La migliore delle vite

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DAVID DE JUAN MARCOS

LA MIGLIORE DELLE VITE traduzione di Sara Papini


ISBN 978-8-86905-192-0 Titolo originale dell’edizione in lingua spagnola: La mejor de las vidas HarperCollins Ibérica, S.A., Madrid, España © 2016 David de Juan Marcos Traduzione di Sara Papini Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2017 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins aprile 2017


Y de alguna manera tendrá que recordarme, sin querer, no importa cuándo o dónde, aquí o allá. E, in un modo o nell’altro dovrà ricordarsi di me, senza volere, non importa quando o dove, qui o là.

José Ángel Buesa Ella amará a otro hombre



Come here my love, I have a song for you. Come here my love, I have a dream for you… Come here my love, I have a kiss for you… Come here my love, I have a smile for you… Come here my love, I have a home for you… Come here my love, I have a life for you… Come here my love, I have a story for you… Ninnananna della tribù Zaghawa Darfur, nordest del Sudan



A MarĂ­a. Ti dovevo un racconto.



PARTE PRIMA Cambridge



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In realtà non ho molto da raccontarti. Arrivai a Cambridge in settembre. Come prima cosa mi comprai una bicicletta. Quella bicicletta: blu, anemica. Quasi esausta. Ah, girovagare tra ore malinconiche, in quella foresta di nebbia colorata di sughero e d’argilla. Me n’ero andato senza dire addio o sventolare un fazzoletto. Avevo tradito qualcosa di spirituale, qualcosa di me. Ero scappato dalla mia vita come se la vita dipendesse da questo. Almeno, così mi hai detto una volta. Non lo dimentico. Cambridge mi parve un posto sincero e accogliente. Utile, fertile, gentile... lussurioso. Una città in cui abbandonarsi allo scorrere lento di una rassegnazione gioiosa. Piena di libri cuciti con filo di cotone, di stemmi sulle giacche, caffè e pasticcini, rugiada sulle labbra, vecchi che fumano la pipa, guanti, biciclette. Biciclette agili e delicate. Cambridge era una tavolozza di vetro e pietra.

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Un arcobaleno velato. Mi arresi subito alla tremula navigazione delle sue facciate. Tra pedalate lente, languide, tra greggi di ciclisti in balia della vita. A volte piovigginava, eppure non c’era cosa che si arrestasse. La pioggia non è mai stata un nemico. Mi costringo a ricordare. Ma è solo una risatina sarcastica davanti allo specchio. Una pustola aperta, infetta a forza di frugare con le unghie sporche. È stato un tempo florido, a cui in segreto spero di tornare. Quando altri settembre saranno trascorsi e tutto si illuminerà. Tornare. Andiamo via per quello. Per cosa se no? Vai via e desideri tornare, torni e vuoi solo scappare. Tornerò. Quando sarò giovane un’altra volta. Perché tutti sappiamo che un giorno saremo giovani di nuovo, solo che non lo confessiamo a nessuno. Se non lo sapessimo, non potremmo vivere, scrivere versi sui tovaglioli, divagare. La vita sarebbe funesta con il suo andamento lineare. Il suo inventore un assassino. Nient’altro che un assassino. Se non tornassimo giovani lo scorrere del tempo sarebbe troppo tragico. Prendere decisioni un suicidio. Perfino i moribondi lo sanno: un giorno le carte verranno scoperte. Sarà la seconda estate senza errori. Giovani. E Lei. Non mi sono dimenticato di te. Anche Lei era a Cambridge. Dalla prima domenica d’autunno, con la gonna al ginocchio e la presenza timida. Insieme alla sua ombra perenne. Eri sulla bicicletta olandese senza freni, diversa. Quella bicicletta.

