L'unica figlia

Page 1


ANNA SNOEKSTRA

L’UNICA FIGLIA traduzione di Manuela Faimali


ISBN 978-88-6905-185-2 Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: Only Daughter Mira Books © 2016 Anna Elizabeth Snoekstra Traduzione di Manuela Faimali Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2017 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins aprile 2017


Sono sempre stata brava a recitare un ruolo: per i depravati ero la seduttrice misteriosa, per il mio protettore l’innocente con gli occhi da cerbiatta. Li ho provati entrambi con l’addetto alla sicurezza, ma a quanto pare nessuno dei due ha funzionato. C’è mancato un soffio. Le porte scorrevoli del supermercato si erano già schiuse di fronte a me quando la sua grossa mano mi ha afferrato la spalla. La strada principale distava appena una decina di metri. Una via tranquilla bordata di alberi dalle chiome gialle e arancioni. L’addetto alla sicurezza ha rinsaldato la presa. Mi ha portato nell’ufficio sul retro. Un cubicolo di cemento senza finestre in cui sono stipati il vecchio schedario, la scrivania e la stampante. Ha tirato fuori il panino, il formaggio e la mela dalla mia borsa e li ha appoggiati sul tavolo in mezzo a noi. Vedendoli così in bella mostra ho provato una fitta di vergogna, ma mi sono sforzata di reggere il suo sguardo. Ha detto che non mi

5


avrebbe lasciata andare finché non gli avessi dato un documento d’identità. Per fortuna non ho il portafoglio. Cosa te ne fai del portafoglio se non hai un soldo? Ho dato fondo al mio repertorio, scoppiando a piangere quando le mie allusioni sono andate a vuoto. Non è stata la mia interpretazione migliore; non riuscivo a distogliere gli occhi dal pane. Ormai avevo i crampi allo stomaco. Non avevo mai avuto tanta fame. Ora lo sento parlare con la polizia dietro la porta chiusa a chiave. Guardo la bacheca sopra la scrivania. Contiene la lista dei turni di questa settimana, insieme a un promemoria sulle procedure per le carte di credito con una faccina sorridente disegnata in fondo e qualche fotografia di una serata fuori tra colleghi. Non ho mai voluto lavorare in un supermercato. Non ho mai voluto lavorare da nessuna parte, eppure all’improvviso sono divorata dall’invidia. «Mi spiace avervi scomodato. La stronzetta non vuole darmi un documento.» Forse non sa che posso sentirlo. «Non c’è problema. Ce ne occupiamo noi.» Un’altra voce. La porta si apre e due poliziotti mi guardano. Sono una donna e un uomo, avranno all’incirca la mia età. La donna ha i capelli scuri raccolti in una coda di cavallo ordinata. Lui è magro e slavato. Capisco subito che è un bastardo. Si siedono dall’altra parte del tavolo. «Io sono l’agente Thompson e questa è l’agente Seirs. Sappiamo che ti hanno sorpresa a rubare in questo negozio» dice il poliziotto, che non fa niente

6


per nascondere il suo tono annoiato. «No, non è vero» ribatto, imitando i modi impeccabili della mia matrigna. «Stavo andando alla cassa quando mi ha bloccata. Quell’uomo ha qualche problema con le donne.» Mi guardano dubbiosi, scrutando i miei vestiti sporchi e i capelli unti. Chissà se puzzo. Il fatto di avere il viso gonfio e contuso non gioca certo a mio favore. Probabilmente è proprio per questo che mi hanno beccata. «Mi ha detto cose oscene quando mi ha portata qui...» Abbasso la voce. «Come stronzetta e puttana. Disgustoso. Mio padre è avvocato, scommetto che lo denuncerà per cattiva condotta quando gli dirò cos’è successo oggi.» I due si guardano e capisco immediatamente che non se la sono bevuta. Avrei fatto meglio a piangere. «Ascolta, tesoro, andrà tutto bene. Dicci solo il tuo nome e indirizzo. Sarai a casa entro oggi» dice la poliziotta. Anche se ha la mia età, mi affibbia nomignoli come fossi una bambina. «In alternativa, possiamo arrestarti subito e portarti in centrale. Dovrai aspettare in cella finché non capiremo chi sei. Se adesso ci dici il tuo nome, renderai tutto molto più semplice.» Cercano di spaventarmi, e ci stanno riuscendo ma non per il motivo che credono. Quando mi prenderanno le impronte, non impiegheranno molto a identificarmi. Scopriranno cosa ho fatto.

