoli oggetti che aveva promesso di consegnare alle loro famiglie, lettere e oggetti che non avrebbero mai potuto conse11


gnare di persona. Promesse che avevano consentito a quegli sventurati di chiudere gli occhi sapendo che non sarebbero stati dimenticati, che le loro famiglie avrebbero custodito per sempre il loro ricordo. «Ci siamo quasi» annunciò il conducente, e Thea si sporse per guardare il paesaggio a lei così familiare. Un'ultima curva, e vide spuntare gli alti comignoli di mattoni di Haberstock Hall. E poi, raggiunta la cima della collina, ecco apparire la casa nella sua interezza. Casa, finalmente! Il suo cuore ebbe un sussulto alla vista del vetusto maniero elisabettiano di mattoni scuri in cui era nata e cresciuta. La casa che da secoli era abitata dal medico della contea. C'era stato un tempo in cui Thea aveva creduto che quel medico potesse essere lei, quando non aveva ancora compreso i limiti che la società imponeva alle donne. Invece sarebbe stato William, il suo gemello, a prendere il posto del padre. William, che era ancora impegnato negli ospedali da campo di Sebastopoli, in Crimea. La casa non sarebbe stata la stessa, senza di lui. E senza nessuno degli altri. Dopo aver vissuto tanti anni felici insieme ai suoi fratelli, i giovani Peverett avevano preso strade diverse, per seguire i loro destini. Sua sorella Anne era a Londra, dove si era sposata e aveva avuto un bambino, un nipotino che Thea non aveva ancora conosciuto. Thomasia, la più giovane delle sorelle Peverett, si era trasferita a nord con una zia e stava per partorire da un momento all'altro, se i calcoli di Thea non erano sbagliati. L'altra sorella, Rebecca, l'aveva raggiunta per darle una mano, visto che il parto era imminente. Probabilmente sarebbe rimasta con lei per tutta l'estate. A casa c'erano solo i suoi genitori. Era dunque una estate tranquilla, quella che si prospettava a Haberstock Hall. Quiete e silenzio, proprio ciò di cui il suo 12


paziente aveva bisogno. Un luogo tranquillo e pulito, nel quale avrebbe potuto riposare, rimettersi in forze e chissà, magari anche ritrovare se stesso e capire qual era il suo posto. A differenza di lei. Che ancora non lo sapeva. Tornò ad avvicinarsi a Edward, gli toccò la fronte e notò che sudava copiosamente. Per via della febbre? O era in preda ai dolori? Provò a confortarlo in qualche modo. «Manca poco, ormai. Ancora un piccolo sforzo e sarete sistemato.» Almeno lui sarebbe stato sistemato. Per lei invece tornare a casa significava riportare a galla la spinosa questione di capire chi fosse, dopo essere stata in guerra, sul fronte, a lottare ogni giorno al capezzale di feriti e moribondi. A Scutari la sua vita aveva avuto un senso, Thea aveva avuto un compito da svolgere. In Inghilterra, invece, no. In Inghilterra sapeva solo cosa non era, e cosa non sarebbe mai potuta diventare. Il carro si arrestò e Edward tossì, cominciando ad agitarsi, nonostante lo sciroppo al papavero. La sua attenzione era richiesta altrove, perciò Thea dovette mettere da parte le preoccupazioni esistenziali. Provò a spostarsi verso l'estremità del carro, ma lui le serrò forte la mano, impedendoglielo. «Dove siamo?» sussurrò, roco. Due parole di fila. Uno sproloquio, per Edward. Thea tornò a chinarsi su di lui e gli scostò delicatamente una ciocca di capelli dalla fronte madida di sudore. «A casa, come vi avevo promesso.» Tirò adagio la mano, e stavolta lui la lasciò andare, forse tranquillizzato dalle sue parole, o per effetto dello sciroppo. Uno stalliere di suo padre attendeva, all'estremità del carro, per aiutarla a scendere. «Bentornata, signorina.» Thea rispose al saluto con un breve cenno del capo, ma cominciò subito ad abbaiare ordini, non c'era tem13