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Quante volte mi sarai passata accanto, accarezzando le sfumature della nebbia con la tua bocca incredibile? La tua bocca nella mia è stata come un esercito di formiche. È ancora presto per parlare di Lei. Prima bisogna capire alcune cose. Eri lì, certo. Io ancora non ti conoscevo. È imperdonabile. Anche se in me intuivo già la tua borsa a fiori, il dolce bruciore, il rimmel nero e verde. Nel momento stesso in cui comprai il biglietto aereo. Forse anche prima. Avevo diciannove anni, proclami ebbri di intenzioni e il muto proposito di cambiare vita, come quando si abbandona un libro letto a metà per un altro più accattivante. Non è quella la ragione per cui viaggiamo? “Viaggiare è molto utile, fa lavorare l’immaginazione.” Così inizia Viaggio al termine della notte. E non ha tutti i torti. Arrivai per stare un anno. Gioventù e presente. Avevo ingannato il futuro iscrivendomi a corsi molto più avanzati del mio. Fame smisurata. Tesoro divino. Lì sarebbe continuato un percorso che non avevo mai voluto intraprendere. Adesso lo so. Anche allora, forse. Be’, in realtà allora non sapevamo niente. E so che due materie sono rimaste ad aspettarmi, per sempre. Ah, quanta innocenza. Dal finestrino dell’aereo gli scacchi dei campi verdi ricordavano le carte dei tarocchi. Mi dicevano che per farmi restare sarebbe successo qualcosa di magico e inafferrabile. Aritmetica pura. Ancorato all’atmosfera inglese. Alle nebbie di campagna come pecore monu-

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mentali. Tra periferie diroccate simili alle carie di un povero. Quella era casa mia. Magari, la mia seconda estate. Un regalo. A Cambridge non c’è il mare. Anche se a volte se ne sente l’odore, così come ti sorprendono i profumi di un ricordo. Nella mia testa l’Inghilterra era le mura dei cantieri navali. Un Paese immerso nell’inchiostro, eretto sulla base di antiche fotografie di robusti marinai e operai avvolti nel grasso di balena. Rivoluzione industriale. Muscoli unti di petrolio che forgiano e saldano. Il battere dei martelli. Grosse donne che sistemano pranzi in portavivande e spingono carretti da qui a là con pesce e verdure. Ma mi sbagliavo. Cambridge è luce dorata, e verde anche. Tradizione e lealtà colorate di bianco. Canottaggio, cricket e sciarpe delle confraternite. Cambridge affoga tra piante rampicanti, tocchi e toghe da cattedratico circospetto. Conservo fotografie di donne che soffiano sul caffè con una poesia tra le labbra. Alunni in uniforme. Vecchie tute sportive a righe. Gilè bianchi da golfista e gonne plissettate che passeggiano sotto la pioggia. Si muovevano molto lentamente, tutte quelle gonne, lentissime, come un branco di vecchi elefanti. Dopo due notti in un bed and breakfast e molti e frustranti colloqui per affittare una stanza, mi decisi per una camera blu a dieci minuti di bicicletta dal centro. Non camminavo mai. Solo una volta presi l’autobus; sulla via del ritorno, con le tue gambe che dondolavano sulle mie. Una caramella alla fragola colorava il tuo sorriso.

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Per prima cosa ti parlerò del mio padrone di casa. Era un napoletano giovane e sgraziato. Troppo giovane per pensare alla morte. Troppo malato per non coricarsi con lei. Non esiste niente di più ingiusto della propria vita. Tutte le altre ingiustizie vengono da lì, dal fatto di essere vivi. Gennaro era legato a Cambridge per motivi diversi dai miei, ovvero, dal libero arbitrio di chi è sano. Gli piacque la mia umiltà mediterranea: spagnoli e italiani uguali, tu e io ci capiamo, siamo della stessa pasta, non come quegli inglesi idioti – in realtà usava parole più sonore, altri gesti. Tornando a noi, il mio padrone di casa italiano era trattenuto lì da almeno un paio di cose. No, non si trattava dell’amore, o dei suoi labirinti. Non erano neanche il denaro e le sue manette. Gennaro era stato catturato da una malattia e dall’ospedale di Addenbrooke, che visitava senza avvisare, furtivo. Quasi imbarazzato. Per me la sua malattia era un taxi sulla porta a mezzanotte, una piccola valigia, un biglietto di sola andata e misteri. La casa era il piano terra di una bifamiliare dove vivevano altre persone che non ho mai visto. Arrivai di sera. Non faceva freddo. C’era ancora il profumo dell’estate, di erba appena tagliata. L’italiano aprì la porta. Indossava un sorriso che voleva abbracciarti, e un anello di plastica stretto alla caviglia che gli impediva di uscire di casa dopo mezzanotte. La luce verde della cavigliera lampeggiava. A maggio aveva rotto il naso a un inglese dopo non so quante birre e una discussione irrilevante iniziata con l’amore di entrambi per Mara-

