ROMANCE
MARIE BOSTWICK
La casa dei ricordi
Immagine di copertina: Wavebreakmedia / iStock / Getty Images Plus / Getty Images sandipruel / iStock / Getty Images Plus / Getty Images Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The Restoration of Celia Fairchild William Morrow An imprint of HarperCollinsPublishers © 2021 Marie Bostwick Traduzione di Alessandra De Angelis Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con HarperCollinsPublishers, LLC, New York, U.S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. Harmony è un marchio registrato di proprietà HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved. © 2021 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione Harmony Romance ottobre 2021 HARMONY ROMANCE ISSN 1970 - 9943 Periodico mensile n. 277 del 19/10/2021 Direttore responsabile: Sabrina Annoni Registrazione Tribunale di Milano n. 72 dello 06/02/2007 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distribuzione canale Edicole Italia: m-dis Distribuzione Media S.p.A. Via Carlo Cazzaniga, 19 - 20132 Milano HarperCollins Italia S.p.A. Viale Monte Nero 84 - 20135 Milano
Dedica
Per Mark Lipinski, il mio migliore amico per sempre. E sempre. E sempre.
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Le luci del palco erano accecanti, e non in senso metaforico. Quando il conduttore mi presentò e il pubblico cominciò ad applaudire, uscii da dietro le quinte, con un sorriso che mi sembrava piuttosto una smorfia, strizzando le palpebre e battendole come una marmotta che emergeva dal letargo. Non vedevo nulla, compreso il cavo nero che si snodava dal bordo del palco al podio. Quando inciampai e feci un capitombolo in avanti, agitai freneticamente le braccia come le zampe di un gatto che aveva calcolato male la distanza dal balcone a terra. Se il presentatore non mi avesse afferrato sotto le ascelle con prontezza, sarei piombata giù di faccia davanti a settecento persone che avevano pagato sessanta dollari a testa per mangiare una scaloppina di pollo al marsala e sentirmi parlare. Oddio, non erano venuti a sentire me, ma Calpurnia. Non era la stessa cosa. Facendo un errore tremendo, mi ero presentata a quella serata di beneficenza con un tacco dodici per bloccare sul nascere gli inevitabili commenti del tipo la facevo più alta, che mi toccava sempre sentire dai fan durante le mie rare apparizioni in pubblico. Non sapevo che cosa dire, anche se mi capitava spesso. Che cosa potevo rispondere? Scusa se ti ho deluso? Mi sforzerò di crescere? Tutto il caffè che bevevo da bambina mi ha bloccato lo sviluppo? Sono un metro e sessantatré scalza; non alta, ma neppure bassa. Anzi, è l'altezza media delle donne americane. Ma evidentemente non era abbastanza per i lettori di Calpurnia. Si aspettavano che fossi sopra la media in tutto. Ed era per questo che non mi facevo vedere in pubblico quasi mai, oltre al fatto che non ero poi così famosa; chi mi vedeva rimaneva sempre deluso. Ma come potevo dire di no a una raccolta fondi per sovvenzio7
nare un doposcuola per ragazzi disagiati? Non potevo. E poi la mia terapeuta diceva che era ora di rimettermi in gioco, e forse aveva ragione. Perciò mi ero infilata a forza una guaina contenitiva, uno scintillante abito da sera rosso che solo qualche settimana prima non era poi così stretto, e degli assurdi sandali dai tacchi a spillo, ed ero uscita. A un certo punto tra quando avevo inciampato e quando ero caduta, un tacco si era rotto; così, dopo che il presentatore mi aveva raddrizzata, ero arrivata alla pedana del leggio zoppicando come il gobbo di Notre Dame. Tra la folla serpeggiò una risatina. Quando la mia preghiera che la terra si spalancasse e m'inghiottisse non fu ascoltata, pensai a quello che avrebbe fatto Calpurnia. Faccia tosta. Strinsi forte i bordi del leggio e mi protesi verso il microfono, poi dissi in tono ironico: «Be', che posso dire? Mi è sempre piaciuto fare un ingresso teatrale». Il pubblico rise di nuovo, ma stavolta con me e non di me. Sorrisi. «Queste non mi servono più, che ne dite?» Mi tolsi una scarpa e poi l'altra, e le tirai a un cinquantenne in prima fila, l'unico che riuscivo a vedere grazie al gilet verde luccicante che portava sotto lo