In viaggio con albert

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HOMER HICKAM

IN

VIAGGIO CON

ALBERT

Storia semiseria di un uomo, una donna e il loro alligatore traduzione di Luigi Bertolini


ISBN 978-8-86905-060-2 Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Carrying Albert Home William Morrow An Imprint of HarperCollins Publishers © 2015 Homer Hickam Traduzione di Luigi Bartolini Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con HarperCollins Publishers LLC, New York, U.S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2016 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins maggio 2016


Dedica

A Frank Weimann, che ha capito questa storia prima di me

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IN VIAGGIO CON ALBERT Storia semiseria di UN UOMO, UNA DONNA e IL LORO ALLIGATORE

Raccontata da

Homer Hickam (il giovane)


Protagonisti

e

Elsie Lavender Hickam

Homer Hickam (il vecchio)

(convinta che una sua affermazione sia all’origine del viaggio)

(convinto che un suo gesto sia all’origine del viaggio)

Con la partecipazione di

e

Albert Hickam (il vero motivo del viaggio)

Il gallo (la cui presenza durante il viaggio non è del tutto comprensibile)



Introduzione al viaggio

Fino a quando mia madre non mi ha parlato di Albert, non sapevo che lei e mio padre avevano intrapreso un viaggio avventuroso e pieno di pericoli per riportarlo a casa. Non sapevo come e perché si erano sposati, né cosa li aveva fatti diventare le persone che conoscevo. E neppure sapevo che mia madre custodiva nel suo cuore un amore infinito per un uomo poi divenuto un famoso attore di Hollywood, né che mio padre ebbe modo di conoscerlo dopo avere combattuto un potente uragano, non solo ai tropici ma anche nel suo cuore. La storia di Albert mi ha insegnato queste e molte altre cose sui miei genitori e sulla vita che mi hanno fatto vivere, nonché sulla vita che tutti noi viviamo, anche quando non capiamo perché. Il viaggio intrapreso dai miei genitori ebbe luogo nel 1935, cioè nel sesto anno della Grande Depressione. A quel tempo viveva poco più di un migliaio di persone a Coalwood e, come i miei futuri genitori, erano perlopiù giovani sposi cresciuti in quel bacino carbonifero. Ogni giorno, come avevano fatto i loro nonni e i loro padri, gli uomini si alzavano e andavano a lavorare in miniera, dove estraevano il carbone con martelli pneumatici, esplosivi, picconi e pale, mentre il soffitto sopra le loro teste scricchiolava, si crepava e a volte crollava. La morte era un fatto quasi quotidiano, tanto che ogni mattina, nel salutarsi, gli uomini e le donne di quella cittadina del West Virginia erano in preda a una certa malinconia. Tuttavia, per non perdere il loro misero salario e la casa fornita dalla compagnia mineraria, ogni giorno si ripetevano quei saluti e gli uomini si trascinavano stancamente, con il cestino della colazione che ciondolava da una mano e gli scarponi che battevano pesanti sul terreno, per unirsi alla coda di minatori diretti nelle buie e profonde viscere del sottosuolo. 9


Mentre gli uomini si spaccavano la schiena in miniera, le donne di Coalwood affrontavano l'ingrato compito di tenere pulite le loro case dalla polvere che non dava requie. I treni che trasportavano il carbone sbuffavano rumorosamente sulle rotaie a poca distanza dalle abitazioni, lanciando in aria dense nuvole di pulviscolo nero che filtrava all'interno di quelle dimore, a dispetto delle porte e delle finestre sempre chiuse. La gente di Coalwood respirava polvere di carbone e la vedeva sollevarsi da terra in una nebbia grigia quando camminava per strada. Si alzava dai loro cuscini quando vi posavano la testa affaticata e si espandeva in una nuvola scintillante quando sollevavano le coperte al risveglio. Ogni mattino le donne si alzavano e iniziavano a combattere la polvere, e così tutti i giorni, dopo aver salutato i loro mariti che andavano in miniera a creare altra polvere. Anche crescere i figli era compito delle donne. E questo in un'epoca afflitta dalla scarlattina, dal morbillo, dall'influenza, dal tifo e da tutte le febbri che colpivano a più riprese la zona, uccidendo indifferentemente i bambini più forti e i più deboli. Erano poche le famiglie che non avevano perso un figlio. La precarietà che improntava la vita dei loro bambini e dei loro mariti esigeva il suo tributo. Non dovevano passare molti anni prima che la naturale, innocente dolcezza di una ragazza del West Virginia lasciasse il posto alla dura corazza che caratterizzava le donne dei bacini carboniferi. Questo era il mondo in cui vivevano Homer ed Elsie Hickam, i miei genitori prima che diventassero i miei genitori. Un mondo che Homer aveva accettato. Un mondo che Elsie detestava. Ovviamente. Dopotutto, lei era stata in Florida. Molto tempo dopo il viaggio intrapreso dai miei genitori per riportare Albert a casa siamo arrivati io e mio fratello Jim. Abbiamo trascorso la nostra infanzia a Coalwood negli anni Quaranta e Cinquanta, quando la cittadina cominciava a crescere e venivano introdotte certe comodità, come le strade asfaltate e il telefono. C'era pure la televisione, senza la quale non avrei mai saputo niente di Albert. Il giorno in cui ne sono venuto a conoscenza ero sdraiato sul tappeto in soggiorno a guardare una replica dei telefilm di Davy Crockett della Disney. Quella serie tv aveva reso l'uomo della frontiera il personaggio più amato degli Stati Uniti, perfino più del presidente Eisenhower. Non c'era un bambino in tutto il paese che non sognasse 10