7


«Stavo morendo di fame» dico, e il tremore nella mia voce è autentico. È l’espressione sui loro volti a scuotermi. Un misto di pietà e disgusto. Come se non valessi niente, come se per loro fossi uno dei tanti barboni da ripulire. Si fa lentamente strada un ricordo, e mi rendo conto che so esattamente come tirarmi fuori da questa situazione. Il potere di quanto sto per dire è enorme. Scorre nel mio corpo come un sorso di vodka, allentando il nodo alla gola e facendo formicolare la punta delle dita. Non mi sento più impotente; so che posso farcela. Fisso la donna, poi l’uomo, assaporando il momento. Osservandoli con attenzione per cogliere l’istante preciso in cui i loro volti cambieranno. «Mi chiamo Rebecca Winter. Undici anni fa sono stata rapita.»

8


1

2014 Sono seduta in una sala interrogatori con il capo chino, stringendomi nel cappotto. Qui dentro fa freddo. Aspetto da quasi un’ora ma non sono preoccupata. Avrò scatenato un bel trambusto dall’altra parte di quello specchio. Immagino che stiano telefonando all’unità persone scomparse, controllando le fotografie di Rebecca e confrontandole meticolosamente con me. Questo dovrebbe bastare a convincerli; la somiglianza è sorprendente. La vidi qualche mese fa. Ero sotto le coperte insieme a Peter, un piccolo fagotto di calore. Di solito avevo la lacrima facile quando ero sotto i postumi di una sbronza, e passavo la giornata rintanata in camera ascoltando musica triste. Con lui era diverso. Ci svegliavamo a mezzogiorno e stavamo seduti sul divano tutto il giorno mangiando pizza e fumando sigarette finché non cominciavamo a sentirci meglio. All’epoca ero an-

9


cora convinta che i soldi dei miei genitori non contassero nulla, che avessi solo bisogno d’amore. Stavamo guardando uno stupido programma chiamato Wanted. Parlava di una serie di macabri omicidi avvenuti a Melbourne, in un posto chiamato Holden Valley Aged Care, così mi misi a cercare il telecomando. Le nonnette massacrate erano decisamente deprimenti. Mentre stavo per cambiare canale cominciò la storia successiva, e sullo schermo balenò una fotografia. La ragazza aveva il mio naso, i miei occhi, i miei capelli ramati. Perfino le mie lentiggini. «Rebecca Winter ha finito il turno serale da McDonald’s a Manuka, distretto Inner South di Canberra, il diciassette gennaio del 2003» disse un uomo in tono drammatico, in sottofondo alla fotografia, «ma tra la fermata dell’autobus e casa sua è scomparsa, e nessuno l’ha più rivista.» «Porca troia, sei tu?» chiese Peter. Sullo schermo comparvero i genitori della ragazza, dicendo che la figlia era scomparsa da più di dieci anni ma non avevano ancora perso le speranze. La madre sembrava sull’orlo del pianto. Una seconda fotografia: Rebecca Winter con indosso un abito verde sgargiante, il braccio sulle spalle di un’altra adolescente con i capelli biondi. Per un assurdo istante cercai di ricordare se avessi mai avuto un abito come quello. Un ritratto di famiglia: i genitori trent’anni più giovani, due fratelli sorridenti e Rebecca al centro. Idilliaci. Mancava solo una palizzata bianca sullo sfondo. «Cazzo, dici che vi hanno separate alla nascita?» «Sì, ti piacerebbe!»

