JOSEPHINE DUBOIS
L'allieva di Casanova
Titolo originale: L'allieva di Casanova © 2021 Josephine Dubois Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. Harmony è un marchio registrato di proprietà HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved. © 2022 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione I Grandi Storici Seduction agosto 2022 Questo volume è stato stampato nel luglio 2022 da CPI Black Print, Spagna, utilizzando elettricità rinnovabile al 100% I GRANDI STORICI SEDUCTION ISSN 2240 - 1644 Periodico mensile n. 148 del 24/08/2022 Direttore responsabile: Sabrina Annoni Registrazione Tribunale di Milano n. 556 del 18/11/2011 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distribuzione canale Edicole Italia: m-dis Distribuzione Media S.p.A. Via Carlo Cazzaniga, 19 - 20132 Milano HarperCollins Italia S.p.A. Viale Monte Nero 84 - 20135 Milano
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Venezia, 25 dicembre 1756 Era nei pomeriggi invernali come quello, quando la nebbia si fondeva al grigio dell'acqua, che il limite fra Venezia e la laguna si faceva più sottile. Quel confine fra terra, acqua e cielo scompariva, permettendo alla mente di Lucrezia di galoppare veloce, ancora più dei suoi passi leggeri sui ciottoli umidi. Correva lungo le Fondamente Nove, il fiato corto misto di paura ed eccitazione, con l'anonimo tabarro scuro che fluttuava alle sue spalle, nascondendo il delicato vestito di broccato celeste. Non poteva permettersi di essere notata, non in quella parte della città, non durante un giorno di festa che avrebbe dovuto vederla ancora a tavola con la sua famiglia, a intingere baicoli nel dolce vino di Cipro. Avrebbe preferito potersi nascondere sotto il mantello della bauta, il volto protetto dall'anonimato della larva, la maschera candida che cancellava ogni lineamento, ma l'interruzione del Carnevale per le nove notti di Natale vietava l'uso di ogni maschera. In realtà era anche proibito che una nobildonna potesse gi5
rare da sola per le calli, senza la compagnia di valletti o familiari, ma in fondo Lucrezia non era una dama come le altre. Anzi, era una dama solo a metà. Superata la Sacca della Misericordia, il vento freddo della laguna nord la investì in pieno, e Lucrezia rimase sul ciglio della fondamenta a farsi accarezzare corpo e capelli da quell'aria salmastra. Maledisse il busto e la crinolina che non la lasciavano respirare a pieni polmoni e poi riprese il suo percorso. Era tutto come glielo aveva descritto il piccolo Cesco: attraversato il ponte, c'era una calle strettissima che sbucava su un canale talmente nascosto da essere chiamato Rio Sconto e, affacciato su quell'acqua stagnante, si ergeva un palazzo anonimo. Lì, avvolta tra i banchi di nebbia di quel pomeriggio di festa, celata a tutta Venezia e forse al mondo intero, c'era una porta. È qui dietro che si nasconde colui che sto cercando?, si chiese Lucrezia. La ragazza restò a indugiare sulla porta, la mano appoggiata sul legno scavato dall'umidità, il respiro condensato in piccole nuvole. Ignorava cosa avrebbe trovato all'interno del palazzo, sapeva solo che erano giorni, settimane, mesi, che andava cercando. Non poteva tirarsi indietro. Non ora che forse aveva trovato una traccia. Si sfilò i guanti in merletto di Burano e bussò due volte al portone. In risposta, si aprì uno spioncino intagliato nel legno. «L'uomo è libero» enunciò una voce senza volto. Roca e pesante, faceva venire i brividi, e non apparteneva certo a un raffinato valletto, ma Lucrezia cercò di non farsi intimorire. «Ma non lo è, se non crede di esserlo» ribatté la ragazza, 6