smoking. «Tieni, dolcezza. Sono giusto della tua misura.» Il pubblico impazzì, tra risate e lunghi applausi. Probabilmente molti pensavano che fosse una scena preparata. E in effetti per certi versi faceva parte dello spettacolo. Ma era per questo che odiavo questi eventi: perché era tutto uno show. Ed era anche per questo che ogni tanto odiavo anche i miei fan, almeno un pochino. Perché non erano veramente miei. Non volevano me, volevano lo spettacolo. Volevano Calpurnia. Feci qualche breve commento sull'importanza di quel progetto benefico e delle ricadute positive sui ragazzi della città dei fondi raccolti quella sera, poi qualcuno finalmente abbassò le luci in scena per permettermi di vedere il pubblico e rispondere alle domande. Il primo con il microfono in mano era il tizio con il gilet verde, che stringeva ancora in mano la mia scarpa con il tacco rotto. «La mia è più un'osservazione che una domanda» esordì. «Sono un suo grande ammiratore. Sento di conoscerla e volevo solo dire che... l'amo veramente!» Capito? Come può amarmi? Non è vero che mi conosce. E io non ne posso più! 8
Un respiro profondo. Capivo che diceva in senso lato e che ormai si abusava del termine amo così come di odio. Gilet Verde non mi amava; gli piacevo o, per la precisione, gli piaceva quello che scrivevo. Era un complimento, me ne rendevo conto. Non mi amava, e io non lo odiavo. Però lo trovavo irritante, più di quanto mi avrebbe infastidito solo qualche mese prima. Dopo cinquemila dollari e quattro mesi di terapia con una psicologa vagamente crudele avevo capito che il motivo per cui finivo sempre per soffrire era perché ero troppo ansiosa di riprendere quello che mi era stato strappato tanti anni fa. La disperazione faceva commettere errori madornali, come ignorare i segnali d'allarme e gli avvertimenti di amici troppo schietti. Ma tutto questo non era colpa di Gilet Verde, perciò sorrisi e gli diedi l'unica risposta possibile: «Anch'io ti amo, tesoro». Poi risposi alla domanda successiva, e a quella dopo, e a quella dopo ancora. Mi chiesero consigli sulle finanze e i fidanzati, ex mogli, ambizioni lavorative e sogni infranti. Però in realtà tutti volevano la stessa cosa: una speranza per andare avanti. Mentre raccontavano le loro storie al microfono, dall'irritazione passai all'indulgenza e infine all'ammirazione. La loro fragilità era commovente e, in effetti, anche coraggiosa. Se fossi stata coraggiosa come loro, forse avrei alzato una mano per interromperli e avrei confessato che la mia vita era un disastro, che io ero un disastro. Ma non lo ero. E, anche se lo fossi stata, quale utilità avrebbe avuto per loro? Perciò feci del mio meglio. Ascoltai quello che dicevano, e quello che non dicevano, e cercai di essere la Calpurnia su cui contavano, dando loro consigli. Parlare non dovrebbe essere tanto faticoso, ma fui riconoscente al presentatore quando annunciò che era scaduto il tempo a disposizione. Il pubblico mi applaudì, io sorrisi, salutai con la mano e mi diressi scalza dietro le quinte con l'orlo del vestito rosso che spolverava il palcoscenico dietro di me. Il direttore esecutivo del progetto mi trovò un paio d'infradito usa e getta, tipo quelle da pedicure, poi mi mise su un taxi per tornare a casa. Il tassista era un chiacchierone, ma risposi a monosillabi e poi chiusi gli occhi per fargli capire che non avevo voglia di parlare. Volevo solo arrivare al più presto al mio appartamento, togliermi l'abito da sera con l'orlo sporco, sgusciare fuori a fatica dal9
la stretta della guaina, più letale di un boa constrictor, e buttarmi a letto. Ero stanca, tanto stanca che fui tentata di far partire la segreteria telefonica quando ricevetti una chiamata. Però per quanto mi sforzi, quando sullo schermo appare la scritta Numero sconosciuto o anche Privato, non riesco a ignorare gli squilli del telefono. C'è sempre una parte di me che pensa, o spera, che sia una buona notizia. O cattiva? In ogni caso voglio saperlo. Sarebbero passati mesi prima di capire se era una buona o una cattiva notizia. Ma dal momento in cui risposi e una voce disse: «Signorina Fairchild? Sono Anne Dowling, un avvocato specializzato in adozioni», la mia vita non fu più la stessa.