di avere il suo caratteristico berretto di procione. Anch'io, ovviamente. Ma è sempre rimasto un desiderio. Mia madre amava troppo gli animali per accondiscendere a quella sciocca e crudele assurdità. La mamma entrò in soggiorno nel momento in cui Davy e il suo amico Georgie Russell attraversavano la foresta a cavallo sul nostro schermo da ventun pollici in bianco e nero. Georgie cantava una canzone su Davy, il re della frontiera selvaggia che a tre anni aveva ucciso un orso con le mani. Era una melodia orecchiabile e io, come milioni di ragazzi in tutto il paese, sapevo le parole a memoria. Dopo essere rimasta un attimo in silenzio a guardare, la mamma disse: «Lo conosco. È stato lui a darmi Albert». Poi si voltò e tornò in cucina. Ero così concentrato su Davy e Georgie che mi ci volle un po' prima che quella frase sortisse il suo effetto. Quando partì lo stacco pubblicitario andai a cercarla e la trovai in cucina. «Mamma, hai veramente detto che conoscevi qualcuno nel telefilm di Davy Crockett?» «Il tizio che cantava» rispose, rovesciando una cucchiaiata di grasso nella padella. Visto l'impasto grumoso che stava in una ciotola lì di fianco, immaginai che a cena avremmo mangiato le sue famose crocchette di patate. «Vuoi dire Georgie Russell?» chiesi. «No, Buddy Ebsen.» «Chi è Buddy Ebsen?» «È il tizio che cantava in televisione. È uno che sa ballare molto, ma molto meglio di come canta. L'ho conosciuto in Florida, al tempo in cui vivevo con il ricco zio Aubrey. Quando ho sposato tuo padre, Buddy mi ha mandato Albert come regalo di nozze.» Non avevo mai sentito parlare di Buddy o di Albert, ma del ricco zio Aubrey sì. La mamma aggiungeva sempre l'aggettivo ricco al suo nome, anche se una volta ci aveva confessato che lo zio aveva perso tutti i suoi soldi con il crollo della Borsa del 1929. Avevo visto una foto del ricco zio Aubrey. Faccia rotonda e occhi socchiusi per difendersi da un sole accecante, stava appoggiato a una mazza da golf con in testa un berretto da strillone alla Grande Gatsby. Indossava un elegante maglione sulla camicia dal colletto aperto, knickerbocker, scarpe bianche e marrone. Alle sue spalle si scorgeva una piccola roulotte di alluminio che probabilmente era la sua casa. Io avevo il forte sospetto che il ricco zio Aubrey non avesse bisogno di molti soldi per sentirsi ricco. 11


