L'ultima estate a chelsea beach

Page 1




PAM JENOFF

L'ULTIMA ESTATE A CHELSEA BEACH traduzione di Elisabetta Lavarello


ISBN 978-88-6905-091-6 Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The Last Summer At Chelsea Beach Mira Books © 2015 Pam Jenoff Traduzione di Elisabetta Lavarello Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2016 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HC maggio 2016


L'ultima estate a Chelsea Beach



Prologo

New Jersey Agosto 1944 Sento che sono a casa prima di vederla. Mancano cinque miglia e già l'aria salmastra mi entra in bocca riempiendomi i polmoni. Le grida dei gabbiani mi vengono incontro. Ma è solo quando supero l'ultima curva e mi trovo davanti la distesa di acqua torbida che il groppo in gola cresce e mi sento bruciare gli occhi. «Dannazione a te» dico ad alta voce, mentre accosto al ciglio della strada. «Possa tu andare all'inferno.» La baia di Absecon resta indifferente. La sua calma rasenta l'ipocrisia. Rimetto in moto la Buick dello zio Meyer e il motore va su di giri. È metà pomeriggio e il sole è alto sopra lo specchio d'acqua, l'aria di fine estate è calda. Il cruscotto di legno emana un profumo di cera al limone che si mescola agli odori del mare e del fumo di sigaro. Incrocio una giardinetta carica di sedie a sdraio e di una griglia per cuocere la carne. Nonostante la guerra, certe cose non cambiano: la partenza dei turisti, che puliscono la sabbia dalle dita appiccicose dei figli per tornare alla vita normale con l'approssimarsi del Labor Day, è ancora il primo segno dell'autunno. Lungo la Black Horse Pike che porta al mare, il prezzo delle pesche, delle ciliegie e della verdura estiva, abbondanti anche se gli altri cibi scarseggiano, è stato scontato per fare posto alle mele e alle zucche. Cartelli 7


scritti a mano offrono le ultime pannocchie della stagione. Alcuni banchi che per tutta l'estate hanno venduto hot dog e birra analcolica sono già chiusi. Mi immetto sulla strada, superando cartelli che mi esortano a vigilare sulla costa riferendo la presenza di navi tedesche e ad acquistare titoli di guerra. Mentre costeggio la baia, alte canne mi impediscono di vedere l'acqua. Esalo un respiro, concentrandomi sull'accozzaglia di negozi. Tutto mi era parso molto più grande con gli occhi della mente. Adesso le case, con le loro tende oscuranti e le loro bandiere, paiono miniature, come quelle che lo zio Meyer metteva nel plastico del suo trenino. Sembra che tutto abbia bisogno di una bella mano di pittura. Comincio a salire l'arcata del ponte. Mi appare una sottile striscia d'oceano con moli e piccole imbarcazioni. Ho un sussulto e pesto accidentalmente sul freno, accorgendomi appena del clacson che strombazza dietro di me. Mi asciugo le mani umide sulla gonna di cotone che si è stropicciata nel viaggio. Poi premo l'acceleratore e proseguo verso sud, stringendo con forza il volante, le nocche sbiancate. «Piantala o non arriverai mai» borbotto tra i denti. Cosa che, ora che ci penso, non sarebbe una cattiva idea. Poco prima del distributore Esso tappezzato di avvisi di razionamenti, faccio una svolta a destra, poi un'altra. Quindi giro a sinistra su Sunset Avenue. L'isolato che ha tanto peso nei miei ricordi altro non è che una decina di villette parallele alla baia risalenti a decenni prima, le facciate di listelli di legno segnate dalle intemperie come facce rugose. Mentre supero ogni casa, elenco mentalmente le persone che ci abitavano: nella quarta, la gentile Mrs. Henderson, che i bambini chiamavano zia Molly; Joe e Louise Steiner nella quinta. Molti dei vicini sono sicuramente gli stessi, a eccezione della sesta casa, che è 8