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dona. Mi mostrò il ritaglio di giornale. La sentenza del giudice. Piegato in due dal ridere indicò le sue iniziali – più tardi scoprii che sapeva leggere a malapena – e il viso gonfio dell’inglese dopo la bastonata. Mi fu simpatico. Eri o con lui o contro di lui. Io non ho mai avuto nemici. E mi piacque la stanza blu. In fondo ai suoi occhi ero un ragazzino imberbe, vestito da marinaretto. Si sarebbe preso cura di me. Potevo starne certo. Promise che mi avrebbe comprato un letto nuovo. Per fare sogni nuovi, ne dedussi. Tra le frasi che sembravano parole scollegate tra loro, indicava tutte le cose da migliorare nella camera. Le puntava con il dito e le nominava: letto, tavolo, lampada. Avrebbe messo un materasso matrimoniale. Avrebbe appeso una lampada intorno alla lampadina impiccata al soffitto come una crisalide di luce. Avrebbe ordinato una scrivania da Argos e una domenica l’avremmo montata insieme. Poi, con un paio di sigarette e una birra: Per studiare, per questo sei venuto, right? Of course. U’re-a-smart-man, basta guardarti. Nei mesi trascorsi in quella casa non abbiamo mai più parlato di ristrutturare la stanza. Era perfetta.

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La prima notte che trascorsi a casa di Gennaro sognai la tua bicicletta olandese. Non so se si trattò di un sogno mio o se l’aveva dimenticato lì il coinquilino precedente. Un escavatore la tirava fuori da un canale di Amsterdam ricoperta di alghe, bottiglie di plastica, lettere d’amore mai consegnate. Un ferro vecchio, nero, con i parafanghi bucherellati dalla ruggine. Il manubrio come le gambe aperte di una donna. Le ruote screpolate sembravano le articolazioni di un suicida dopo un volo dal decimo piano. La mattina seguente andai al bed and breakfast a recuperare le valigie e a pagare il conto. Il proprietario mi diede un biglietto da visita che appare ancora qua e là, in una cartellina o in un vecchio portafoglio: è così difficile capire la volontà delle cose inanimate. Poi, mi diressi verso la segreteria dell’università per formalizzare alcuni documenti. Iniziai le pratiche per aprire un conto corrente inglese dove versare tutti i contanti che tenevo nascosti nella tasca della cintura. Era uno di quei

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giorni luminosi in cui gli abitanti di Cambridge, spinti da una specie di invito celestiale o di ipnosi collettiva, si riversano nella strade. Ne approfittai per pedalare sul prato color pistacchio appena fuori dal centro. Avevo una stanza, i documenti in regola, soldi, nove mesi davanti. Ed ero assolutamente convinto che i fogli del calendario non sarebbero caduti. Mangiai a uno dei tavoli di legno. Scalzo. Vicino al Cam. L’erba era umida. Ogni tanto passavano gruppi di vogatori sulle loro imbarcazioni. Ero contento. Senza angoscia. Pervaso da un’allegra ribellione. Più tardi, ordinai una scrivania che mi consegnarono nel pomeriggio. La montai in un paio d’ore. Da solo. Quando terminai mi erano avanzati dadi e viti. Era rimasta leggermente inclinata. Alla deriva. Mi piacque così tanto che mi sedetti con l’idea di scrivere la sceneggiatura che avevo portato con me, nella testa, senza averla dichiarata, come tutte le cose importanti che ci trasciniamo dietro quando scappiamo. In mezz’ora ordinai fogli, penne e futuri possibili. Non apparve nemmeno una parola d’inchiostro. Pensai di nuovo alla scrivania. Era la prima volta che costruivo qualcosa da solo. Senza la mano color ebano, intransitiva, con cui mio padre risolveva i rompicapi della mia vita. Tutto cambiò quando mio fratello minore scomparve. Non una o due cose: tutto. Tutto è troppo per un adolescente. Non c’è bisogno di girarci tanto intorno. Bussarono alla porta. Era il terzo inquilino dell’appartamento. Veniva a presentarsi. Nella camera accanto viveva un sudafricano divor-