Cercando una spiegazione, chiesi: «E così... conosci Georgie Russell?». «Se Buddy Ebsen è Georgie Russell, lo conosco benissimo.» Rimasi a bocca aperta. Stava per venirmi un capogiro. Non vedevo l'ora di raccontare agli altri ragazzi di Coalwood che la mia mamma conosceva Georgie Russell e che quindi era a un passo dal conoscere Davy Crockett in persona. Sarebbero schiattati dall'invidia! «Albert è rimasto con noi un paio d'anni» continuò la mamma. «Tutto il periodo in cui abbiamo vissuto nella casa in cima alla via, di fronte alla stazione. Tu e tuo fratello non eravate ancora nati.» «Chi è Albert?» chiesi. Per un istante mia madre parve intenerirsi. «Non ti ho mai parlato di Albert?» «Nossignora» risposi, proprio mentre finiva lo stacco pubblicitario e si udiva lo scoppio di un moschetto. Davy Crockett era tornato in azione. Drizzai un orecchio per non perdermi quello che stava succedendo. Vedendo che il richiamo della televisione era più forte, la mamma mi liquidò con un gesto della mano. «Ti parlerò di lui un'altra volta. È una storia piuttosto complicata. Tuo padre e io... be', l'abbiamo riportato a casa. Era un alligatore.» Un alligatore! Aprii la bocca per fare qualche altra domanda ma lei scosse la testa. «Dopo» disse, e tornò alle sue crocchette mentre io tornavo al mio Davy Crockett. Nel corso degli anni la mamma ha mantenuto la promessa e mi ha raccontato di come riportarono Albert a casa. Stimolato da lei, in qualche occasione anche papà mi ha raccontato la sua versione della storia. Ma mentre raccontavano, spesso in modo disordinato e a volte non coerente con quanto mi era stato detto la volta precedente, quella storia si trasformava nella vicenda movimentata, improbabile e mitica di una giovane coppia che, insieme a uno straordinario alligatore (e, chissà perché, a un gallo), aveva vissuto un'avventura indimenticabile, in un viaggio verso sud sotto un sole dorato uscito dal pennello di un paesaggista – così almeno me lo raffiguravo – e una luna d'argento opera di un poeta. Quando papà se ne andò per dirigere le miniere del paradiso, e la mamma lo seguì per spiegare a Dio come gestire tutte le Sue altre faccende, una voce pacata ma insistente continuò a dirmi che avrei dovuto scrivere la storia di quel viaggio. Ma solo quando le diedi 12


retta e cominciai a mettere insieme tutti i pezzi arrivai a capire perchĂŠ. Come un fiore magnifico che si apre per salutare l'alba, mi apparve una veritĂ nascosta. La storia di come i miei genitori riportarono Albert a casa andava oltre il loro fantastico racconto di un'avventura vissuta al tempo della giovinezza. Era soprattutto la testimonianza del dono piĂš grande, e forse il piĂš vero, che il cielo ci ha fatto: quell'emozione strana e meravigliosa che chiamiamo, in modo del tutto inadeguato, amore. Homer Hickam (il giovane)

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Pagina

Romanzo

PARTE PRIMA

Come ebbe inizio il viaggio Elsie e Homer decidono di portare Albert a casa – Il gallo si unisce al gruppo – Homer intuisce di essersi cacciato in un guaio – Elsie balla da sola – Homer e Albert rapinano una banca



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Quando Elsie uscì in giardino per capire perché suo marito la stava chiamando a gran voce, vide Albert sdraiato sulla schiena in mezzo al prato, con le zampe spalancate e la testa rovesciata all'indietro. Era sicura che gli fosse successo qualcosa di tremendo, ma quando l'alligatore alzò la testa e sorrise capì che era tutto a posto. Provò un senso di sollievo quasi palpabile e inebriante. In fondo, voleva bene ad Albert più che a ogni altra cosa. Si piegò sulle ginocchia e gli grattò la pancia, mentre lui dimenava le zampe per la gioia e sorrideva deliziato. Albert aveva poco più di due anni ed era lungo quasi un metro e mezzo, una misura considerevole per la sua età, stando a un libro sugli alligatori che Elsie aveva letto. Ostentava una spessa pelle di squame d'un raffinato verde oliva, con delle strisce gialle sui fianchi che il libro diceva sarebbero presto scomparse. Sul dorso correvano delle creste che finivano nella coda, mentre la pancia era morbida e chiara. Aveva due occhi espressivi colore dell'oro che di notte brillavano d'un rosso incandescente. Ma aveva anche un muso di rara bellezza, con le narici perfettamente posizionate sulla punta per consentirgli di respirare quando stava fermo nell'acqua. E di rara bellezza erano pure le mascelle, che si incastravano dolcemente l'una nell'altra, con due file di denti bianchissimi. Elsie diceva che era forse il più bell'alligatore mai apparso sulla faccia della terra. Ovviamente Albert era anche piuttosto sveglio: a volte seguiva Elsie per casa come un cagnolino e, appena lei si sedeva, le strisciava in grembo per farsi accarezzare. Una bella fortuna, considerando che Elsie non poteva più tenere in casa un cane o un gatto perché ad Albert piaceva aggredirli stando in agguato sotto il letto o nella vasca 17