vuota dal giorno in cui i Connally sono usciti dalla mia vita per sempre. Fisso dritto davanti a me, cercando di concentrarmi sulla strada. Ma è inutile. Anche alla piena luce del giorno, vivo l'incubo che ha tormentato tante delle mie notti: sono in piedi su un tratto deserto del boardwalk e guardo la distesa grigioverde dell'oceano. Vedo arrivare la marea e il livello dell'acqua farsi sempre più alto. Un'onda nera si alza come un'enorme mano. Il muro d'acqua mi investe, buttandomi a terra e sommergendomi completamente. Mi dibatto, incapace di rialzarmi, e l'acqua mi riempie i polmoni e mi ingoia intera. A un tratto mi si schiarisce la vista e l'immagine sparisce rapida come è venuta. Mi dico che non è reale, che il passato non tornerà. Perché avere paura quando non resta niente da perdere? Ma è tutto inutile. I miei incubi mi tormentano di nuovo, segno indiscutibile del fatto che sono a casa.

9



Pagina

Romanzo

PARTE PRIMA



1

Washington, DC Novembre 1943 Non lottai contro l'ombrello che si era rovesciato, mentre scendevo dall'autobus. Preferii tenere una mano sul cappello a cloche perché il vento che frustava la pioggia gelata su Pennsylvania Avenue non me lo portasse via. Mi incamminai con cautela sul marciapiede scivoloso tra i passanti, più che altro donne e qualche uomo troppo vecchio o malandato per il servizio militare, che aspettavano un caffè in fila davanti al camion della Croce Rossa o si facevano strada tra gli edifici governativi e gli uffici allestiti sotto le tende sul Mall. Battendo le gocce dal soprabito, mi infilai sotto il tendone che riparava la garitta davanti al palazzo del Dipartimento di Stato, fermandomi per cercare il lasciapassare. Il soldato di guardia mi sbirciò incredulo mentre esaminava le mie credenziali. Ignorandolo, girai gli occhi verso la Casa Bianca che si stagliava chiara contro le grigie nubi temporalesche. Qualcosa si mosse sul tetto: il ruotare di un cannone contraereo puntato verso l'alto. Trasalii. Washington era una città occupata non solo dalle migliaia di persone che vi erano arrivate per lavorare, ma dall'esercito che la difendeva come se i tedeschi potessero scendere dal cielo da un istante all'altro. Mi tolsi il cappello e intravidi la mia immagine scarmigliata riflessa nel vetro della guardiola. Quel mattino 13


avevo lasciato la pensione con i capelli in ordine e un cielo che, se non limpido, sicuramente non minacciava questo diluvio. Al Post mi aspettava la solita giornata passata a dattiloscrivere articoli da appunti stenografati. Lavoravo su una scrivania sulla quale c'era appena posto per la Remington, stretta in mezzo a una dozzina di altre ragazze. Non mi importava: avevo bisogno di lavorare ed ero grata che il corso da segretaria seguito al liceo mi avesse dato le qualifiche necessarie per ottenere quel posto. Anche se avrei guadagnato qualche dollaro in più, mi aveva sgomentato la prospettiva di fare l'impiegata al Dipartimento della Guerra. Non sopportavo l'idea di passare le giornate a scrivere lettere in cui informavo le famiglie che i loro figli non sarebbero più tornati a casa, vedendo ogni volta il viso di Charlie. Nei primi mesi che avevo passato in redazione, il lavoro era stato tranquillo e prevedibile. Ma un pomeriggio, un paio di settimane prima, un uomo con le maniche arrotolate fino al gomito aveva aperto la porta della sala dattilografe. «Italiano?» aveva abbaiato. Aveva esalato una nuvola di fumo che lo aveva fatto sembrare un drago dai capelli grigi. Sulla sala era sceso il silenzio. Chip Steeves, caporedattore del Washington Post, non veniva mai lì. «La mia segretaria è fuori e ho bisogno di qualcuno che cerchi un traduttore.» Impulsivamente avevo alzato la mano. Poi mi ero guardata attorno. Ero l'unica a essermi offerta e avevo cominciato ad abbassare il braccio. Ma Mr. Steeves si stava già facendo strada tra le scrivanie verso di me. «Può trovarmi qualcuno che traduca dall'italiano?» Aveva parlato col mozzicone del sigaro stretto fra i denti. «No.» Lo avevo guardato negli occhi. «Posso occuparmene personalmente.» Mi aveva fissato per alcuni istanti, accigliato. «Bene, venga» aveva borbottato impaziente, come se fossi stata io, e non lui, a esitare. Avevo sentito su di me gli occhi 14