pregando tra sé e sé che la parola d'ordine scovata da Cesco fosse ancora valida. Una frase che non era un semplice concetto, ma un detto che amava ripetere quella persona che il cuore di Lucrezia cercava con ardore. Lo spioncino si richiuse bruscamente e, nel momento esatto in cui Lucrezia si preparava a tornare sui propri passi, il portone si aprì cigolando. «Benvenuta al Teatro Sconto, bella signora» le disse un omone, il proprietario di quella voce rozza. E la invitò a entrare con un mezzo inchino, decisamente fuori luogo per la sua stazza e i suoi abiti logori. Un teatro? Non era certo quello che Lucrezia si aspettava di trovare alla fine della sua ricerca. Non c'era nessuna insegna sopra la porta ed era in attività il giorno di Natale. Doveva essere un luogo clandestino, non di certo autorizzato dalla Serenissima. Chissà in che pericoli sarebbe potuta incorrere, se l'avessero scoperta a frequentare posti del genere. Lucrezia capì di trovarsi al limite. Nemmeno lei sapeva bene di che cosa, ma era sicura che, una volta varcata quella semplice soglia di pietra, scavata dall'acqua alta e dal passaggio di tanti altri piedi prima dei suoi, la sua vita non sarebbe più stata la stessa. Glielo diceva il calore che emanava quell'androne, un tepore fatto non di fiamme, ma di fiato e corpi ammassati, di schiamazzi che le arrivavano e che la invitavano a raggiungerli. Glielo ripeteva la voglia di trovarsi finalmente faccia a faccia con l'uomo che aveva inseguito a lungo e che accendeva da sempre le sue fantasie. «Entrate o restate fuori?» la incalzò l'omone alla porta. «Guardate che fra poco comincia.» 7
Lucrezia prese un profondo respiro, fece scivolare qualche moneta nel tricorno che l'energumeno le stava porgendo, e mosse il suo primo passo verso l'ignoto. Non aveva nulla a che vedere con gli stucchi e il legno ricoperto in foglia d'oro del Teatro San Luca che Lucrezia frequentava insieme al padre, nella comodità del loro palchetto privato. Lì non c'erano posti in galleria e nemmeno comodi sedili di velluto scarlatto. Non ti accompagnavano al posto dei valletti in tenuta elegante e persino il palco era poco più di un rialzo di legno, nascosto da un sipario di tela grezza. Ma non era solo la mancanza di ogni sfarzo a rendere quel teatro diverso da ogni altro in cui fosse mai entrata. Il fatto era che lì il pubblico non sedeva compito, rigido nei suoi vestiti migliori, mettendosi in mostra in uno spettacolo che puntualmente andava in scena dentro lo spettacolo. No, al Teatro Sconto il pubblico chiacchierava, rideva sguaiato, mangiava caldarroste gettando le bucce a terra e amoreggiava senza alcun riserbo. Era decisamente un altro mondo, un mondo in cui Lucrezia riusciva a immaginare l'uomo che popolava i suoi sogni muoversi a proprio agio. La fanciulla si strinse bene addosso il tabarro, cercando di camuffarsi al meglio tra quella folla, e prese posto sulla prima seduta libera. «Non vedo l'ora di guardare Casanova» disse la sua vicina di posto al compagno. A quelle parole Lucrezia si infiammò. Non poteva resistere, doveva chiedere. «Lui è qui, vero?» domandò alla donna, mentre con lo sguardo lo cercava tra la folla. «Chi, Casanova?» le chiese quella. 8
«Sì, Giacomo...» disse Lucrezia, arrossendo a pronunciare ad alta voce quel nome che viveva sulla punta della sua lingua. «Davvero è qui tra il pubblico?» Ma poi le luci si spensero in sala, e le chiacchiere sguaiate della platea si smorzarono in un leggero brusio. «Ssh, che comincia» le intimò la donna. E il sipario si alzò. Quella che stava andando in scena era una commedia dell'arte, il solito intreccio di equivoci e marachelle tra Arlecchino, Colombina e Pantalone. Certo, il costume variopinto di Arlecchino era molto più rattoppato del solito e il corpetto di Colombina lasciava decisamente poco spazio all'immaginazione, facendo scaturire a ogni sua mossa urla di approvazione da parte del pubblico maschile. Anche la storia divergeva dal modello a cui Lucrezia era abituata: Pantalone e Arlecchino litigavano per contendersi i favori di Colombina. Lei, però, faceva la ritrosa con entrambi dicendo che il suo cuore, e soprattutto il suo corpo, appartenevano già a un altro pretendente, il suo signore e padrone, a cui lei inneggiava con parole adoranti. «E chi sarà questo cicisbeo? Voglio proprio guardarlo in faccia» declamò Pantalone a un certo punto. «A me non interessa vedere il suo brutto muso» replicò Arlecchino facendo roteare il manganello. «Mi basta solo prenderlo a botte.» Il pubblico si sciolse in risate e battiti di mano di approvazione. «Attenzione! Arriva il mio signore» annunciò una fremente Colombina alle altre due maschere, ma soprattutto al pubblico, che si zittì all'istante. Nel silenzio improvviso, si udì un rumore di passi. 9