po per i convenevoli. «Simms, quest'uomo ha bisogno di cure. Chiama qualcuno e fatti aiutare a portarlo di sopra.» Guardò in direzione dell'ingresso. In cima alle scale, ad aspettarla, c'erano i suoi genitori, fiancheggiati da tutta la servitù al gran completo, a cominciare dalla governante. Non perse tempo neppure con loro. «Mrs. Newsome, fate approntare una stanza e chiedete alla cuoca di riscaldare dell'acqua» ordinò. Tutti scattarono subito sull'attenti. La governante si rivolse a due cameriere, mentre i suoi genitori corsero verso il carro. Il rientro di una figlia poteva essere un evento raro, a Haberstock Hall, ma un'emergenza non lo era affatto. Thea fece una rapida ma dettagliata valutazione a suo padre, che l'aveva affiancata. «Febbre ricorrente, dolori intestinali e accessi di tosse, ritengo causata da una brucellosi.» Gli uomini stavano sollevando la lettiga per tirarla fuori dal carro. «Fate piano! Attenti alla testa.» Edward gemette, e Thea corse subito da lui. La sua voce divenne un sussurro tranquillizzante. «Va tutto bene. Sono qui. Siete al sicuro.» Precedette la lettiga fino all'ingresso, poi su per l'ampia scala di quercia e fino in fondo al corridoio, dove si trovava la stanza che Mrs. Newsome aveva fatto preparare. C'era sempre una stanza a disposizione, a Haberstock Hall, per qualsiasi genere di emergenza. Un minuto dopo suo padre la raggiunse. Aveva già in mano la valigetta da lavoro. Doveva avergliela fatta portare sua madre, che era rimasta di sotto a dirigere le grandi manovre. I Peverett non si lasciavano mai cogliere impreparati. «Da quanto è in queste condizioni?» chiese il dottor Peverett, tirando fuori lo stetoscopio, mentre gli uomini distendevano Edward sul letto. 14


Vedendolo in preda ai brividi, Thea gli tirò le coperte fino alla vita. «Dal giorno in cui lo hanno portato in ospedale, dopo la battaglia di Inkerman, a metà novembre» rispose. «Un proiettile gli ha spappolato la coscia.» Gli sollevò adagio la lunga camiciola, scoprendo le bruciature sul lato destro del torace. Si mosse con cautela, ma lo vide trasalire. «Queste se le sarà procurate con una torcia, accesa quando calò la nebbia, o mentre cercava di dar fuoco a un cannone. Non lo sappiamo per certo» spiegò, avvicinandosi alla testata del letto, mentre suo padre posizionava lo stetoscopio sul torace del paziente. Si spostò verso la clavicola, per auscultargli meglio i polmoni, comprese Thea. E sapeva già cosa avrebbe sentito: il rantolo stridulo che causava la tosse. Il dottor Peverett si raddrizzò, pensieroso, e prese a strofinarsi il mento. Spostò su di lei i suoi profondi occhi grigi. «Quale credi che sia la causa della tosse?» Era una sorta di rituale, che ripeteva da sempre, con lei e con William, esortandoli a pensare con la loro testa, invece di dar loro una risposta bella e fatta. Un metodo educativo che era servito non solo a farli ragionare, ma a indurli a difendere le loro convinzioni e a non dubitare. Tale sicurezza le era tornata utile innumerevoli volte, in Crimea, per affrontare a testa alta medici militari che pensavano di saperne più di lei. E a tale sicurezza Thea fece appello. «Ha inalato molto fumo, ritengo» replicò. «Potrebbe esserci un tratto respiratorio occluso, ma non ne sono sicura. E francamente mi auguro che non sia così.» In tal caso, la cura sarebbe stata più lunga e complicata. «Il clima più fresco e l'aria pulita che si respira qui, rispetto a Scutari, saranno un toccasana per questi polmoni malandati.» «Niente sangue nell'espettorato?» domandò ancora 15