delle altre dattilografe mentre lasciavo la stanza. «Monforte, vero?» aveva chiesto sorprendendomi, mentre entravamo nel suo ufficio. La scrivania era coperta di carte, il pavimento cosparso di tazze da caffè sporche. «Sì.» Mi ero schiarita la voce. «Addie, diminutivo di Adelia.» Lui non si era presentato, non occorreva. Chip Steeves era leggendario sia come giornalista sia come tiranno. «Lei è la ragazza che ha individuato l'errore nella storia dell'U-boat.» Avevo raddrizzato un po' le spalle. Il mio compito si limitava a dattiloscrivere gli articoli, non a correggerne le bozze. Ma avevo visto un errore in una delle inchieste, una data che sapevo essere sbagliata. Avevo fatto notare la cosa alla segretaria di Mr. Steeves, che supervisionava le dattilografe. «Ottimo lavoro. Lei parla italiano?» «Sì. Sono nata a Trieste.» Il fatto di essere straniera non era cosa da divulgare, dati i tempi, e mi ero impegnata a fondo per eliminare ogni traccia di accento. Poteva essere la prima volta che mi tornava utile. Lui mi aveva tirato una penna come se volesse colpirmi, e io avevo lottato contro l'impulso di farmi piccola. «Bene, traduca questo, Adelia Monforte.» Avevo preso il foglio che mi aveva porto e avevo spostato un posacenere traboccante dalla più vicina seggiola, poi mi ci ero appollaiata e avevo scribacchiato rapidamente la traduzione. Era un cablogramma su una scaramuccia avvenuta nei pressi di Salerno, breve ma con alcuni termini militari che non ero sicura di aver azzeccato. Avevo passato il foglio a Mr. Steeves, che aveva scorso il testo con gli occhi. «Ben fatto.» «Potrei fare di meglio, con più tempo» avevo azzardato. «Non è così per tutti? Ma non ha stravolto il testo, come fanno i veri traduttori.» 15


Da quel giorno, Mr. Steeves mi aveva mandato altri lavori di traduzione attraverso la sua segretaria. Ma non si era più fatto vedere. Sino a quel mattino. «Monforte» aveva sbraitato dalla porta della sala dattilografe, facendomi fare un salto sulla sedia. Ero scattata su, afferrando blocco e penna, convinta si trattasse di un altro lavoro di traduzione. Ma quando mi ero avviata verso il suo ufficio, mi aveva fermata con un cenno della mano. «Si presenti al Dipartimento di Stato oggi pomeriggio alle tre.» Lo avevo fissato senza capire. «Io? Perché?» Mi aveva lanciato un lasciapassare stampa ed era sparito nel suo ufficio. Ora il soldato di guardia mi restituì il documento, insieme a un tesserino di riconoscimento per visitatori che mi appuntai al collo della camicetta. Entrai a passo incerto nell'enorme atrio del palazzo, ammirando un lampadario che sembrava più adatto a una sala da ballo. Mi stavo guardando intorno, quando arrivò Mr. Steeves che mi prese per un braccio. Mi trascinò senza tante cerimonie oltre una scalinata di marmo, lungo un corridoio, fino a una stanza con un grande tavolo di rovere. «Il sottosegretario ha indetto una riunione con la stampa per parlare delle informazioni che diamo sugli alleati, perché non danneggino lo sforzo bellico... insomma, le solite balle.» «Non capisco. Ha bisogno che le traduca qualcosa?» Scosse la testa. «No, ragazzina. Il mio assistente è stato trattenuto e ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a fare un servizio sulla riunione. Lei era la persona più indicata.» «La più indicata? Sono solo una dattilografa. Non sono in grado di scrivere un articolo.» «Basta che si sieda su una delle seggiole contro il muro e prenda appunti. E non dica una parola» istruì, prima di raggiungere un gruppo di uomini in uniforme che parlavano in un angolo. 16