10


Scherzammo per un po’ sulle sue volgari fantasie con due gemelle, e Peter si scordò quasi subito di quella storia. Niente indugiava a lungo nella sua mente. Mi sforzo di ricordare tutti i dettagli di quel programma. Veniva da Canberra, un’adolescente, forse quindici o sedici anni al momento della scomparsa. Per certi versi sono stata fortunata che il mio viso sia gonfio e contuso. Maschera le sottili differenze tra noi. Quando il livido sparirà, avrò già levato le tende da un pezzo. Devo solo guadagnare tempo a sufficienza per lasciare la stazione e arrivare in aeroporto, magari. Per un momento mi domando cosa farò a quel punto. Chiamerò papà? Non gli parlo da quando me ne sono andata. Ho alzato la cornetta di un telefono pubblico un paio di volte, digitando addirittura il suo numero di cellulare. Poi nella mia mente è echeggiato il tonfo straziante di un corpo cedevole contro il metallo, e ho riattaccato con le mani tremanti. Di sicuro non voleva parlare con me. La porta si apre e la poliziotta mette dentro la testa e mi sorride. «Non ci vorrà ancora molto. Posso portarti qualcosa da mangiare?» «Sì, per favore.» L’accenno di imbarazzo nella sua voce, quel suo modo di guardarmi e poi distogliere subito gli occhi. Li ho in pugno. Mi porta un contenitore di noodles bollenti presi dal vicino take-away. Sono unti e un po’ viscidi, ma non ho mai apprezzato così tanto un pasto. Alla fine, un de-

11


tective entra nella stanza. Appoggia un fascicolo sul tavolo e scosta una sedia. Ha un aspetto rozzo, con il collo grosso e gli occhi piccoli. Dal modo in cui si siede, capisco che devo fare leva sul suo ego. Sembra che cerchi di occupare quanto più spazio possibile, appoggiando il braccio sulla sedia accanto a lui, allargando le gambe. Sorride dall’altro capo del tavolo. «Mi spiace che ci stiamo mettendo tanto.» «Non c’è problema» rispondo, gli occhi sgranati, la voce sottile. Giro appena il viso per assicurarmi che veda il livido. «Tra poco ti portiamo in ospedale, va bene?» «Non sono ferita. Voglio solo andare a casa.» «È la prassi. Abbiamo provato a contattare i tuoi genitori, ma non hanno ancora risposto.» Immagino il telefono che squilla nella casa deserta di Rebecca Winter. Probabilmente è meglio così; i suoi genitori complicherebbero solo le cose. Il detective prende il mio silenzio per delusione. «Non preoccuparti, sono sicuro che presto li rintracceremo. Dovranno venire qui per l’identificazione. Poi potrete andare a casa insieme.» È l’ultima cosa di cui ho bisogno, sentirmi dare dell’imbrogliona di fronte a una stanza piena di poliziotti. La mia sicurezza comincia a vacillare. Devo dare una svolta alla situazione. Parlo a testa bassa. «Voglio solo andare a casa.» «Lo so. Non ci vorrà ancora molto.» La sua voce è come una carezza sulla testa. «Ti sono piaciuti?» Guarda il contenitore vuoto dei noodles.

12


«Erano buonissimi. Sono stati tutti fantastici» dico, attenendomi alla parte della vittima timorosa. Il detective apre la cartella di cartoncino. È il fascicolo di Rebecca Winter. È il momento dell’interrogatorio. Faccio scorrere gli occhi sulla prima pagina. «Potresti dirmi il tuo nome.» «Rebecca.» Tengo gli occhi bassi. «E dove sei stata tutto questo tempo, Rebecca?» chiede, sporgendosi per sentirmi. «Non lo so» sussurro. «Ho avuto tanta paura.» «C’era qualcun altro con te? Qualcun altro tenuto prigioniero?» «No. Solo io.» Si avvicina ancora di più, finché il suo volto è a pochi centimetri dal mio. «Mi ha salvata» dico, guardandolo dritto negli occhi. «Grazie.» Vedo il suo petto gonfiarsi. Canberra è a sole tre ore da qui. Mi basterà spingere ancora un po’. Ora che si sente un grand’uomo, non riuscirà a dirmi di no. È la mia unica occasione di andarmene da qui. «Per favore, mi lascia tornare a casa?» «Dobbiamo assolutamente interrogarti e farti visitare in ospedale. È importante.» «Possiamo farlo a Canberra?» A questo punto lascio sgorgare le lacrime. Gli uomini odiano vedere piangere le ragazze. Li mette a disagio, per qualche ragione. «Ti riaccompagneranno a Canberra prestissimo, ma prima dobbiamo seguire la prassi, d’accordo?»