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ziato. Lavorava come guardia giurata in una catena di negozi di vernici e prodotti per la casa. Sai a cosa mi riferisco, quelle persone annoiate che passeggiano avanti e indietro per i corridoi delle profumerie come se gli fosse morto il cane proprio quella mattina. Lo vedevo poco. Il lunedì e il mercoledì durante la sua colazione frugale. Stava lì, in piedi, come se recitasse una preghiera quotidiana al lavandino. La luce entrava simile a un piccolo fuoco arancione. Simile ad acqua fresca. Passavo in cucina con l’asciugamano sulla spalla, andavo a fare la doccia con la tranquillità con cui ci si lava nei giorni di festa. Lì mi sentivo sempre in vacanza. Ci sorridevamo. Ci piacevamo. Senza un motivo apparente. Il sudafricano – ho scordato il suo nome – rideva con tutto il corpo, in una specie di spasmo pluricellulare. Mentre rideva mostrava i denti, bianchissimi. Non parlava mai, il sudafricano. A volte grugniva un saluto abbozzato nel suo accento tortuoso, che io restituivo con una smorfia allegra. Alcuni pomeriggi lo vedevo sbadigliare sulla porta del negozio, in una strada commerciale vicino a Market Hill. D’inverno si soffiava sulle mani. In primavera osservava il cielo a occhi chiusi, come se l’azzurro gli bruciasse la retina. Non l’ho mai salutato. Era come se mi vergognassi, non sapevo cosa dire fuori da quella cucina che profumava di erba e aria pulita. Fuori da quel rituale mattutino. E nonostante sia consapevole che non era quello il motivo, devo confessarti che non ne ho un altro. Quando sei in un Paese straniero ti porti sempre dietro la tua nazionalità come soprannome. Se lui era

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il sudafricano, suppongo che io sarò ricordato come lo spagnolo e a te penseranno come alla ragazza danese. Il sudafricano, quindi, raramente usciva di casa la sera. Parlava molto al telefono in una lingua che mi suonava lontana, antica. Rotta perfino. Forse piangeva. Ecco: la sua voce sembrava il pianto di un bambino distorto dalla parete. L’unica cosa che mi segnalava la sua presenza grezza e insufficiente era la risata di qualche ragazza in cucina, quando le luci incerte della strada ingiallivano. Risate diverse. L’enigma di un viso da scoprire. Soffocate, stridenti, comiche, da bambina, color violetta, seduttrici, quasi tutte sicure di sé, poche palpitanti. Mi piaceva dare forme e colori a quelle risate. Volumi carnosi sopra lo scheletro bianco di una donna. Tratti e vestiti che presto sarebbero caduti a terra, come pupazzi di neve sciolti. Quando la porta di camera sua finalmente si chiudeva, le risate diventavano i gemiti di un ventriloquo. La cucina rimaneva silenziosa e io ne approfittavo per fuggire come un topolino. Montavo sulla mia triste bicicletta blu. Senza pedalare, grazie all’inerzia, arrivavo al pub all’angolo, in fondo alla strada. Ordinavo una birra media tiepida, giocavo a biliardo o a freccette e cercavo di migliorare la mia pronuncia con signori anziani che parlavano di rugby, di biancheria e di guerre mondiali. Nessuno avrebbe potuto trovarmi lì. Libertà era parlare in inglese con quei signori. L’italiano non volle farmi un contratto d’affitto. Solo denaro sonante, affermò, only cash. Io avevo una garanzia bancaria. Una bussola rotta. L’innocenza di chi