Mi tolsi il soprabito, lo ripiegai e me lo appoggiai sulla gonna blu. Mentre mi sedevo notai una smagliatura nella calza. Cercai di lisciare le grinze dalla blusa pieghettata. Ero l'unica ragazza presente, a parte una segretaria che sistemava le tazze da caffè su un tavolino. La guerra poteva anche aver aperto alle donne il mondo del lavoro, bastava pensare a Rosie the Riveter, ma a Washington, in riunioni ad alto livello come quella, le sedie attorno al tavolo erano ancora riservate al sesso forte. La porta si aprì ed entrò un uomo che avevo visto fotografato sui giornali: il Sottosegretario di Stato Edward Stettinius. «Accomodatevi» esordì, mentre gli altri si avvicinavano al tavolo. «Ho pochi minuti, perciò sarò breve. Vi ho convocato qui per chiedere il vostro aiuto per comunicare al popolo americano le informazioni sui combattimenti.» Si lanciò nell'esposizione di una nuova iniziativa dell'Office of War Information. Io scribacchiavo furiosamente. Anche se mi capitava spesso di dattiloscrivere appunti stenografati da altre persone, non avevo mai stenografato sotto dettatura e temevo di non riuscire a stare al passo del rapido inglese del Sottosegretario Stettinius. Mi concentrai su quello che stava dicendo. Il rapporto tra stampa e governo era sempre parso antagonistico, un conflitto tra chi cerca informazioni e chi non vuole che siano diffuse. Ma ora lui stava proponendo una collaborazione. «Sarò lieto di rispondere alle vostre domande» concluse, alcuni minuti dopo. Un corrispondente del Washington Star che non conoscevo alzò la mano, poi parlò senza aspettare di essere invitato a farlo. «Una cosa positiva, in apparenza... ma non c'è un conflitto d'interessi?» Mi ero chiesta la stessa cosa: potevano i giornali mantenere la loro indipendenza e la loro obiettività lavorando con il governo? Il Sottosegretario Stettinius diede una vaga spiegazione su come il progetto potesse funzionare senza com17


promettere l'autonomia della stampa. «Immagino che non ci stiate suggerendo di sottoporvi gli articoli prima che vadano in tipografia?» insistette un altro reporter. «Questa sarebbe censura.» «No, certo che no» replicò il sottosegretario, tormentandosi il colletto. «Vogliamo semplicemente essere una risorsa.» All'altro capo del tavolo, Mr. Steeves incrociò le braccia sul petto, poco convinto. «Il mio assistente si metterà in contatto con ognuno di voi individualmente per discutere i dettagli» promise Stettinius, tagliando corto. Si alzò, indicando che la riunione era giunta al termine. Mentre i giornalisti si alzavano e chiacchieravano tra loro, cercai di incrociare lo sguardo di Mr. Steeves, ma era a colloquio con un corrispondente straniero. Mi avviai verso la porta della stanza surriscaldata, incerta se aspettarlo o tornare in redazione. Stavo per raggiungere il vasto atrio, quando una delle porte che davano sul corridoio si aprì, lasciando filtrare il brusio di voci di un'altra riunione. Passai oltre. «Allora siamo d'accordo.» Una voce si era alzata sopra le altre, inaspettatamente familiare. Mi fermai. «Ci rivedremo quando avremo pronti i piani.» Charlie! Girai di scatto la testa in direzione della voce. Non poteva essere. Allungai il collo, cercando di vedere. Lo avevo immaginato tante volte da quando ero arrivata in città, lo avevo visto in ogni soldato in divisa che camminava per strada. Ma non avevo ancora sentito la sua voce nella mia testa. Mi avvicinai alla porta della sala, scrutando tra la gente. «Oh!» esclamai, tanto forte che un uomo davanti a me si girò a guardarmi. Portai la mano alla bocca quando le spalle larghe di Charlie mi apparvero sopra le altre. Mi sentii la testa leggera per la gioia. Era proprio lui. Ma come era possibile? Non aveva motivo di trovarsi nella capitale. Avrebbe dovuto essere in addestramento o essere già stato assegnato, non davanti ai 18