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Le brioche alle mandorle avevano un'aria allettante. E anche quelle al cioccolato. Però avevo deciso – ne avrei ordinata una vuota. Perché? Perché mi aveva chiamato Anne Dowling ed era un nuovo giorno, pieno di possibilità inesplorate. E perché, come continuava a farmi notare la mia terapeuta con un pizzico di sadismo, ora basta, no? In materia di cibo e sofferenze, ci sono essenzialmente due categorie di persone: quelle che quando sono emotivamente devastate non riescono a mandare giù neppure un boccone, e quelle che si sfogano mangiando. Io faccio parte della seconda. Nei tre mesi successivi al divorzio avevo preso quattro chili. Per la precisione, tre chili e ottocento grammi dopo essere salita di nuovo sulla bilancia senza niente addosso, la mattina dopo la serata di beneficenza. Però due etti non cambiavano il fatto che ero stata costretta a cambiarmi e indossare i leggings prima di uscire perché non riuscivo ad abbottonare i soliti pantaloni. Non soffrivo per la fine del mio matrimonio di per sé. Nella mia lunga storia di terribili scelte sentimentali, Steve aveva stabilito un record negativo: cinque relazioni extraconiugali in tre anni di matrimonio, la prima delle quali con la giudice di pace che aveva celebrato le nostre nozze. Davvero, chi arriva a tanto? Steve Beckley, ve lo dico io. Mio marito, ora ex marito. Se mi fossi data dei consigli invece di essere me, l'avrei previsto da tempo. La storia lampo con Steve prima delle nozze era stata piena di campanelli d'allarme assordanti. Però sono nota per essere una campionessa di predica bene e razzola male, un'ironia che non sfugge a tutti quelli che mi conoscono. Sposare Steve mi era parsa 11
l'ultima possibilità di avere la vita che desideravo disperatamente. Troppo disperatamente. Mi rendevo conto che la mia infanzia aveva influenzato pesantemente le mie decisioni poco sagge riguardo a Steve. Ma indipendentemente da quello che poteva dire la mia terapeuta, il mio desiderio di maternità non dipendeva completamente dai miei problemi familiari. C'entrava anche la biologia. Il desiderio di riprodursi è uno stimolo normale, naturale e potente, e non ero l'unica trentacinquenne single di New York che voleva sposarsi e avere figli, giusto? Non era possibile che fossimo tutte nevrotiche! Mi ero dedicata alla carriera, ero anche diventata relativamente famosa, anche se non ero una di quelle celebrità in cima agli elenchi di tutti i locali alla moda, e mi andava bene così. Ero grata per le occasioni che avevo avuto, però... non mi bastava. Essere nota a tante persone che ammiravano quella che credevano fossi, il ruolo che recitavo, non era uguale a essere importante per poche persone che mi conoscevano veramente e mi volevano bene comunque, anche se non ero perfetta né avevo tutte le risposte, o predicavo bene e razzolavo male... Per me la famiglia era questo – le persone che mi volevano bene ugualmente. Ed era ciò a cui ambivo. Era tanto terribile? Ma quando Steve mi aveva lasciato, mi aveva portato via l'ultima possibilità di avere quella vita con lui. Almeno era ciò che credevo, finché non mi aveva chiamato Anne Dowling. Avevo smesso di scrivere lettere alle madri biologiche da quasi un anno. Ormai era chiaro che il matrimonio non sarebbe durato ancora molto, e persino io mi rendevo conto che portare un bambino in una famiglia che era sul punto di andare in pezzi non era una buona idea. Sapevo anche che tentare la via dell'adozione da genitore single sarebbe stato ancora più difficile, perciò mi ero rassegnata a rinunciare alla maternità. Però evidentemente c'era ancora qualcuna di quelle lettere in giro, perché dopo avere letto una pila di missive dello stesso tenore che le erano arrivate, la cliente di Anne Dowling, una madre nubile della Pennsylvania, aveva ristretto la rosa dei potenziali genitori adottivi a tre coppie, e io e Steve eravamo i primi della lista. Un bambino! Dopo tanti anni di delusioni e speranze distrutte, qualcuno voleva veramente darmi suo figlio in adozione! In quel momento avevo buttato nella spazzatura tutto quello su cui erava12