di cemento che il nonno aveva costruito apposta per lui. Albert non aveva mai divorato un cane o un gatto ma ci era andato vicino, tanto che entrambe queste specie avevano dichiarato la casa e il giardino degli Hickam una zona off limits per i successivi cent'anni. Dopo aver sorriso al suo bambino, come lo chiamava affettuosamente, Elsie notò suo marito, che aveva smesso di gridare e la stava guardando con un'aria all'apparenza un po' stizzita. Non poté fare a meno di notare che era pure vestito in modo strano, ciò che la indusse a chiedere: «Homer, dove hai messo i pantaloni?». Homer non le rispose in merito, e disse invece: «O io o quell'alligatore» ripetendo le stesse parole subito dopo, più lentamente e a bassa voce: «O... io... o... quell'alligatore». Elsie sospirò. «Cos'è successo?» «Ero seduto sul gabinetto a fare i miei bisogni quando il tuo alligatore è spuntato fuori dalla vasca e mi ha strappato i pantaloni. Se io non me li fossi tolti al volo e non fossi scappato fuori, mi avrebbe sicuramente sbranato.» «Scommetto che se Albert avesse voluto ucciderti, l'avrebbe fatto già da tempo. Allora, cosa vuoi che faccia?» «Scegli. O me o lui. Tutto qui.» Ecco, il momento fatidico era arrivato. Da quanto, si chiese, era nell'aria? Eppure non aveva risposte da offrire, se non quella che diede. «Ci penserò.» Homer non credeva alle sue orecchie. «Ci penserai? Devi decidere fra me e l'alligatore?» «Sì, Homer, proprio così» disse Elsie. Poi ribaltò Albert e gli fece cenno di seguirla. «Vieni, bambino mio. La mamma ha pronto un bel pollo per te in cucina.» Incredulo e sbigottito, Homer li guardò rientrare in casa. Appostato dietro la staccionata, Jack Rose, un vicino e collega minatore, si avvicinò e tossì educatamente: «Ti prenderai un raffreddore, figlio mio» disse. «Forse dovresti metterti un paio di pantaloni.» Più che rosso, il volto di Homer si fece viola. «Hai sentito?» «Come tutti qui intorno, credo.» Homer capì che rischiava di diventare lo zimbello del quartiere. Ai minatori piaceva sparlare un po' della gente e Homer in mutande, inseguito nel suo giardino dall'alligatore di Elsie, era un'occasione da non perdere. «Aiutami, Jack» lo implorò. «Non dire niente a nessuno di ciò che hai visto.» 18


«Okay» rispose Jack in tono amichevole. «Ma non posso garantire per mia moglie» e fece un cenno verso la finestra dove Mrs. Rose stava a guardare con un ghigno sulle labbra. Homer capì di essere condannato e chinò la testa. Quella sera, a cena, si bloccò con un pezzo di pane a mezz'aria. «Allora, ci hai pensato? Io o Albert?» Elsie non lo guardò. «Non ancora.» Homer era profondamente infelice. «Finirà che in miniera mi prenderanno tutti in giro per essere stato inseguito in giardino senza i pantaloni.» Elsie continuava a non guardarlo. Fissava i suoi fagioli come se le stessero mandando un messaggio. «Ho trovato una soluzione» disse. «Lascia la miniera. Molla quello sporco buco e andiamocene a vivere in un posto pulito.» «Ma io sono un minatore, Elsie. È il mio lavoro.» A questo punto lei finalmente lo guardò. «Ma non il mio.» Per tutta la notte Elsie dormì dando la schiena a Homer e al mattino, dopo avergli preparato la colazione e avergli messo in mano il cestino del pranzo, non gli diede neanche un bacio, né gli augurò di tornare a casa sano e salvo. Quel giorno Homer ebbe la certezza di essere l'unico minatore di Coalwood che andava a lavorare senza avere ricevuto una buona parola di commiato da sua moglie, e non fu una cosa facile da sopportare. Per di più, un minatore di nome Collier Johns si fece beffe di lui descrivendolo in mutande mentre scappava per tutto il giardino. Credendo di fare lo spiritoso, Johns gli chiese perfino: «Ma è stato proprio l'alligatore di Elsie a farti perdere la testa e le brache per la paura?». Al che seguì una fragorosa risata generale, con gli altri minatori del suo turno che si davano delle manate sulle ginocchia. Homer avrebbe dovuto rispondere con una battuta, o una frecciatina salace, come tutti si sarebbero aspettati. Invece rimase zitto, sgonfiando così la presa in giro e facendola cadere nel vuoto. Tutti sospettarono che Homer si fosse ammalato, magari anche in modo grave. E infatti, più tardi, si accese un'intensa discussione all'ingresso dello spaccio aziendale. Tutti conclusero che la malattia di Homer era sua moglie, una ragazza piuttosto singolare che, per quanto graziosa, era quel tipo di donna che può rovinare un uomo chiedendogli più di quanto lui possa dare. Due giorni dopo Elsie uscì in giardino, dove Homer stava seduto su una vecchia sedia arrugginita che aveva scovato nel deposito dei rottami della compagnia. Gli si parò davanti e, dopo aver fatto un 19