miei occhi, alto e prestante. Era venuto per me? No, non era plausibile che sapesse che ero a Washington. Ed era proprio per questo che ci ero venuta. Un moto d'ansia sostituì la gioia che avevo provato nel rivederlo. Le pareti della grande sala parvero chiudersi intorno a me. Mi allontanai di qualche passo. L'idea di affrontare Charlie era impensabile. Ma non potei fare a meno di girarmi, attratta da lui come se fosse un magnete. Sembrava diverso, invecchiato da tutto quello che era successo, con delle rughe che non ricordavo e una tristezza nello sguardo. I suoi capelli castani erano cortissimi e sembravano più radi senza i folti ricci di un tempo. Era ancora un bell'uomo, però. Mi mancava il fiato. Ma questo non cambiava ciò che era successo. Dovevo andarmene. Subito. Mentre arretravo di un passo verso il corridoio, mi si girò la caviglia e barcollai. Nel tentativo di recuperare l'equilibrio, mi lasciai sfuggire il taccuino che rimbalzò rumorosamente sul marmo. Tutti si voltarono nella mia direzione, più seccati che preoccupati. Mentre gli altri riprendevano la conversazione, Charlie si staccò dal gruppo e venne verso di me. «Addie?» Il suo tono era incredulo. Mi irrigidii quando mi raggiunse nel corridoio. Allungò un braccio come per toccarmi, ma la sua mano si fermò a mezz'aria prima di ricadere lungo il fianco. Si chinò a baciarmi sulla guancia e il suo profumo familiare fece ondeggiare la stanza. Resistetti alla tentazione di girare il viso e incontrare le sue labbra. «Addie.» Era tutto lì, in quell'unica parola, in quella voce che mi rimescolava come la prima volta che l'avevo sentita. «Cosa ci fai qui?» Non sapeva nulla, né che avessi lasciato Filadelfia né come fossi arrivata a Washington. Perché lui era partito prima di me. «Lavoro per il Post.» Spiai il suo viso in cerca di un segno di incredulità. Ma Charlie non aveva mai dubitato delle mie capacità. «Certo non mi aspettavo che anche tu fossi a Washington» aggiunsi. 19


Trasalì come se lo avessi schiaffeggiato. «Non sei contenta di vedermi.» «Certo che lo sono. Solo, pensavo che fossi in addestramento.» Le parole mi uscivano di bocca troppo in fretta, accavallandosi l'una sull'altra. Lui giocherellava col cappello che teneva tra le mani. «Ci sono stato, per quasi un anno. Ma ora sono qui per delle riunioni informative.» C'era una strana tensione nella sua voce. Un anno ci era scivolato tra le dita. Com'era possibile? Un tempo mi era parso di non riuscire neanche a respirare senza Charlie, ma in qualche modo l'orologio aveva continuato a ticchettare. Cercai di immaginare tutte le cose che poteva aver fatto dall'ultima volta che ci eravamo visti. Ma avevo la mente vuota. «I tuoi capelli!» esclamò. Mi portai la mano alla tempia e feci una smorfia sentendo quanto si fossero arricciati per la pioggia. «Sono corti.» Li portavo a caschetto, molto diversi dall'ultima volta che mi aveva visto. «Mi piacciono.» Non riuscivo a capire se lo dicesse per gentilezza. «Come sta la tua famiglia?» «Se la cavano, considerate le circostanze.» Si strinse nelle spalle, impotente ma non indifferente. «I miei genitori si sono trasferiti in Florida. Mamma si dedica anima e corpo alle sue attività di ausiliaria.» Era così tipico di Mrs. Connally che dovetti sorridere. «E papà è papà.» Il senso di colpa per averli lasciati guizzò sul suo viso. «Li ha devastati, sai.» Sì, capivo anche troppo bene. I Connally vivevano in una bolla in cui il dolore sarebbe sempre stato straziante quanto il giorno in cui era successa la disgrazia, per quanto tempo passasse o per quanto lontano se ne andassero. «Sono insieme, eppure allo stesso tempo sono separati. Lo sanno, adesso» aggiunse, e io avrei voluto chiedergli se si riferisse all'esercito, o a quello che c'era stato tra noi, o a entrambe le cose. 20