Era prodotto da un paio di scarpe eleganti con fibbia, calzate da un uomo che stava prendendo possesso del centro della scena. Candide calze di seta, calzoni corti chiusi al ginocchio, una camisiola mezza slacciata che faceva intravedere il petto e, drappeggiata sulle spalle, una velada damascata in un intreccio di oro e rosa. Per un attimo quell'eleganza fece dimenticare a Lucrezia di trovarsi seduta su delle sedie lerce e scomode, circondata da gente che di certo non possedeva nessun abito della festa. Il nuovo arrivato si liberò della giacca, lanciandola a terra, e si scostò il tricorno dalla parrucca per omaggiare il pubblico, soprattutto quello femminile, che cominciò a prodursi in fischi e gridolini eccitati, ma l'attore lasciò ben calata sul volto la maschera dorata. Poi cominciò a declamare: «Donna bella che ha piasesto, e che piase, e che ha savesto pieni voti meritar giusto affatto e non ghe resta altra cossa a far che questa la se deve reposar. Acciò Nana, fazza nana voi cantar la ninanana non la stessi a desmissiar». Anche Lucrezia ripeteva tra sé e sé quella poesia, perché già la conosceva a memoria. Una bella donna che si è data da fare con il suo uomo, e che è stata strapazzata per bene, non deve far altro che riposarsi. Perciò, Giovanna, dormi. Voglio cantarti una nin10
nananna, non fare tante storie. Erano versi impossibili da dimenticare: parole infilate una dietro l'altra proprio da Giacomo in persona, o così voleva la leggenda che aveva visto viaggiare questa canzone intitolata I sette capitali di bocca in bocca per le calli di Venezia. Finito di recitare il poema intriso di doppisensi, il protagonista si caricò Colombina sulle spalle e la portò in un angolo del palco, dove era stato allestito un letto. Lei si fece lanciare di buon grado sopra le coperte e, mentre l'uomo si accomodava sul talamo insieme a lei, un tendaggio calò dall'alto. I due amanti in scena, così, potevano rendere partecipe il pubblico del loro gioco di seduzione, mantenendo però allo stesso tempo il riserbo. Le uniche cose che si vedevano dalla platea erano i contorni dei loro corpi in controluce e gli abiti che venivano a mano a mano lanciati oltre il tendaggio, verso il pubblico. Le mani dell'uomo sfilavano gli indumenti di Colombina a uno a uno, rivelando piano le morbide forme della servetta. Prima le calze, seguite dall'abito e infine il corsetto. E poi fu il turno dell'uomo. Lucrezia sentiva avvampare il proprio corpo al di sotto del tabarro, ma non riusciva a staccare gli occhi da quel gioco di ombre. I bicipiti torniti dell'uomo si stagliavano controluce, non più celati dalla camisiola di pizzi che adesso giaceva sul pavimento di legno del palcoscenico. E i suoi glutei, dei quali si potevano intuire le rotondità, ora erano finalmente liberati dalla costrizione dei calzoni che, dopo aver volteggiato sopra il pubblico, furono raccolti con trionfo dalla vicina di posto di Lucrezia. «Le sue braghesse! Ho preso i pantaloni di Casanova!» esultò la donna stringendo la stoffa come se fosse un trofeo. 11
Lucrezia sgranò gli occhi. Forte era la delusione, ma ancora più grande l'assurdità della situazione. Aveva attraversato mezza Venezia con il rischio di essere vista da qualcuno per arrivare in quella bettola, credendo che lì avrebbe incontrato l'uomo che desiderava rivedere da quando era scomparso misteriosamente. E invece mi sono ritrovata davanti a una squallida imitazione, una vera e propria farsa, pensò senza sganciare lo sguardo dalla sagoma dell'uomo che adesso, con movimenti ritmici, scivolava sopra il corpo di Colombina traendone i gemiti più osceni. «Non so chi sia quell'uomo» disse Lucrezia alla propria vicina di posto, «ma di certo non è Giacomo Casanova.»
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