13


«Ma è lei il capo qui, no? Se dirà che posso andare, dovranno eseguire i suoi ordini. Voglio solo vedere la mamma.» «Va bene» dice, alzandosi di scatto. «Non piangere. Vedrò cosa posso fare.» Torna dicendo che ha sistemato tutto. Verrò condotta a Canberra dai poliziotti che mi hanno fermata, e lì subentrerà il detective dell’unità persone scomparse che ha lavorato al caso di Rebecca Winter. Annuisco e gli sorrido, guardandolo come fosse il mio nuovo eroe. Non arriverò mai a Canberra. Un aeroporto sarebbe più comodo, ma sono certa che riuscirò a fuggire in qualche modo. Non sarà troppo difficile, ora che mi considerano una vittima. Mentre usciamo dalla sala interrogatori, tutti si voltano a guardarmi. Una donna ha una cornetta premuta contro l’orecchio. «È proprio qui. Mi lasci chiedere.» Si appoggia la cornetta contro il petto e guarda il detective. «È la signora Winter, finalmente l’abbiamo trovata. Vuole parlare con Rebecca. È possibile?» «Ma certo» risponde il detective, e mi sorride. La donna mi porge la cornetta. Mi guardo intorno. Tutti tengono la testa bassa, ma è chiaro che stanno ascoltando. Prendo il telefono e lo avvicino all’orecchio. «Pronto?» «Becky, sei tu?» Apro la bocca, dovrò pur dire qualcosa ma non so cosa. La donna continua a parlare.

14


«Oh, tesoro, grazie a Dio. Non riesco a crederci. Stai bene? Continuano a dire che non sei ferita ma non riesco a crederci. Ti voglio bene. Come stai?» «È tutto a posto.» «Resta dove sei. Tuo padre e io stiamo venendo a prenderti.» Cazzo. «Stiamo per partire» dico, quasi sussurrando. Non deve accorgersi che la mia voce è tutta sbagliata. «No, ti prego, non muoverti. Resta lì al sicuro.» «Così faremo prima. È tutto organizzato.» La sento deglutire, un suono pesante e denso. «Arriveremo prestissimo.» La sua voce sembra strozzata. «Devo andare» dico. Poi, notando tutte quelle orecchie drizzate, aggiungo: «Ciao, mamma». La sento singhiozzare mentre restituisco la cornetta. L’ultimo barlume di sole è scomparso, lasciando un cielo grigio pallido. Siamo in macchina da circa un’ora e la conversazione si è esaurita. È evidente che i poliziotti muoiono dalla voglia di chiedermi dove sono stata per tutto questo tempo, ma si trattengono. È un vero colpo di fortuna, perché probabilmente sanno meglio di me dove Rebecca Winter potrebbe avere trascorso gli ultimi dieci anni. Paul Kelly canta un pezzo sdolcinato alla radio. Le gocce di pioggia tamburellano sul tetto della macchina e scivolano lungo i finestrini. Potrei addormentarmi.