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è appena arrivato. Passaporto europeo. Una matricola dell’università Anglia Ruskin di Cambridge. Non quella fondata nel 1209, no. Per quella non avevo le referenze, né l’ambizione: non ne ho mai avuta. Only cash, then. L’astuzia e la veemenza napoletana conferivano maggior valore alla parola data. Un napoletano mente per piacere, mi disse, ma se dà la sua parola... E fece un gesto inequivocabile con denti e occhi che non capii. Gli diedi ragione. Mi propose un affitto irrisorio per una stanza così grande e ben ubicata. Tu lo sai, a Cambridge per uno studente straniero e senza stipendio è molto difficile trovare una sistemazione. In cambio, andavo due volte alla settimana in farmacia con la bicicletta blu. Lì un ragazzo premuroso mi consegnava delle borse con un biglietto attaccato sopra: G. P. – le iniziali sul ritaglio di giornale che mi aveva mostrato il primo giorno. Mentre pedalavo di ritorno con le due borse appese al manubrio, pensavo che forse la malattia di Gennaro gli permettesse di nutrirsi solo di medicine: pastiglie, compresse e quelle cose tanto misteriose e intrise di magia chimica. C’erano anche altri favori. Tempestivi e ridicoli. Io eseguivo le sue richieste divertito, come quando un alunno raccomandato ti dà un consiglio. Dovevo dire che eravamo cugini ogni volta che la polizia veniva a controllare la lucina alla caviglia. Ogni sei settimane mi chiedeva con insistenza di chiamare il consolato della Guinea Equatoriale, Paese che l’italiano visitava non appena usciva da un lungo periodo in ospedale. Mi in-

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formavo sulla situazione di tre donne congolesi e sulle pratiche del visto di cui avevano bisogno per venire in Europa. Una volta consegnai un pacco a un uomo nero, sfuggente e ambiguo, mentre Gennaro passava un altro dei suoi cicli orfani attaccato a tubi e vomito in qualche stanza che io immaginavo bianca. Esaudivo sempre i suoi desideri. Lui in cambio mi regalava un’amicizia lenta, circondata da teiere fumanti e consigli che sembrava rivolgere a se stesso, così intrisi di poesia di strada. Era una brava persona, Gennaro. Non mi sarei mai prestato a questo tipo di accordi nel mio Paese. A Cambridge non esitavo nemmeno per un secondo. Accettavo quelle commissioni e i suoi modi picareschi e ignoranti. Erano inoffensivi. Vivere all’estero era un gioco. Le sue leggi finte. Era tutto finto. L’aria fredda mi riempiva i polmoni quando salivo sulla bicicletta blu. Bastava a farmi sentire bene. Non ho mai avuto motivi per lamentarmi. Non li cercavo. Il nostro rapporto era troppo nuovo per questo. Non c’erano musi lunghi quando ci incrociavamo per la casa, o lamentele da compagno disordinato, da marito svilito o irriconoscente. Al contrario: ogni pomeriggio, quando tornavo dall’università, ricevevo il suo caldo benvenuto. Allegria e parole gentili, come stormi di uccelli starnutiti da un albero. Mi chiamava Señor. Faceva fatica a far uscire la ñ dalla bocca. Io lo chiamavo Padrino, con la mandibola un po’ in avanti in una pessima imitazione di Marlon Brando che lui applaudiva. Gli occhi si muovevano rapidi quando raccontava storie di donne africane. Delle sue tre mogli congolesi esiliate in