mo d'accordo io e la mia terapeuta, tutti i discorsi sul fatto che il mio desiderio di maternità derivava dall'impulso profondo, e forse malsano, di ricreare la famiglia che avevo perso. C'era un bambino disponibile, e io lo volevo. E al diavolo la terapeuta. Ma quando le avevo spiegato il cambiamento intervenuto nel mio stato civile, la Dowling aveva detto: «Ah. Mi dispiace, signora Fairchild, ma la mia cliente preferisce dare il figlio a una coppia». A quel punto il mio cuore che era tra le nuvole era precipitato a terra e si era schiantato. Ero disperata, veramente disperata. Avevo a portata di mano ciò che più desideravo al mondo per vedermelo strappare solo perché Steve era un traditore seriale e un bastardo patentato. Perciò avevo fatto ciò che mi ero ripromessa di non fare: avevo giocato la carta di Calpurnia. «Scherza?» aveva riso la Dowling. «Lei è Calpurnia? Mia madre l'adora! Mi manda ritagli della sua rubrica almeno una volta al mese.» Non era la prima volta che me lo sentivo dire. Nella mia rubrica scrivevo le cose che tutti avrebbero voluto dire ai figli adulti ma non potevano. «Davvero? Spero che non se la prenda con me per questo.» Anne Dowling aveva riso di nuovo, quasi euforica, e la sua reazione non mi aveva sorpreso. L'incontro inaspettato con una persona famosa, anche se era d'importanza minore come me, era sempre entusiasmante per la gente comune. Ci contavo, e speravo che deponesse a mio favore. «Non mi sembra giusto escluderla solo perché suo marito l'ha lasciata» aveva detto quando si era calmata. «Avendo letto la sua rubrica, sono sicura che sarebbe un'ottima madre, anche se è single. Mi faccia parlare con la cliente, poi la richiamo.» Mi aveva ritelefonato la mattina dopo. Anche senza Steve, ero ancora in corsa. Mi aveva spiegato che non c'erano garanzie perché erano sempre in ballo anche altre due famiglie, e comunque bisognava superare i controlli sui precedenti personali e varie verifiche, la più importante delle quali era la visita ispettiva in casa a metà agosto. In ogni caso avevo una possibilità su tre, e poco più di tre mesi per prepararmi. Ed era per questo che, anche se la brioche al cioccolato mi chiamava, avrei preso quella vuota. Un piccolo passo, forse, ma comunque importante. 13
Dal giorno dopo avrei rinunciato del tutto ai dolci, comprato tanta verdura e mi sarei iscritta in palestra. Avrei mangiato sano, e forse seguito anche un programma detox. Avrei seguito i consigli che davo ai miei lettori, mi sarei autogestita bene, avrei evitato gli uomini meschini ed egoisti e non avrei ignorato i campanelli d'allarme. Mi sarei amata, avrei vissuto nel presente, goduto di ciò che avevo e... carpe diem! Avrei comprato jeans di una taglia più piccola e trovato un appartamento più grande. Come diceva il proverbio, per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio, e io dovevo trovarne uno alla svelta. Avrei fatto parte di una parrocchia, dell'associazione genitori-insegnanti e di un circolo di lettura. Avrei comprato una culla, un passeggino e i copripresa di plastica per non far prendere la scossa ai bambini. Avrei acceso una