respiro profondo, dichiarò: «Ho deciso di lasciar andare Albert». Sollevato, Homer rispose: «Fantastico. Grazie. Portiamolo al torrente, lì si troverà bene. Ci sono un sacco di pesciolini da mangiare, per non dire dei cani o dei gatti che ogni tanto vanno a bere». Elsie strinse le labbra, un'espressione che Homer conosceva bene: significava che non era affatto contenta. «Morirebbe di freddo nel torrente, in inverno» disse lei. «Deve tornare a casa sua in Florida, a Orlando.» Una proposta davvero sconcertante. «A Orlando? Santo Dio, donna! È a più di mille chilometri da qui!» Elsie sollevò il mento in segno di sfida. «Non m'interessa se sono più di mille chilometri.» «E se mi rifiuto?» Elsie fece un altro respiro profondo. «Lo porterò io, da sola.» Homer sentì il terreno crollargli sotto i piedi. «E come pensi di farcela?» «Non lo so, ma troverò il modo.» Sconfitto, Homer chiese: «Bisogna proprio portarlo fino a Orlando? Non possiamo lasciarlo nel North o nel South Carolina? Mi dicono che fa comunque caldo da quelle parti». «Fino a Orlando» rispose Elsie. «E quando saremo là, dovremo trovare il posto migliore.» «Come faremo a sapere qual è il posto migliore?» «Ce lo dirà Albert.» «Albert è un rettile. Non sa niente.» «Be', lui almeno ha un motivo per non sapere niente.» «Stai insinuando che io non so niente?» «Sto dicendo che nessuno di noi sa niente. Sto dicendo che tutto ciò che noi crediamo vero non lo è affatto. Se io avessi detto un milione di cose, e tu avessi risposto dicendo un milione e una cosa, nessuna delle parole da noi pronunciate si avvicinerebbe nemmeno lontanamente alla verità.» «Tutto questo non ha senso.» «È la risposta più onesta che posso darti.» Elsie rientrò in casa e Homer rimase a rimuginare seduto sulla sua sedia arrugginita. Per una delle prime volte in vita sua ebbe paura. La settimana precedente il soffitto della miniera era crollato facendo un rumore che era sembrato uno sparo di fucile e un'enorme lastra di roccia lo aveva mancato per un pelo, ma lui non aveva fatto una piega. Non ne aveva parlato con Elsie, ma sapeva che lei ne era al 20


corrente. Sembrava che sapesse tutto quello che lui cercava di nasconderle. Al contrario, Homer dovette riconoscere di sapere pochissimo della donna che aveva sposato e che ora gli aveva messo addosso una paura del diavolo con la minaccia di andarsene in Florida, con o senza di lui. CapĂŹ che gli restava solo una cosa da fare. Avrebbe chiesto consiglio a un grand'uomo, l'unico che conoscesse, l'incomparabile William Capitano Laird, un eroe della Grande Guerra, laureato in ingegneria alla Stanford University, signore e padrone di Coalwood. E cosĂŹ, anche se ancora non lo sapeva, ebbe inizio il viaggio.

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Questo volume è stato stampato nell'aprile 2016 presso la Rotolito Lombarda - Milano


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