La domanda si inceppò nella mia gola. «E i ragazzi?» chiesi invece. «Jack, be', lui lavora in una fabbrica a Port Richmond. Frequenta un corso serale alla Temple, però.» Jack era stato il cervellone, tra i fratelli. Avrebbe potuto andare a un'università della Ivy League e diventare medico, come un tempo aveva sognato, non fosse stato per i soldi e per le circostanze. «Non è ancora stato chiamato alle armi, grazie a Dio. Mamma non sopporterebbe di perdere un altro figlio.» Deglutii. «E Liam?» Charlie fissava il pavimento. «Non ne sono sicuro.» Ma di certo i suoi genitori sapevano dove si trovasse, e se stesse bene oppure no. O anche loro avevano tagliato i ponti con lui? Sentii una stretta allo stomaco. Odiavo ancora Liam per quello che aveva fatto, eppure non potevo fare a meno di preoccuparmi. Charlie e io ci guardammo in silenzio. Avevamo parlato di tutti, tranne che dell'unico nome che non potevamo pronunciare. «Per quanto tempo ti fermerai in città?» chiesi, non sapendo in che risposta sperare. Prima che Charlie potesse replicare, arrivarono delle voci dalla sala alle sue spalle. Si girò. «C'è un'altra riunione. Devo andare.» Una lama mi trafisse al pensiero che potesse sparire in fretta quanto era apparso. «Addie, vorrei parlarti. Ci vediamo questa sera?» chiese inaspettatamente. «All'Old Ebbitt Grill alle sette.» Quindi nemmeno lui voleva dirmi addio così presto. Lo osservai, cercando di cogliere il significato che stava dietro alle sue parole. Ci saremmo visti come due vecchi amici che si raccontano le ultime novità? No, nei suoi occhi c'era ancora l'espressione avida, struggente, di quella notte sul molo. Voleva riprendere le fila e tornare al momento in cui stavamo sull'orlo del mondo, a guardare in giù tutto quello che si apriva davanti a noi. Qualcosa lambì il mio ventre, familiare quanto un sogno dimenticato: la speranza. Anche dopo quello che era 21


successo, Charlie riusciva a farmi credere che le cose potessero funzionare. Ma qualcosa mi trattenne. «Non lo so.» A un tratto ero arrabbiata. Davvero credeva che avremmo potuto rimettere insieme i cocci e non vedere le crepe? Il dubbio faceva tremare la terra sotto i miei piedi come un treno merci. Ero riuscita a tirarmi fuori da una situazione che per poco non mi aveva ucciso. Non potevo permettergli di farmi precipitare dentro un'altra volta. «Per favore, Addie. Sarò là ad aspettarti.» In lui c'era una disperazione che avevo visto una volta sola nella mia vita. Prima che potessi rispondere, gli uomini cominciarono a lasciare la sala, accerchiando Charlie, e fummo separati da un mare di abiti maschili e divise, da una nuvola di acqua di colonia e fumo di sigaretta. Non ebbi la possibilità di rispondere. Ci fissammo e, un attimo prima che lui sparisse, i suoi occhi mi inviarono una muta implorazione.

22


Questo volume è stato stampato nell'aprile 2016 presso la Rotolito Lombarda - Milano




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.