15


«Vuoi che alzi il riscaldamento?» chiede Thompson, osservando il mio cappotto. «Sto bene» dico. In realtà non posso togliermi il cappotto, anche se comincio a essere un po’ accaldata. Ho un neo appena sotto l’incavo del gomito. Una voglia di caffè grande più o meno quanto una moneta da venti centesimi. Da bambina la odiavo. Mia madre mi diceva sempre che era il segno lasciato dal bacio di un angelo. È uno dei pochi ricordi che ho di lei. Crescendo ho cominciato quasi ad apprezzarla, forse perché mi fa pensare a lei, o forse solo perché è parte di me. Ma non era parte di Bec. Anche se dubito che qualcuno di questi idioti abbia letto il fascicolo delle persone scomparse in modo così scrupoloso da notare la parola nessuna alla voce voglie, non vale la pena rischiare. Provo a sforzarmi di pianificare la fuga. Eppure non riesco a pensare ad altro che alla madre di Rebecca. Al modo in cui mi ha detto Ti voglio bene. Non era come quando me lo diceva mio padre se qualcuno ci stava guardando o se voleva farmi stare buona. Lei lo ha detto in modo così naturale, così gutturale, come fosse uscito dal profondo. La donna verso cui stiamo sfrecciando mi vuole davvero bene. O meglio, vuole bene alla persona che crede che sia. Chissà cosa sta facendo in questo momento. Starà chiamando gli amici per informarli, lavando le lenzuola per me, correndo al supermercato per comprare altro cibo, temendo che non riuscirà a dormire per l’eccitazione? Immagino cosa succederà quando la chiameranno per dirle che mi hanno persa per stra-

16


da. Questi due poliziotti probabilmente finiranno in un mare di guai. Di questo non mi preoccupo, ma di lei? Del letto appena rifatto che mi aspetta? Del cibo in frigorifero. Di tutto quell’amore. Che spreco. «Devo andare in bagno» dico, notando il cartello di un’area di sosta. «Va bene, tesoro. Sei sicura di non voler aspettare una stazione di servizio?» «No.» Sono stanca di essere gentile con loro. L’auto sterza verso la strada sterrata e si ferma fuori dal bagno di mattoni. Lì accanto ci sono un vecchio barbecue, due tavoli da picnic, e appena oltre una fitta vegetazione. Là fuori non riusciranno a trovarmi, se partirò con un vantaggio decente. La poliziotta si slaccia la cintura. «Non sono una bambina. Posso fare pipì da sola, grazie.» Scendo dall’auto e sbatto la portiera alle mie spalle senza darle il tempo di ribattere. La pioggia mi bagna il viso, gelida sulla pelle sudata. È bello essere fuori da quella macchina soffocante. Mi guardo indietro prima di entrare in bagno. I fanali sono accesi sotto la pioggia, e dietro i tergicristalli vedo i poliziotti parlare e muoversi sui sedili. Il bagno è disgustoso. Il pavimento di cemento è allagato, e dappertutto galleggiano fazzoletti di carta appallottolati come iceberg in miniatura. C’è puzza di birra e vomito. Una bottiglia di Carlton Draught è appoggiata accanto al water, e la pioggia picchietta sul tetto di lamiera. Immagino come trascorrerò la not-

17


tata, nascondendomi sotto la pioggia. Dovrò vagare senza meta finché non raggiungerò una città, e poi? A breve avrò di nuovo fame, e sono ancora senza un soldo. L’ultima settimana è stata la più orribile della mia vita. Sono stata costretta ad abbordare uomini nei bar solo per avere un posto dove dormire, e una sera, la peggiore, non ho avuto altra scelta che nascondermi nei bagni pubblici di un parco. Spaventandomi a morte al minimo rumore. Pensando al peggio. Sembrava che quella notte non sarebbe mai finita, che il giorno non sarebbe mai arrivato. Quel bagno somigliava un po’ a questo. In un attimo di cedimento, immagino l’alternativa: il letto caldo, la pancia piena, i baci sulla fronte. Tanto basta. La bottiglia si rompe facilmente contro la tavoletta del water. Prendo una grossa scheggia di vetro. Mi acquatto nel gabinetto e stringo il braccio tra le ginocchia. Mi accorgo che ho cominciato a piagnucolare, ma non ho il tempo di mostrarmi debole. Ancora un minuto e la poliziotta verrà a controllarmi. Quando affondo la scheggia nella voglia marrone, il dolore è sconvolgente. Sanguina più di quanto pensassi, ma non mi fermo. La pelle si stacca come la buccia di una patata. La fodera della giacca scivola sulla ferita aperta quando abbasso la manica. Getto la prova insanguinata nel bidone e mi lavo via il sangue dalle mani. La vista comincia ad annebbiarsi e sento rigirarsi nella pancia i noodles troppo unti. Mi aggrappo al lavandino e respiro a fondo. Posso farcela.