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Guinea Equatoriale. Con il cucchiaio di legno mi faceva assaggiare la pasta che cucinava. Era il miglior cuoco italiano di tutta l’Inghilterra. È stato un buon amico a Cambridge. Con tutte le sfumature che ci si aspetta dall’amicizia temporanea. Mi sentivo al sicuro. Lo credevo capace di qualsiasi cosa. Ed era capace di qualsiasi cosa. Pensa, un pomeriggio trovai una pistola nel cassetto delle pile, delle matite e dei mazzi di carte. Non avevo mai toccato una pistola vera. Era freddissima e aveva una storia da raccontare che non volli ascoltare. Per qualche motivo seppi che una volta aveva svolto il lavoro per cui era stata fabbricata. Gennaro non ha mai ricevuto la mia censura. La osservai per un paio di minuti e poi la posai, come se stessi depositando il cadavere di un animale in una bara. Una volta Gennaro dichiarò che se avesse incontrato di nuovo l’inglese con cui aveva litigato, gli avrebbe sparato. Mi mise l’indice in centro alla fronte e lo ripeté. Gli sparerò qui tre volte, disse, bam, bam, bam. Mooolto lentamente. Gli credetti. Quando terminò l’anno accademico mi ubriacai. Vicino al fiume. Da solo, come mi è sempre piaciuto fare. Salutai i parchi. Le nuvole. Il blu. Il verde così brillante. E infine dissi addio a lui, a Gennaro. Sugli scalini dell’autobus, agitai il biglietto aereo. E sorrisi. Ero sicuro che sarei tornato presto. Non lo feci. A causa di momenti come questo, ogni volta che mi sento sicuro di qualcosa, so che c’è altro che non capisco, che non vedo. Una sfumatura essenziale che mi sfugge. Essere sicuri

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di qualcosa è il primo segnale che si sta ignorando qualcos’altro. Di questo sono certo. Gli regalai la scrivania. E i dadi e le viti avanzate. Promisi che non appena fossi tornato a cercare lavoro sarei andato a trovarlo. Nel frattempo, gli dissi, poteva usare la mia bicicletta. Commosso, gli venne un pensiero che non mi rivelò mai. Credo che Gennaro sapesse che non mi avrebbe più rivisto. La vita gli aveva dato troppe lezioni per credere ancora che il futuro avrebbe seguito le regole del presente. Chiuse la porta e si dimenticò di me, credo. Ci sono giorni in cui voglio tornare lì. Non so se succede anche a te. Voglio raccontare a tutti le disavventure di un mafioso medievale, di un capobanda nobile come la malinconia. Un delinquente senza viltà. Un uomo di una tristezza selvaggia. Volgare. Aperta. A volte penso che quando parlo di lui in realtà parlo di me. Ci sono cose che accadono nella lontananza di cui non posso fare a meno. Maledizione, il tempo confonde tutto. Lo confesso: faccio molta fatica a ricordare Gennaro. Ogni giorno dimentico qualcosa di lui. Mi succede anche con mio fratello Marcos, ma faccio più fatica a parlarne, lo sai. Non di Marcos, ma di quello che dimentico. Di Gennaro non ricordo più altre cose. La statura. Il timbro della voce. Il lato dove la cicatrice scende dalla palpebra come una lacrima rosa. L’amarezza dei suoi occhi. Non è vero, quest’ultima cosa sì che la ricordo. In altri momenti, senza motivo, non posso fare a meno di immaginarmelo morto. Con l’immaginazione si può uccidere senza venire giudicati. Ho ucciso molta

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gente così. Anche le persone che amo di più. Ci sono volte in cui mi piace immaginare Gennaro sconfitto dalla sua misteriosa malattia. A Napoli, ovviamente. Siamo amici. Mai, nel mio ricordo, lo farei morire in Inghilterra. Lo vedo coricato su un letto di fiori, in una strada piena di vestiti stesi da un balcone all’altro. Circondato da prefiche gitane. Il cielo è azzurro, lui giace accanto alla mia bicicletta e alla statua di Maradona. Ed è allora che dubito se valga davvero la pena di vivere, come dicono, o se non è solo una scusa per diventare matti. Una prova di resistenza. Dubito. Dubito che il destino non sia solo un altro punto di vista. O che prima o poi Gennaro tornerà a essere giovane. O che tu e io torneremo lì. A Cambridge. Ma è sempre meglio dubitare che essere un imbecille pieno di certezze.

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Questo volume è stato stampato nel marzo 2017 presso la Rotolito Lombarda - Milano


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