polizza sulla vita e aumentato i contributi al mio fondo pensione. Avrei fatto tutto, e anche di più. Avevo tre mesi e mezzo per trasformarmi nel genitore ideale e sarei diventata una persona diversa. Però per realizzare i miei obiettivi avevo bisogno di più soldi. Come se non bastasse, Steve aveva ottenuto degli alimenti consistenti nell'accordo di divorzio. Ero stata costretta a lasciare l'appartamento nell'Upper West Side con il portiere e la vista sul parco ed ero finita in un monolocale a Washington Heights con la lavanderia condominiale e la vista sul vicolo. Per me andava bene, ma non potevo farci vivere un bambino. Dovevo trovare un appartamento con due camere in un quartiere tranquillo con buone scuole, preferibilmente vicino alla fermata della metro e a un parco in cui poter arrivare a piedi. Appartamenti così non costavano poco a New York, perciò quel giorno avevo intenzione di chiedere un aumento. Era per questo che avrei ordinato una brioche, anche se vuota. Perché, malgrado tutto quello che avevo scritto sul conoscere il proprio valore e non accontentarsi, avevo paura di affrontare quel discorso. Insomma, predicavo bene e razzolavo male... L'ansia brucia più calorie del dolore, perciò avevo bisogno di una brioche. E di un cappuccino con il latte intero. Ramona, che lavorava al Good Drop, una caffetteria pasticceria a quattro isolati dal mio ufficio, mi vide mentre scrutavo i dolci. «Ehi, Celia. Che prendi?» «Un cappuccino grande e una brioche vuota.» 14
«Vuota? Sicura?» Prese le pinze, ma non accennò a darmela. «Oggi Guillermo ne ha fatta una con un nuovo ripieno, al pistacchio e cardamomo. Chi l'ha provata ha detto che è ottima.» «Nossignora, grazie. Ho...» Ramona rise, e io alzai gli occhi al cielo. Che cosa ci trovavano tutti da ridere? «Da quanto tempo sei a New York? Quindici anni? Non hai più l'accento meridionale, ma dici ancora sissignora e nossignora?» «Forza dell'abitudine.» Ramona prese di nuovo in mano le pinze mentre io fissavo un vassoio di burrose brioche di sfoglia cosparse di zucchero a velo e granella di pistacchi. Pensai all'imminente incontro con il mio capo, m'immaginai seduta davanti alla sua scrivania sulla sedia che traballava sempre, a dire: «Dan, voglio un aumento». Mi sudavano già le mani. «Ripensandoci, prendo quella al pistacchio. E una al cioccolato.» Esitai, pensando ai pantaloni che non si abbottonavano e a tutti quei carboidrati. «Ma il cappuccino con il latte scremato.» «Come ti senti?» mi chiese Ramona dopo avere gridato il mio ordine alla ragazza davanti alla macchina da caffè. «Calvin mi ha detto di Steve. Ti ha lasciato per la donna che vi ha sposati? Che verme.» «No, mi ha lasciato per la sua ortodontista.» Chissà perché, pensavo che avermi lasciato per l'ortodontista, a cui pagavo ancora un conto profumato per l'invisibile apparecchio ai denti di Steve, invece che per una giudice di pace sembrasse meno patetico, ma appena l'ebbi precisato mi resi conto che non era così. «Ehi, prima che me lo dimentichi, hai presente la lettera che ti ha scritto il tizio che aveva tutti quei debiti sulla carta di credito, tanto che gli avevano confiscato la macchina, Povero Paul?» esordì Ramona, illuminandosi con l'aria maliziosa di chi sta per rivelare un pettegolezzo succoso. Fece schioccare la lingua e mise le brioche in un sacchetto. «Era veramente un poveraccio. Mi è piaciuta la tua risposta.» «Oh. Grazie.» Ormai avrei dovuto esserci abituata, ma i complimenti m'imbarazzavano sempre. Consideravo la mia rubrica come una corri15