18


Sento il tonfo di una portiera sbattuta, poi un rumore di passi. «Va tutto bene?» chiede la poliziotta. «Soffro un po’ il mal d’auto» dico, controllando che non ci sia sangue nel lavandino. «Oh, tesoro, siamo quasi arrivati. Dicci pure di accostare, se devi vomitare.» La pioggia si è fatta più intensa, il cielo è di un nero cupo. Ma l’aria gelida mi aiuta a combattere la nausea. Mi siedo sul sedile posteriore e chiudo la portiera con il braccio buono. Ci immettiamo di nuovo in autostrada. Sollevo il braccio dolente accanto al poggiatesta, temendo che il sangue cominci a gocciolare dal polso, e abbandono la testa contro il finestrino. Ora che il malessere è passato mi sento solo stordita. Mi appisolo, cullata dal picchiettio costante della pioggia, dai toni smorzati della radio e dal calore dell’auto. Dopo essere rimasti in silenzio per non so quanto tempo, i poliziotti cominciano a parlare. «Secondo me si è addormentata.» È stato l’uomo a dirlo. Sento scricchiolare il sedile di pelle mentre la donna si volta a guardarmi. Non mi muovo. «Sembra di sì. Sarà stancante essere una troietta del genere.» «Secondo te dov’è stata per tutto questo tempo?» «Tiro a indovinare? È scappata con un uomo, probabilmente sposato. Quello si sarà stancato di lei e le avrà dato il benservito. Scommetto che era anche ricco,

19


dato che questa guarda tutti quanti dall’alto in basso.» «Ha detto di essere stata rapita.» «Lo so. Ma da come si comporta non si direbbe, ti pare?» «In effetti, no.» «E sembra in buone condizioni, tutto sommato. Se è stata rapita, il tizio dev’essersi affezionato parecchio. Dico solo questo. Tu che ne pensi?» «Francamente, non me ne frega niente» risponde lui. «Ma credo proprio che potrebbe fruttarci un encomio.» «Non lo so. Non dovrebbe essere in ospedale o qualcosa del genere? Non credo che quell’idiota avrebbe dovuto lasciarla andare appena ha schioccato le dita.» «Cosa dice il protocollo? So cosa dobbiamo fare quando questi ragazzini spariscono, ma cosa succede quando tornano?» «Che cazzo ne so. Mi sa che quando lo spiegavano avevo un bel doposbronza.» Ridono, e nell’auto cala di nuovo il silenzio. «Sai, è tutto il giorno che mi chiedo chi mi ricorda» dice d’un tratto la poliziotta. «Poi ho capito. Al liceo c’era questa ragazza che aveva detto a tutti di avere un tumore al cervello ed era stata a casa da scuola una settimana per l’intervento. Con alcuni amici abbiamo organizzato una colletta. Penso fossimo tutti convinti che sarebbe morta. Invece il lunedì è tornata a lezione sana come un pesce, e per qualche ora è stata la ragazza più popolare della scuola. Poi qualcuno ha notato che non le avevano rasato i capelli, neanche un centimetro. Era

20


stata tutta una farsa, dall’inizio alla fine. Quella ragazza ci guardava proprio come ha fatto la nostra principessina quando l’abbiamo incontrata la prima volta. Ha quel modo di osservarti, di squadrarti con un luccichio glaciale negli occhi, come se la sua mente stesse viaggiando a un milione di chilometri al minuto per escogitare il modo migliore per fotterti.» Dopo un po’ smetto di ascoltare i loro discorsi. Ricordo che dovrò parlare con il detective non appena arriverò a Canberra, ma sono troppo stordita per tentare di pianificare le mie risposte. L’auto lascia la strada principale. Mi sveglio per il sussulto dei freni e la luce che si accende quando la poliziotta apre la portiera. «Svegliati, signorina» dice. Tento di drizzarmi a sedere ma è come se i miei muscoli fossero di gelatina. Sento una voce nuova. «Voi dovete essere gli agenti Seirs e Thompson. Io sono l’ispettore capo Andopolis. Grazie di avere fatto gli straordinari per accompagnarla fino a qui.» «Nessun problema, signore.» «Diamoci da fare. So che la madre è al settimo cielo, ma prima ho parecchie domande da farle.» Lo sento aprire la portiera accanto a me. «Rebecca, non immagini quanto sia felice di vederti» dice. Poi si inginocchia accanto a me. «Stai bene?» Mi sforzo di guardarlo ma il suo viso gira vorticosamente. «Sì, tutto a posto» mormoro.