suo padre, passando a esaminare brevemente la ferita sulla gamba. «No.» Il che lasciava ben sperare. Non c'erano sintomi di un danno permanente. Thea riabbassò la camiciola e sistemò la coperta. «Allora concordo con la tua valutazione» dichiarò il dottor Peverett. «Il tempo ci dirà se avremo un recupero totale dell'attività polmonare. Le ustioni stanno guarendo. Avrai usato gli unguenti all'aloe e al miele di tua madre, immagino» aggiunse, soddisfatto. «Anche la ferita alla gamba si sta rimarginando, ma dopo tanti mesi di letto dovrà fare parecchio esercizio, per rimettersi in piedi.» Si accigliò appena. «Però a farlo star così male è sicuramente qualcos'altro. È troppo magro» le fece notare. «Sarà per via della brucellosi, o avrà preso una brutta infezione, ma di certo non è stato nutrito come si deve.» Spostò su sua figlia due occhi penetranti, prima di emettere un verdetto. «Possiamo curarlo, Thea. Non c'è ferita che il tempo e le giuste cure non possano guarire.» Lei aveva attraversato un intero continente per sentirsi dire quelle parole, che tuttavia non le procurarono il sollievo sperato. C'era un grosso ma sospeso nell'aria, comprese quando suo padre la fece uscire dalla stanza. «Però deve volerlo, Thea» aggiunse infatti lui. «Deve voler guarire.» «Certo che vuole!» ribatté lei. «Sono mesi che lotta contro ogni avversità. Avessi visto in quali condizioni vengono curati, i nostri soldati, e i nostri feriti in quell'ospedale, a Scutari... È un miracolo che sia ancora vivo.» Suo padre inarcò un sopracciglio. «E siamo sicuri che sia stato lui a lottare?» Abbassò la voce. «Non basta che sia tu a volerlo, figliola, dev'essere lui. Deve avere un motivo per voler continuare a vivere.» 16


Thea sostenne il suo sguardo senza vacillare. «Be', un'impresa ardua, visto che non sa nemmeno come si chiama.» Era il mistero che intendeva svelare, e per cui lo aveva riportato in patria. Non avendo ferite alla testa, nessun trauma cranico, perché Edward non ricordava chi era né da dove veniva? Si scambiarono una lunga occhiata. «Non potevo lasciarlo, papà. Deve essere terribile sentirsi intrappolato in un corpo martoriato, impossibilitato a muoversi, solo e imprigionato in uno stato di dormiveglia. Svegliarsi senza sapere dove ti trovi, o come ti chiami.» E così, contro il parere dei medici, che dopo averlo visitato sommariamente lo avevano dato per spacciato, Thea gli aveva attribuito un nome: una parola a cui appigliarsi, quando emergeva dal buio degli incubi, dall'abisso tenebroso di una sofferenza lacerante. Qualcosa su cui poteva costruire una nuova identità, se quella vecchia avesse continuato a sfuggirgli. Adesso, poi, Thea gli avrebbe dato qualcos'altro: una casa. Se non poteva restituire a Edward i suoi ricordi, gli avrebbe costruito intorno tutto un nuovo mondo. Casa. Edward rabbrividì sotto le coperte, cercando disperatamente un po' di calore per smettere di sbattere i denti. Gli pulsava la testa, e aveva lo stomaco in subbuglio. Casa avrebbe dovuto essere un rifugio sicuro, un bozzolo tranquillizzante. Invece non si sentiva al sicuro, né tranquillo. Forse perché essere a casa avrebbe dovuto significare qualcosa, per lui, e non era così. Non era casa sua, quella, così come Edward non era il suo nome. Forse aveva confidato in un miracolo, aspettandosi che al suo arrivo si sarebbe rimesso subito in piedi, che gli sarebbe tornata la memoria. A quello servivano gli angeli, no? A compiere miracoli. Perché il suo non avrebbe dovuto esserne capace? 17


Lo aveva condotto in quel luogo che profumava di lenzuola pulite, in una stanza tranquilla, dove non c'erano uomini che tossivano e si lamentavano giorno e notte. Avrebbe dovuto essere sufficiente. E invece no, perché non era casa sua. Se lo fosse stata, lo avrebbe capito. Se lo sarebbe sentito. La febbre saliva, insieme alla frustrazione. Niente sembrava avere un senso. E i ricordi... macché! Erano sempre chiusi a chiave in un cassetto. Eppure la sua vita non poteva essere solo dolore, devastazione. E tutto quel buio intorno... Si sentì toccare su una spalla. «Vi aiuto a lavarvi.» Edward si irrigidì a quel contatto. In molti lo avevano toccato, in quegli ultimi mesi, ma non voleva addosso le mani di nessuno, solo quelle di lei. Che fine aveva fatto il suo angelo? Aveva detto che gli sarebbe rimasta sempre accanto. Non lo avrebbe lasciato da solo in un posto sconosciuto con degli sconosciuti. Non aveva idea di dove si trovava, non sapeva chi era, ma conosceva il suo angelo, e sapeva per certo che non lo avrebbe abbandonato. Reso ancora più inquieto dalla febbre, bloccò la mano dell'uomo. «Lei dov'è?» «Lei chi?» «Il mio angelo. Non voglio nessun altro. Solo lei.»

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