spondenza privata tra me e chi mi scriveva. A volte dimenticavo che migliaia, anzi, decine di migliaia di persone leggevano quello che ci dicevamo, le lettere a Cara Calpurnia e le risposte, per puro divertimento o per consolarsi. Magari la loro vita era uno schifo, ma era sempre meno disastrosa di quella di Povero Paul. «Dico sul serio, Celia, come fai a essere tanto giovane eppure tanto saggia?» Detesto sentirmi dire queste cose. Quella che ha tutte le risposte è Calpurnia; a volte mi sento solo la sua scrivana. E poi... «Ho trentasette anni, quasi trentotto. Mi sento decrepita.» «Sei fresca come una rosellina» disse Ramona agitando una mano. «E pure intelligente. Se Povero Paul avesse chiesto consiglio a me, gli avrei detto di piantarla di lagnarsi e trovarsi un secondo lavoro.» «Be', più o meno è quello che gli ho risposto io. E anche di cercare un bravo consulente finanziario. L'ho solo messo in maniera più diplomatica.» Ramona scosse la testa. In realtà non mi ascoltava. «Ho lavorato sodo tutta la vita senza mai pretendere niente dagli altri. Ma i giovani d'oggi sono tutti come Povero Paul ed esigono che gli si dia tutto senza faticare. Pensano di meritare un premio solo perché si sono presentati al lavoro. Non si assumono la responsabilità dei loro sbagli.» Si girò verso la ragazza che faceva i caffè. «È pronto quel cappuccino? Allora vieni qui e sostituiscimi alla cassa. Devo fumare.» Il Good Drop era pieno. Allungai il collo, cercando Calvin. Mi ero appena detta che non era venuto quando sentii un fischio familiare, mi girai e lo vidi. Io e Calvin LaGuardia ci eravamo conosciuti proprio lì circa sei anni prima. Mi ero seduta al bancone e avevo attaccato discorso con l'uomo altissimo, corpulento ed elegantissimo sullo sgabello accanto al mio. Quando gli avevo chiesto delle origini del suo nome insolito, mi aveva risposto: «L'ho inventato un giorno, insieme al mio personaggio». L'avevo trovato affascinante. Era una tipica storia di New York. Metà degli abitanti della città, me compresa, si erano trasferiti lì sperando di diventare qualcun altro. Appena aveva pronunciato quelle parole, avevo capito nel profondo del cuore che io e Calvin LaGuardia eravamo destinati a diventare amici. E lo eravamo stati 16
per anni, ma le cose erano cambiate dopo le mie nozze con Steve. Non che fossi sparita, però ci sentivamo meno spesso, e tra noi c'era meno confidenza. C'erano cose che sentivo di non potergli dire, soprattutto riguardo a Steve. Tanto per cominciare, Steve era geloso di Calvin, una cosa assurda. «Come puoi essere geloso di Calvin? È l'uomo più gay di Manhattan. Se m'infilassi tutta nuda nel suo letto, mi direbbe solo di spegnere la luce, cosa che non posso dire dei tuoi amici. Durante l'ultima festa Joey mi ha braccato in un angolo e ha cercato d'infilarmi la lingua in bocca.» «Era ubriaco» aveva replicato Steve con noncuranza, senza capire che cosa volevo dire. Come al solito. «I tuoi amici sono sempre ubriachi. Davvero, come puoi essere geloso di Calvin?» «Passi ore al telefono con lui! Ma di che parlate?» «Mah, di tante cose. Di ricette, politica, della vita, del lavoro. Degli abiti sul red carpet agli Oscar. Dei reality. È per questo che mi piace Calvin. Lui parla con me.» Steve aveva alzato il volume del televisore che trasmetteva il baseball. «Sì, lo so. Per ore.» Oltre a pentirmi di avere sposato Steve, il rimpianto più grande riguardo al mio matrimonio era quello di avere fatto passare in secondo piano la mia amicizia con Calvin. Quando Steve mi aveva lasciato, una delle prime cose che avevo fatto era stata quella di chiamare Calvin per chiedergli scusa. «Non so che cosa dire. Sono stata una cretina. Tu sapevi che non avrebbe funzionato.» «Lo sapevano tutti, non solo io» aveva replicato Calvin. «Già, e molti non hanno avuto remore di dirmelo in faccia... tranne te. Perché? Sapevi che non ti avrei dato ascolto?» «Perché speravo di sbagliarmi. Voglio solo che tu sia felice, tesorino.» «Anch'io.» «Ehi, perché non passi da me? Ho appena fatto i panzerotti. Possiamo mangiarli e poi fare una maratona di Mamme sull'orlo di una crisi da ballo.» «Okay. Però dopo possiamo guardare anche La vita è meravigliosa?» «Ancora?» «I film di Natale rianimano la mia fiducia nell'umanità.» 17