21


«Perché è così pallida?» sbraita. «Cosa le è successo?» «Sta bene. Soffre solo il mal d’auto» risponde la poliziotta. «Chiamate un’ambulanza!» sbotta Andopolis, poi si allunga per slacciarmi la cintura. «Rebecca? Mi senti? Cos’è successo?» «Mi sono ferita un braccio quando sono scappata» mi sento dire. «Non è niente, fa solo un po’ male.» Mi scosta la giacca. Sono imbrattata di sangue rappreso fino alla clavicola. La vista si annebbia ancora di più. «Imbecilli! Razza di idioti!» Ora la sua voce sembra lontana. Non vedo la reazione degli agenti; non vedo i loro volti impallidire. Ma posso immaginarli. Sorrido mentre l’ultimo barlume di coscienza mi abbandona.

22



Ringraziamenti

Alla mia agente, MacKenzie Fraser-Bub, che ha scovato quest’opera in mezzo a un mucchio di manoscritti. Ăˆ una donna straordinaria e sono fortunata ad averla al mio fianco. Alla mia editor, Kerri Buckley, con cui ho creato un forte legame tramite Track Changes prima ancora di conoscerla di persona, e alla squadra favolosa di MIRA, che si è dimostrata eccezionale fin dal primissimo istante. A Nicole Brebner e a Jon Cassir, che hanno creduto entrambi in questa storia. Ovviamente la storia di questo romanzo ha avuto inizio molto prima. Ai miei amici di Kino, che mi hanno sempre ispirata e supportata mentre raccattavamo popcorn e preparavamo i gelati ricoperti di cioccolato. Al fantastico gruppo di scrittori che mi ha tenuta in riga durante il processo di scrittura, a tratti sofferto. A Ian Pringle, che continua a insegnarmi anche se ho smesso da tempo di essere una sua studentessa; a Graeme Simsion per i suoi preziosissimi consigli; e a Jenny Laylor per la sua competenza in ambito legale. Al sergente

331


Kylie Whiting dell’unità persone scomparse del Nuovo Galles del Sud, e a Ken Wooden, coordinatore del modulo sulle procedure di polizia presso la Western Sydney University, che hanno risposto pazientemente alle mie domande pedanti. Ho la fortuna di poter contare sul sostegno di molti amici cari. Sono grata alle mie amiche Phoebe Baker, Lara Gissing e Lou James, che rendono tutto più divertente. Allo straordinario sceneggiatore Joe Osbourne, che condivide la mia passione per il bizzarro. Ai maghi della scrittura, David Travers, Martina Hoffman e Rebecca Carter Stokes, che hanno letto le bozze di questo romanzo e non si sono fatti problemi a evidenziarne i difetti. Ad Allegra Mee, che mi ha permesso di rubacchiare molti ricordi della nostra adolescenza. Ad Adam Long, che ascolta sempre. E ovviamente, fin dall’inizio di questa mia avventura, ringrazio la mia famiglia. Amy Snoekstra, mia sorella, che ha insistito perché scrivessi un romanzo finché non mi sono convinta che fosse un’idea mia. Ai miei genitori Ruurd e Liz, due persone meravigliose e intelligenti che mi hanno incoraggiata a fare qualsiasi cosa mi rendesse felice, e ai miei suoceri generosi e divertenti, David e Tess. Infine, a Ryan, l’amore della mia vita.




Questo volume è stato stampato nel marzo 2017 presso la Rotolito Lombarda - Milano


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.