«Rianimano le tue illusioni sull'umanità. Tesorino, Bedford Falls non esiste.» «E invece L'uomo dei sogni sì?» «E va bene, mi arrendo. Ti farò vedere George Bailey.» Sinceramente era quasi valsa la pena perdere Steve per riavere Calvin. Anzi, senza quasi. Calvin è il mio migliore amico. Mi sedetti di fronte a lui, spezzai la brioche al pistacchio e gliene offrii metà, ma Calvin alzò una mano. «Grazie, ho già preso una brioche, un caffellatte e tre madeleine.» «Non dovevi metterti a dieta questa settimana?» «Chiudi il becco» ribatté con un tono vispo che mi fece sorridere, poi prese comunque un pezzo della mia brioche. Lo sapevo. «Mmh, che meraviglia!» gemette. «Guillermo si è superato.» Calvin aveva studiato da chef e lavorato in alcuni dei migliori ristoranti della città, ma aveva smesso quando aveva sposato Simon, un vero santo. Simon girava il mondo con Medici Senza Frontiere. Poteva essere spedito in zone remote dopo una calamità senza preavviso e stare via per settimane. Gli orari massacranti di un ristorante rendevano difficile stare insieme quando Simon era a casa, perciò Calvin aveva appeso al chiodo la giacca da chef per diventare curatore editoriale di libri di cucina. Diceva che non gli mancava la vita frenetica del ristorante, ma non ci credevo del tutto. Vorrei apprezzare di più Simon. Mi piace, intendiamoci, ma non mi è simpatico. È un moralista e tende a pontificare. Forse ne ha il diritto, visto che passa la vita a salvare l'umanità, letteralmente. Però ho l'impressione che guardi dall'alto in basso quelli che hanno lavori meno importanti, cioè praticamente tutti, diciamoci la verità. E poi ha il vezzo fastidioso di toccarsi sempre il naso. Un medico dovrebbe saperlo che non è igienico. Per fortuna lo vedo poco perché è sempre in giro a salvare il mondo, ed evito di stringergli la mano. Però rende felice Calvin, e questo mi basta. «Allora, tesorino, che fai oggi?» mi chiese Calvin dopo avere mangiato l'ultimo boccone. «Oltre ad andare in ufficio a scrivere lettere a un mucchio di persone tristi e narcisiste, voglio dire.» «Non sono persone tristi e narcisiste.» Calvin mi fissò, eloquente. «Okay, qualcuna sì» ammisi. «Ma chi mi scrive è soprattutto confuso, o si sente solo e ha bisogno di parlare. È tanto grave? Qualcuno deve pur interessarsi agli sfigati.» Calvin non li definiva sfigati, ma avevo l'impressione che lo 18
pensasse, come molti, ed era una cosa che mi disturbava. Anche se non avevo mai conosciuto quasi nessuno di quelli che mi scrivevano, e avevo un complesso rapporto di amore e odio con molti di loro, non potevo fare a meno di sentirmi protettiva nei loro confronti. «Ehi, scherzavo. Sono l'ultimo al mondo che possa criticare il lavoro altrui. Sai che cosa farò oggi? La stessa cosa che ho fatto negli ultimi sei giorni» disse Calvin. «Provare ricette per un progetto interminabile, L'enciclopedia definitiva dei dolci. Giuro che quel libro sarà la mia morte. Guardami.» Si scostò dal tavolo e allargò le braccia, mostrandomi la sua camicia extralarge di sartoria, a righe corallo con il monogramma e perfettamente stirata come sempre. «Sono tanto enorme che faccio provincia.» «Ma no!» «Invece sì. Sono una mongolfiera. Il prossimo libro di ricette che curerò dovrà essere sano e dietetico, tipo Evviva la lattuga, oppure Tutti più snelli con il cavolo riccio, cose così.» «Tu detesti il cavolo riccio.» «Tutti lo detestano, ma non vogliono ammetterlo.» «Avrai preso qualche chilo, che sarà mai?» Scrollai le spalle. «Li perderai appena finito questo libro. Quanto ti manca?» «Sono arrivato solo alla M. Questa settimana tocca ai macaron. Ehi, posso portarteli a casa?» esclamò giulivo. «Altrimenti li mangerò tutti.» «Assolutamente no. Non puoi dare un morsetto per assaggiare ogni tipo e vedere se è buono, e poi buttare il resto?» «Non posso, lo sai» gemette lui. «I miei nonni hanno vissuto durante la Depressione e non posso dimenticarlo. E poi ti è piaciuta la crostata che ti ho portato la scorsa settimana. Dai, Celia, aiutami!» «No, non posso, scusa» dissi con fermezza. Calvin si protese verso di me e mise da parte il tono melenso, guardandomi con occhi sinceri e l'aria seria. Calvin è un attore nato. È come se si senta in obbligo d'intrattenere chiunque incontri. Però con me sa di non doverlo fare. È per questo che siamo amici. «Ho preso quindici chili da Natale» disse, angosciato. Feci una smorfia, dispiaciuta per la sua sofferenza. Sapevo che era ingrassato un po' per colpa del libro sui dolci, era impossibile il contrario. Però era alto e imponente, mi superava di almeno trenta centimetri e non mi ero resa conto che avesse preso così tanti chili. «Questo è il mio ostaggio» dichiarò, terminata la sua confessione. «E il tuo?» 19
Da anni io e Calvin facevamo un gioco che lui chiamava Scambio di ostaggi. Uno diceva all'altro qualcosa di sé che non avrebbe voluto fare sapere a nessuno, e poi l'altro ricambiava il favore. All'inizio ero titubante, ma Calvin mi aveva convinto, sostenendo che era un buon modo per conoscere subito bene qualcuno, e aveva ragione. Ormai sapeva tutto di me, o quasi. Alcune questioni legate alla mia infanzia erano troppo complicate da spiegare a me stessa, e tantomeno a lui. Normalmente l'ostaggio era una brutta notizia, o almeno imbarazzante, ma quel giorno per la prima volta ne avevo una bella da comunicargli. «Ho deciso di diventare una persona nuova e migliore, Calvin.» Lui mi guardò confuso. «Perché? Cos'ha che non va la persona che sei ora?» Sorrisi, feci un respiro profondo poi gli diedi la notizia. «Un bambino? Davvero? Oh, sono tanto felice per te!» Calvin balzò in piedi, mi fece alzare e mi stritolò nel suo abbraccio. «Aspetta, non c'è ancora niente di certo. La madre biologica sta considerando anche altre due famiglie.» «Sceglierà te, lo so. Chi meglio di Cara Calpurnia per allevare un bambino?» «Non corriamo troppo. Non voglio illudermi» dissi, anche se era ormai troppo tardi. «Devo trovare un'altra casa prima della visita ispettiva.» «Vieni nel mio palazzo! A fine mese si libera un appartamento di due camere. Avresti il servizio di babysitter sul posto, gli zii Calvin e Simon!» «Non posso permettermi di abitare nel tuo palazzo a meno che non abbia un aumento. Oggi lo chiederò a Dan.» Ricordare la mia missione mi serrò la gola e bevvi un sorso di cappuccino, asciugandomi le mani sudate sul tovagliolino di carta. «Te lo darà» disse Calvin, sicuro. «Non può non concedertelo. La tua rubrica ha un enorme successo.» «Be', vedremo.» Presi la brioche al cioccolato e diedi un gran morso. «Non avevi detto che oggi avresti cominciato la trasformazione in una persona nuova?» «Stai zitto» sbottai. Calvin rise.
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